Friday, 1 October 2010

Turchia, il ritorno del sultano

Solo il 38% dei turchi vuole l'Unione europea, e appena il 23% degli europei scommette su un ingresso del paese in Ue. Mentre lo stato che fu di Ataturk riscopre il proprio passato di potenza.

di Lucio Caracciolo*

Abbiamo perso Ankara? Già antemurale atlantico lungo il limes sud-orientale, la Turchia intende mutarsi nel cuore di un impero informale esteso dal Mediterraneo orientale alla Cina occidentale, dai Balcani al Vicino e al Medio Oriente? Recep Tayyip Erdoğan, leader sempre più spavaldo della rinascente potenza anatolica, smetterà i panni del musulmano moderato e democratico per svelare il suo volto nascosto di sultano neo-ottomano e di aspirante califfo dell'ecumene islamica? La sua agenda segreta verte sulla sfida all'Occidente, sull'infiltrazione maomettana dell'Europa, sulla riconquista di Gerusalemme? Così profetizzano le Cassandre americane e israeliane, echeggiando gli irriducibili avversari domestici – non solo militari – del primo ministro turco. Se fino a ieri potevamo scartare simili voci come eccentriche, oggi gli annunci di sciagura echeggiano al Congresso di Washington, financo alla Casa Bianca. Nello Stato ebraico sono quasi senso comune: il 78% degli israeliani vede nel turco un nemico. Quanto all'Unione Europea, la mascherata allestita negli anni Novanta, per cui ci imponevamo di credere di voler integrare i turchi nella famiglia comunitaria, ha esaurito la sua pallida magia. Solo il 38% dei turchi e il 23% degli europei scommette ancora sulla bontà di un matrimonio comunque improbabile. L'effetto combinato della crisi turco-israeliana su Gaza, della tensione turco-americana sull'Iran e dei sospetti sulla deriva islamista del partito di Erdoğan (Akp) – rilanciati dalla sua vittoria nel referendum costituzionale del 12 settembre, che ha messo all'angolo i militari laici e filo-occidentali – ha diffuso nel mondo atlantico la “sindrome di Ankara”. Ci sentiamo traditi. I nostri baldi giannizzeri, pronti all'uso contro russi, arabi infidi e jihadisti, ci hanno voltato le spalle. Si apprestano a pugnalarci. “Who lost Turkey?”. La caccia ai colpevoli è in corso. Procedere a un'analisi meno eccitata della questione turca non facile. Radicati stereotipi razzisti turbano la nostra capacità di interpretare le evoluzioni della risorgente potenza bicontinentale. Un aspirante primattore, proiettato ad affermarsi entro il 2050 come terza economia europea e nona mondiale, con più abitanti della Germania, un esercito di prim'ordine e un soft power che aspira a penetrare nelle terre islamiche, turaniche e/o ex ottomane. Soprattutto, con una certa idea di sé. A suo tempo evocata da leader laici come Turgut Özal e Süleyman Demirel, per cui la missione di Ankara consiste nel guidare un universo turco “che si estende dalla Muraglia cinese fino all'Adriatico”. E oggi riassunta con candida convinzione dal ministro degli Esteri di Erdoğan, Ahmet Davutoğlu: “Il mondo si aspetta grandi cose dalla Turchia”. Non abbiamo ancora perso Ankara. Primo, perché “noi” non esistiamo: l'Occidente come insieme strategico-geopolitico è morto vincendo la guerra fredda, pur se fatica a confessarselo. Secondo, perché conviene rovesciare la prospettiva: la Turchia sta cercando di (ri)trovare se stessa, non di rompere gli ormeggi con il mondo euro-atlantico. Esercizio acrobatico. Perché infrange il tabù kemalista, che almeno nella sua vulgata contrapponeva la repubblica anatolica al passato ottomano. Noi della sedicente Unione Europea non possiamo trattare la Turchia peggio di quei paesi dell'ex Est che abbiamo non troppo spontaneamente accolto dopo l'Ottantanove. Abbiamo a che fare con i principali eredi di un impero plurisecolare. I quali erano stati costretti – si erano costretti - a dimenticarlo. Non più. Guai a pensare che si tratti solo delle megalomanie di Erdoğan o delle utopie di Davutoğlu. Chiunque guiderà la Turchia nel prossimo futuro potrà slittare questo o quell'accento, non il cuore della geopolitica turca. Una potenza è tornata. E intende restare. (articolo pubblicato su LaRepubblica del 30 settembre 2010).

*direttore responsabile di Limes

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