Saturday 31 July 2010

Un pò re e un pò padroni, il nuovo modello Italia

No alle contestazioni, espulsione di chi la pensa diversamente dal capo: dal governo alla Fiat il modo di fare è lo stesso.

l'e-dittoreale

C'è qualcosa in Italia, che sta prendendo sempre più forma e corpo man mano che il tempo passa. Un modo di pensare, un modo di fare. Non un regime, più un modello. Di regime o da regime. Che si attua in politica e si riflette poi, nei vari livelli, in società: il modo in cui Sergio Marchionne detta - o meglio, impone - la sua linea, ne è forse l'esempio più chiaro. No al dissenso e alle critiche, eseguire gli ordini e basta: il modello è questo. In barba alle regole del vivere democratico e delle regole del corretto vivere civile. Silvio Berlusconi con il "caso Fini", ha mostrato chiaramente qual è il principio di questo nuovo modello, ed è come detto: uno solo che decide per tutti, con tutti che devono piegarsi al volere del singolo. E chi non si allinea, viene fatto fuori. Gianfranco Fini ha fotografato perfettamente lo stato delle cose: il presidente del consiglio «dimostra una logica aziendale, modello amministratore delegato-consiglio d'amministrazione, che di certo non ha nulla a che vedere con le nostre istituzioni». Non è un mistero: Berlusconi prim'ancora che politico - e quindi capo di un governo - è un imprenditore. Logico e comprensibile che abbia modi e metodi propri di un consiglio di amministrazione più che di un consiglio dei ministri. Più difficile da accettare che un capo di governo di un paese democratico abbia una «concezione non proprio liberale della democrazia», per dirla con le parole dello stesso Fini. Perchè politicamente parlando, un atteggiamento come quello del premier è pià da monarchia assoluta che da repubblica democratica. Imprenditorialmente parlando, un atteggiamento simile è da padrone. Ha ragione il presidente della Camera: è stata scritta una brutta pagina. Non solo, come ha detto, «per il centrodestra e più in generale per la politica italiana», ma per l'Italia tutta. Perchè se chi è chiamato a governare, a dare l'esempio, a dare l'impostazione generale di un paese, fa passare certi messaggi, non ci si può sorprendere se poi Sergio Marchionne detta unilateralmente le proprie condizioni, riducendo al silenzio le voci critiche e le frange dell'opposizione. No, non è un caso. Anche perchè - forse qualcuno non ci avrà fatto caso - Berlusconi ha difeso le scelte dell'amministratore delegato della Fiat, giustificandolo e - di fatto - giustificandolo. «In una libera economia e in un libero Stato- ha detto il premier- ogni gruppo industriale è libero di collocare la propria produzione dove ritiene più conveniente». Parole, queste, evidente espressione di un conflitto di interessi: il Berlusconi imprenditore ragiona da industriale, e difendendo gli interessi dell'azienda va contro quelli dei lavoratori. Che invece dovrebbe tutelare in quanto capo di governo. E tra i compiti di governo, c'è quello di favorire le politiche dell'occupazione. La differenza tra Berlusconi e Marchionne è una sola: il primo ordina a Fini di andarsene, il secondo invece non caccia nessuno (a parte i contrari al suo piano, Fiom e Cgil): se ne va lui, in Serbia. E dove resta, detta le sue condizioni che tutti devono accettare. Il modello è questo: un modello che calpesta i diritti civili e del lavoro, che rifugge la concertazione e condanna la contestazione. Per nulla dissimile dall'idea berlusconiana "del fare". C'è, in Italia, un modello che va alla deriva della democrazia, là dove si annidano i germi della repressione e della coercizione. Se a questo modello si aggiungono un ddl intercettazioni, gli attacchi alla magistratura, le critiche alla Costituzione alla based dell'Italia democratica, viene fuori un disegno. Preoccupante.

India, in arrivo il nucleare civile britannico

L'annuncio del governo di Londra, tra la gioia di Nuova Delhi e la preoccupazione di quanti ricordano che il paese asiatico non ha firmato il trattato di non proliferazione.

di Emiliano Biaggio

Il ministro dell'Industria britannico, Vince Cable, ha annunciato che «per la prima volta» il governo di Londra avvierà le esportazioni di tecnologie nucleari civili verso l'India. Per le autorità di Nuova Delhi una buona notizia, visto che il paese asiatico ha deciso di sviluppare il proprio programma nucleare, ma la decisione accende il dibattito all'interno del Regno Unito: l'intenzione non piace infatti al Foreign office (il ministero degli Esteri) e al ministero della Difesa, in quanto l'India è tra quei paesi che non hanno sottoscritto il trattato di non proliferazione nucleare.
Ma Vince Cable ha spiegato che «compagnie quali Serco e Rolls-Royce hanno la possibilità di fare una gran quantità di affari in India». Questione di soldi, insomma. In fin dei conti la fornitura di tecnologia nucleare civile rientra in un più ampio progetto di scambi e relazioni commerciali tra Londra e Nuova Delhi. Piano che rientra nelle strategie e nelle politiche del premier britannico David Cameron, che proprio per rinforzare la partnership economica con l'ex colonia si è recato in delegazione nella capitale indiana. L'annuncio di Cable arriverebbe quindi dopo il via libera di Downing Street all'avvio delle esportazioni di tecnologie nucleari civili. Il ministro dell'Industria britannica ha riconosciuto che la cosa pone «questioni di sicurezza», ma al tempo stesso ha ribadito come è intenzione del governo «dare impulso alla cooperazione sul nucleare civile». Una scelta, quella della Gran Bretagna, che potrebbe creare spiacevoli situazioni: anche l'Iran, infatti, da anni rivendica il diritto di sviluppare il nucleare per fini civili. Ma a differenza dell'India, alla repubblica islamica ciò non viene permesso. Ahmadinejad e gli ayatollah potrebbero quindi avere in questa corsa al nucleare civile di Nuova Delhi un'ulteriore motivo per procedere unilateralmente lungo la propria strada. Intanto, l'India prosegue nella sua politica energetica: a fine giugno il primo ministro indiano Manmohan Singh ha firmato un accordo col premier canadese, Stephen Harper, per una cooperazione nei progetti per la realizzazione di impianti nucleari. A proposito di nucleare: sia l'India che il vicino Pakistan - paesi dai rapporti non certo idilliaci - hanno l'atomica, è bene ricordarlo.

Friday 30 July 2010

Marchionne, un piano che non sa di nuovo

Pausa pranzo solo a fine turno (dopo 8 ore) e malattia non pagata: bentornati allo schiavismo dell'Ottocento. Della nuova Fiat.

di Emiliano Biaggio

Il "piano Pomigliano" di Sergio Marchionne è un ritorno al passato. Segna la fine di decenni di conquiste sindacali e del diritto del lavoro per un ritorno al salariato sotto padrone. Non ci vuole molto a capirlo: turni di otto ore filati, con appena dieci minuti di pausa e la possibilità di andare a pranzo solo dopo aver lavorato; nessuna forma di sciopero, restrizione ai permessi per malattia con la discrezionalità dell'azienda nel decidere se e quando retribuire i primi tre giorni di malattia; totale libertà di stabilire 80 ore in più di straordinari rispetto a quanto stabilito dai contratti nazionali. Questo è schiavismo, oltre che violazione unilaterale delle regole finora vigenti. L'alternativa? Andare in Serbia - dove comunque Fiat andrà - dove lo stipendio mensile di un operaio è di 200 euro. Elemosina, insomma. O moderna schiavitù per gli italiani oppure briciole ai serbi: bentornati nei Tempi moderni chapliniani, fatto di abusi e soprusi, ricatti e privazione di diritti. Con un particolare: contrariamente a quanto tutti pensavano - sindacati in testa - non sarà realtà esclusiva di Pomigliano d'Arco. E l'amministratore delegato della Fiat lo dice chiaramente: «Per noi la cosa importante è raggiungere il risultato e avere la certezza di gestire gli impianti. Produrre a singhiozzo, con livelli ingiustificati di assenteismo, o vedere le linee bloccato per giorni interi è un rischio che non possiamo accollarci. Da qui- aggiunge- nasce la volontà di aggiornare il metodo operativo negli stabilimenti italiani e di adeguarli agli standard necessari per competere». Tradotto: Pomigliano non sarà una eccezione. Pomigliano è l'inizio di una nuova stagione, una stagione scandita secondo i ritmi e le regole già attuate per Pomigliano. E non c'è spazio per le trattative. «Ci sono solo due parole che, al punto in cui siamo, richiedono di essere pronunciate», dice Marchionne. «Una è "sì", l'altra è "no"». O così o vado via. Un ricatto bello e buono. Di fronte al rischio disoccupazione e licenziamenti «noi diciamo a Marchionne che per noi la risposta è sì», si sbriga a rispondere il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, cui si associa quello della Uil, Luigi Angeletti. Giusto difendere il lavoro, ma fino a che punto? E a quali condizioni? Quelle imposte da Marchionne - perchè sono imposte - non sono accettabili per un paese democratico. Le violazioni di contratti nazionali, statuto dei lavoratori, principi costituzionali sono evidenti. Così come egualmente evidente è il modo con cui queste violazioni vengono compiute. Marchionne non l'ha mai detto esplicitamente, ma l'ha fatto capire chiaramente: la nuova linea Fiat è "qui decido e comando io, e tutti devono obbedire. E chi non si adegua, peggio per lui". Proprio come accadeva nell'Ottocento. A distanza di due secoli, siamo nuovamente fermi e ancorati al passato. Solo che oggi il padrone si chiama amministratore delegato e lo sfruttato operaio. E la schiavitù si chiama Fiat.

Fiat, il piano di Marchionne per Pomigliano

Ecco il testo approvato dai sindacati per salvare il lavoro. A queste condizioni:

I TURNI. La produzione della Panda verrà effettuata tenendo aperta la fabbrica 24 ore al giorno, 6 giorni su 7, per 18 turni totali. L'orario individuale resta invariato a 40 ore contrattuali. Il diciottesimo turno potrà essere coperto con un mix tra permessi annui retribuiti (Par), festività di domenica e 4 novembre, permessi dei turnisti di notte. Quello lavorato, per esigenze produttive, sarà effettuato con il ricorso allo straordinario, per un massimo di 15 volte l'anno.

STRAORDINARIO. Se la Fiat dovesse ritenerlo necessario potrà ricorrere a 120 ore annue di straordinario (80 in più delle 40 previste dal contratto). Lo comunicherà ai lavoratori con quattro giorni di anticipo e si terrà conto delle esigenze personali fino al 20% della forza lavoro.

ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO. I lavoratori potranno usufruire di tre pause da dieci minuti ciascuna, mentre finora erano due di venti minuti. La pausa mensa viene spostata a fine turno (ogni turno è di otto ore, ndb).

ASSENTEISMO E MALATTIA. Viene introdotta una clausola sull'assenteismo "anomalo". In caso di picchi di assenze per malattia collegati a scioperi, manifestazioni esterne, ''messa in libertà'' per cause di forza maggiore o mancanza di fornitura, l'azienda si riserva di non retribuire i primi tre giorni. È prevista la costituzione di una Commissione paritetica composta da delegati ''per esaminare i casi di particolare criticità cui non applicare'' la clausola.

SANZIONI. Viene introdotta anche una clausola di "responsabilità'' per il rispetto degli impegni assunti nell'accordo, prevedendo sanzioni alle organizzazioni sindacali (su riscossione delle deleghe e utilizzo dei permessi). Per i singoli lavoratori valgono le norme disciplinari del contratto.

SCIOPERO. L'eventuale sciopero che violi punti dell'accordo è sanzionabile economicamente.

COMMISSIONE GARANZIA. Sulle clausola di responsabilità si prevede una Commissione nazionale di raffreddamento o garanzia che, prima di ogni eventuale sanzione, esamina la questione.

CASSA INTEGRAZIONE STRAORDINARIA. Per predisporre gli impianti alla produzione della nuova Panda, viene riconosciuta la Cig straordinaria per due anni dall'avvio degli investimenti.

(fonte: Rai)

Thursday 29 July 2010

Fiat esporta il made in Italy. E svende l'Italy

Marchionne ragiona da imprenditore e procede con diktat. E mentre delocalizza - va in Serbia - e riunisce cda a Detroit, dimostra di non pensare italiano. Ecco il perchè di un articolo in lingua internazionale.

di Emiliano Biaggio

Nothing to declare: we just go. Now it's official: Fiat does not speak italian any more. It works in the Usa, where for the first time in its history makes a convocation of the board, thinking seriously to move to Serbia. That's the market, baby. There production is cheaper, and so more competitive. It's not a mistery: in Serbia Fiat gets economical conditions that in Italy it never would have. Why remain in a country - Italy - where workers cost is higher, where you have to pay taxes, where trade unions make pressions? Why remain in a a country like that if in another one - Serbia - you have a ten years tax free system, a cost of wages much more competitive (half italian average wage and also maybe less) and the opportunity to decide freely without any interference? That's the point: can make everything one wants.
Sergio Marchionne has in his mind the creation of an empire, a productive model based on full power of the owner, and so Fiat. But imperialism means have someone who has the total power and a moltitude of people forced to the obbedience. In few words, a slavery. A modern one, sure, with another name but always slavery. But this is what Marchionne is generating, has already generated. Four hundred euros per month of wage, no possibilities of strikes, strict controls on ill permissions, easy dismissals: that's what Fiat can do in Serbia but cannot in Italy, and this is why abroad Marchionne and co. can set up their empire. An economical, productive and geo-political empire. Fiat is in fact present in United States with Chrisler and is already present with factories in Polonia and Brazil. Moving in Serbia, the once italian group conquests another part of global market. But thi empire is due to became a social empire: a lot of people with no rights but only with duties. By Fiat a demonstration of modern democracy: a modern democracy very similar to the old monarchies. And just like a traditional king, Marchionne has the power to say to italian government: "there's any to discuss, there are no agreements. We move to Serbia, and that's it. Bye". At the same time - using the same high-handedness - unilaterally decides to break the law, rediscuss working contract opening dangerous paths and creating a precedent which could replan the whole working market. So, by Fiat also comes a demonstration of how one of the historical symbol of made in Italy now does not mind in italian. Simply, doesn't mind.

Tuesday 27 July 2010

Affari e accordi segreti dietro il petrolio della Bp

Allarmi disattivati nella piattaforma del golfo del Messico, e l'ombra di intese con la Libia per le operazioni della compagnia Britannica nelle acque della Sirte. "Chiudendo un occhio" sul disastro di Lockerbie.

di Emiliano Biaggio

Politica e affari, diplomazia segreta e accordi sottobanco, prigionieri in cambio di petrolio: Libia e Gran Bretagna, per un'intesa - ironia della sorte, il gioco di parole finisce con rappresentare la realtà - dai foschi contenuti. Bp, ovvero British Petroleum: la principale compagnia petrolifera di sua maestà oggi al centro della tragedia ecologica del golfo del Messico, fatta di milioni di litri di petrolio e un incidente che - man mano che passono i giorni ed emergono i piccoli tasselli dell'accaduto - ha dell'incredibile. Così come dell'incredibile quella presunta - ma sembrerebbe sempre più effettiva - trattiva tra Londra e Tripoli. Sul piatto, un cittadino libico detenuto e oro nero. Così Abdelbaset ali Mohamed al-Megrahi, uno dei responsabili della strage di Lockerbie, diventa moneta di scambio per concessioni di estrazioni petrolifere al largo delle coste libiche, nella zona della Sirte. Incarcerato in Scozia, al-Megrahi deve scontare la condanna per l'abbatimento dell'aereo della Pan Am, avvenuto il 21 dicembre 1988 e costato la vita a 270 persone (259 sul velivolo e 11 a terra). Fino al 20 agosto 2009 al-Megrahi resta nel Gateside Prison, carcere scozzese a Greenock. Poi le autorità britanniche lo rilasciano e lo riconsegnano a quelle libiche, per le condizioni di salute del detenuto: ad al-Megrahi viene infatti diagnosticato un cancro alla prostata. I medici dicono che gli restano pochi mesi di vita, ma arrivato a Tripoli la diagnosi cambia: potrà vivere altri 10 anni. Gli Stati Uniti non capiscono e non gradiscono, e oggi che aleggia con sempre maggior forza lo spettro di uno scambio tra Libia e Gran Bretagna, lo sdegno aumenta. E non solo negli ambienti di Washington. Perchè le vittime del volo PA 103 della Pan Am sono di 21 nazionalità diverse, e perchè al centro c'è la Bp. Ricapitoliamo: la Gran Bretagna libera al-Megrahi e lo riconsegna a Gheddafi, e Gheddafi permette alla British Petroleum l'accesso alle proprie riserve di petrolio off-shore (in mare). Ciò diventa ufficiale in questi giorni, a pochi mesi dal disastro del golfo del Messico e riguarda trivellazioni di pozzi a 1700 metri di profondità, 200 metri più giù, cioè, dei pozzi al largo delle coste Usa da dove continua a fuoriuscire greggio. Con gli stessi - se non peggiori - rischi. Gli scenari futuri - alla luce del disastro della piattaforma Deepwater Horizon - preccupano in molti, primi fra tutti i paesi del Mediterraneo, e la notizia imbarazza la Gran Bretagna e fa infuriare la Casa Bianca. Londra tende di defilarsi: la liberazione di al-Megrahi l'ha deciso il parlamento scozzese. Da Edimburgo, il primo ministro scozzese Alex Salmond rispedisce al mittente allusioni e accuse: «Il governo scozzese non ha avuto contatti con la compagnia britannica Bp quando ha preso la decisione di liberare il libico Abdelbaset al-Megrahi, condannato per l'attentato di Lockerbie». Tradotto: chiedete spiegazioni a Londra, dove gli imbarazzi aumentano. Adesso si apprende infatti che l'allarme sulla piattaforma Bp esplosa nel golfo del Messico era stato disattivato da un anno «per non disturbare l'equipaggio». Violazione delle norme, leggerezze, responsabilità per un caso sempre più politico e sempre più surreale: la Bp ha annunciato la sostituzione dell'attuale amministratore delegato Tony Hayward, mandato via con una buona uscita da 1 milione di sterline. Un motivo di ulteriore imbarazzo? Forse. O forse un'ulteriore dimostrazione di come alla fine vinca la logica dei petrodollari.

Sunday 18 July 2010

Saluti

I cambiamenti climatici: tra scettici e allarmisti un problema non nuovo e ancora tutto da risolvere (3)

Il dibattito scientifico anima anche le politiche tra Stati. Che non accettano dictat in nome di semplici teorie. Soprattutto dopo i dati "gonfiati" dell'Ipcc.

di Emiliano Biaggio

Ipcc screditato e Unfccc con un segretario dimissionario: così ci si avvicina al vertice mondiale sul clima di Cancùn del prossimo novembre. Lì il rischio è che i governi, specie quelli dei paesi emergenti, sposino le tesi degli scettici o dei negazionisti, “azzerando” quanto fatto finora. Francesco Rutelli, presidente di Alleanza per l’Italia, ha avuto modo di dire che «non siamo catastrofisti nè ci arruoliamo nel partito degli scettici. Ma crediamo che cercare il consenso sulle politiche ambientali, calcando la mano sul disastro o sottovalutando strumentalmente i cambiamenti climatici sia un errore imperdonabile». Con queste parole Rutelli riconosce l’esistenza di fronti contrapposti sulle questione climatiche. Ma allo stesso tempo, invitando a non sottovalutare i cambiamenti climatici, riconosce l’esistenza del fenomeno in atto. Rutelli, in sostanza, riassume e sintetizza l'ormai quasi ventennale dibattito sul clima, fatto di accuse reciproche, diffidenze, mancanza di volontà nel trovare una soluzione comune. E che ancora oggi continua a far discutere. Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, non nasconde i propri dubbi e le proprie perplessità: «Non sono certo che a Cancùn si possa raggiungere un accordo globale e vincolante» sul clima. Per ottenerlo «va fissato il principio secondo cui ci sono diverse responsabilità, ma un’unica una responsabilità comune», per cui «ognuno deve fare la propria parte». Un principio di fatto che non mette sullo stesso piano paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati, che dovranno stabilire se il problema climatico esiste per tutti e in che misura ripartire i rispettivi impegni. Il clima, insomma, continuerà a far discutere. (3. Fine)

Saturday 17 July 2010

Clima. Tra scettici e allarmisti un problema non nuovo ma ancora tutto da risolvere (2)

Il dibattito scientifico anima anche le politiche tra Stati. Che non accettano dictat in nome di semplici teorie. Soprattutto dopo i dati "gonfiati" dell'Ipcc.

di Emiliano Biaggio
L’attività principale del Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici (Ipcc) consiste nel produrre periodicamente Rapporti di Valutazione scientifica sullo stato delle conoscenze nel campo del clima e dei cambiamenti climatici (Assessment Reports). In tale ottica, l'Ipcc affronta il problema della possibile evoluzione futura dei cambiamenti climatici in atto. L'evoluzione futura del clima, che non è prevedibile in modo deterministico, viene descritta sotto forma di scenari, i quali sono stati spesso oggetto di forti critiche, essendo basati su ipotesi discutibili di sviluppo socio-economico mondiale e su imprecisi modelli numerici di simulazione climatica.
Nel rapporto 2007, nello scenario ritenuto più probabile dal team di esperti, come detto si prevedeva lo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya entro il 2035. Ma secondo lo stesso scenario l'aumento della temperatura media globale sarà compreso fra 0,6 e 0,7 gradi al 2030 e raggiungerà circa 3°C o poco più nel 2100, e per quell’anno il livello del mare aumenterà mediamente tra i 28 ed i 43 centimetri. Recentemente, però, si è scoperto che le previsioni si basavano su un articolo pubblicato nel 1999 (ben otto anni prima del rapporto) sul New Scientist. La stessa rivista scientifica ha spiegato che quell’articolo venne pubblicato sulla base di una telefonata ad uno scienziato indiano della Jawaharlal Nehru University di Delhi. Lo scienziato in questione, Syed Hasnain, ha quindi affermato al giornale che il proprio articolo era frutto di un’ipotesi. L’Ipcc è finito quindi sotto accusa, per la seconda volta dopo le aspre polemiche per la diffusione di e-mail – sembra forse per l’intrusione di hacker russi - di ricercatori della Sezione di ricerche climatiche dell’università East Anglia in cui si ammetteva che alcuni dati erano stati «potenziati» per evidenziare meglio il riscaldamento globale. Il Comitato per i cambiamenti climatici, a seguito dello scandalo che lo ha visto coinvolto, ha annunciato lo scorso 25 febbraio che nominerà un gruppo scientifico indipendente per l’esame delle sue procedure. Un rimettere in discussione che dà forza agli scettici riproponendo con rinnovata enfasi il dibattito sul clima. L’Ipcc ha sempre sostenuto che il riscaldamento globale sia frutto dell’attività dell’uomo, i negazionisti no. L’Ipcc e i suoi sostenitori sostengono che la soluzione per il global warming sia passare dalla crescita illimitata alla gestione intelligente di ricchezza e risorse, e qui la questione diventa politica, poiché a scegliere se continuare con l’attuale modello di sviluppo o puntare su “alternative” sono i governi. Lo scorso ottobre l’esecutivo delle Maldive ha organizzato il primo consiglio dei ministri subacqueo per chiedere ai leader di tutto il mondo di adoperarsi per questi nuovi modelli più sostenibili, richiamando l’attenzione sul rischio legato allo scioglimento dei ghiacci e gli effetti futuri legati all’innalzamento del livello dei mari. Ma successivamente i paesi emergenti quali Cina, India e Brasile hanno detto alla Conferenza mondiale di Copenhagen dello scorso dicembre che non intendono rinunciare al proprio sviluppo, semmai sono i paesi più industrializzati a dover fare delle rinunce. Il summit danese non ha prodotto alcun risultato, e all’Onu il segretario esecutivo dell’Unfccc (la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), Yvo de Boer si è dimesso. Un duro colpo, se si pensa che l’Unfccc ha il compito di produrre il protocollo post-Kyoto, il nuovo accordo mondiale per una riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra. (2. Continua)

Friday 16 July 2010

Clima. Tra scettici e allarmisti un problema non nuovo ma ancora tutto da risolvere

Il dibattito scientifico anima anche le politiche tra Stati. Che non accettano dictat in nome di semplici teorie. Soprattutto dopo i dati "gonfiati" dell'Ipcc.

di Emiliano Biaggio

Mutamenti climatici e loro conseguenze: un tema che divide scienziati e governi, per una questione ambientale e politica. Ammesso che la questione si ponga. Per alcuni - gli “allarmisti”, sicuri dell’esistenza del problema – il mutamento del clima è una realtà da contrastare; altri – i “negazionisti”- sono invece convinti che il surriscaldamento del pianeta non ci sia e che sia anzi un’invenzione. In mezzo ci sono i “clima-scettici”, che riconoscono l’esistenza in atto di cambiamenti climatici ma che ritengono non siano tutto frutto dell’attività umana: sostengono, infatti, che tali mutamenti in atto dipendano principalmente da fenomeni naturali quali variazione dell’eccentricità dell’orbita terrestre, dell’angolo di inclinazione dell’asse terrestre, della linea di precessione degli equinozi, macchie solari, radiazione cosmica, emissioni vulcaniche. I "clima-scettici", inoltre, ritengono che le conseguenze del surriscaldamento del pianeta possano non avere una ripercussione cataclismatica come qualcun altro sostiene. Il tema, insomma, fa discutere. E il confronto-scontro si è acutizzato dopo che l’Ipcc, il Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici, ha pubblicamente riconosciuto di aver pubblicato e diffuso dati non corretti. Infatti se in un primo momento l’organismo Onu, nel rapporto del 2007, ha avvertito che «se la tendenza al riscaldamento climatico resta quella attuale, i ghiacciai dell’Himalaya si scioglieranno entro il 2035, e forse anche prima», poi lo stesso organismo ha dovuto fare marcia indietro: Chris Field, direttore del gruppo di studio responsabile del rapporto criticato, ha riconosciuto l’errore e ha detto che l’Ipcc renderà pubblico un nuovo studio con date diverse. Nel frattempo Yao Tandong, un glaciologo specializzato nell’altopiano del Tibet, ha indicato che al passo attuale i ghiacciai himalayani si scioglieranno per il 30% entro il 2030, per il 40% entro il 2050 e per il 70% entro la fine del secolo. Sin dall’inizio in molti avevano giudicato «catastrofista» l’allarme dell’Ipcc contenuto nel documento, specie i “clima-scettici”, e la revisione da parte dell'Ipcc dei propri dati ha infiammato il dibattito. Va detto che il ruolo principale dell’Ipcc è quello di valutare scientificamente l’informazione tecnico-scientifica e socio-economica per comprendere il fenomeno del cambiamento climatico, i suoi possibili impatti e in particolare i rischi per l’uomo ad essi associati, nonché le eventuali misure di risposta di adattamento e mitigazione da mettere in atto. (1. Continua)

Monday 12 July 2010

Il clima mette a rischio estinzione 10 luoghi

L'allarme Mother Nature Network: fiumi, laghi, isole, ghiacciai e anche città, potrebbero cambiare aspetto nel giro di 20-30 anni.

di Alberto Fiorillo
Potrebbero sparire per sempre, essere cancellati alla vista e dalla carte geografiche. Chi puo' permetterselo, dunque, farebbe bene a scegliere per le prossime vacanze uno dei luoghi naturalisticamente spettacolari del pianeta che corrono il pericolo di essere spazzati via dai cambiamenti climatici.
Mother Nature Network, un sito specializzato in temi ambientali, ha aggiornato la sua classifica delle dieci localita' da visitare prima dell'estinzione. Questi luoghi, che comprendono fiumi, laghi, isole, ghiacciai e anche citta', potrebbero infatti cambiare completamente aspetto nel giro di 20-30 anni. Tra i dieci luoghi presenti nell'elenco, c'e' anche Venezia. I motivi sono facilmente deducibili: clima impazzito, aumento delle temperature, scioglimento dei ghiacci, innalzamento dei mari e mutamento degli ecosistemi. Oltre alla Serenissima, anche le Alpi sono in serio pericolo, per via dello scioglimento dei ghiacci che si fa sempre piu' preoccupante.
Nel top 10 ci sono le Maldive, le coste del Bangladesh, il deserto del Sahara, il ghiacciao Aletsch in Svizzera, la grande barriera corallina australiana, il lago l'Eyre, anch'esso in Australia, il lago Kintla negli Stati Uniti. il parco nazionale Torres del Paine in Cile e il Denali National Park in Alaska.

Saturday 10 July 2010

Berlusconi: «Libertà di stampa? Non esistono diritti assoluti»

Il presidente del Consiglio attacca la stampa e invita gli italiani ad attaccarla. Allo stesso tempo dice chiaramente che non vuole opposizione, mostrando le carte di un gioco poco democratico.

di Emiliano Biaggio

«La libertà di stampa non è un diritto assoluto». Nè e convinto Silvio Berlusconi, che rivolgendosi a elettori e iscritti del Pdl chiede di lottare in prima persona contro la sinistra. In un messaggio lasciato sul sito dei Promotori della libertà, il presidente del Consiglio ai suoi sostenitori lo dice chiaramente: «Avete un altro compito non facile, ma fondamentale: quello di togliere il bavaglio alla verità. Quel bavaglio che le è stato imposto da una stampa schierata con la sinistra e pregiudizialmente ostile al governo». Una stampa, attacca il premier, «che disinforma, che non solo distorce la realtà, ma calpesta in modo sistematico il sacrosanto diritto dei cittadini alla privacy, invocando per sé la "libertà di stampa" come se si trattasse di un diritto assoluto». Ma, continua Berlusconi, «in democrazia non esistono diritti assoluti, perché ciascun diritto incontra sempre un limite negli altri diritti prioritariamente ed egualmente meritevoli di tutela». E questo «è un principio elementare delle democrazie liberali. Un principio che la stampa italiana, in maggioranza, ha scelto purtroppo di ignorare».
Parole rivolte a quanti, ieri, hanno manifestato e scioperato contro la legge bavaglio rappresentata dal ddl intercettazioni. Parole contro la stampa, in sostanza, quelle del premier. Contro quella stampa «schierata con la sinistra e pregiudizialmente ostile al governo». Ma al di là di questo nuovo attacco ai media, oltre a un messaggio lanciato a quanti ancora difendono la democrazia, Berlusconi replica a Gianfranco Fini, che giorni fa aveva detto che «un grande paese democratico ha bisogno di un'informazione forte, libera e autorevole. In un grande paese democratico la libertà di stampa non è mai sufficiente». Berlusconi mostra le carte: non vuole libertà di stampa, non vuole opposizione, non vuole partiti di opposizione. Questa non è democrazia. Che siano prove tecniche di regime?

Friday 9 July 2010

FACT SHEET/ Legge bavaglio, il ddl del Senato (2)

Giornalisti e non in piazza contro il disegno di legge sulle intercettazioni, per denunciare quella che da moltiè ritenuta una vera e propria misura contro l'informazione e la libertà di stampa. Al Senato il provvedimento è già stato approvato, manca solo il pronunciamento della Camera. Cosa cambierà se anche l'Aula di Montecitorio dovesse approvare il ddl così come licenziato a palazzo Madama? Ecco cosa prevede il testo, approvato al Senato il 10 giugno 2010.

scheda di Repubblica.it

COSA NON SI POTRA' PIU' PUBBLICARE
- La lista delle notizie che i media non possono più pubblicare è lunga. Si comincia con il divieto di pubblicare le intercettazioni di conversazioni telefoniche, email, ma anche i tabulati del traffico telefonico che riguardano persone estranee alle indagini, di cui il magistrato abbia ordinato la distruzione o l'esclusione dal fascicolo di inchiesta.
Le intercettazioni agli atti dell'inchiesta saranno invece off-limits sui media, anche se non sono più coperte dal segreto istruttorio, fino alla conclusione delle indagini preliminari.
Per tutta la durata dell'inchiesta, poi, i giornalisti non potranno pubblicare nessuno degli altri atti inclusi nel fascicolo del pubblico ministero. Questo divieto è però mitigato dalla possibilità per i media di dare conto "per riassunto" di quegli atti non più coperti da segreto.
Inoltre, per quanto riguarda le richieste e le ordinanze di custodia cautelare, se ne potrà pubblicare "il contenuto", ma solo dopo che l'interessato abbia ricevuto l'atto.
Bene inteso: queste deroghe non valgono per le intercettazioni, su cui rimane il blackout totale. Il disegno di legge colpisce anche le riprese filmate e le registrazioni "fraudolente", cioè quelle effettuate senza il consenso dell'interessato, ma ad uno degli ultimi rimpasti del testo è spuntata l'eccezione della "attività di cronaca" da parte dei "giornalisti iscritti all'ordine professionale", che non si macchierebbero quindi del delitto in questione.
L'escort Patrizia D'Addario che ha registrato il premier Berlusconi nella notte che ha passato a Palazzo Grazioli in sua compagnia, ma senza essere una giornalista, rischierebbe con la nuova legge fino a 4 anni di reclusione. La lista dei divieti è estesa alle toghe. Il pm che "rilascia dichiarazioni pubbliche in merito al procedimento" o che viola segreti d'inchiesta potrà essere sostituito dal capo dell'ufficio. Infine, meno pubblicità per la giustizia: la ripresa video/audio delle udienze dei processi dovrà essere decisa, nel caso una parte si opponga, dal presidente della Corte d'Appello di riferimento.

SANZIONI
- Lo spettro delle sanzioni, per i giornalisti ma anche per i giudici e gli investigatori che violano la consegna del silenzio è ampia, ma il disegno di legge conta di tutelare la privacy usando soprattutto il deterrente del portafoglio, quello degli editori dei media che pubblicano l'impubblicabile. Per loro sono previste sanzioni fino a 300.000 euro, se i loro media pubblicano le intercettazioni incluse nelle inchieste ma non ancora divulgabili. Si sale ad oltre 450.000 euro di sanzione massima se le intercettazioni sono quelle di cui i giudici abbiano ordinato la distruzione o l'esclusione dal fascicolo d'indagine.
Quanto al carcere, le pene sono modulate. La rivelazione del segreto d'ufficio è punita con la reclusione da uno a sei anni. Questo reato è tipico del pubblico ufficiale, ma non si esclude che il giornalista ne possa rispondere in correo. Il giornalista che pubblica il contenuto delle intercettazioni non ricomprese nelle inchieste e da distruggere rischia da sei mesi a tre anni di reclusione, ma se si tratta di intercettazioni agli atti dell'inchiesta la pena si riduce di fatto ad un'ammenda.

QUANDO E COME SI POTRA' INTERCETTARE - Il disegno di legge ha anche un'altra faccia, che riguarda più direttamente l'attività dei magistrati. Per il governo e la maggioranza di centrodestra, infatti, la riservatezza delle persone val bene alcune limitazioni al ricorso alle intercettazioni nelle inchieste. Il provvedimento dispone dei filtri più stretti di tempo, di merito e di procedura.
Durata delle intercettazioni: con l'eccezione delle inchieste per mafia e terrorismo, per le quali valgono le norme attuali, le intercettazioni richieste dal pm potranno essere autorizzate dai giudici per un termine massimo di 75 giorni, dopodiché potranno essere prorogate di 3 giorni in 3 giorni fino al termine delle indagini. Per le "cimici" delle intercettazioni ambientali, invece, il pm dovrà ottenere il via libera del tribunale ogni 3 giorni.

CHI POTRA' ESSERE INTERCCETTATO - L'ascolto potrà essere autorizzato se sussistono "gravi indizi di reato", ma il ddl delimita la platea delle persone intercettabili, cioè gli indagati o le persone "a conoscenza dei fatti" oggetto dell'inchiesta.
Quanto alle intercettazioni ambientali, le cimici potranno essere messe nei luoghi "dove si sta svolgendo attività criminosa". Al di fuori di questa condizione, si potranno mettere sotto ascolto altri luoghi, purché non siano "privati". Altri limiti riguardano la possibilità di utilizzare le intercettazioni. I risultati dell'ascolto non potranno essere usati in procedimenti diversi da quelli per cui sono state ordinate (con l'eccezione dei reati di mafia e terrorismo, spionaggio e pedopornografia).

TRIBUNALE COLLEGIALE - La stretta riguarda infine la procedura per avviare le intercettazioni. Il pm dovrà chiedere l'autorizzazione e le eventuali proroghe non più al gip, come ora, ma al tribunale del capoluogo di distretto che decide in composizione collegiale. Inoltre, il pm, con la richiesta di autorizzazione, dovrà trasmettere al tribunale il fascicolo con gli atti di indagine fino a quel momento compiuti e così ogni volta che chiede una proroga.

Wednesday 7 July 2010

Agcom: «La libertà d'informazione va difesa»

Calabrò, nella sua relazione a Montecitorio, boccia la legge bavaglio. Fini: «In una democrazia la libertà di stampa non basta mai».

di Emiliano Biaggio

«La libertà d'informazione è forse una libertà superiore alle altre costituzionalmente protette e va difesa da ogni tentativo di compressione». Il presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, manda un chiaro messaggio alla politica. E la politica lo raccoglie. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, risponde di rimando affermando che «un grande paese democratico ha bisogno di un'informazione forte, libera e autorevole. In un grande paese democratico la libertà di stampa non è mai sufficiente». Nelle fila del Pdl cresce la tensione tra finiani e berlusconiani, tanto che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio avrebbe ammesso di non poter più mediare, data l'ira di un Berlusconi sempre più accerchiato dalle critiche al ddl sulle intercettazioni. Di Fini si sapeva, del presidente della Repubblica si è saputo, ma adesso apprendere che anche l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sferri attacchi e critiche al provvedimento è per il premier troppo. Soprattutto se nella stessa occasione (relazione del Garante per la comunicazione alla Camera) parlino Calabrò e Fini, dando vita a "un asse". «L'Italia- aggiunge Fini- ha ancora necessità di ulteriori norme legislative che tutelino l'accesso ai mezzi di informazione. Non abbiamo alcun bisogno, invece, di tagli drastici all'editoria».

Sunday 4 July 2010

Legge bavaglio, i dubbi di Napolitano

Il capo dello Stato: «Ci sono punti critici. Non spetta a noi indicare soluzioni».

di Emiliano Biaggio
«Vista la confusione che ancora colgo in certi commenti sulla stampa a proposito della legge sulle intercettazioni, posso ribadire che i punti critici della legge approvata dal Senato risultano chiaramente dal dibattito in corso e dal dibattito svoltosi alla Commissione giustizia della Camera, nonché da molti commenti di studiosi, sia costituzionalisti sia esperti della materia... E ovviamente quei punti critici sono gli stessi cui si riferiscono le preoccupazioni della presidenza della Repubblica, e non si è mancato di sottolinearlo nei rapporti con esponenti della maggioranza e di governo». Giorgio Napolitano esprime i propri dubbi sul ddl intercettazioni, lasciando intendere che i punti controversi che preoccupano tanti preoccupano anche il Quirinale. Questo significa che se il testo dovesse rimanere coì com'è il presidente della Repubblica difficilmente lo firmerà. «A noi- aggiunge il capo dello Stato- non spetta indicare soluzioni da adottare e modifiche da apportare. Valuteremo obiettivamente se verranno apportaté modifiche adeguate alla problematicità e maggioranza, nella conferenza dei capigruppo». Il Colle, insomma, aspetta. Si riserva di vedere se e come si metterà mano al testo licenziato dal Senato. Berlusconi è avvisato: così com'è il testo rischia di essere rinviato alla Camere. Se il premier non commenta, il deputato del Pdl e legale del premier Niccolò Ghedini afferma che sul ddl intercettazioni «la decisione tocca al Parlamento, per muovere certi rilievi si faccia eleggere», mostrando il nervosismo di una maggioranza impantanata su una questione che sta portando più critiche e ostacoli che altro. Napolitano «si ascolta e non si commenta» ammonisce Ghedini il presidente del Senato, Renato Schifani. «Credo che l’appello del capo dello Stato sia la sintesi a cui dobbiamo attenerci», afferma invece il capogruppo della Lega alla Camera Marco Reguzzoni. «Abbiamo assolutamente stima di Napolitano cercheremo di seguire le sue indicazioni mettendo la manovra prima di tutto», aggiunge. La Lega, di fatto, si sfila da una situazione sempre più insostenibile e da un provvedimento non voluto perchè non rientrante nel programma e nelle strategie del Carroccio. Berlusconi dal canto suo promette modifiche al testo, ma «cambiamenti minimi», perchè - sbotta - «non accetteremo né tutte le richieste del Quirinale, né tantomeno quelle di Fini». Insomma, a palazzo Chigi si lavora per quei piccoli ritocchi che possano eliminare ogni bocciatura, ma l'ostacolo resta. Il ddl potrebbe a questo punto slittare a settembre, ma al Colle questo interessa poco. Politicamente è decisamente un problema di Berlusconi.

Saturday 3 July 2010

Stalin, via la statua dalla piazza della sua città

L'amministrazione di Gori l'ha rimossa e la sistemerà nel museo cittadino a lui dedicato. Ma è polemica.

di Emiliano Biaggio

Il "piccolo padre" via da casa: l'amministrazione comunale di Gori, in Georgia, ha rimosso la statua di Stalin che si stagliava sulla piazza principale della città dal 1952. Il monumento non scomparirà, finirà nel cortile del museo cittadino dedicato proprio all'ex leader sovietico, fanno sapere da Gori. Ma la scelta dello spostamento della statua fa discutere, in politica come nella società georgiana: «Come si è potuto fare una cosa del genere con l’uomo che ha salvato il pianeta?», si è chiesto il segretario del partito comunista georgiano Sosò Gagoshvili. «Stalin fa parte della nostra storia, perché decidono di toglierlo ora?», sbotta Vladimir Kalakashvikli, 74 anni. La risposta la forniscono le autorità di Gori: al posto che fu della statua di Stalin, verrà eretto un monumento ai caduti georgiani della guerra lampo per l’Ossezia del sud dell’agosto 2008 contro i russi. Una decisione che non piace oltre confine: il movimento giovanile filoputiniano Nashi denuncia una «strumentalizzazione della realtà» da parte dei georgiani.
Intanto Stalin "trasloca": l'opera di sei metri di altezza (sopra un piedistallo di nove) di Shotà Mikitidze è stata già rimossa, e Gori volta le spalle al suo controverso personaggio simbolo. Iosif Vissarionovič Džugašvili, meglio noto come Stalin, è nato a Gori il 6 dicembre 1878, secondo i registri della chiesa parrocchiale. Lo stesso Stalin dichiarava però di essere nato il 21 dicembre 1879 e in tale giorno veniva festeggiato ufficialmente il suo compleanno nell'Unione Sovietica.

Tra India e Canada è alleanza atomica

Dopo quarant'anni si riallacia il rapporto sul nucleare tra i due paesi.

di Alberto Fiorillo

India e Canada hanno sottoscritto un patto che le impegna un lavoro comune nei progetti per la realizzazione di impianti nucleari. L'accordo riannoda un filo atomico interrotto dagli anni Settanta, quando gli indiani usarono del plutonio canadese per costruire una bomba atomica. Lo annuncia la Bbc, secondo cui questo patto permetterà di aprire il mercato del paese asiatico alle centrali canadesi. L'intesa tra il primo ministro indiano Manmohan Singh e il suo omologo canadese Stephen Harper include la cooperazione nel campo della gestione dei rifiuti radioattivi e nella sicurezza. L'India, che per ora produce solo il 3% della propria elettricità dal nucleare, ha in programma di espandersi nell'atomo con la costruzione di 20 nuove centrali.

Friday 2 July 2010

La donna nella società mussulmana - Il caso Marocco

Non è assolutamente vero che il Corano mortifica la donna, e nel paese del Maghreb la questione femminile è stata posta solo nel 2000.

di Mimmo del Giudice*
«II mondo islamico non ha altro mezzo per superare le sue difficoltà che di associare la donna alla promozione della società sul piano scientifico e pratico, permettendole di dare prova della sua competenza, di sviluppare le sue capacità e di assumere un ruolo nella realizzazione del progresso e la costruzione del futuro». Parola di Mohammed VI, re del Marocco. Il sovrano magrebino si è espresso in questi termini nel messaggio ai partecipanti al convegno internazionale sul tema «la donna mussulmana e le scienze: per un futuro migliore» che si è tenuto a Fes nel marzo del 2000. Succeduto al padre Hassan II nel luglio del 1999, il giovane Mohammed VI, sulla scia del genitore nonché del nonno Mohammed V, ha posto alla base dell'ammodernamento del Paese la questione femminile. Un problema affatto semplice da risolvere. Un problema che trae la sua origine da alcune regole del credo di Allah. Ma che viene esasperato da una interpretazione spiccatamente maschilista che di queste regole si da. Infatti non è assolutamente vero che il Corano mortifica la donna. Anzi, se si tiene conto dell'epoca in cui il libro sacro è stato dettato da Dio, attraverso l'angelo Gabriele, a Maometto vale a dire tra la fine del VI e l'inizio del VII secolo dopo Cristo, e delle condizioni di vita di allora, esso contiene norme che non è azzardato ritenere una sorta di riforma del diritto di famiglia per quanto attiene alla condizione della donna. Nella società politeista di allora vigeva la poligamia illimitata, la donna era esclusa dalla ripartizione dell'eredità (anzi la vedova faceva parte del patrimonio ereditario), e addirittura non era reato seppellire vivo un neonato di sesso femminile.
Nel Corano si biasima l'infanticidio («perduti sono coloro che uccidono scioccamente nella loro ignoranza i propri figli», recita il versetto 140 del capitolo VI, la sura dei Greggi), si limita a quattro il numero delle mogli, si dice che anche alla donna spetta parte dell'eredità (la metà di quanto va all'uomo al quale tocca di più perché è a lui che compete mantenere colei che prenderà in moglie). Vero è che nel libro sacro sta pure scritto che «gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri «(versetto 34, sura delle Donne), ma il primo versetto dello stesso capitolo recita: «Rispettate le viscere che vi hanno portato». Persino nel suo ultimo discorso Maometto così si rivolge ai suo fedeli: «O gente, voi avete dei diritti sulle vostre donne, ma anche esse hanno dei diritti su di voi... Trattate bene le donne perché esse sono le vostre aiutatrici». Insomma nel Corano non c'è traccia, non si fa cenno alcuno alle mortificazioni, alla violenza fisica e psicologica nei confronti della donna di cui ancora oggi ci sono segni evidenti persino in paesi per molti aspetti moderni come è appunto il Marocco. Qui uno slogan comune a tutte le associazioni femminili dice «Guardare indietro per andare avanti». E vuole appunto significare che basta rifarsi al Corano per riconoscere alla donna quella dignità che spesso le viene negata da una società tutta impostata in chiave maschilista. Un maschilismo che vede la donna perennemente «sotto tutela». Un maschilismo che ha tenaci assertori nel governo, nel Parlamento, in molti settori dell'opinione pubblica. Per cui anche con il sostegno del sovrano la battaglia per l'emancipazione è lunga e dura, avendo le resistenze due forti alleate: l'ignoranza e la miseria. Due piaghe contro le quali molto si sta facendo e con risultati anche abbastanza evidenti, soprattutto per quanto riguarda l'analfabetismo. Rilevante è, infatti, il numero delle donne adulte le quali recependo l'esortazione del re secondo cui «è disumano che ci sia gente incapace di scrivere persino il proprio nome», hanno deciso di imparare a leggere e scrivere magari andando a scuola dopo una giornata di lavoro. Più ardua è la lotta alla miseria in un Paese il cui sovrano ha tra i suoi appellativi quello di «re dei poveri». Ma anche in questo campo continue iniziative cercano di alleviare le sofferenze di una condizione in cui si ritiene viva oltre metà della popolazione. Per dimostrare con fatti concreti la sua convinzione nella emancipazione della donna Mohammed VI ha scelto tra i suoi consiglieri una donna, l'ex segretario di stato agli Affari Sociali Zulikha Nasrie in un rimpasto di governo che ha visto la estromissione del ministro per la famiglia Said Saadi, ha voluto che la carica venisse affidata a Nouzha Chekrouni, l'unica rappresentante femminile nell'esecutivo. La quale si è vista così accrescere le sue mansioni, in principio limitate alla integrazione degli handicappati.

* Domenico Del Giudice, giornalista, è autore di «II velo e l'emiro», un saggio-inchiesta, edito dalla ESI (Edizioni Scientifiche Italiane) nel 2002