Saturday 27 November 2010

Le due Coree e la "guerra dimenticata"

Divise da sessant'anni, da quando nel 1950 prese avvio la guerra di Corea, Corea del Nord e Corea del Sud non hanno mai raggiunto una pace definitiva dato che nel 1953 i due paesi hanno siglato un armistizio, un accordo sul cessate il fuoco. Adesso questo armistizio viene infranto riproponendo scene e scenari di guerra, di quella "guerra dimenticata" che è quella mai finita e tutt'oggi in corso sulla penisola coreana.

Bombe sulla Corea del Sud, rotto l'armistizio

Accusato il Nord, Pyongyang denuncia provocazioni e attacchi del Sud cui avrebbe risposto per leggittima difesa. Sale la tensione sul 38° parallelo, e riprende la guerra di Corea.

di Emiliano Biaggio

La tregua si è rotta: per la prima volta da quando è stato firmato l’ armistizio, nel lontano 1953, lo scontro bellico tra le due Coree è ripreso. Ufficialmente per colpa del Nord, che ha bombardato l’isola sudcoreana di Yeonpyeong (cui ha fatto immediatamente seguito la risposta dell’artiglieria del Sud), ma da Pyongyang accusano i vicini del sud di «aver sparato per primi» e questo «nonostante ripetuti avvertimenti». L’azione della Corea del Nord è dunque un atto dovuto a sentire lo stato maggiore dell’esercito di Kim Jong-Il. «Non abbiamo potuto fare altro che assumere un’azione militare immediata» agli attacchi del sud, fanno sapere i nordcoreani. Dall’altra parte del 38esimo parallelo, invece, sostengono che tutto sia frutto dei rivali di sempre. Il presidente della Corea del Sud, Lee Myung-Bak denuncia un «attacco intenzionato e pianificato» da parte del paese confinante, e minaccia una «pesante reazione». Intanto caccia F15 ed F16 si alzano in volo mentre gli Stati Uniti, che in Corea del Sud mantengono basi militari, muovono le portaerei: operazioni e manovre di guerra nei cieli e nelle acque della penisola coreana come non si vedeva da più di cinquant’anni ripropongono la mai conclusa guerra di Corea, per uno scenario ad alta tensione dalle mille incognite: a Seul – ma non solo – si teme infatti che la situazione «degeneri», e la Russia – per bocca del ministro degli esteri Sergei Lavrov – ricorda il «pericolo colossale» di un eventuale conflitto aperto, dato che lì c’è l’atomica. Ecco perché in Cina per un altrettanto preoccupato e non per nulla contento Hu Jintao «è imperativo rilanciare i colloqui di pace», mentre da Washington il dipartimento di Stato americano richiama ad «un atteggiamento misurato». Se le Coree sono in fermento la comunità internazionale è dunque in fibrillazione, con il mondo tutto con il fiato sospeso a guardare e cercare di capire cosa succederà: del resto la posta in gioco è troppo alta, i rischi sono elevatissimi, le conseguenze di eventuali ricorsi a testate nucleari – che hanno i nordcoreani e gli alleati dei sudcoreani – drammatiche. Al Pentagono, al di là della delicatezza della situazione, non hanno dubbi: «La risposta sarà unitaria, perché è stato violato l’armistizio del 1953». E 57 anni dopo, dunque, le ostilità riprendono su un terreno insidioso tanto per gli eserciti quanto per la diplomazia, in una questione coreana sempre più rompicapo e lontana da una soluzione definitiva. Come dimostrato dagli ultimi eventi.
(editoriale della puntata del 26 novembre 2010 della trasmissione E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)

Friday 26 November 2010

L'Iraq ha un nuovo premier: è Nuri al-Maliki

Il presidente della Repubblica l'ha incaricato di formare un nuovo governo, dopo che a-Sadr e i curdi hanno garantito l'appoggio al primo ministro uscente

di Emiliano Biaggio

Otto mesi dopo le elezioni democratiche l'Iraq si avvia ad avere un nuovo governo. A seguito del riconteggio delle schede elettorali il presidente della Repubblica, il curdo Jalal Talabani, ha dato mandato a Nuri al-Maliki, premier uscente, di costituire un nuovo esecutivo. La situazione, quindi, sembra conoscere l'uscita dalla stallo in cui la vita politica irachena si trovava da troppo tempo per un paese che deve rinascere ed essere ricostruito. Il 7 marzo scorso dalla urne era uscito un paese diviso in due, con il partito di Iyad Allawi (Iraqiya) che aveva 91 seggi, e quello di Nuri Al-Maliki (Stato di diritto) che ne aveva racimolati 89. Numeri che di fatto avevano consegnato il paese all'ingovernabilità per l'impossibilità di formare esecutivi autonomi e creare maggioranze parlamentari compatte. Adesso però al-Maliki ottiene l'appoggio del Movimento sadrista di Muqtada al-Sadr, Fadhila, che gli garantisce 40 seggi in Parlamento. Ma al-Maliki ha ottenuto il sostegno anche dei partiti curdi (il Pdk di Barzani e l'Upk di Talabani), dimostrando di avere l'appoggio di tutti i principali attori politici - e confessionali - del paese e quindi una maggioranza ampia che dia all'Iraq quella stabilità che tutti chiedevano. Questo il motivo che ha indotto Talabani a dare ad al-Maliki via libera alla formazione di un nuovo esecutivo. Adesso il nuovo premier designato ha trenta giorni di tempo per scegliere i ministri e dare corpo alla squadra di governo. Sconfitto, dunque, Iyad Allawi, che andrà all'opposizione ma che alla luce degli ultimi eventi ha fatto sapere che voterà la fiducia ai ministri. Da sottolineare il sostegno dei curdi: questo sventa il pericolo - paventato in questi mesi - della formazione di un unico grande blocco sciita, che avrebbe potuto generare una situazione delicata per i rapporti di forza con le altre componenti irachene (sunniti e curdi) considerato anche che il 97% degli iracheni sono musulmani e di questo tra il 60% e il 65% sposta la dottrina sciita. Insomma, la composizione attuale dovrebbe garantire equilibrio politico e sociale, ma il condizionale è d'obbligo in quanto quello iracheno resta comunque un paese ricco di incognite.

FACT SHEET / Gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi


Un piano per congelare temporaneamente gli insediamenti israeliani in cambio di forniture militari. Questa l'idea del governo di Tel Aviv - e che piace agli Stati Uniti - per cercare di riavvire le trattative per trovare una soluzione alla questione arabo-israeliana. L'idea non piace all'Anp, che chiede il congelamento totale degli insediamenti, a oggi molti nei territorio palestinesi. CLICCARE SULLA FOTO PER VEDERE GLI INSEDIAMENTI

Thursday 25 November 2010

FACT SHEET / La questione palestinese, Israele e i territori


Un piano per congelare temporaneamente gli insediamenti israeliani in cambio di forniture militari. Questa l'idea del governo di Tel Aviv - e che piace agli Stati Uniti - per cercare di riavvire le trattative per trovare una soluzione alla questione arabo-israeliana. L'idea non piace all'Anp, che chiede il congelamento totale degli insediamenti, a oggi molti nei territorio palestinesi

Wednesday 24 November 2010

Israele, aiuti militari Usa in cambio di un blocco parziale degli insediamenti

Il piano di Netanyahu trova il beneplacito di Obama e fa infuriare l'Anp, riproponendo la storia infinita delle colonie.

di Emiliano Biaggio

Stati Uniti e Israele fanno affari, a danno della Palestina e del processo di pace. C'è infatti un piano che prevede lo stop per 90 giorni alla costruzione di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania - con nessun accenno a Gerusalemme Est - in cambio di un pacchetto pacchetto di incentivi politici e militari degli Stati Uniti. Insomma, misure provvisorie e impegni a tempo per lo Stato ebraico, per contropartite durevoli. Al proprio esecutivo il premier israeliano Benjamin Netanyahu. In cambio di un nuovo totale arresto di tutte le costruzioni negli insediamenti ebraici cisgiordani, incluse quelle iniziate dopo lo scadere della precedente moratoria, gli Stati Uniti si impegnano a non chiedere altre moratorie a Israele e assicureranno allo Stato ebraico il proprio appoggio all'Onu e in altri fori internazionali contro risoluzioni ostili o dirette a negarne la legittimità. Assicureranno poi sostegno alla politica di Israele di voluta ambiguità circa il suo presunto arsenale nucleare, e opereranno per un inasprimento delle sanzioni internazionali all'Iran a causa del suo programma nucleare. Un pacchetto extra ancor più sostanzioso è previsto poi in caso di un raggiungimento di un accordo di pace (Israele avrebbe armi più avanzate, accesso in tempo reale alle informazioni su eventuali preparativi di attacchi missilistici provenienti dai satelliti spia americani, e si parla anche del fornimento di 20 ultramoderni aerei da combattimento F35). Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è soddisfatto: «Elogio il premier Netanyahu, perchè- afferma- sta facendo, io credo, un passo molto costruttivo». L'Anp invece non gradisce: il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen, Nabil Abuc Rudeia, ribadisce che il congelamento degli insediamenti deve essere «totale» e includere anche Gerusalemme Est, da sempre al centro delle rivendicazioni di entrambe le parti. Ma sembra che ancora una volta le ragioni palestinesi siano state sacrificate ai danni degli interessi del vicino.

Tuesday 23 November 2010

L'Ue compra l'Irlanda, Dublino svende il welfare

Chiesti e ottenuti aiuti per circa 90 miliardi, il governo Cowen annuncia tagli allo stato sociale.

di Emiliano Biaggio

L'Irlanda chiede e ottiene i prestiti internazionale per far fronte alla crisi del sistema bancario: Unione europea a fondo monetario si dicono pronti a mettere a disposizione delle autorità irlandesi 90 miliardi, e come per Atene adesso per Dublino si ripropone la "formula salva Grecia": soldi alla banche, stretta sulle famiglie. Il governo di Brian Cowen ha già annunciato tagli per 15 miliardi, quasi tutti al Welfare. Si smantella insomma lo stato sociale per garantire assistenza al mondo bancario e finanziario, e negarla di colpo al cittadino. Nello specifico la maximanovra per il quadrienno 2011-2014 prevede di aumentare l'Iva al 22% nel 2013 e al 23% nel 2014, e contemporaneamente. I tagli ammonteranno a 2,8 miliardi di euro, mentre le entrate fiscali previste aumenteranno di 1,9 miliardi di euro. Dove la scure dei tagli si abbatterà saranno i salari minimi e i sussudi alla disoccupazione, che verranno ridotti. Intanto i verdi annunciano l'uscita dall'esecutivo e chiedono le dimissioni dell'attuale primo ministro, per la crisi e le misure "lacrime e sangue". Le borse chiudono in negativo per le incertezze politiche dell'Irlanda e l'entità della crisi economica. Su cui il cancelliere tedesco, Angela Merkel, nutre «grande preoccupazione». La crisi potrebbe essere anche peggiore di quella greca, ma soprattutto crea una situazione «eccezionalmente grave» per l'Euro.

Monday 22 November 2010

Benedetto XVI: «ci sono casi giustificati dell'uso del preservativo»

Il papa apre - parzialmente - all'uso del condom. E invita i fedeli a «una sessualità più umana». Padre Lombardi: «non è svolta rivoluzionaria».

di Emiliano Biaggio

«In alcuni casi l'uso del preservativo può essere giustificato», come ad esempio «quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole». Tuttavia, «questo non è il modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'Hiv». In tal senso «è veramente necessaria una umanizzazione della sessualità». parole di benedetto XVI, che nel libro “Luce del mondo: il Papa, la Chiesa e i segni del tempo” apre, seppur parzialmente, all'utilizzo del "condom", a detta del pontefice giustificato in alcune circostanze particolari, come ad esempio nel caso della prostituzione al fine di prevenire la diffusione del virus dell‘Hiv. Per Benedetto XVI «concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l'espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé». Un appello al sesso responsabilie, quello che sembra arrivare da papa Ratzinger, che usa parole ben diverse da quelle che - sugli stessi temi - usò lo scorso 16 marzo 2009, alla vigilia di un viaggio in Africa. L’Aids «non si può superare con la distribuzione dei preservativi che, anzi aumentano i problemi», disse in quell'occasione. Oggi, invece, il cambio di rotta: «vi possono essere singoli casi giustificati» in nome di «un primo atto di responsabilità» e di «un primo passo sulla strada verso una sessualità più umana». Parole sicuramente insolite e inusuali per un Pontefice, ma «il ragionamento del Papa- si appresta a precisare Padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede- non può essere certo definito una svolta rivoluzionaria». Benedetto XVI, spiega Lombardi, semplicemente «non giustifica moralmente l'esercizio disordinato della sessualità». Intanto, però, qualcosa sembra essere cambiato oltre Tevere.

Friday 19 November 2010

L'ultimo affondo alla stampa di Berlusconi: abolire l'ordine dei giornalisti

Come solo un tiranno sa fare il nuovo duce annuncia, tramite i suoi fedelissimi, l'ennesima misura che vogliono gli italiani

di Emiliano Biaggio

«Il gruppo Pdl alla Camera dei Deputati ha messo in piedi un gruppo di studio per produrre e redigere una legge che segni l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti». L'annuncio arriva da Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, fedelissimo di un Berlusconi poco avvezzo a regole, processi, magistratura, libertà di opinione e di stampa. In nome di queste pulsioni liberticide, non contento del ddl sulle intercettazione che favorisce i malaffari e imbavaglia l'informazione, adesso va a colpire la categoria da lui tanto odiata: i giornalisti. Perchè? C'è stata «la goccia che ha fatto traboccare il vaso», spiega Cicchitto, e cioè la sospensione per tre mesi decretata dall'Ordine nei confronti di Vittorio Feltri, direttore editoriale del Giornale, in seguito alla vicenda Boffo. E'bene ricordare che l'anno scorso Feltri, all'epoca direttore del quotidiano della famiglia Berlusconi, pubblicò un documento ritenuto compromettente - poi rivelatosi falso - sul direttore di Avvenire Dino Boffo, che diede le dimissioni sulla scia dello scandalo. Tutto questo avvenne, casualmente, in un periodo in cui il quotidiano dei vescovi, sotto la direzione di Boffo, stava conducendo una campagna critica nei confronti del premier, che - anche qui va ricordato - a colpi di dossieraggi e false accuse ha attaccato le voci critiche di Gianfranco Fini ed Emma Marcegaglia.

Thursday 18 November 2010

Piazza della Loggia, non è successo niente


Questa scritta è apparsa dopo la decisione dei giudici della Corte d'assise di Brescia, che hanno assolto per insufficienza di prove tutti i cinque imputati nel processo per la strage del 28 maggio 1974. Che resta ancora senza un colpevole.

Wednesday 17 November 2010

Piazza della Loggia, nessun colpevole

La Corte d'assise chiude il fascicolo e assolve i sospettati: insufficienza di prove. E l'Italia continua a non avere spiegazioni sulle stragi del terrorismo.

di Emiliano Biaggio*

Una vicenda giudiziaria lunga 36 anni, che si snoda tra 5 fasi istruttorie e 8 fasi giudizio e che, nonostante tutto, resta avvolta nel mistero. A 36 anni da una delle pagine più drammatiche del terrorismo italiano, la strage di piazza della Loggia resta senza responsabili a fronte di insufficienza di prove, e così la corte d’Assise di Brescia - con la sua sentenza di assoluzione dei cinque imputati per elementi mancanza di elementi a loro carico - contribuisce a consegnare al mistero e all'impunità un'altra triste pagina della storia del nostro paese, che attendeva da tempo e con speranza la sentenza. Qualcuno, soprattutto i familiari delle vittime, si illudeva di poter avere giustizia, ma era chiaro che non sarebbe stato nè scontato nè facile. La strage di piazza Fontana, avvenuta cinque anni prima, ha avuto stessa matrice ed uguale esito: terrorismo nero, nessun colpevole, e nessun responsabile. Per piazza della Loggia la storia si ripete, ma sorprende fino a un certo punto: troppi intrighi, troppi interessi. Cosa c'è dietro? Solo quel poco che ci è noto: è la mattina del 28 maggio 1974. A Brescia, in piazza della Loggia c'è una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. Una bomba esplode per uccidere: è la strategia della tensione. Quella mattina alla fine si conteranno 8 morti e 104 feriti. I pompieri intervengono in fretta, ma sul luogo non rimangono neppure i reperti dell’ordigno. A scorrere soltanto i nomi degli ultimi imputati non sorprende il finale del caso piazza della Loggia: ricorre ancora una volta l'intreccio tra strategie repressive e disegni eversivi, tra estrema destra e servizi deviati delle forze dell'ordine. L'accusa aveva chiesto l'ergastolo per gli esponenti di Ordine nuovo Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, per il collaboratore dei servizi segreti Maurizio Tramonte e per il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Insieme a loro era indagato anche Pino Rauti, nome noto della destra di casa nostra. Per la legge tutti assolti perchè non perseguibili. Come per i casi Italicus e di Ustica, l'Italia resta con le sue ferite, in balia di sè stessa e vittima delle sue verità nascoste. «La città- commenta il sindaco di Brescia, Adriano Paroli- voleva due cose: verità e giustizia, ma non si è riusciti a raggiungerle». A oggi, dunque, le uniche conclusioni a cui si è giunti è che siamo di fronte a una strage impunita, e qualcuno - anche in questo caso ignoti - in piazza della Loggia ha affisso un cartello con su scritto "in questo luogo il 28 maggio 1974 non è successo niente".

*(poi editoriale della puntata del 19 novembre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti).

Tuesday 16 November 2010

Irlanda e Portogallo sull'orlo del baratro?

Voci e indiscrezioni vorrebbero i due paesi con i conti pubblici fuori controllo, ma Dublino e Lisbona smentiscono. Ma resta l'incertezza.

di Emiliano Biaggio

L'Irlanda sull'orlo del baratro finanziario, l'ombra della crisi in POrtogallo, una riunione dell'Ecofin e la Germania che arriva a proporre che al salvataggio delle economie debbano contribuire i privati: preoccupazioni e divisioni animano e agitano un'Europa alle prese con un nuovo e forse ben più grave nodo economico da risolvere. Dopo la Grecia, adesso si altri due paesi sono a una passo dalla crisi. Con i governi dell'Europa a 27 che attendono le mosse di Dublino e Lisbona per capire quale sia l'effettiva gravità della situazione e Irlanda e Portogallo che aspettano di vedere come andrà a finire in ambito comunitario. L'ue intanto si interroga sugli interventi e sull'entità degli aiuti: solo per soccorrere l'Irlanda sembra che possano correre fra i 50 e i 90 miliardi di euro. Il premier irlandese Brian Cowen fa sapere di «non avere chiesto un salvataggio» e che nel suo paese «il costo del denaro è semplicemente troppo elevato», ma l'incertezza regna sui mercati e tra i paesi, perchè voci e indiscrezioni si rincorrono e l'euro continua a cedere in borsa. Anche da Lisbona arrivano rassicurazioni: il paese non pensa di avere bisogno di un intervento di salvataggio internazionale per la sua economia. Il ministro delle Finanze lusitano Fernando Teixeira dos Santos, fa sapere infatti che «non ci sono stati contatti con le autorità di Bruxelles, nè formali, nè informali». Il presidente dell´Unione Europea, Herman Van Rompuy, intanto avverte: «Se i problemi legati ai bilanci dei Paesi membri non saranno risolti, è a rischio la stessa sopravvivenza dell´Unione Europea» . Per questo, aggiunge, «dobbiamo lavorare di concerto per permettere alla zona euro di sopravvivere, perché se l`euro non sopravvive, neppure l`Unione europea potrà farlo». «Non è questione di sopravvivenza della moneta unica, si tratta di un problema molto grave del settore bancario irlandese», specifica il commissario agli affari economici Olli Rehn. Da Bruxelles quindi si cerca di rassicurare: «Per far fronte ai rischi bancari agiremo come area euro per garantirne la stabilità in quanto abbiamo i mezzi per farlo», si affretta ad annunciare il presidente Jean-Claude Junker, presidente dell'Eurogruppo (l'insieme dei ministri dell'Economia e delle FInanze dei paesi che hanno adottato l'euro). Intanto però alcune Borse reagiscono con una serie di ribassi (in alcuni casi arrivati oltre il 2%), mentre l`euro segna un nuovo minimo sul dollaro scendendo sotto quota 1,36.

Monday 15 November 2010

Gli elettori del Pd vogliono la sinistra

Mentre il Partito democratico continua nella sua corsa al centro, nelle primarie di Milano vince il candidato vendoliano sostenuto da Pdci e Rifondazione. E nel partito è crisi.

l'e-dittoreale

Il Pd fa cadere il Pd. A Milano le primarie premiano Giuliano Pisapia, candidato sostenuto da Vendola, Pdci e Rifondazione, a scapito di Stefano Boeri, uomo di partito e sostenuto dai vertici del Pd. Come in Puglia, insomma, la storia si ripete: l'uomo indicato dalla segreteria nazionale esce sconfitto. Pisapia prende infatti il 45,4% delle preferenze, mentre Boeri si ferma al 40,2%. Una sconfitta cocente sia perchè boccia la linea di partito, sia perchè politicamente mostra come il popolo del Pd guardi - a differenza dei quadri dello stesso partito - a sinistra. La linea moderata tendente al centro non viene premiata, e anzi gli elettori per sfidare il sindaco di Milano Letizia Moratti preferiscono una figura più di sinistra. Ecco perchè dal Pd milanese arriva l'annuncio di dimissioni: il gruppo dirigente del Partito democratico di Milano si è preso una settimana di tempo per decidere sul da farsi, rimettendo temporaneamente il mandato. Le dichiarazioni ufficiali sono chiare: «(Il gruppo dirigente) ha rimesso il mandato per una riflessione a 360 gradi. Ci sarà una discussione che coinvolgerà le varie assemblee a livello regionale, provinciale e cittadino, quindi si prenderà una decisione nell'arco di una settimana». Si apre dunque una crisi interna al Pd, e guai a pensare che sia limitata alla sola sfera locale. Già lo scorso gennaio Vendola sbaragliò sempre alla primarie il candidato a governatore nominato dai vertici del Pd: allora la vittima politica fu Francesco Boccia, uomo di D'Alema in terra di D'Alema. Adesso gli elettori, ancora una volta, preferiscono personaggi che ricoprono aree che possono piacere o meno ma che almeno sono chiare e ben identificate, al contrario di un Pd che fatica a trovare una propria identità. Gli elettori danno un consiglio, e forse anche più di un consiglio, quanto un indirizzo ben preciso: guardate a sinistra anzichè rincorrere il centro. Questo soprattutto dopo che il finiano Adolfo Urso ha fatto sapere che se si andasse alle elezioni anticipate Fli andrebbe «certamente con Casini, con il Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo, con Alleanza per l'Italia di Rutelli». Nessun riferimento a quell'ipotetica convergenza che invece da più tempo si ipotizzava e si riteneva possibile nel quartier generale del Partito democratico, vale a dire una inedita alleanza con Udc e Fli. Smentita seccamente Rosy Bindi, presidente del Pd, che non più tardi di ieri aveva assicurato che «gli elettori democratici capirebbero», dato che «un'alleanza con Fini e Casini sarebbe in nome della Costituzione». Non a caso i vertici milanesi del Pd si dimettono: non è che non sappiano accettare l'esito di quelle elezioni primarie che tanto infiammano i democratici, quanto perchè capiscono che il progetto Pd ormai è ufficialmente fallito. Enrico Letta non lo dice, pur riconoscendo che «il risultato delle primarie a Milano apre interrogativi che non possono essere superficialmente elusi», dato che «disegna scenari sui quali sarà bene riflettere in profondità prima che sia troppo tardi». L'impressione è che però sia già troppo tardi.

Thursday 11 November 2010

Fini certifica la crisi : «Berlusconi si dimetta».

«Noi siamo oltre il Pdl e oltre Berlusconi, il nostro progetto va oltre». Il premier alla ricerca di una nuova maggioranza.

di Emiliano Biaggio

«Il governo non ha una maggioranza», e l'esecutivo «ha prospettive che sembrano restringersi non ad anni ma a periodi e misure di tempo più contenuti». Italo Bocchino e Gianni Letta certificano la crisi politica, con due interventi distinti e distanti ma che offrono la stessa lettura della situazione in corso, situazione non facile tanto che il diretto interessato, Silvio Belrusconi, non può non riconoscere la delicatezza dello scenario attuale. «Nel mio Paese al momento ho delle difficolta», ammette il presidente del consiglio. E se il sottosegretario Gianni Letta tenta di minimizzare spiegando che quella sulla tenuta del governo «è stata una battuta», dal Quirinale si nutrono timori per le «incertezze» e le «incognite» che contraddistinguono la politica nazionale e che gravano sull'Italia. «Chiunque sarà chiamato a governare ancora, o a governare nuovamente, dovrà affrontare le problematiche concrete del Paese», avverte il presidente della Repubblica con parole sibilline. Perchè è difficile capire cosa sarà, mentre è chiaro il presente: l'irreparabile strappo tra Popolo della libertà e Futuro e libertà. «Noi non siamo contro Berlusconi, ma siamo oltre il Pdl e oltre Berlusconi, il nostro progetto va oltre», scandisce Gianfranco Fini, per il quale «il Pdl e Berlusconi sono una pagina chiusa». Il presidente della Camera ha fatto di Fli un partito e guarda ormai a una nuova stagione politica. Dove non c'è posto per l'attuale premier. «Berlusconi deve rassegnare le dimissioni e aprire la crisi di governo», intima Fini. «Se non si dimette noi andremo fuori dall'esecutivo», avverte. Umberto Bossi media, Pierferdinando Casini attende, l'opposizione attacca. Il premier non molla: «Non mi dimetto», replica Berlusconi. Che sfida Fini: «Se vuole mi voti contro in Parlamento». Ma in Parlamento ormai il capo del governo non ha più i numeri, con i deputati del Pdl che continuano a passare a Fli, che vota con l'opposizione e manda sotto tre volte l'esecutivo anche su una materia sensibile per la Lega come l'immigrazione. La crisi è quindi sempre meno un'ipotesi e, al contrario, sempre più una eventualità che potrebbe materializzarsi in Parlamento: alla Camera l'opposizione annuncia una mozione di sfiducia nei confronti del ministro per i beni Culturali Sandro Bondi e il finiano Fabio Granata avverte: «valuteremo la sfiducia oppure l'astensione». A questo punto, chiosa Umberto Bossi, «è molto meglio una crisi pilotata», vale a dire la ricerca di una nuova maggioranza. Ma questo governo «non ha una maggioranza».

Tuesday 9 November 2010

La miopia di governo sulla famiglia

Un ministro e un sottosegretario per le Politiche sociali e per i nuclei familiari che aiutano solo coppie coniugate e con figli, lasciando a sè stesse tutti gli altri. Che sono sempre di più.

l'e-dittoreale

«Senza nulla togliere al rispetto che meritano tutte le relazioni affettive, che però riguardano una dimensione privatistica, le politiche pubbliche che si realizzano con benefici fiscali sono tarate sulla famiglia naturale fondata sul matrimonio e orientata alla procreazione». Il che vuol dire «aiuti solo a coppie sposate». Parole di Maurizio Sacconi, ministro del Welfare o Politiche sociali che dir si voglia, che in tema di aiuti alle famiglie dimostra di avere le idee piuttosto chiare e una miopia altrettanto evidente. D'accordo che da costituzione "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" (articolo 29, comma 1), ma è altrettanto vero che da Costituzione il rispetto delle minoranze è riconosciuto ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale", articolo 3). Il che magari può significare meno diritti e meno aiuti di altri, ma da qui a dire da meno riconoscimenti a niente, ce ne vuole. La carte repubblicana che scandisce la vita giuridica e sociale del nostro paese chiaramente risente delle diverse istanze portate dai costituenti e i padri fondatori della Repubblica, e non c'è dubbio che l'articolo 29 premi i valori cattolici (da un punto di vista confessionale) e democristiani (dal punto di vista politico). Ma non capire che la famiglia tradizionale è in crisi per via di una crisi sistemica dell'Italia è miopia politica e sociale: vuol dire non sapere leggere il paese. Gli ultimi dati Istat, diffusi proprio in occasione della Conferenza della famiglia di ieri, dicono che le famiglie di fatto sono arrivate a 820.000, 300.000 in più negli ultimi sei anni, e la metà ha figli. Ancora, c'è un fenomeno in continua e ulteriore crescita: la coabitazione forzata. Che vuol dire? Semplice: i trentenni vadano a convivere con coetanei - di entrambi i sessi - perchè più economicamente conveniente rispetto a mutui non contraibili. Flessibilità e precariato, crisi economica, contratti a progetto, le ormai famose "generazione mille euro" sono tutti ostacoli del vivere civile, tutti nodi da affrontare se davvero si vogliono aiutare le famiglie. Non a caso il presidente della Repubblica, sempre attento a tutte le dinamiche del paese, invita ad «affrontare con determinazione e lungimiranza» i nodi che ostacolano la formazione della famiglia. E fra questi, sottolinea Napolitano, «la precarietà e instabilità dell'occupazione, la difficoltà di accesso ai servizi». E sempre non a caso - perchè la Chiesa mai parla a caso, ma viceversa sempre con cognizione di causa- il cardinale Dionigi Tettamanzi sottolinea che «è necessario un coinvolgimento generale, una grande alleanza fra tutte le forze, politiche, culturali e associative che possano occuparsi della famiglia, soprattutto le più fragili». Insomma, la famiglia in crisi è un dato di fatto, ma ciò che appare meno evidente all'occhio di chi dovrebbe saper cogliere i malesseri della società è che se il nucleo familiare tradizionale è in netta difficoltà è una conseguenza. Eppure il governo, questo governo, conferma la propria miopia. Perchè il sottosegretario Carlo Giovanardi difende Sacconi, arrivando a sostenere che «le coppie di fatto eterosessuali rinunciano al riconoscimento pubblico di loro volontà, vogliono vivere senza assumersi vincoli di alcun tipo, è chiaro che di fronte allo Stato è una situazione diversificata». E per Giovanardi «è evidente che avranno un trattamento diverso». Dice bene Livia Turco (Pd): «Dovrebbero vergognarsi».

Saturday 6 November 2010

Sul potere, le libertà e i diritti

Considerazioni e riflessioni sulla democrazia e sui regimi. A proposito delle intercettazioni e non solo...




Involontari ma inquietanti riferimenti all'attuale situazione nazionale, denuncia sempre valida dell'antidemocrazia e delle colpevoli complicità di un consenso liberticida. Un discorso su cui si modellano in modo quasi perfetto politiche anti-immigrazioni, iniziative contro libertà fondamentali come quella di stampa, pensiero e opinione. Attenzione alla parole frutto di un film a sua volta frutto di un fumetto. A dimostrazione di come non sempre la realtà superi l'immaginazione.

(video estratto da V per vendetta, di James McTeigue, 2005)

Friday 5 November 2010

Berlusconi: «Fermo fino a 30 giorni per chi pubblica le intercettazioni»

Il premier annuncia una stretta alla libertà di stampa e torna a parlare di bavaglio all'informazione.

di Emiliano Biaggio

«Il governo proporrà un'iniziativa parlamentare sulle intercettazioni, che prevederà tra l'altro il fermo da tre a trenta giorni per i media che le pubblicheranno indebitamente». Silvio Berlusconi torna all'attacco, e torna a promettere il bavaglio all'informazione. Perchè nell'Italia che ha in mente «le intercettazioni saranno ammesse solo per reati legati al terrorismo internazionale, alle organizzazioni criminali, agli omicidi e alla pedofilia». insomma, si restringe l'ambito di ricorso allo strumento - e alla pubblicazione dei contenuti - e si stringe la morsa della censura, a scapito di libertà costituzionalmente riconosciute e democraticamente fondamentali. Perchè di questo si tratta. «Che il capo di un partito che richiama il concetto di libertà nel proprio nome (Berlusconi, ndr) pensi di affrontare il tema della diffusione illecita delle intercettazioni chiudendo i giornali, la dice lunga sul singolare concetto di libertà che gli è proprio», denuncia Andrea Orlando, presidente forum Giustizia del Partito democratico. Berlusconi però va avanti per la propria strada: «Non siamo più un paese civile, e vogliamo intervenire con determinazione» perchè oggi «siamo uno Stato di polizia» e il paese deve tornare «ad essere libero». Il ritornello è lo stesso, e adesso viene ripetuto alla luce del caso Ruby. E alla luce dell'ultimo, ennesimo, scandalo a luci rosse che vede coinvolto il capo del Governo, «l'annuncio di una ripresa dell'offensiva del premier sulle intercettazioni è doppiamente preoccupante», sottolinea Orlando. Come spiega l'esponente del Pd, «preoccupa l'ennesimo tentativo di fare leggi, al di là del loro contenuto, per risolvere i problemi, gravi, che lo riguardano personalmente». Ma a ben ben vedere preoccupa anche il «solo ipotizzare sanzioni come quelle annunciate» da Berlusconi, poichè ciò «fa tornare il nostro Paese a stagioni oscure e tragiche». E ancora, «preoccupa il merito» di questa idea tutta berlusconiana di legge sulle intercettazioni, vale a dire «la decisione di affrontare il tema della tutela della privacy con la censura e con la limitazione delle indagini». Come fa notare sempre il responsabile giustizia del Pd, «è molto significativo il fatto che tra i reati non soggetti a limitazione nell'utilizzo di questo fondamentale strumento di indagine non rientri la corruzione».

Thursday 4 November 2010

«Adesso Obama è in difficoltà»

Vittorio Cogliati Dezza analizza la sconfitta dei democratici: a livello internazionale l'amministrazione Usa è più debole. «Ma la green economy non si fermerà».

di Emiliano Biaggio

«Dopo le elezioni di Midterm, alla luce della nuova composizione del Congresso, certamente a livello di ratifica di accordi internazionali Obama ha molte più difficoltà». Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, guarda con un pizzico di preoccupazione al nuovo corso obamiano ed è tra i primi a sottolineare la posizione di maggiore debolezza e di accresciuta difficoltà in cui si trova il presidente degli Stati Uniti dopo le elezioni di medio termine. E da ambientalista, Cogliati Dezza guarda con realismo alla sempre più prossima conferenza mondiale sul clima di fine mese. «Gli Stati Uniti arrivano a Cancun più deboli», afferma senza alcun dubbio. Perchè non c'è dubbio che dopo aver perso il controllo della Camera dei rappresentanti e avere un'esigua maggioranza al Senato, l'amministrazione Usa adesso dovrà rivedere la propria agenda politica e cedere su molti punti. Lui, in qualità di "numero uno" dell'associazione del cigno, si limita ad occuparsi di tematiche ambientali, che pure sono politiche in quanto nell'agenda di tutti i governi. Proprio per questo aspetto Cogliati Dezza non ha dubbi: «Il piano della green economy è una scelta obbligata, perchè la competizione mondiale prossima ventura si giocherà anche sulla green economy». In realtà questa partita è già in corso, con Brasile e Cina su tutti (il primo è il maggior mercato di etanolo e produttori di biocarburanti, la seconda sta investendo in ferrovie e rinnovabili) che guidano la corsa a questo nuovo modello di produzione e di vita. Il presidente degli Stati Uniti, sottolinea Cogliati Dezza, non a caso «ha detto di voler ridare agli Stati Uniti un ruolo guida» a livello mondiale, e «la green economy è un tassello di questo percorso e di tale ruolo». E poi c'è da scommettere che, sul fronte interno, qualcosa cambierà. Perchè qualcosa si muove all'interno del partito repubblicano, da sempre sensibile alla questione energetica - e la partita energetica si colloca in quella ben più ampia della green economy - e tradizionalmente vicino alle compagnie petrolifere. «Di fronte al disastro del golfo del Messico- evidenzia Cogliati Dezza- anche i repubblicani non possono non modificare il loro approccio nei confronti del petrolio» e delle lobby del petrolio.

Wednesday 3 November 2010

Il Brasile ha scelto il presidente: è Dilma Roussef

La pupilla di Lula vince al ballottaggio. Per la prima volta nella storia una donna alla guida del paese.

di Emiliano Biaggio

Dilma Roussef è il nuovo presidente del Brasile. Nel ballottaggio il candidato del Partito dos Trabalhadores (Pt) ha avuto la meglio su José Serra, candidato del Partido da Social democracia brasileira (Psdb). Rousseff ha ottenuto il 55,6% delle preferenze - circa 52 milioni di voti - mentre lo sfidante della destra si è fermato al 44,4%. Rouseff, 62 anni di Belo Horizonte, è la prima donna nella storia del Brasile a diventare presidente e succede a Luiz Inacio Lula da Silva, presidente amatissimo che la maggior parte dei brasiliani avrebbe voluto restasse in carica. Ma le legge federali non consentono più di due mandati consecutivi, e il presidente uscente non poteva ripresentarsi. Lula si è speso in prima persona per colei che da subito è stata considerata l'erede del leader socialista brasiliano. Ma se per molti quella raccolta da Roussef sarà un'eredità scomoda e non facile, per altri la candidatura dell'ex ministro (per le Miniere e l'energia nel primo governo Lula, per la Casa nel secondo esecutivo Lula) è vista come apripista per una nuova candidatura di Lula tra quattro anni. Su di lei opinioni contrastanti: c'è chi considera la neo-presidente poco esperta, chi invece - considerando che è la "madre del Pac" (il gigantesco programma di accelerazione della crescita brasiliana) - è pronto a scomettere possa essere una novella "signora di ferro" del Sud America. Roussef intanto si insedia nel Planalto (sede presidenziale, a Brasilia): inizia il dopo Lula.

Midterm, dalle urne esce la sconfitta di Obama

Nelle elezioni di Medio termine una sconfitta senza precedenti. Anche grazie al forte astensionismo i repubblicani conquistano la Camera dei Rappresentanti, e adesso Obama dovrà rivedere la sua politica.

di Emiliano Biaggio

Si dissolve il sogno obamiano. Negli Stati Uniti le elezioni di medio termine premiano i repubblicani e assestano un duro colpo ai democratici, che perdono la Camera dei Rappresentanti e patiscono la sconfitta più ampia dal secondo dopoguerra. Alla camera bassa del Congresso, il partito degli elefanti conquista 238 seggi, contro i 182 dei democratici. Restano da assegnare 15 seggi, ma anche se li conquistasse tutti il partito degli asinelli, lo scarto sarabbe comunque di 41 seggi: 238 a 197, 58 in meno della precedente consultazione. I democratici perdono anche l'Illinois, stato trampolino di lancio dell'attuale presidente, a sancire la rinascita repubblicana e la debacle democratica. Democratici che possono comunque tirare un sospiro di sollievo: il controllo della Camera alta è ancora in mano loro. Al Senato, dove si votava per il rinnovo di un terzo dei seggi, i democratici si assestano a quota 51, i repubblicani a 46, mentre 3 seggi ancora non sono stati assegnati. Insomma, maggioranza, anche se risicata. Ma ciò serve a poco, perchè da adesso in poi Barack Obama e i suoi dovranno fare i conti con i repubblicani. E' lo stesso inquilino della Casa Bianca ad averlo detto a staff e partito: «La nostra agenda dipenderà da queste elezioni». E le elezioni di Midterm chiudono ufficialmente la prima fase del governo Obama per inaugurarne una seconda, assai più delicata. John Boehner, prossimo presidente della Camera dei Rappresentanti, avverte: «Gli americani hanno fatto sentire la loro voce. Bisogna cambiare corso». Parole non confortanti per i democratici e lo stesso Obama, che ha riconosciuto la sconfitta e teso una mano ai rivali: il presidente degli Stati Uniti ha chiesto infatti di «lavorare con i repubblicani per trovare un campo d'azione comune, andare avanti nel lavoro e realizzare quello che il popolo americano si aspetta». Ma da Obama gli americani sono delusi: queste elezioni si sono trasformate in un referendum sul presidente, che lui ha perso. Paga il non aver saputo risolvere i problemi dell'economia, il non aver saputo risolvere il problema dell'aumento della disoccupazione, l'aver promesso una nuova stagione in salsa "verde" salvo poi annunciare il finanziamento del nucleare; criticato per una riforma sanitaria che in molti non hanno capito, attaccato per il sostegno statale alle imprese che costa al contribuente e non rilancia i consumi, Obama paga scelte contestate e l'assenza di incisività: giudicato troppo statalista dai repubblicani e ritenuto troppo timido dai democratici, ha promesso di mettere mano al sistema finanziario, ma c'è riuscito. Il cambiamento annunciato, in sostanza, non c'è stato. E non ci sarà. I repubblicani vogliono cancellare la riforma sanitaria, hanno altre idee di politica estera - e quindi di missioni in Iraq e Afghanistan - hanno un'altra concezione dell'economia. Adesso la strada si fa in salita per Obama, e quello slogan che tanto fece la fortuna dell'allora senatore dell'Illinois, oscilla ormai tra ricordi lontani e sogni infranti. Si poteva fare, non è stato fatto. Difficile si farà adesso, anche perchè gli americani hanno voltato le spalle al loro presidente: è stata infatti alto l'astensionismo. L'elettorato, decisivo per le presidenziali, non se l'è sentita di rinnovare fiducia al potere wasghingtoniano: è il sipario che cala sul grande sogno americano degli ultimi anni? Di certo sembra che sogno sia destinato a restare.

(poi editoriale della puntata del 5 novembre di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)