Monday 30 August 2010

Canapa e motore, ecco l'auto "stupefacente"

In Canada i primi prototipi di una vettura elettrica e carrozzeria in fibra di Cannabis.

di Emiliano Biaggio
Popolo hippie, ecco l'auto che va per voi: canapa come materia prima per la carrozzeria e altre parti di una nuova vettura elettrica a emissioni zero. Idea o visione, il progetto - con tanto di prototipi - c'è e si lavora per tramutarlo in realtà. Il modello della macchina - chiamato Kestrel - è frutto di un team di aziende canadesi, guidate da Motive Industries e aiutate dagli studenti dei politecnici di Alberta e Toronto. Forse non lo sapevate o magari non ci avete neanche ragionato (o sragionato) su, ma la canapa si presta ad essere materiale automobilistico in quanto materiale ultraleggero, rinnovabile e tanto resistente quanto i compositi del vetro. E poi è anche a ridotto impatto ambientale, il che in un periodo in cui la Green economy comparare nelle agende di politici e industriali non fa che rispondere - e coniugare - libertà d'impresa a impegno ambientalista. E quest'ultimo, la canapa lo soddisfa appieno: a differenza di altre fibre, infatti, richiede poca acqua, fa a meno dei pesticidi e ha una grande produttività per ettaro. Una bella notizia per l'industria dell'auto, dunque. Una notizia forse meno piacevole per chi la canapa ha sempre amato usarla anzichè guidarla. Ma ormai è fatta, tanto che i primi prototipi di questo veicolo elettrico saranno in circolazione nei prossimi giorni. Dotati di batterie con una capacità tra 4,5 e 17,3 kiloWattora, le Kestrel saranno in grado di garantire un'autonomia variabile tra i 40 e i 160 chilometri a seconda del tipo di batteria raggiungendo una velocità massima di 90 chilometri orari. Insomma, l'auto alla canapa rivoluzione il settore automobilistico e il sistema di mobilità, rispetta l'ambiente e - grazie alle ridotte velocità - risponde a un modo sicuro di muoversi e andare. Perchè con la canapa si viaggia.

Thursday 26 August 2010

Quel voltare pagina per poter guardare avanti. Andando indietro.

Fiat e Governo invitano a meditare e a scegliere tra passato e una scelta. Con un metodo che più che far decidere sembra volere l'approvazione di scelte già compiute.

l'e-dittoreale
L'Italia tra passato e presente. O meglio: tra un passato - trascorso per definizione - e un presente ancora tutto da definire, ma che appare comunque sempre più ben definito. La scelta, o la sfida se preferite, si gioca tutta qui. A sentire Marchionne ed esponenti di governo è tempo di scegliere, anche se poi alla fine questa libertà di scelta non c'è. Perchè se da una parte l'amministratore delegato della Fiat sostiene - senza chiedere opinioni - che «c'è bisogno di uno sforzo collettivo», di «un patto sociale per condividere impegni, sacrifici e consentire al Paese di andare avanti», dall'altra trova un esecutivo a dagli ragione. Lo fa con Giulio Tremonti, ministro dell'Economia, anch'egli convinto che si debba scegliere. Le opzioni sono due: o lavoratori o imprese. Tremonti lo dice chiaramente: «se si vogliono diritti perfetti nella fabbrica ideale, si rischia di avere diritti perfetti ma di perdere la fabbrica, che va da un'altra parte». E Mariastella Gelmini - lei sì che ha scelto! - punta tutto sulla fabbrica, che poi vuol dire imprenditoria, nel rispetto del premier e di Marchionne. Sul caso dei tre operai di Melfi reintegrati dal giudice e non ammessi a lavorare dall'azienda Gelmini difende l'operato del Lingotto. «Le sentenze vanno sempre rispettate ma vanno rispettate anche le aziende». E Maurizio Sacconi, sensibile al tema in quanto ministro del Lavoro, domanda e si domanda: «E' possibile che una minoranza di lavoratori impedisca alla maggioranza di lavorare, bloccando la produzione?». Fermo restando che il giudice del lavoro ha stabilito che l'interruzione di produzione non c'è stata (per carità, ci sono ancora due gradi di giudizio), la scelta appare già compiuta. Forse obbligata, quasi imposta. Dal contesto internazionale, dalla crisi. E da un gruppo industriale - leggi Fiat - che ripensa il modo di fare impresa e trova un governo che sostiene questo modo di operare. Di fronte due diversi modi di intendere lavoro, diritto del lavoro, libertà d'impresa. E' lo stesso Marchionne a dirlo. «C'è una contrapposizione fra due modelli: uno difende il passato e l'altro che vuole andare avanti. Se non lasciamo alle spalle vecchi schemi non ci sarà spazio per vedere nuovi orizzonti». I vecchi schemi, neanche a dirlo, prevedono garanzie e tutela per i lavoratori, libertà di sciopero e potere sindacale e contrattuale; i nuovi schemi, di contro, sono quelli di una linea imposta e insindacabile. Che pone il datore di lavoro di scegliere e decidere a proprio piacimento. Per Marchionne «non siamo più negli anni Sessanta», «non c'è una lotta fra capitale e lavoro, fra padroni e operai». Su una cosa l'ad della Fiat sbaglia: il conflitto tra dirigenza e manovalanza c'è. Magari residuale, ma c'è. Su una cosa Marchionne ha invece ragione: non siamo più negli anni Sessanta. Siamo tornati ancor più indietro.

Wednesday 25 August 2010

Sul senso della vita




Il senso della vita secondo Nicola Lorusso. Prestare particolare attenzione agli ultimi dieci secondi, ultima considerazione del personaggio interpretato da Diego Abatantuono (da Mediterraneo, di Gabriele Salvadores, 1991)

Pieterburen, da 40 anni al fianco delle foche

Nel nord dei Paesi Bassi si cura e si studia il mammifero dal 1971. Mentre nel resto d'Europa si parla di bando alla caccia e al commercio solo in questi giorni.

di Emiliano Biaggio

Doveva entrare in vigore il 20 agosto il regolamento Ue che vieta in tutto il territorio dell'Unione europea il commercio dei prodotti derivati dall'uccisione delle foche. Ma i ricorsi presentati da quanti lucrano sul mammifero hanno indotto la Corte di giustizia europea a sospendere il provvedimento, per via dei contenziosi. E' vero che, come ricordano gli animalisti, da una parte paesi come Norvegia, Islanda, Russia, Danimarca (Groenlandia) e Canada continuano con la caccia e il commercio del mammifero; ma dall'altra va detto che il provvedimento Ue "stringe le maglie" bandendo di fatto in tutto il territorio dell'Ue la caccia delle foche e la commercializzazione dei prodotti che ne derivano. Ma se il regolamento per alcuni può essere considerato storico, non è certamente nulla di rivoluzionario per i Paesi Bassi. Almeno per il centro di ricerca e di riabilitazione per foche Zeehondencreche Lenie't Hart di Pieterburen, nella provincia settentrionale di Groningen. Qui, dagli anni Settanta, le foche vengono curate e studiate.
Come spiegano dal centro, «ogni anno vengono portate qui circa 200 foche tra cuccioli ed esemplari adulti malati o feriti». E «per essere in grado di poter garantire alle foche nel modo migliore e più sicuro possibile, ricerca scientifica e personale specializzato sono di vitale importanza». Ed è «per questo motivo che la ricerca è parte integrante dell'attività del Centro dagli anni Ottanta». Ma la ricerca è una parte dell'attività del centro: il centro è nato infatti nel lontano 1971 (quasi 40 anni fa), come "semplice" struttura di cura per le tante foche ferite o impigliate nelle reti che finivano sulle spiagge del posto. Furono i coniugi Wentzel ad avere l'idea di soccorrere e curare gli animali, quando un loro vicino trovò un esemplare ferito su un polder (un tratto di mare asciugato artificialmente attraverso dighe e sistemi di drenaggio dell'acqua, molto diffusi nei Paesi Bassi). Da ospedale col tempo il Zeehondencreche Lenie't Hart è diventato un vero e proprio centro specializzato, con sale operatorie, zone di riabilitazione, laboratori, piscine. E a tutto questo si aggiunge il museo delle foche: un percorso formativo per quanti vogliono conoscere il mammifero, il suo habitat e tutte le caratteristice - oltre al lavoro della struttura - è stato allestito all'interno del centro di ricerca e di riabilitazione per foche di Pieterburen. Qui si possono anche vedere - dall'esterno, attraverso vetrate - i laboratori dove si curano le foche, le sale parto e il "reparto maternità", o anche le vasche dove gli animali nuotano. Ma quello che non si può fare è entrare in contatto con gli "ospiti", perchè «tutte le foche dopo la riabilitazione sono rimesse in cattività». Tradotto: la salvaguardia della specia passa anche e soprattutto attraverso la non interferenza dell'uomo sulla vita dell'animale. Insomma, ormai il centro di ricerca e di riabilitazione per foche Zeehondencreche Lenie't Hart di Pieterburen è un punto di riferimento per tutti: ovviamente olandesi, ma anche animalisti, ricercatori, turisti, studenti (in sette nei Paesi Bassi hanno discusso tesi di laurea o fatto dottorati di ricerca sul centro di Peterburen). Un riferimento, e un esempio.

Monday 23 August 2010

«Il bike-sharing fa parte di un piano comunista»

Il j'accuse del candidato governatore del Colorado.

di Alberto Fiorillo

Dan Maes, candidato repubblicano alla carica di governatore del Colorado (si vota a novembre, nelle elezioni del Midterm), ha dichiarato che il bike-sharing è un grave attentato ai diritti civili americani, perchè mette in discussione il principio della proprietà privata e limita la libertà di usare le automobili.
A Denver, capitale del Colorado, dalla scorsa primavera è in funzione il più grande servizio statunitense di biciclette condivise con 40 parcheggi di scambio in tutta la città. Il bike-sharing sta riscuotendo un notevole successo tra gli abitanti, ma a detta di Maes «fa parte di un oscuro piano delle Nazioni Unite per dominare l'America e trasformare gli americani in comunisti che si spostano su biciclette o su mezzi di locomozione di massa».

Saturday 21 August 2010

Due zone, un muro, una città: nel cuore del mar Mediterraneo l'altra Berlino

Dal 1974 esistono due Nicosia, capitale "doppia" di un paese - Cipro - diviso e conteso. A metà strada tra Europa, Africa e Medio Oriente.

di Emiliano Biaggio
Una città divisa in due, con due amministrazioni diverse: una di qua del filo spinato, del muro e dei soldati; l'altra al di là. Benvenuti nella Berlino del Mediterraneo, metropoli smembrata di un paese conteso. Non si parla in tedesco, ma in greco o in turco, a seconda di dove ci si trovi. Il posto è lo stesso, la città anche. Stesso nome, diversi "padroni": questa è Nicosia, capitale unica di due stati diversi sulla medesima isola. A sinistra- guardando la mappa- la repubblica di Cipro, indipendente e sovrana, dal 2004 nell'Unione europea; a destra- sempre guardando la mappa- la Repubblica turca di Cipro Nord (TRNC), autoproclamatisi dopo l'intervento militare turco del 1974. Al centro Nicosia, "capital city" di entrambi gli Stati. Se Berlino aveva una zona est e una zona ovest, Nicosia è suddivisa in una zona sud - amministrata dalla Repubblica di Cipro (greco-cipriota) - e da una zona nord sotto la Repubblica turca di Cipro nord. Il confine è una linea di demarcazione chiamata "Green Line", fili spinati, guarnigioni militari e alcuni tratti di vero e proprio muro. E tra le due zone cittadine c'è quel "limbo" rappresentato dall'area pattugliata dalla missione UNFICYP delle Nazioni Unite (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus) per evitare che si alzi la tensione tra due fazioni che da sempre si sfidano e si fronteggiano. Una vera e propria terra di nessuno sotto egida Onu. un paradosso, per una paese che vorrebbero tutti. Almeno quelli che se lo contendono.
Posta nel cuore del Mediterraneo, Cipro è punto di raccordo tra Europa, Africa e Medio Oriente. Un'isola che prima di ogni altra cosa offre una posizione strategica. Non a caso da sempre Cipro è stata fonte di interesse e terra di conquista: nel 1191 la fece sua Riccardo I d'Inghilterra, che la donò ai templari; questi la diedero al crociato francese Guido di Lusignano, che fonda il regno di Cipro. Conquistata da Venezia nel 1489, nel 1573 Cipro finì in mano agli ottomani, che ne fecere una provincia dell'impero. Ceduta in affitto per 99 anni nel 1878 ai britannici, Cipro viene annessa al Regno Unito alla fine della prima guerra mondiale. Indipendente nel 1960, l'isola arriva sull'orlo della guerra civile a seguito dei contrasti interni tra le due principali comunità: greca - maggioritaria - e turca - minoritaria. Il problema di fondo era uno, ed era politico: Makarios III, arcivescovo della chiesa ortodossa autocefala di Cipro e primo presidente dell'indipendente Repubblica di Cipro (1960-1977) era convinto fautore dell'enosis, l'annessione dell'isola alla Grecia. Nella minoranza turco-cipriota si fece allora strada l'idea della partizione fisica tra le due comunità (taksim), un piano che trova estimatori anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Ma nel nel 1973 Dimitrios Ioannides assunse la guida della guida militare: con lui si compì l'enosis si compie. Il 15 luglio 1974 Un colpo di stato rovesciò Makarios e i militari presero il controllo. Cinque giorni dopo la Turchia, dopo consultazioni con l'Inghilterra, intervenne militarmente in soccorso della comunità Turco-Cipriota. E oggi la situazione è cristallizzata a quella che si venne a determinare 35 anni fa.
Qualcosa, però, è cambiato: non potendo averla per sè, la Grecia ha dato l'ok ad un Cipro indipendente, che adesso è membro Ue. Ma la Repubblica di Cipro sfoggia in bella mostra la propria idea nazionale: una sola isola, un solo governo. SUllo sfondo bianco della bandiera repubblicana campeggia infatti la figura dell'intera isola, compresa la parte nord della TRNC. Ma una Cipro unita per il momento è solo un messaggio lanciato alla turchia, la sola a riconoscere la TRNC. Nel 2004 i ciproti si sono dovuti esprimere, attraverso referendum separato, sulla riunificazione dell'isola: il 75% dei votanti ha detto "no". La motivazione da parte del lato greco-cipriota è stata quella di un possibile trasferimento di ricchezza e di risorse dal lato greco a quello turco (storicamente più povero) anche da parte dell'Unione europea. Insomma: nessuna concessione ai turchi. Per la Turchia, invece, la TRNC è oggi un problema: per quanto "de facto" la situazione sia quella di due Cipro, la questione ciprota è un ostacolo per l'ingresso in Ue. Per quanto sia uno stato indipendente e non parte della Turchia, la TRNC ha nel governo di Ankare l'unico alleato sullo scacchiere internazionale: perderlo significherebbe isolamento. Ankara, invece, non vuole rinunciare a quello strategico avamposto nel cuore del Mediterraneo. E infatti non lo molla, neanche per un posto in Unione europea. Cipro resta ferma quindi alla situazione venutasi a determinare nel 1974, e Nicosia è ancora oggi l'ultima città europea divisa per le conseguenze di una guerra. La Berlino del Mediterraneo.

Thursday 19 August 2010

L’incubo dei capi ufficio in «connessione perenne»

Dalla spiaggia con telefonino e computer sempre accesi controllano l’attività dei dipendenti.

di Beppe Severgnini (dal Corriere della Sera del 19 agosto 2010)

Una delle molte, pietose bugie sugli italiani è questa: siamo pigri. Lo pensano gli stranieri che arrivano ogni estate in quella Grande Toscana mentale che insistono a chiamare Italia, e invece è solo un palcoscenico dove noi recitiamo per gli ospiti, a pagamento, la commedia del relax (si chiama turismo). Tra Siena e Cortona ci sono i professionisti, ma siamo tutti piuttosto bravi. La verità è che chi lavora, in Italia, lavora molto. Talvolta male, spesso nervoso, sempre di fretta: ma lavora. Agosto era la pausa concordata: non più. Vacanze scaglionate? No: capi scatenati. BlackBerry, iPhone, Nokia, Samsung: i telefoni intelligenti (smartphones) forse non sono così furbi, pensano dipendenti, collaboratori, sottoposti, segretarie e assistenti, bombardati di messaggi, mail e allegati. «Ma non è in barca in Corsica, oggi? Non può guardare i cefali invece di mandarmi un altro foglio Excel?».
È triste, la giovane Giulia, nel suo ufficio in zona Cordusio. Ma il fenomeno non è solo milanese, lombardo o italiano. Il Financial Times segnala che l'iperattivismo estivo è diventato il nuovo marchio della City (con tutti i pasticci che hanno combinato, ci si chiede, non potrebbero starsene tranquilli?). Una coppia di amici di Seattle, con cui abbiamo trascorso un fine settimana sulla riviera di Levante, mi ha convinto che anche negli Usa il fenomeno è imponente. Lei e mia moglie, sagge, controllavano la presenza di meduse in mare; lui ed io, frenetici, quella di email su iPhone, BlackBerry, AirBook, Ipad (e tanta grazia che il Kindle non riceve la posta). Ma il capo americano è magnanimo, si sente eroico e ha istinti masochisti: arriva per primo, lascia per ultimo, lavora la domenica in agosto all' estero; e non pretende di essere imitato. In Italia ci mettiamo una punta di sadismo. Il capo vuole che il suo eroismo - guai a chi la chiama nevrosi - sia riconosciuto: e coinvolge quante persone possibili. Così i telefoni blippano, i computer lampeggiano e i nervi saltano. Talvolta il capo è insonne, oppure non sente la fatica; altre volte si diverte a ignorare il fuso orario. Un capo insonne e infaticabile a New York può provocare scompensi in chiunque debba lavorare con lui. Uno dei casi più interessanti è il Capo Imbranato Tecnicamente Acefalo Lievemente Ossessivo (CITALO). L'estate 2010 segna il suo battesimo tecnologico. Ma per arrivare all'agognata - da lui - connessione perenne (always on) deve prima sincronizzare il programma di posta. Non ne è capace, e lo chiede per telefono a voi («Come si fa? Dove si schiaccia? Quando si apre?»). E voi dovete aiutarlo ad affilare le armi con cui vi torturerà: terribile. In casi del genere non ci sono difese, se non augurarsi una tempesta nel tratto di mare dove naviga. Ma il capo sadico non lo ferma neppure il mar di mare. Abbarbicato a prua, scruta l'orizzonte cercando di avvistare la costa. «Terra!», grida sopra il rumore delle onde. Perché se c'è terra c'è campo. Così dicono i vecchi contadini e i nuovi capi. I primi sono più saggi dei secondi.

Tuesday 17 August 2010

E' morto Cossiga

E' morto a 82 anni Francesco Cossiga, presidente della Repubblica dal 1985 al 1992. Per tutti «un pezzo di storia del paese» che se ne va. Per tutti «un grande servitore dello Stato», «un grande uomo politico», «un grande maestro». Nessuno ricorda come Cossiga sovrintese la Gladio, organizzazione segreta dell'Alleanza Atlantica (Nato) che - in piena logica di Guerra Fredda - in caso di allarme o "pericolo rosso" per lo Stato, cellule avrebbero dovuto neutralizzare gli esponenti di punta della sinistra, del sindacato e dei partiti, che poi sarebbero stati rinchiusi o confinati. Nessuno ricorda che Cossiga si prestò e soprattutto "prestò" il paese ad un assetto di democrazia a sovranità limitata e sotto tutela straniera. Così come nessuno ricorda che quando era alla guida del ministero dell'Interno represse le contestazioni studentesche della sinistra. E poi i suoi contatti con l'estrema destra, Licio Gelli e la P2. Cossiga «grande servitore dello Stato» come dicono? «Un grande maestro»? Di certo «un pezzo di storia del paese». Un pezzo bello e brutto della nostra Repubblica, a seconda dei punti di vista. Non si gioisce mai della morte di un uomo, ma certo si può essere liberi di non piangere. Nè rimpiangere.

Monday 16 August 2010

Tassa sui cortei. Ovvero, come manifestare non è più un diritto.

Alemanno lancia l'idea di una "contestazione in concessione". Un precedente pericoloso, tra le critiche dell'opposizione e l'apertura della Uil.

di Emiliano Biaggio

Una tassa per le manifestazioni. O meglio, «una sorta di tassa sui cortei». Forse qualcosa simile alla tassa per l'occupazione del suolo pubblico: in questo modo manifestare cessa di essere un diritto per diventare una concessione, fonte di introiti per le casse comunali. Una mossa geniale, con cui assestare un duro colpo a diritti e alle libertà civili. Comunque la si veda, per chi la propone - nella fattispecie il sindaco di Roma, l'ex Msi ed ex An Gianni Alemanno - la proposta offre una doppia possibilità di successo: se si manifesta, si guadagna; se non si manifesta per non pagare la tassa, si toglie dalle strade la voce critica. E Federico Guidi, presidente della commissione Bilancio del comune di Roma, scopre le carte in tavola: «Con l'introduzione del contributo sui cortei diminuiranno in modo significativo manifestazioni e presidi nella Capitale». La questione può sembrare romana e quindi locale, ma non è così. I principi sono generali, validi sempre e applicabili in ogni caso. Negare il diritto di sfilare per le strade a Roma apre le strade per l'abolizione del libero diritto di manifestazioni ovunque. E non è un caso se Flavia Leuci, consigliere provinciale del Pd, sostiene che «Alemanno medita quella che pare una tassa sul dissenso». Gli uomini di Alemanno fanno quadrato attorno al proprio leader. Per Giorgio Ciardi, delegato del sindaco alle politiche della Sicurezza, introdurre una tassa «è non solo giusto ma anche a buon diritto» necessario in nome di decoro e sicurezza cittadini. Federico Mollicone, membro della commissione Sicurezza del Comune di Roma, approva l'idea di «far pagare agli organizzatori delle manifestazioni nazionali che si svolgono in città i servizi correlati di vigilanza, manutenzione e decoro. Ma più che di tassa, si dovrebbe parlare di tariffa». «Altro che "contributo sui servizi"», critica Enrico Panini, segretario confederale e responsabile delle Politiche organizzative della Cgil. Si tratta di «una vera e propria tassa sulla democrazia», posta su «un diritto - quello di poter manifestare le proprie convinzioni - che è tutelato dalla Costituzione». E se di «strada assolutamente sbagliata» parla la Cisl col Mario Bertone, alla Uil si dicono «disponibili a discuterne al tavolo istituzionale». Insomma, la storia si ripete: si svendono i diritti con il beneplacito di una parte del mondo sindacale.

Friday 13 August 2010

FACT SHEET/ planisfero geopolitico del Pacifico



Il Risiko del Pacifico: Israele e la Lega araba si contendono le isole

«Offensiva della seduzione» in chiave Onu. Strategie nella regione in cui lo stato ebraico ha alleati.

di Francesco Battistini (dal Corriere della Sera del 13 agosto 2010)

«Ma che c'importa della Micronesia?». Il traffico impazzisce a Gerusalemme, quando c`è una visita di Stato. La King David Street viene chiusa a ogni auto e la pagina 14 del jerusalem Post si apre a ogni protesta. Come la mail di Sholom Gold, che a gennaio rimase imbottigliato guardando la parata di limousine nere: «Quando ho scoperto che stavo perdendo tempo per il presidente della Micronesia, sono rimasto senza parole. Mica è la Clinton. Che c'importa d`un Paese che ha meno abitanti di Rishon LeZion?». A 15 mila chilometri dal Medio oriente, si combatte una silenziosa guerra diplomatica. Una corsa a regalare amicizie, denari, sostegni. Un'«offensiva di seduzione», la definisce il giornale The Australian, che fa sempre d'Israele il partner prediletto dai microstati del Pacifico, ma che ora la Lega araba ha deciso di contrastare. Stanco di trovare quei lontani arcipelaghi dalla parte del «nemico sionista», tutti 14 regolarmente pronti a votare contro i palestinesi in ogni sede internazionale, il segretario Amr Moussa ha mandato fin laggiù una delegazione ufficiale. Ad aprire una rappresentanza. A inventarsi un annuale Arab-Pacific Cooperation Forum ad Abu Dhabi, 30 premier e ministri invitati. A portare (con gli Emirati arabi) decine di milioni per scuole, ospedali, energia. A strappare finalmente una dichiarazione congiunta, la prima nella storia di governi come Palau e Nauru, in cui si chiede il rispetto delle «risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu e dei princìpi della Road Map», riconoscendo che «le posizioni degli Stati arabi sono cruciali per una pace giusta» in Palestina. Si giocasse a Risiko, sarebbe una mossa che vale il jolly. «II nostro è un investimento consistente e vogliamo restarci a lungo», ha detto il ministro degli Esteri emiratino, Abdullah bin Zayed al Nahyan, alla fine d`un tour fra Samoa, Figi, Tuvalu, le Isole Salomone e le Marshall. Dove non è mancato un accenno alle risoluzioni Onu sulla Palestina che i minuscoli oceanici non hanno mai votato: quella del '98, sul diritto dei palestinesi a sedere all`Assemblea generale (124 sì, 4 no: Usa, Israele, Micronesia, Marshall); quella del 2004 di condanna del Muro (150 sì, 6 no: Usa, Israele, Australia, Micronesia, Marshall, Palau); quella del 2009 sull'autodeterminazione palestinese (171 sì, 6 no: Usa, Israele, Micronesia, Marshall, Nauru, Palau). «Conosco le dimensioni del vostro Paese, ma anche le dimensioni della vostra amicizia», ha brindato il presidente israeliano Peres, ricevendo il collega di Nauru. «I nostri amici più fidati - ripete spes- so il premier Netanyahu - sono quelli che stanno più lontani». Tanta fedeltà è premiata: dal 2000, alle microisole arrivano consulenze agricole e per l`energia solare; ogni anno partono team di oculisti israeliani per operare a Nukualofa, capitale di Tonga; nelle accademie militari israeliane, alloggiano i cadetti micronesiani. L'estate scorsa, dall`ospedale di Tel Hashomer è partito un progetto per combattere l`obesità dei tongani, una vera malattia sociale. E l'urlo «Israel!» risuona nell`isola, ogni volta che ritorna in patria l`idolo locale del rugby, Israel Folau. L`asta va al rialzo: «Se è una questione di soldi, possiamo darvene molti di più», ha detto ai samoani Hesham Youssef, consigliere di Amr Moussa, promettendo nuovi investimenti. «Rimanete i nostri piccoli grandi amici», è stato l`invito di Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri israeliano che ha una visita segnata sull`agenda 2011. La pace non passerà per il Pacifico: ma perché rinunciarvi?

Thursday 12 August 2010

Angola, Total "affila" le trivelle

La compagnia francese sfrutterà 4 giacimenti petroliferi in mare.

di Emiliano Biaggio

Total avvia l'estrazione di petrolio dai fondali del mar dell'Angola. La multinazionale francese ha annunciato l'avvio dello sfruttamento dei giacimenti off-shore al largo delle coste del paese africano. Si tratta di quattro giacimenti (Cravo, Lirio, Orquidea e Violeta - Clov) del Blocco 17, posti a una profondità che varia dai 1.100 ai 1.400 metri. Nel caso di maggior profondità, quindi, solo appena poco prima rispetto ai pozzi su cui operava la Bp sulla piattaforma Deepwater Horizon prima dello scoppio delle tubature che poi hanno riversato nel golfo del Messico milioni e milioni di litri di greggio. Le riserve previste sono stimate in circa 500 milioni di barili di petrolio: una grande risorsa economica, insomma. Per farla sua Total davanti alle coste dell'Angola realizzerà altri 34 pozzi collegati ad una unità Floating production, storage and offloading (Fpso), un impianto galleggiante che può trattare 160.000 barili di greggio al giorno e ne potrà stoccare circa 1,8 milioni. «Le operazioni di perforazione inizieranno nel 2012 e l'inizio della oproduzione è previsto nel 2014», annuncia la compagnia, spiegando che i pozzi si trovano nel blocco 17 (bloc 17), dove Total partecipa al 40%. Gli altri operatori che partecipano all'affare dell'offshore profondo angolano sono Statoil (23,33%), Esso Exploration Angola (Block 17) Limited (20%) e Bp Exploration (Angola) Ltd. (16,67%). Yves-Louis Darricarrère, direttore generale Exploration & Production della Total, ricorda che la compagnia francese «è anche operatore del Block 32 situato in off-shore molto profondo, nel quale detiene una partecipazione del 30%. Dodici scoperte sono state realizzate, confermando il potenziale petrolifero del blocco». Un potenziale che ha indotto Total ad annunciare il mantenimento dei suoi investimenti in Angola di 18 miliardi di dollari per il 2010. Insomma, la compagnia resta e non ha alcuna intenzione di andarsene. Del resto La Total è una vecchia conoscenza in Angola: sbarcata nel paese africano nel 1953, quando era ancora una colonia portoghese, è rimasta sul territorio durante la guerra di liberazione, la guerra civile e negli anni del regime marxista dell'Mpla. Nel 2009, la produzione petrolifera angolana della Total ha raggiunto i 491.000 barili al giorno, tutta estratta dai Blocchi 17 e 14.

Wednesday 11 August 2010

«Aumentano le vittime civili in Afghanistan»

L'Onu: «Da inizio anno già cresciute del 31% rispetto al 2009» . La causa? Il crescente rafforzamento dei talebani.

di Emanuele Bonini

I civili uccisi o feriti in Afghanistan crescono sempre di più: del 31%, per essere esatti. E solo in un anno. Le Nazioni Unite, nel loro rapporto sulle vittime della guerra nel paese, rilevano e denunciano un'escalation che infastidisce molti. La stessa Onu in primo luogo, il governo afghano - che in più di un'occasione ha chiesto alle truppe alleate di fermare stragi di civili - e gli Stati Uniti di Barack Obama e del generale David Petraeus, che vorrebbero un Afghanistan stabile e guerriglia talebana decapitata. Eppure, solo nei primi sei mesi del 2010 sono oltre 1.200 le persone colpite a morte tra la popolazione locale, e 1.997 quelle ferite. Ma è tra i minori che si contano le perdite record: 176 uccisi e 389 feriti, il 55% in più rispetto all'anno precedente e ben oltre la media generale (+31%). Per le forze di coalizioni due notizie, una buona e una cattiva: quella buona è che diminuisce il numero delle vittime del "fuoco amico" (il 12%, contro il 30% del 2009); quella cattiva è che a colpire la popolazione afghana sono i talebani. Infatti, rileva l'Onu, nel 76% dei casi a uccidere e ferire sono i miliziani islamici, quando lo scorso anno era il 53% dei casi. Se a questo si aggiunge che la maggior parte delle uccisioni sono state provocate dalle cosiddette Ied (Improvised explosive device), gli ordigni rudimentali che i miliziani disseminano lungo le strade, appare evidente che i talebani sono sempre più forti e il controllo del paese sfugge sempre di più ai soldati Isaf. Insomma, dopo 9 anni di attività sul territorio la situazione sembra essere ancora molto problematica: militarmente ancora non si è vinto, politicamente il paese è instabile, e da un punto di vista la gente non si sente sicura, ed è anzi sempre più esposta alle ritorsioni di un islam sempre più radicale e violento. Il governo, ancora senza una guida dopo le elezioni contestate dello scorso marzo, non è in carica e anche quando aveva un guida faticava ad imporre le proprie legge e la propria autorità su tutto il territorio statale; di contro, i talebani rinforzano la propria presenza e impongono la propria legge. Basti pensare - denunciano le Nazioni Unite - che rispetto al 2009 è cresciuto del 95% il numero delle esecuzioni di civili da parte dei talebani. (fonte foto: PeaceReporter)

Tuesday 10 August 2010

Le risorse naturali del 2010 sono già finite

Tra dieci giorni avremo esaurito tutto ciò che il mondo può offrire. Per Global Footprint Network non è una novità, perchè «siamo lontani dal poter vivere con i mezzi di un solo pianeta»

di Emiliano Biaggio

«Il 21 agosto l'umanità avrà consumato tutte le risorse che la natura può fornire in un anno». Ciò vuol dire che da quel giorno in poi, consumeremo risorse oltre la capacità della Terra di reintegrarle. E non si tratta solo di derrate alimentari o acqua potabile, ma anche della «capacità di trattenimento e filtraggio dell'anidride carbonica (la CO2)» che ha il nostro pianeta. Cosa significa tutto questo? Che «fino alla fine dell'anno consumeremo stock di risorse aggiuntive accumulando gas a effetto serra in atmosfera». Lo denuncia Global Footprint Network, l'organizzazione internazionale che promuove la sostenibilità attraverso "l'Impronta ecologica", uno strumento di contabilità ambientale che misura quante risorse naturali abbiamo e quante ne usiamo.
Insomma, consumiamo troppo, più di quanto la Terra sia in grado di fornirci, e il fragile equilibrio fra consumo di risorse e la loro ricostituzione, e tra emissione di gas serra e la capacità di assorbirli, si romperà sabato 21 agosto. «Quando si esauriscono in nove mesi le risorse di un anno si dovrebbe essere seriamente preoccupati», commenta Mathis Wackernagel, presidente di Global Footprint Network. «La situazione- avverte- non è meno urgente sul fronte ecologico: cambiamenti climatici, perdita di biodiversità e carenza di cibo e acqua sono tutti chiari segnali di come non potremo più continuare a consumare "a credito"». Da sempre, ricorda Global Footprint Network, l'umanità ha vissuto consumando risorse e producendo biossido di carbonio (CO2) a livelli più bassi della capacità di rigenerazione del pianeta in un anno. Ma «circa tre decenni fa abbiamo oltrepassato una soglia critica, e il tasso ecologico richiesto dalle attività umane ha iniziato a superare il tasso al quale la natura può provvedere». In un simile contesto il cambiamento climatico «è forse il più rilevante segnale di questa nostro sperpero ecologico: la nostra impronta di carbonio è più che raddoppiata dal 1970» e «rappresenta la parte più grande dell'impronta ecologica» complessiva. Tradotto, «stiamo emettendo molto più biossido di carbonio di quanto il pianeta ne possa assorbire». Ciò, denuncia l'organizzazione, «contribuisce ai cambiamenti climatici». Una tendenza che rischia di aggravarsi e di diventare sempre più insostenibile: ogni anno Global Footprint Network calcola l'impronta ecologica dell'umanità, l'insieme delle aree produttiva marine e terrestri richieste per produrre le risorse che consumiamo e assorbire i nostri scarti messo a confronto con la capacità degli ecosistemi di rigenerarsi. Ebbene, «l'anno scorso l'esaurimento delle risorse del 2009 è stato raggiunto il 25 settembre», mentre quest'anno si raggiungerà il 21 agosto. Il mondo, insomma, è sempre più "affamato". E la situazione non è delle migliori: «siamo consapevoli del fatto che siamo lontani dal poter vivere con i mezzi di un solo pianeta», riconosce Wackernagel.

Monday 9 August 2010

La Corea del Nord apre il fuoco nel mar Giallo

Colpi di artiglieria nella zona della linea di confine settentrionale. La marina sudcoreana innalza lo stato di allerta.

di Emiliano Biaggio

La Corea del Nord ha sparato 110 colpi di artiglieria pesante nelle acque del mar Giallo. La notizia arriva dal Seul: l'agenzia sudcoreana Yonhap, che cita fonti dell'esercito sudcoreano. Stando a quanto riferito dalle forze armate sudcoreane, la Corea del nord ha sparato in una zona di confine contesa tra le due coree. Più precisamente colpi sarebbero caduti vicino all’isola sudcoreana di Baekryeongdo, mentre altri colpi sarebbero stati sparati nei pressi dell’isola di YeonPyeongdo. Entrambe le aree si trovano nei pressi del controverso confine marittimo del Northern Limit Line (Nll, la linea di confine settentrionale), il confine che venne tracciato unilateralmente da Stati Uniti e forze Onu nel 1953, al termine della guerra di Corea. Come per le due coree, anche la demarcazione marittima è oggetto di reciproche dispute e reciproci non riconoscimenti. Il confine tra i due paesi è da sempre monitorato da navi militari dei due stati, in un perenne fronteggiarsi tra flotte navali. Lo sparo di oltre 100 colpi d'artiglieria nel mar giallo è l'ultimo episodio che ha contribuito ad alzare la tensione nell'area: dopo gli annunci sul nucleare e l'affondamento della corvetta Cheonan che lo scorso marzo costò la vita 46 soldati sudcoreani, adesso il fuoco in zona militarizzata, contesa e di frontiera. «La marina ha innalzato il proprio livello d'allerta», fanno sapere da Seul. Insomma, sono pronti a rispondere al fuoco se dovesse essere necessario. (fonte foto: la Stampa.it)

«E' disastro etico, prevale morale "fai da te"»

Il settimanale cattolico bacchetta i fedeli e critica i politici. Perchè la questione morale c'è e riguarda tutti. Da decenni.

l'e-dittoreale (di Famiglia cristiana)

La questione morale agita il dibattito politico dal lontano 1981, da quando cioè – undici anni prima di Mani pulite – l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, ne parlò per primo. La Seconda Repubblica nacque giurando di non intascar tangenti, di rispettare il bene pubblico, di debellare malaffare e criminalità. Bastano tre cifre, invece, per dirci a che punto siamo arrivati. Nel nostro Paese, in un anno, l’evasione fiscale sottrae all’erario 156 miliardi di euro, le mafie fatturano da 120 a 140 miliardi e la corruzione brucia altri 50 miliardi, se non di più.
Il disastro etico è sotto gli occhi di tutti. Quel che stupisce è la rassegnazione generale. La mancata indignazione della gente comune. Un sintomo da non trascurare. Vuol dire che il male non riguarda solo il ceto politico. Ha tracimato, colpendo l’intera società. Prevale la “morale fai da te”: è bene solo quello che conviene a me, al mio gruppo, ai miei affiliati. Il “bene comune” è uscito di scena, espressione ormai desueta. La stessa verità oggettiva è piegata a criteri di utilità, interessi e convenienza.
Se è vero, come ha detto il presidente del Senato Renato Schifani, che «la legalità è un imperativo categorico per tutti, e in primo luogo per i politici, e nessuno ha l’esclusiva», è altrettanto indubbio che c’è, anche ad alti livelli, un’allergia alla legalità e al rispetto delle norme democratiche che regolano la convivenza civile. Lo sbandierato garantismo, soprattutto a favore dei potenti, è troppo spesso pretesa di impunità totale. Nonostante la gravità delle imputazioni. L’appello alla legittimazione del voto popolare non è lasciapassare all’illegalità. Ci si accanisce, invece, contro chi invoca più rispetto delle regole e degli interessi generali. Una concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici in “servitori”. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa che il Paese vada allo sfascio. Non si ammettono repliche al pensiero unico. E guai a chi osa sfidare il “dominus” assoluto.
Che ne sarà del Paese, dopo la rottura avvenuta tra Berlusconi e Fini? La scossa sarà salutare solo se si tornerà a fare “vera” politica. Quella, cioè, che ha a cuore i concreti problemi delle famiglie: dalla disoccupazione giovanile alla crescente povertà. Bisogna avere l’umiltà e la pazienza di ricominciare. Magari con uomini nuovi, di indiscusso prestigio personale e morale. Soprattutto se si aspira alle più alte cariche dello Stato. Giustamente, i vescovi parlano di «emergenza educativa». Preoccupati, tra l’altro, dalla difficoltà di trasmettere alle nuove generazioni valori, comportamenti e stili di vita eticamente fondati.
Contro l’impotenza morale del Paese, il presidente Napolitano ha invocato i «validi anticorpi» di cui ancora dispone la nostra democrazia e la collettività. Famiglia, scuola e, soprattutto, mondo ecclesiale sono i primi a essere chiamati a dare esempi di coerenza e a combattere il male con più forza. Anche di questo si dibatterà a Reggio Calabria, dal 14 al 17 ottobre, nella 46ª edizione delle Settimane sociali dei cattolici italiani. Dei 900 delegati, 200 sono giovani. Una scelta. Un investimento. Un piccolo segnale di speranza. (editoriale del numero in edicola il 4 agosto 2010)

Thursday 5 August 2010

Kosovo indipendente, mondo instabile

La Corte internazionale di giustizia ha legittimato la nascita dello stato balcanico. Creando un caso.

di Emiliano Biaggio

Paesi Baschi, Cecenia, Inguscezia, Xinjinag, Srpska (repubblica serba di Bosnia-Erzegovina) e Corsica. Entità territoriali e amministrative diverse, un solo obiettivo comune per tutte: l'indipendenza. Una storica battaglia contro i rispettivi governi centrali che adesso si ripropone dopo che la Corte internazionale di giustizia ha stabilito che la dichiarazioni di indipendenza del Kosovo «non viola diritto internazionale». L'organismo delle Nazioni unite motiva il proprio pronunciamento spiegando che la situazione che si era venuta a determinare non lasciava molte alternative. Insomma, il Kosovo rappresenta un'eccezione ma finisce con il diventare un caso. Perchè - è bene ricordarlo - il 17 febbraio del 2008 l'indipendenza venne dichiarata unilaterlamente dal governo di Pristina. Ciò può significare che altri potrebbero essere tentati di fare lo stesso. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha esortato tutti i Paesi, inclusa la Serbia, a riconoscere il Kosovo, ma l'esito è stato di tutt'altro tipo: la Serbia continua a non riconoscere il Kosovo, e al governo di Belgrado si unisce quello di Mosca, da sempre legato alla Serbia. In Europa "no" al riconoscimento del Kosovo come stato indipendente e sovrano è arrivato dalla Spagna (che teme un effetto domino interno a partire dai Paesi Baschi), dalla Grecia (che deve ancora risolvere la questione della Macedonia), Cipro (per via della repubblica turca di Cipro nord), Bosnia Erzegovina (alle prese con quanti vorrebbero la nascita della Srpska, la repubblica serba di Bosnia-Erzegovina) e Slovacchia (per il contenzioso in atto con l'Ungheria sulle minoranze). La Francia, che pure si è schierata con Pristina, dovrà però ora fare i conti con le spinte degli indipendesti corsi. Proprio per evitare le spinte indipendentiste interne, sono in molti in giro per il mondo a non aver gradito il pronunciamento della Corte internazionale di Giustizia. Hanno detto "no" al Kosovo indipendente, tra gli altri, Cina (per via di Taiwan, Tibet e Xinjang), Russia (Cecenia), India (Kashmir), Sri Lanka (per la lotta Tamil), Georgia (Ossezia del sud). In tutto sono 42 i paesi che negano lo status di paese indipendente e sovrano al Kosovo: almeno altrettante sono le situazioni di instabilità interna ai paesi. Se aggiungiamo le instabilità regionali, allora abbiamo una cartina dell'instabilità mondiale.

Tuesday 3 August 2010

Esecuzioni in calo, ma nel 2009 sono 5.679 le sentenze di condanne a morte eseguite

Lo scorso anno solo in Cina 5.000 morti, ma i boia sono entrati in azione in 18 paesi. Quasi tutti asiatici.

di Emiliano Biaggio

Sono sempre meno i paesi che prevedono e applicano la pena di morte nel mondo. Il Rapporto 2010 di Nessuno tocchi Caino rileva uan tendenza che «da oltre dieci anni si è confermato nel 2009 e anche nei primi sei mesi del 2010». Più nello specifico, «i territori che hanno deciso di abolire la pena di morte per legge o in pratica sono 154», mentre i Paesi che ancora la mantengono «sono scesi a 43, a fronte dei 48 del 2008, dei 49 del 2007, dei 51 del 2006 e dei 54 del 2005». Diminuisce anche il numero delle sentenze eseguite: nel 2009, si legge nel Rapporto, i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati 18, «notevolmente diminuiti rispetto al 2008 e al 2007 quando erano stati 26». Per Nessuno tocchi Caino, il graduale abbandono della pena di morte «è evidente anche dalla diminuzione del numero di esecuzioni nei Paesi che ancora le effettuano: nel 2009 le esecuzioni sono state almeno 5.679, a fronte delle almeno 5.735 del 2008 e delle almeno 5.851 del 2007». Il documento disegna "mondi diversi": a un'Europa senza pena di morte (ad eccezione della Bielorussia, che però nel 2009 non ha effettuato esecuzioni) si affiancano le Americhe «praticamente libere dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l'unico Paese del continente che ha compiuto esecuzioni (52) nel 2009»; c'è poi un'Africa con «condanne a morte in diminuzione»: nel 2009 soltanto quattro Paesi (con la Somalia, erano stati 5 nel 2008) hanno praticato in tutto almeno 19 esecuzioni: Botswana (1), Libia (almeno 4), Egitto (almeno 5) e Sudan (almeno 9), contro le almeno 26 del 2007 e le 87 del 2006 effettuate in tutto il continente. infine c'è l'Asia, «il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo». Soltanto in Cina ci sono state circa 5.000 esecuzioni (più o meno come nel 2008 e, comunque, in calo rispetto agli anni precedenti), ma «il dato complessivo del 2009 nel continente asiatico corrisponde ad almeno 5.608 esecuzioni (il 98,7% delle 5.679 eseguite nel 2009), in calo rispetto al 2008 quando erano state almeno 5.674». Non è un caso, allora, se i principali paesi dove cade la mano del boia siano tutti e tre asiatici: si tratta - nell'ordine - di Cina, Iran e Iraq. La Cina da sola, denuncia Nessuno tocchi Caino, «ha effettuato circa 5.000 esecuzioni, pari a circa l'88% del totale mondiale». Seguono, per numero di condannati a morte giustiziati, Iran (402), Iraq (77), Arabia Saudita (69), Yemen (30), Sudan e Vietnam (9), Siria (8), Egitto (5), Libia (4), Bangladesh (3), Thailandia (2), Corea del Nord e Singapore (1). In tutti questi paesi, sostiene Nessuno tocchi Caino nel suo Rapporto 2010, «la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l'affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili»

Monday 2 August 2010

Brasile, in arrivo piano anti-disastri petroliferi

L'annuncio dopo l'incidente della Bp e la catastrofe ecologica nel golfo del Messico. A settembre all'attenzione di Lula.

di Emiliano Biaggio

Il Brasile lavora a un piano nazionale contro le perdite di petrolio: l'annuncio arriva dal ministro dell'Ambiente del paese sudamericano, Izabella Teixeira, che ha spiegato che il piano intende «istituire un'Autorità» che, secondo le intenzioni, agirà «nel caso di una crisi come quella avvenuta nel golfo del Messico». La strategia nazionale - il National contingency plan (in italiano suona come "Piano nazionale per ogni evenienza") sarà sottoposto al presidente Ignacio Lula da Silva «per settembre», ha anticipato Teixeira.
«L'incidente della piattaforma Bp nel golfo del Messico- ha detto il ministro dell'Ambiente del Brasile- ci ha insegnato l'importanza di saper rispondere alle emergenze». Per questo «è necessario disporre di un'amministrazione responsabile». Teixeira ha quindi spiegato che il Piano «è pensato per il settore petrolifero, ma in caso potrà essere anche messo in atto in caso di calamità naturali come esondazioni e altri disastri naturali».