Sunday 31 May 2009

Calcio, la politica entra negli stadi. Dalla porta principale

di Emiliano Biaggio

Saluti romani in curva e sotto la curva, bandiere con falce e martello sugli spalti: da Genova a Roma, da San Siro al San Paolo, tanti i riferimenti politici e ideologici nei campi di calcio di casa nostra. Tanto che c'è chi grida "fuori la politica dagli stadi". Ma in Italia come altrove la curva politicizzata è solo la punta di un iceberg, dove a farla da padrone è proprio la politica. Iniziamo dal calcio di casa nostra: la Juventus è controllata dalla Fiat, colosso economico e industriale legato agli ambienti istituzionali. Che dire del Milan? Il presidente della squadra è stato ed è il capo del governo, in una chiara e palese sovrapposizione tra calcio e potere. Poco diversa la situazione dell'Internazionale, alle cui spalle ci sono la Saras di Moratti e la Pirelli di Marco Tronchetti Provera. All'estero la situazione non è diversa: esempi storici di come sport non sia solo semplicemente sport arrivano innanzitutto dalla Spagna. Notoria la rivalità tra i blancos del Real Madrid e i blaugrana del Barcellona, meno noti i motivi di questa contrapposizione, che è di natura storica e politica oltre che sportiva: il Real era infatti la squadra del regime, mentre il Barça quella dell'oppozione. Real Madrid-Barcellona si tramutava allora in uno scontro tra franchisti e repubblicani. Meno storico, ma comunque di rilevanza politica, il caso offerto dai Paesi Bassi, dove una delle squadre più titolate è il Psv. Questo lo sanno tutti, ma pochi sanno che PSV sta per Philips Sport Vereniging, vale a dire Unione Sportiva Philips. Altro esempio di team in mano a colossi industriali che, in quanto tali, sono per forza di cosa nelle rubriche telefoniche di ministri e capi di gabinetto. In Germania spiccano i casi del Wolfsburg- controllata dalla casa automobilistica Volkswagen- e del Bayer Leverkusen, legato al colosso farmaceutico Bayer (si, la Bayer, quella che negli anni del nazismo faceva parte dell'IG Farben, l'industria che riforniva i lager di Zyklon B) e definito, non a caso, la squadra "delle aspirine". A contatto con le istituzioni, più o meno direttamente, anche i francesi del Sochaux, in quanto controllati dalla Peugeot. Ma nella Ligue1 milita anche il Monaco, la squadra del principato che gode ovviamente delle 'simpatie' della famiglia reale. Oltre Manica il presidente dell'Arsenal Peter Hill-Wood ha un passato nelle Coldstream guards, reggimento dell'esercito di sua maestà. Casi ancor più emeblemati di controllo diretto della politica sulle squadre di calcio arriva da est: in Russia il CSKA Mosca era la squadra dell'esercito, ma anche adesso il team ha tra gli azionisti il ministero della Difesa. Lo Zenit di San Pietroburgo è la squadra di Gazprom, la più grande compagnia energetica del Paese e il maggior estrattore del mondo. Tifoso d'eccezione del team il primo ministro Vladimir Putin, vicino proprio al colosso energetico di stato. Insomma, dopo questi esempi, chi crede che la politica debba uscire dagli stadi dovrebbe iniziare a rivolgersi alla tribuna autorità, e solo dopo alle curve.

Saturday 30 May 2009

«Italiani, vi compatisco»

La testimonianza di un ragazzo venuto in Italia alla ricerca di una nuova vita. Ma che adesso rimpiange di non averla cercata altrove.

di Emiliano Biaggio

“Mia madre mi ha detto che vogliono introdurre un permesso di soggiorno a punti, come la patente”. E’ l’Italia che non ti aspetti, quelle dei provvedimenti anti-immigrazione e anti integrazione. O almeno è l’Italia che non si aspetta Carlo, una delle tante persone che si possono incontrare nei bar. Una delle tante persone, ma non una persona come tante. Albanese di 26 anni, Carlo è in Italia da quando era bambino, da quando i suoi genitori decisero di cercare nel nostro Paese una nuova vita e, soprattutto, un futuro per i loro figli. Nonostante Carlo sia in Italia ormai da vent’anni, lui resta ancora un cittadino albanese. E' in attesa di ottenere la cittadinanza italiana, ma ancora non gli è stata riconosciuta, e fin tanto che le pratiche non si chiudono lui resta un extracomunitario, che non riesce a capire ed accettare una delle proposte dai senatori della Lega Nord in tema di immigrazione. “E pensare che i miei se lo sono scelto questo Paese”, dice amareggiato mentre consumiamo il nostro aperitivo. Carlo vive nei pressi di Roma, insegna kick boxing in una palestra della zona, ha amici italiani, parla addirittura con l’inflessione dialettale romanesca, ma tutto questo sembra non bastare per poterlo considerare italiano a tutti gli effetti. Tanto che per giudicarlo idoneo all’Italia adesso deve ottenere un punteggio. “A voi dopo un certo numero di infrazioni vi tolgono i punti dalla patente e non potete più guidare, a me invece dopo che ho finito i punti mi mandano via. Non è proprio la stessa cosa. Anche perché voi la patente potete riprenderla, io il permesso di soggiorno no”. Nelle sue parole emerge chiaramente l’amarezza per una terra che avrebbe dovuto accoglierlo ma che invece sembra non averlo mai accettato. “E pensare che noi questo Paese ce lo siamo scelto”, ci ripete deluso. “Sapete una cosa? Io vi compatisco, perché voi almeno qui ci siete nati, voi non avete avuto scelta. Io invece per me provo solo pena, perché potevamo andare in Spagna, Olanda, e invece tra tutta l’Europa abbiamo deciso di venire qui. Se non fosse che aspetto di prendere la cittadinanza me ne andrei”. Carlo svuota il bicchiere, mentre attorno a lui si fa silenzio. Del resto c’è poco da dire. Soltanto che Carlo è un nome di fantasia, perché chi è uscito da quel bar probabilmente non se l’è sentita di far apparire il suo vero nome. Perchè chi è uscito da quel bar ci compatisce e, con ogni probabilità, non si fida più di noi.

Thursday 28 May 2009

Balcani, area ad alta tensione

Bosnia divisa dalle etnie e in una paralisi che non consente governabilità, Slovenia e Croazia al centro di una disputa sui confini marittimi. E poi ancora il Kosovo indipendente che non piace alla Serbia e la repubblica di Macedonia che tanto irrita la Grecia. Ecco perchè, dopo la guerra, l'ex Jugoslavia resta nell'instabilità.

di Emiliano Biaggio
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Balcani 'polveriera' d'Europa, oggi più che mai. Molti sono i motivi di conflitti nella regione, dentro e fuori gli stati stessi dell'area. Nella cornice delle repubbliche nata dalla dissoluzione dell'ex Jugoslavia la tensione è alta, da nord a sud. Difficile dove si ha la situazione di maggiore instabilità, perchè la regione è un grande mosaico di etnie e confessioni religiose che turbano i precari equilibri tra Stati e negli Stati. A livello di tensioni tra Paesi Slovenia e Croazia sono al centro di un contenzioso per i confini marittimi e, in più in particolare, della sovranità sul golfo di Pirano. Nella voglia e nella fretta di porre fine alla guerra, ci si accordò sui confini territoriali ma non su quelli marini. E adesso quella del golfo di Pirano diventa una questione spinosa, con la Slovenia- membro Ue e dell'eurolandia- che minaccia veti all'ingresso della Croazia nell'Unione europea se il governo di Zagabria non la smette con le sue rivendicazioni. Ma la Croazia deve fare anche i conti con la propria composizione sociale: una maggioranza croata, cattolica, e una minoranza serba, ortodossa. A questa due si aggiunge poi un piccolissimo nucleo di bosniaci, musulmani. In piccolo, in Croazia si propone e si ripropone il motivo di tensione che divide Serbia e Bosnia-Erzegovina: il massacro di Srebrenica- con la campagna di pulizia etnica attuata dalle milizie serbe nei confronti dei bosniaci musulmani-rappresenta ancora una ferita aperta e fonte di odio tra le due popolazioni, che costituiscono i principali gruppi etnici della Bosnia-Erzegovina. Qui, infatti, alla maggioranza bosniaca- musulmana- si aggiunge una forte minoranza (31%) di serbi- cristiano ortodossi. Un quadro multi-etnico e pluri-confessionale che si completa con il 17% di croati- cristiano cattolici- che si impogono come terza forza della repubblica. Già, 'forza'. In Bosnia-Erzegovina i trattati di Dayton che nel 1995 hanno posto fine alla guerra civile jugoslava hanno voluto garantire uguale peso politico alle tre anime del paese, serbi, croati e bosgnacchi (i bosniaci musulmani). Ma l'eguale distribuzione amministrativa e la rivalità tra le parti hanno finito per paralizzare la repubblica, dove nessuno è in grado di governare. Sarà anche per questo che il Paese è l'unico della regione a non aver ancora riconosciuto l'indipendenza del Kosovo, staccatosi dalla Serbia tra le proteste del governo di Belgrado. Il Kosovo rappresenta dunque un motivo ulteriore per guardare con preiccupazione alla stabilità della regione, dove si pone il problema della repubblica di Macedonia. Si tratta di una disputa nominale tra i governi greco e macedone: Atene vuole che il nuovo stato cambi nome, dato la Macedonia è una regione del nord dello stato ellenico. Per distinguere stato da regione oggi molti Paesi usano la dicitura Ex repubblica jugoslava di Macedonia, ma per la Grecia non basta e minaccia di impedire al governo di Skopje l'accesso a Unione Europea e Nato. Insomma: tra odi, minacce e veti incrociati, la situazione nei balcani resta ad alto potenziale esplosivo.

Wednesday 27 May 2009

Medio Oriente, chiusura di Israele ai negoziati. Per trattare.

Obama: "Due stati". Netanyahu: "No". Le "divergenze" tra Usa e stato ebraico complicano il processo di pace nella regione. Che forse non è poi così compromesso.

di Emiliano Biaggio
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Il presidente degli Stati Uniti rilancia il piano di pace in Medio Oriente che prevede la nascita di due stati, ma Israele gela Barack Obama e il suo staff: "No a uno stato palestinese", taglia corto il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Un secco rifiuto che mette in salita la missione diplomatica della nuova amministrazione Usa, decisa a voler trovare una soluzione definitiva alla questione arabo-israeliana. Non solo: il 'no' di Israele rischia a questo punto di complicare ulteriormente l'intero processo di pace, e di deteriorare ancora di più i rapporti con il mondo arabo-islamico. A livello internazionale la cosa non è sfuggita, tanto che si parla già delle divergenze tra i due Paesi. Ma niente drammi, almeno per ora. Poichè tutto è ancora da definire, e molto è ancora da decidere. Quella che si gioca è una partita a scacchi, dove i due avversari studiano e si studiano, per capire che mossa fare, che strategia elaborare, quali pedine sacrificare. Il messaggio che il primo ministro dello Stato ebraico ha voluto lanciare alla Casa bianca è che Israele non condivide la linea 'soft' della politica estera statunitense. Chiaramente a governo e membri della Knesset (il parlamento isralieno) non piace un presidente Usa che vuole dialogare con l'Iran, con chi, cioè, in più di un'occasione ha detto di voler cancellare Israele dalla carta geografica. Ma Barack Obama sa bene quanto Israele abbia bisogno degli Stati Uniti e del loro appoggio: ecco che allora si abbandona la fase di studio e si tentano le prime mosse. Israele starebbe pensando di smantellare due dozzine di insediamenti all'interno della Cisgiordania occupata, per poter proseguire nella realizzazione di colonie in altre zone, tra cui Gerusalemme est. Forse è un pò poco per l'amministrazione americana- che pure ha chiesto a Netanyahu di bloccare la costruzione di insediamenti nei territori palestinesi- ma quel che è certo è che a Tel Aviv si guarda a come Washington risponderà a questa mossa, per capire come e dove negoziare. Ma certo la situazione appare complicata: per il presidente dell'autorità palestinese Abu Mazen non esistono le condizioni per poter trattare, dato che il leader dell'Anp ha chiesto lo stop della costruzione di colonie che invece il governo israeliano intende portare avanti altrove. Netanyahu deve invece fare i conti con la destra nazionalista di Avigdor Lieberman, che non vuole fare concessioni ai rivali palestinesi. E come se non bastasse da Bruxelles le istituzioni comunitarie dell'Ue fanno sapere che "è improbabile che vengano potenziate le relazioni con Israele". Insomma, lo stato ebraico appare isolato nella sua politica di intransigenza ed è chiamato a muoversi nella tortuosità dello scenario che si propone. Per adesso si resta a guardare: ora la prossima mossa spetta a Obama.

Tuesday 26 May 2009

Operai e fasce deboli? In Italia li difende la Chiesa

di Emiliano Biaggio
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Tutela per i precari, sostegno a chi ha perso il lavoro, un fisco equo ed etico e politiche che favoriscano immigrazione e integrazione. Non sono le richieste nè di Rifondazione comunista nè dell'ala Ds del Partito democratico. Sono invece gli inviti della Conferenza episcopale italiana, che entra a pieno titolo e a tutto campo nelle questioni di estrema attualità del nostro dibattito politico. Ciò non sorprende: da sempre la Chiesa si esprime sulle questioni di casa nostra, perchè fa parte- e non ha mai smesso di farne parte- della storia di casa nostra. Piaccia o no, oggi come allora lo stato del Vaticano serve: perchè i valori assoluti in questo mondo e in queste società sono pochi. Per cui se è vero che l'autorità pontificia sia sempre stata poco incline al progressismo e ben più disposta al conservatorismo, non stupisce l'intervento dei vescovi. C'è da salvaguardare e difendere quanto conquistato nel corso della storia, vale a dire diritti. All'uguaglianza e all'assistenza, innanzitutto. Perchè si tratta dei fondamenti alla base di società e stati moderni. La Cei, monsignor Angelo Bagnasco in testa, non fanno altro che difendere questa società. E lo fanno per due motivi: il primo è di dottrina. Perchè l'uomo è innanzitutto creatura di Dio, e la Chiesa è da sempre vicina ai propri fedeli. E i fedeli sono i componenti della società in ogni sua fascia: ricchi, poveri, lavoratori, disoccupati, italiani e non italiani. Tutte persone assistite, attraverso la macchina della solidarietà rappresentata dalle diocesi, dalle parrocchie, dalle offerte e dalla Caritas. Il secondo motivo è di natura politica: in parlamento le forze della sinistra sono ridotte a qualche ex diessino, mentre fuori dalle istituzioni le formazioni che raccoglievano l'eredità del Pci sono oggi decimate dalle continue scissioni che hanno frantumato in tanti piccolissimi partiti quel che restava della sinistra così detta 'radicale'. Per i vescovi si presenta così l'occasione di diventare l'unico punto di riferimento di chi vorrebbe e vuole interventi di politiche sociali. Possono cioè, venire incontro alla classe operaia e lavoratrice del Paese scalzando quello che resta di espressioni partitico-politiche solitamente indigeste agli ambienti vaticani. Per cui se da una parte la Cei si erge a paladina della società e dei suoi diritti, dall'altra tesse la trama di un disegno ben preciso. Ma del resto in Vaticano sono sempre molto attenti, e non si lascia mai niente al caso. Al momento opportuno, i vescovi verranno a bussare a casa di quanti oggi ricevono sostegno.

Sunday 24 May 2009

Berlusconi. Cosa dice, e cosa dicono

di Emiliano Biaggio


"Berlusconi: la giustizia è una patologia", scrive El Pais. "Ennesimo show del premier che paragona la presidente di Confindustria a una velina e attacca giudici e parlamento". Sarà perchè ricopre la carica di capo di governo, ma ogni volta che parla Berlusconi fa il giro del mondo. Così capita che le sue ultime uscite sulla giustizia- con i suoi affondi alla magistratura dopo la sentenza sul caso Mills- e sulla politica- con i suoi affondi contro il parlamento- finiscano immediatamene sui principali quotidiani europei, che non vanno troppo per il sottile. Ma se è facile aspettarsi parole come quelle del principale quotidiano di centro-sinistra della Spagna, sorprendono testate di ben altro orientamento come il Times. "Berlusconi promette di ottenere più potere a spese del Parlamento", scrive il quotidiano britannico, dove i lettori lasciano commenti tutt'altro che teneri. "Judges are communist...foreign press is communist...he sees communists everywhere...he reminds me the american senator McCarthy... Parliament? An option! I wouldn't be surprised if one day he decides to close it and summon it when he needs it. Like Charles I in the 17th century! That's a shame"! (I giudici sono comunisti... La stampa internazionale è comunista... Ormai vede comunisti dappertutto... Li ricorda il senatore degli Stati Uniti McCarthy. Il parlamento? Un optional! NOn mi sorprenderebbe se decidesse di chiuderlo e convocarlo quando ne ha voglia. Come Carlo I nel 1600. E' una vergogna!) Ancor più duro Le Figaro, storico giornale della 'droite' francese: "Berlusconi raggiunto dai processi", titola. "Il cavaliere si dichiara vittima dopo la sentenza che condanna uno dei suoi avvocati per falsa testimonianza". Le Figaro sottolinea come il premier di casa nostra parli di "complotto orchestrato dalla sinistra" e chiude l'articolo in modo polemico nei confronti del cavaliere: "nel farsi passare per una vittima, lui eccelle" (dans l'art de se faire passer pour une victime, il excelle), si legge. A rincarare la dose i lettori transalpini: "Berlusconi est un malade... et les italiens sont tellement hypnotisés par ses TV qu'ils continuent de le soutenir". (Berlusconi è un malato... E gli italiani sono talmente ipnotizzati dalle sue tv che continuano a sostenerlo), scrive uno. Mentre un secondo affonda: "Il serait comme ça l'italiano idiot"? (Sarebbe così idiota l'italiano?)

Thursday 21 May 2009

E Giddens pensa a tasse contro l'anti-ambientalismo in nome della sostenibilità

di Emiliano Biaggio

"Sviluppo pulito per imprese più competitive", perchè "solo rispondendo alle sfide ambientali si può essere competitivi". E poi le tasse: occorrono "tasse verdi", vale a dire una maggiore pressione fiscale contro quei comportamenti anti-ambientali, per promuovere una nuova cultura ecologica. Sostenibilità, 'green economy', un nuovo modello di crescita e sviluppo che tenga conto del mondo naturale che ci circonda: espressioni, queste, sulla bocca di tutti e nei programmi politici di molti. A partire dal presidente Usa Barack Obama. Ma quando a parlare di sviluppo sostenibile è Anthony Giddens, allora forse vuol dire che la questione è seria per davvero e gli interessi in gioco molto forti. E poi, a pensarci, chi meglio di un sociologo- oltretutto illustre come il padre della Terza via- può dire quanto incida l'ambiente sulla società? Il professore emerito della London school of Economics, intervenendo al convegno 'Growing & greening the economy' di Roma, affronta la questione. Partendo da un aspetto sociale piuttosto sentito: la tassazione, che riguarda governanti e governati. Giddens suggerisce "politiche fiscali dagli obiettivi verdi"; tradotto, "il meccanismo che regola l'imposizione di tasse contro l'anti-ambientalismo dovrebbe essere più esteso". Messaggio più sociale o più sociologico? Di certo rivolto più alla politica che alla cittadinanza, perchè se fare politica è amministrare e gestire un territorio con i suoi abitanti, allora "l'obiettivo è pensare alla sfida dei mutamenti climatici in un contesto specificamente politico", anche alla luce del fatto che, ricorda Giddens, "oggi quello del clima è il principale problema politico". Il sociologo britannico non nasconde che "c'è molto lavoro da fare", ma nonostante la situazione non sia delle migliori e il compito non dei più semplici, "abbiamo bisogno di una trasformazione". E allora, "perchè non sfruttare questa opportunità"? Una domanda, quella di Giddens, che fa tornare alla mente Bob Kennedy e quella sua citazione, nella campagna elettorale per le primarie del partito democratico, di George Bernard Shaw. "Io sogno cose che non ci sono mai state, e mi chiedo perché no", disse Kennedy quarant'anni fa. Oggi Obama, che ha fatto della 'green economy' uno dei punti prioritari della sua agenda politica direbbe "si, possiamo". E allora facciamolo. "Lo stato- continua Giddens- deve innanzitutto agire da catalizzatore per incoraggiare l'innovazione". E deve farlo in fretta, perchè altrimenti "i costi economici e sociali dei mutamenti climatici saranno gravi e diffusi".

Barrios Altos: storia di un massacro di Stato

di Bessemer451

La Commissione per la Verità e Riconciliazione è in condizione di affermare che a Lima, 15 persone furono giustiziate extragiudizialmente e altre quattro sono rimaste menomate nella loro integrità fisica per mano di agenti dello Stato. E, conformemente a quanto deliberato dalla Corte Interamericana per i Diritti Umani il 14 marzo 2001, dichiara che fu deliberatamente impedita l'investigazione del crimine mediante l'imposizione di meccanismi legislativi e giuridici, favoreggiando e ostacolando la sanzione dei responsabili. In conseguenza di ciò, è stata protetta una politica di violazione dei Diritti Umani, per la quale lo Stato non ha osservato gli obblighi internazionali, sancendo, a tal proposito, leggi il cui unico oggetto fosse l'impunità. leggi il resto

Wednesday 20 May 2009

La Russia vuole il primato anche nello spazio

di Emiliano Biaggio

La corsa della Russia non si arresta: dopo Europa- attraverso la supremazia energetica- e Artico- sempre in ottica energetica e di risorse naturali disponibili- adesso Mosca vuole lo spazio. Un ritorno alla guerra fredda? Il primo ministro Vladimir Putin si limita a dire che il suo Paese "non deve solamente preservare la sua competitività nel settore dell'industria spaziale, ma anche accrescerla in modo considerevole". E per farlo rispolvera il passato sovietico della nazione, indicando negli spazioporti di Plesetsk and Vostochny- voluti all'epoca proprio dal Pcus- siti da "utilizzare" per il rilancio della supremazia stellare e galattica del Paese. Tutto questo, tiene a sottolineare Putin, in un'ottica di "maggiore modernizzazione del settore" e della nazione, che gioca in grande su più fronti: quello delle risorse, quello dei territori, quello della tecnologia, e quello del cosmo. Una politica che richiama quella della potenza egemone dell'Urss che fu, ma che oggi invece evidenzia la contesta del cosmica in atto: la Cina ha già lanciato la sua conquista dell'orbita con la prima passeggiata nello spazio di un astronauta cinese finanziata interamente da Pechino e con gli Stati Uniti che, invece, dopo la bandiera piantata sulla luna vuole anche la conquista di Marte. Ma anche qui la voglia di primeggiare non manca: è noto che Cina e Russia hanno in cantiere una missione congiunta proprio sul 'Pianeta rosso'. Dopo la guerra fredda dobbiamo allora aspettarci delle guerre stellari?

Sunday 17 May 2009

Le tigri si arrendono. In Sri Lanka torna la pace (per ora).

di Emiliano Biaggio

Alla fine, quella che sembrava una guerra senza fine è finita. Dopo oltre venticinque anni l'esercito di liberazione delle tigri Tamil Eelam (Ltte) si è arreso all'esercito regolare dello Sri Lanka. Sono state le stesse tigri a deporre le armi dopo aver riconosciuto che la causa del popolo Tamil ha avuto "una fine amara". L'amarezza sta nella consapevolezza di aver perso, e non solo lo scontro militare. Adesso coloro che si sono arresi saranno trattati come sconfitti, col rischio di subire pesanti condizioni. E proprio le condizioni cui era stata costretta la minoranza Tamil è poi la scintilla che fece scoppiare la guerra costata oltre 80.000 morti, secondo le cifre ufficiali del governo di Colombo. Nel 1948, ottenuta l'indipendenza dall'impero britannico, il parlamento del neo-nato Sri Lanka vara il Citizenship act, provvedimento che non riconosce la minoranza Tamil (5% della popolazione dell'isola) cittadini dello stato. La lingua tamil non viene riconosciuta. Nel 1956 cominciano le prime sollevazioni popolari, e il governo centrale si vede costretto a riconoscere l'autonomia alla regione popolata dai non singalesi. Ma l'autonomia resta puramente formale, tanto che la nuova costituizione del 1970 riconosce come lingua ufficiale nazionale solo quella sinhala, quella dei singalesi. Nemmeno la religioni indù e cristiana- le confessioni dei tamil- vengono riconosciute nella carta. Nelk 1972 nasce il gruppo delle nuove tigri Tamil, che 3 anni più tardi diventano il gruppo separatista che da lì in poi sarebbe divenuto noto a tutto il mondo: l'esercito di liberazione delle tigri Tamil Eelam (Ltte). La guerriglia inizia nel 1983, dando vita ad un conflitto lungo 26 anni: una scia di sangue repressa nel sangue, che adesso vede il suo epilogo. "La battaglia è arrivata alla sua amara fine", commenta Selvarajah Pathmanathan, portavoce internazionale delle tigri Tamil. "Abbiamo deciso per il silenzio delle nostre armi. Il nostro solo rammarico è per le vite perdute e per quello che non potremo avere per molto tempo", aggiunge. Parole di preoccupazione, e non potrebbe essere altrimenti data la storia alle spalle del conflitto e a quelle del governo centrale: quest'ultimo se non era mai stato tenere nei confronti dei tamil prima saprà esserlo adesso? Forse. Giorni fa Mahinda Samarasinghe, il ministro per le emergenze umanitarie e i diritti umani dello Sri Lanka Colombo, ha promesso l'amnistia per i guerriglieri Tamil che si fossero arresi di propria spontanea volontà e che è allo studio un reinserimento nella società degli ex ribelli attraverso un programma mirato di riabilitazione. Ma che significa riabilitazione? E poi le tigri si sono sì arrese, ma perchè incapaci di continuare nella loro lotta armata, e questo a Colombo lo sanno bene. I dubbi non mancano e le domande sono inevitabili. Prima fra tutte: hanno vinto i buoni o i cattivi? Difficile dirlo, perchè difficile è trovare dei buoni in una guerra. Ad ogni modo se adesso saprà seguire una vera riconciliazione nazionale e un rispetto che sia reale per la minoranza, allora avranno vinto i giusti. In caso contrario, in Sri Lanka ci saranno vinti e vincitori perdenti.

Saturday 16 May 2009

Prossima fermata: Repubblica ceca


Qui a fianco la 'coperta' di Příští zastàvka: Česká Republika, ultima fatica del sottoscritto. Resoconto e non solo di viaggi a Brno e Praga, in Repubblica Ceca. Raccolta di testimonianze e impressioni per cercare di raccontare la storia di alcune persone e descrivere un Paese che cambia. Un viaggio attraverso luoghi e spazi, scorci di presente e ricordi di passato, per capire verso quale futuro è proiettata questa giovane repubblica di antiche tradizioni.
Anche per questo testo al momento non è possibile mettere a disposizione il file da scaricare, ma tutti coloro che fossero interessati ad avere una copia dello scritto possono lasciare la propria richiesta nella sezione di commento al post. Il sottoscritto provvederà ad inviare il file.

Friday 15 May 2009

E la Russia avverte: nella corsa alle risorse pronti alla guerra


di Emiliano Biaggio

Dopo scaramucce, timori e sospetti, adesso è ufficiale: “Non è escluso il ricorso all’uso della forza militare per risolvere questioni legate all’approvvigionamento delle risorse”. Più chiaro di così il presidente russo Dmitrij Medvedev non poteva essere. Semplice monito o vere e proprie dichiarazioni di guerra? Per il momento queste parole sembrano suonare come avvertimento, anche se lasciano prefigurare scenari futuri poco rassicuranti. ‘Uomo avvisato…’ sembra dire il Cremlino, rispolverando il vecchio detto- vecchio almeno qui dalle nostre parti- solitamente usato per mettere in guardia gli altri, solitamente avversari. E di avversari la Russia, in questa corsa alle risorse ne ha diversi. A partire dalle regioni su cui si affaccia: Europa orientale e Caucaso. Gli interessi in ballo sono già stati ampiamente messi in luce con le questioni del Kosovo- autoproclamatasi indipendente e riconosciuto solo dagli Stati Uniti- e dalla guerra con la Georgia in Ossezia del sud- quest’ultima staccatasi da Tblisi e indipendente sotto il benestare di Mosca. Gli attori in gioco sono Russia, Stati Uniti, alcuni Paesi dell’Europa (tra cui l’Italia), Bielorussia e Ucraina. Gli interessi in ballo sono gas, transito di metano, condutture. Ma c’è anche un’altra regione divenuta terreno di incontro e scontro di interessi: l’Artico. La corsa al polo è cominciata da tempo, e include altri concorrenti: Norvegia, Danimarca e Canada, che si affacciano proprio sulle fredde terre del nord. Ma su quei territori si affacciano anche gli Stati Uniti, che hanno nello stato dell’Alaska una base operativa non indifferente. Il messaggio di Medvedev non è casuale: è contenuto nella nuova strategia di sicurezza elaborata da Mosca e che arriva alla vigilia della scadenza dei termini fissati dall’Onu per definire zone di competenza e di proprietà del fondo marino artico da parte dei contendenti. E Mosca mette subito le cose in chiaro: qualunque cosa accada non si può negare che “l’attenzione della politica internazionale nella prospettiva di lungo periodo si concentrerà sull’acquisizione delle risorse energetiche. E in questa competizione per le risorse- ribadisce Medvedev- il ricorso all’utilizzo della forza militare per risolvere questioni che potrebbero sorgere non è da escludere”. La Russia lancia quindi segnali chiari e forti. E perché tutti- soprattutto i diretti interessati- possano capire, Medvedev aggiunge: “I rapporti di forza esistenti lungo i confini della federazione russa non possono essere violati”. Il riferimento al progetto statunitense dello scudo spaziale è piuttosto evidente. Difficile che a Washington non abbiano capito. E anche se non avessero afferrato peggio per loro: ‘uomo avvisato’…

Thursday 14 May 2009

Immigrazione. Cosa pensa l'Italia e cosa pensano dell'Italia


di Emiliano Biaggio


“Es increible! si fuese italiano, me daría verguenza tener un presidente asi... que pena”! (E’ incredibile! Se fossi italiano mi vergognerei di avere un premier del genere). Oppure: “Espero que España no tome como ejemplo las políticas de Berlusconi o Zarkozy”… (Spero che la Spagna non prenda esempio dalla politica di Berlusconi o Sarkozy). E ancora: “Que esperan los italianos para destituir a este hombre carente de valores. Es la verguenza de Italia, estamos regresando al medievo” (Che aspettano gli italiani a liberarsi di quest’uomo così povero di valori? E’ la vergogna dell’Italia, stiamo ritornando al Medioevo). Sono solo alcune delle reazioni che in Spagna ha suscitato il ddl Sicurezza, quello che, tra le altre cosa, trasforma l’immigrazione clandestina in reato e autorizza le ronde. Da noi i provvedimenti sono stati accolti con entusiasmo, con lo stesso Silvio Berlusconi- il premier di cui gli spagnoli si vergognerebbero se fossero italiani- che si dice “soddisfatto per l’approvazione di una legge lungamente approfondita e assolutamente necessaria”. Sarà, eppure anche oltre Manica la politica italiana in tema di immigrazione fa discutere, e divide l’opinione pubblica britannica: i lettori del The Times da una parte affermano che “if the uk was allowed free speech 89% of the population would agree with the italian PM” (se alla Gran Bretagna fosse consentito di esprimersi l’89% della popolazione sarebbe d’accordo con il premier italiano), ma dall’altra invitano a non generalizzare: “There's a difference between controlling immigration, which all states must do, and supporting the idea of an ethnically pure society, which is another worrying symptom of Italy's slow slide towards something resembling fascism” (C’è una differenza tra il controllo dell’immigrazione- che pure uno stato deve fare- e sostenere l’idea di una società etnica pura, che è un preoccupante sintomo della lenta ricaduta dell’Italia verso il fascismo”). Insomma, all’estero non ci vanno troppo per il sottile: ci danno dei fascisti e dei medievalisti che dovrebbero vergognarsi. Solo che noi siamo fieri di esserlo. E questo è un problema per un paese democratico come il nostro. O no?

Wednesday 13 May 2009

Quando un cellulare vale più della vita. Cartoline da una società in profonda crisi.



di Emiliano Biaggio
A quindici anni si impicca perché gli sequestrano il telefono cellulare per punizione. E’ avvenuto a Lecce, ed è solo l’ultimo di una serie di episodi che dovrebbero indurre a fermarsi e riflettere. Perché quanto avvenuto pochi giorni fa non è un caso: si potrebbe ricordare che a Treviso una dodicenne si fotografa nuda e vendeva gli scatti per potersi comprare abiti firmati, o si potrebbe ricordare che in Emilia ragazze quattordicenni accettavano di prostituirsi per ricariche telefoniche. Un fenomeno che si è ripresentato a distanza di un anno in provincia di Padova. Quattro episodi non fanno un caso, ma una realtà con cui doversi confrontare. Ci si toglie la vita per un oggetto che, a quindici anni, potrebbe ancora rappresentare un giocattolo; si rinuncia alla propria dignità per dei pantaloni griffati o una magliettina all’ultima moda; ci si umilia per poter continuare a trastullarsi con i prodotti della tecnologia e di questa società. Informatizzata, globalizzata, moderna e modernizzata. E in crisi. Quando si parla di crisi tutti intendono quella dei mercati, quella del denaro, ma nessuno intende quella dei valori. Cos’è la vita di fronte a un telefono cellulare? Davvero la dignità vale pochi spicci nel telefonino? Davvero la nostra persona non può competere con la moda? Oggi per essere bisogna avere e apparire, ma in questo modo si perde il contatto con la realtà- quella vera- e non si riesce più a dare il giusto peso alle cose che ci circondano. Non si capisce più, in sostanza, il vero valore delle cose. Si finisce con vivere in un contesto finto, pieno di tante cose inutili credute preziose. Questa è la società consumistica portata all’eccesso, questa è la lenta e inarrestabile decadenza dei costumi. Perché il declino sociale, prima ancora che economico, è quello dei valori: se la società non sa trasmettere quelli giusti, allora ecco che quando ci vediamo privati di un oggetto che ci viene detto importante siamo pronti anche a morire e prostituirci, perché non siamo in grado di capire che non ne vale la pena. I ‘casi’ di Lecce, Treviso e del padovano ci mostrano una società orfana dell’individuo e della sua coscienza. Una società persa e perdente.

Monday 11 May 2009

Trabant, il ritorno di un mito. Ma senza il mito.


di Emiliano Biaggio
Cos’è che rende unici e pieni di fascino? Il nome? La provenienza? La propria storia? O forse più semplicemente solo quello che si è? Nel nostro caso sono tutte queste cose che fanno della Trabant un’automobile unica del suo genere: perché la piccola utilitaria della Germania Est che fu è davvero unica tra le sue tante colleghe, più o meno illustri, di oriente e occidente. Quattro ruote su un motore a due tempi, telaio in resina rinforzata con lana o cotone in grado di garantire la sicurezza e la protezione richieste; e poi il prezzo. Contenuto e accessibile a tutti, tanto da fare della Trabant un’auto veramente del popolo, orgoglio non solo della oggi defunta Ddr, ma anche dell’intero blocco orientale della cortina di ferro. Un’automobile realizzata con materiali alternativi all’acciaio e con tecnologie a basso costo, un prodotto per certi aspetti “rivoluzionario” e alternativo ma comunque in grado di sfornare vetture che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni dal primo modello prodotto, suscitano l’interesse di nostalgici e appassionati. Tanto che a quasi vent’anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino e la fine della Repubblica democratica tedesca, la Trabant torna in produzione. Ma non sarà la stessa che il mondo ha conosciuto fino ad oggi: sarà più lunga di un metro, realizzata con tecnologie moderne e costerà dai 20 mila ai 30 mila euro. Una Trabant più grande e più costosa, meno rivoluzionaria e meno a portata dei portafogli dei tedeschi e non solo. Una Trabant non più figlia della poco nota e molto piccola VEB Sachsenring Automobilwerke Zwickau- la casa automobilistica che lanciò la ‘Traby’ nel 1957- ma frutto del lavoro della ben più conosciuta e assai più grande Bmw. Chissà se l’idea dell’azienda bavarese è dettata dalla voglia di rilancio dopo la crisi che ha investito il comparto o se invece è solo una scelta ‘nostalgica’ per riportare in auge quel piccolo gioiello a quattro ruote della guerra fredda. Certo è che la nuova Trabant che viene non è e non sarà quella che è stata, con cui non può competere. Resta il nome, ma cambia la storia, la provenienza, il costo, il modo con cui è realizzata: va perso, in sostanza, tutto quello che l’ha resa unica e celebre.

Thursday 7 May 2009

Iraq, a pagare sono i civili

di Emiliano Biaggio
 
Iraq: uomini e costi economici. Queste le voci di spesa delle forze di coalizione nel paese dell’ex rais Saddam Hussein. A oggi sul suolo iracheno sono caduti più di 4.600 soldati della forza internazionale, in una guerra costata solo agli Stati Uniti oltre 660 miliardi di dollari e che potrebbe arrivare a tre trilioni. Ma quanto costa la guerra in Iraq all’Iraq? In media almeno quindici vittime civili al giorno, da sette anni a questa parte. Sono almeno 91.856 gli iracheni morti da quando le forze statunitensi e i contingenti stranieri hanno messo piede nel Paese, ma il numero è incerto e potrebbe superare quota 100.000 morti. Si tratta, per intenderci, dello 0,3-0,4% dell’intera popolazione nazionale. Uno “zero virgola” che non deve trarre in inganno, perché indica una media di 1.319 civili uccisi ogni mese dal 2003. Il 2009, almeno per quanto concerne i primi quattro mesi, mostra segnali “positivi”, ammesso che così li si possa definire: 1.330 decessi accertati nel primo quadrimestre dell’anno, quanto- grosso modo- ne venivano registrati in un mese solo fino al 2008. Numeri che tuttavia dimostrano come la situazione sia lontana dall’essere sotto controllo: lo stesso presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha ammesso che “l’Iraq non è ancora sicuro” nonostante “grazie al lavoro dei soldati le violenze nel Paese sono state fortemente ridotte”. Obama non vuole alimentare false speranze: “Si attendono ancora giornate difficili”, avverte. Come se gli iracheni non lo sapessero, occupati come sono a fare il conto delle vittime e dei danni. Il Paese è da ricostruire, l’economia anche. Ogni giorno ci sono sparatorie, attacchi suicidi, morti e feriti. Ogni giorno è difficile per gli iracheni. Ma questo allo stato maggiore Usa non interessa: gli oltre 90.000 morti sono “il prezzo da pagare per la liberazione dell’Iraq dal terrorismo”, “il costo di questa guerra contro il male”. Affermazioni discutibili, ma quel che certo è che se agli Stati Uniti questa lotta al terrore costa centinaia di miliardi di dollari, in Iraq- come in tutti i teatri di guerra- a pagare sono i civili.

Wednesday 6 May 2009

Iraq, stillicidio militare ed economico degli Usa

di Emiliano Biaggio
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Il disimpegno in Iraq va avanti. Il presidente Usa Barack Obama non ne ha fatto mistero, del resto. Uno dei primi annunci da quando si è insediato nella Casa Bianca è stato il “piano d’uscita in più fasi”, e il governo di Baghdad ha fatto sapere che gli Stati Uniti non intendono rivedere i termini fissati per il ritiro graduale dei soldati. Il bilancio degli ultimi attacchi, quelli avvenuti in questo primo quadrimestre del 2009, parla di 61 morti tra le fila dell’esercito statunitense: 15 morti al mese, uno ogni due giorni. Segno che nel paese dell’ex rais la situazione rimane turbolenta, segno che forse l’Iraq è ancora lontano dall’essere sicuro e sotto controllo. Obama eredita dall’amministrazione Bush una patata che definirla ‘bollente’ sarebbe poco, un’eredità con cui deve fare i conti. E alla Casa Bianca i conti, se già non li conoscevano, se li sono fatti: la guerra in Iraq è costata finora alla Casa Bianca più di 4.200 soldati e oltre 650 miliardi di dollari. Cifre da capogiro, costi umani ed economici sempre più insostenibili. E questo anche per via di un deficit record che ha raggiunto quota 164 miliardi di dollari. Se a questo si aggiunge l’attuale crisi economica e finanziaria si capisce perché, nonostante gli attacchi degli insorti, allo studio si continui a non riconsiderare i termini del disimpegno in Iraq. Ma se potrebbe convenire in termini di risparmio economico, un po’ meno potrebbe risultare congeniale agli interessi statunitensi nella regione, dove l’Iran prosegue nel suo programma nucleare e in più di un’occasione, in passato, è stata accusata di sostenere e aiutare gli sciiti in Iraq. Non a caso il disimpegno dettato da Obama è graduale e “in più fasi”: le sfere politiche e militari americane vogliono mantenere comunque un piede nel Paese, e attendere l’evolversi della situazione. Ufficialmente, comunque, per il momento la linea del ritiro ‘senza troppa fretta’ dettata dal nuovo inquilino della Casa Bianca va avanti. Con la speranza, per Washington, che la presenza “residua” degli Usa non costi come in questi quasi sette anni di operazioni.

Tuesday 5 May 2009

Che succede in Georgia?

di Emiliano Biaggio

Soldati georgiani ammutinati, un presunto golpe sostenuto dalla Russia, le accuse di Saakashvili e le smentite del Cremino: ma cosa succede in Georgia? Gli strascichi della guerra in Ossezia del sud non hanno tardato a farsi sentire. L’ex regione dello stato caucasico oggi repubblica indipendente – anche se riconosciuta come tale solo da Nicaragua e Russia – sembrerebbe non bastare più a Dmitrij Medvedev e Vladimir Putin: il Cremino avrebbe infatti ordito un “tentativo di golpe” in Georgia, almeno secondo le accuse del presidente georgiano Mikhail Saakashvili, che spiega così l’ammutinamento di un battaglione di soldati georgiani nella base militare di Mukhrovani, nella regione di Gori. Da Tblisi il ministro degli Interni Vano Merabishvili fa sapere che tutto è finito. “Siamo entrati nella base- afferma- e arrestato il comandante del plotone”. Ma l’accaduto sembra destinato ad avere ripercussioni nell’immediato: mercoledì prossimo in Georgia devono tenersi le esercitazioni della Nato e il ministro della difesa georgiano David Sikharulidze accusa la Russia di “voler disturbare” le manovre militari. Mosca nega ogni implicazione e respinge le accuse al mittente: “L’ammutinamento di una brigata del ministero della Difesa riflette la crisi politica ed economica della presidenza di Saakashvili”, commenta Dmitry Rogozin, inviato della Russia alla Nato. “Lui e il suo entourage- aggiunge- stanno cercando di spiegare le conseguenze dei loro fallimenti accusando la Russia di complotto”. Accuse che Rogozin definisce “una provocazione”. Sale ancora la tensione nel Caucaso, dunque. Nonostante gli scambi di accuse reciproche è innegabile che la Russia non voglia una Georgia troppo svincolata dal Mosca ed è risaputo che Putin e Medvedev non vogliono che lo stato confinante entri nella Nato. La Russia avrebbe anche più di un motivo per tramare in sordina, ma ben pochi interessi a destabilizzare la situazione, già tesa per via della guerra in Ossezia del sud. A Mosca sanno bene che il punto debole della Georgia è Mikheil Saakashvili: l’occidente, che pure vorrebbe sottrarre la Georgia alle pressioni moscovite, sa di non potersi fidare del leader georgiano, dimostratosi incapace di gestire la crisi e scatenare il conflitto russo. La crisi e la perdita dell’Ossezia del sud potrebbero costare a Saakashvili in termini di consensi. E chissà, magari il successore potrebbe andare più a genio ai leader del Cremlino. Certo i dubbi restano, e viene spontaneo chiedersi: che succede in Georgia?

Monday 4 May 2009

Brasile. Un muro per difendere la foresta. E separare ricchi da poveri.


di Emiliano Biaggio
Ufficialmente “servirà a preservare la natura” ed scongiurare la “deforestazione” della foresta tropicale, in un provvedimento reso necessario per “evitare che le costruzioni abusive continuino ad avanzare”. Eppure il muro che le autorità brasiliane hanno deciso di realizzare a Rio de Janiero divide non solo la città, ma l’intero Paese e l’intera opinione pubblica. Ma procediamo con ordine: il sindaco di Rio, Eduardo Paes, ha in mente di realizzare all’incirca 2.500 chilometri di muro per delimitare 13 favelas della città, 12 delle quali nel sud dell’agglomerato urbano dagli oltre 5 milioni di brasiliani. Le “eco-barriere”, come le definiscono le autorità locali, costeranno intorno ai 40 milioni di reias (circa 14 milioni di euro) e, fanno notare i critici del progetto, finiranno per isolare i ricchi dai poveri. Secondo l'architetto Sérgio Magalhães, la difesa dell'ambiente è solo un pretesto: "La favela è percepita come un luogo di violenza. Il governo- sostiene- attribuisce ai muri un ruolo che non saranno in grado di svolgere”. Niente barriere, “rafforzare la presenza dello stato nei territori dominati dagli spacciatori di droga è l'unico muro credibile per arginare la violenza”. In Brasile c’è chi parla di “apartheid”, una parola che non piace però alle istituzioni: "Se la costruzione del muro sarà accompagnata da programmi d'integrazione sociale all'interno delle favelas, non ci sarà segregazione”, assicura il segretario nazionale alla sicurezza pubblica Ricardo Balestreri. Al di là di tutto, salta agli occhi la ‘moda’ di questi ultimi tempi: neanche un mese fa un analogo progetto di muro- meno “eco” e più barriera- è stato avanzato da Gustavo Posse, amministratore del distretto argentino di San Isidro. Qui dovrebbe sorgere un muro alto 3 metri e lungo più di 270, che dovrebbe dividere i due barrios di La Horqueta- quartiere ricco- e di Villa Jardin- povero e malfamato. La barriera dovrebbe servire per “ridurre gli spostamenti dei delinquenti e preservare la tranquillità di La Horqueta”, ha spiegato Posse. Insomma: qui a farla da padrone, più che la ragione ambientale, è quella delle sicurezza. La stessa che nel settembre 2006 ha indotto l’Arabia Saudita ad annunciare il via libera alla realizzazione di 900 chilometri di muro lungo la frontiera con l’Iraq: “Il suo scopo principale- ha spiegato il consigliere per la sicurezza nazionale dell’emirato, Nawaf Obaid- è quello di tentare di rendere più sicuro il confine con l’Iraq il quale, dopo l’invasione della Coalizione, non è più in grado di controllare i propri confini”. Frontiere ‘instabili’ sono anche quelle tra Stati Uniti e Messico- dove Gorge W. Bush ha dato l’ok alla cementificazione del confine- e quelle tra Israele e territori palestinesi, lungo le quali il governo di Tel Aviv sta lavorando per garantire la sicurezza. L’impressione è che questa globalizzazione abbia perso: i confini non sono stati abbattuti, ma ricostruiti; le divisione sono sempre più marcate e visibili; la fine della guerra fredda non ha prodotto sicurezza, ma ulteriore instabilità. Le costruzioni di cemento e filo spinato, quelle già esistenti e quelle che verranno realizzate, fanno del ‘villaggio globale’ un mondo non aperto al mondo, una comunità ancor più chiuso e diviso. Da divisioni geografiche si è passate a divisioni edilizie, e da quel clima di prosperità generale che tanto ci si attendeva, si è passati ad una situazione di alta tensione. E il muro sembra essere un recinto entro cui contenerla e circoscriverla. In tutto questo, sorge spontanea una riflessione provocatoria: nel 1961 Kruscev ritenne necessario ricorrere ad un muro divisorio per fermare il flusso migratorio da Berlino est a Berlino ovest. Oggi, quel muro, risulta precursore e, per questo, realmente rivoluzionario.

Friday 1 May 2009

About Groningen...



Finalmente dopo tanto tempo una clip con le immagini dei luoghi principali del mio soggiorno olandese. Un viaggio tra le vie e le facciate dei locali principali di Haren e Groningen: il primo è il grazioso paesino, a sei chilometri dalla città, che ospitava (mi dicono è stato abbattuto) lo studentato in cui ho soggiornato; la seconda è il centro di buona parte della vita- soprattutto notturna- olandese. Un video di ricordi ( e malinconia, sic) per me e per quanti con me hanno condiviso quei momenti, un modo per mostrare a quanti non sono mai stati da quelle parti quanto Haren e Groningen siano meravigliose. Grazie a Ingmar per il video.

I got it at last! After long time here we have a Haren-Groningen videoclip with all main streets, buildings and- of course- locals of the place where I spent my dutch erasmus life. A trip along sites to remind the times gone and to show how wonderful are Haren and Groningen to who has never been there. In Haren was my studenthouse (now they said to me it has been smashed down), while in Groningen most of my dutch life, especially during the night. Special thanks to Ingmar, who sent me the video