Wednesday 31 August 2011

Ci sono strumenti eccezionali?

di Vincenzo Scarpetta per Euobserver, traduzione di Emiliano Biaggio


A seguito della recente ondata di panico sui mercati, la decisione della Banca centrale europea di acquistare titoli italiani ha dato a Roma una boccata d'ossigeno. I timori dei mercati si spiegano con una semplice e spaventosa prospettiva: se l'Italia, la quarta economia più grande d'Europa, resiste, resiste anche l'Euro. Per scongiurare il peggio, l'Italia ha un'unica, verosimilmente ultima, occasione di spingere in direzione di riforme radicali in campo economico e risolvere i propri problemi ormai cronici di crescita. Fallendo in questo, Silvio Berlusconi e il suo governo dovranno pensare a un futuro fuori dalla moneta unica. I problemi economici dell'Italia sono ben documentati: un debito publico gigantesco raddoppiato con un imbarazzante modesto tasso di crescita e una popolazione sempre più vecchia. Tutti questi non sono problemi nuovi, sono problemi strutturali. Il periodo di relativa calma sui mercati è prova una breve sopravvivenza: l'Italia è infatti troppo grande per essere aiutata. Col suo debito pubblico di 1,8 trilioni di euro, nè la Bce nè i governo stranieri possono garantire la stabilità finanziaria dell'Italia nel lungo periodo. Per mettere al riparo l'Italia dai mercati, i contribuenti dell'eurozona dovrebbero sottoscrivere migliaia di miliardi di debito pubblico italiano, o attraverso la Bce o attraverso la Efsf (European financial stability facility, il fondo di salvataggio dei paesi dell'eurozona). Una simile ipotesi incontrerebbe le forti opposizioni dei parlamenti di Germania, Paesi Bassi, Finlandia e Slovacchia. Ciò significa che, al di là di tutti i discorsi di solidarietà espresse dall'Europa, l'Italia è lasciata alle proprie strategie. Anche se ciò è un problema.
L'Italia è infatti bloccata in una situazione che vede una valuta sopravvalutata e tassi d'interesse inappropriati (che dovrebbero attestarsi attorno allo 0, e non all'1,5% della Bce). Quindi, c'è la necessità di tagliare più in profondità e con maggiore intensità rispetto alla Gran Bretagna, per convincere i mercati della sostenibilità lungo periodo del peso del proprio debito. Può quindi l'Italia ritornare sulla via della crescita economica e mostrare al mondo di poter far parte dell'eurozona? La partita per palazzo Chigi non è chiara, ma è certo che ora è tempo di accelerazioni.
Pressati Bce (che ha imposto misure concrete di austerity in cambio dell'acquisto dei titoli di stato) e mercati, Berlusconi e Tremonti si sono impegnati al pareggio di bilancio nel 2013 anzichè nel 2014, attraverso risparmi aggiuntivi per 45 miliardi. Questo è accolto con favore, ma adesso il punto è l'adozione di questo pacchetto di misure da parte del parlamento italiano e poi, ancor più importante, attuarlo correttamente e spingere per riforme a sostegno della crescita. Come sappiamo fin troppo bene dall'esempio greco, una cosa è far passare misure di tagli e risparmi, altra cosa è metterle in pratica.

Monday 29 August 2011

Da un paese senza governo una manovra senza credibilità nè efficacia

L'Italia di fatto commissariata, dopo aver dimostrato la propria inerzia e inaffidabilità, vara una finanziaria in modo confuso e improvvisato. A riprova dell'inadeguatezza dell'attuale classe politica.

l'e-dittoreale

Il Governo dà riprova di tutto il suo pressappocchismo con questa manovra correttiva, con un decreto che mostra meglio di tante altre volte lo stato confusionale che investe l'intera maggioranza. Nel consiglio dei ministri di ferragosto tutti - parole di Berlusconi - votano all'unanimità il decreto imposto dall'Europa, dopo di allora, nel giro di poche ore, tutti lo criticano a spada tratta. Lo criticano dall'opposizione, ma lo avversano soprattutto nella maggioranza. La Lega critica i provvedimenti sulle pensioni, nel Pdl chiedono l'aumento dell'Iva, in un tutti contro tutti che impone un vertice straordinario tra Bossi e Berlusconi per cercare una sintesi tra le varie posizioni. Nel frattempo la strada di una modifica al decreto diventa inevitabile, non tanto per le spinte interne a Pdl e Lega, quanto per i pareri che arrivano dalle commissioni del Senato. Su tutte spicca quella della commissione Affari costituzionali, che decreta l'incostituzionalità del provvedimento nei punti chiave. Dubbi di costituzionalità su contributo di solidarietà, rinvio del Tfr per i lavoratori pubblici, accorpamento alla domenica delle feste laiche, soppressione delle province con meno di 300.000 abitanti e liberalizzazione dei servizi degli enti locali. Inoltre, la relazione tecnica che correda il decreto non fornisce alcuna stima su quanto ricaverebbe lo Stato dall'accorpamento alle domenica delle festività civili, altro tasto su cui si è insistito parecchio. E poi gli effetti della Robin Hood tax, il balzello sui ricavi delle imprese operanti nel settore energetico, per la commissione Industria del Senato sono sovrastimanti. L'esecutivo propone, in sintesi, un manovra sballata già a partire dall'impianto di base, dalle relazioni confuse e approssimative. Una manovra che dà la dimensione insostenibile di questa manovra. Insostenibile non tanto per i contenuti - anche se più di qualcuno, anche nella maggioranza ne ha denunciato l'iniquità - quanto nell'incompetenza e la superficialità con cui è stata realizzata. Perchè di questo si tratta. D'accordo l'emergenza e l'urgenza, ma scrivere un decreto così non è accettabile. Questa manovra dimostra agli italiani, all'Europa e ai mercati, l'inaffidabilità della nostra classe politica dirigente. Non a caso commissariata dalla Bce.



Wednesday 24 August 2011

Le due guerre di Libia

di Lucio Caracciolo (direttore di Limes, da laRepubblica del 23 agosto 2011)

La fine del regime di Gheddafi segna l`inizio della vera lotta per il potere in Libia. La liquidazione del despota era il punto di fusione delle molte anime della aribellione. Ora sitratta di stabilire chi e cosa succederà al duce libico. Operazione non rapida e certamente sanguinosa: pur privato delle leve del potere, Gheddafi non sembra disposto a sgombrareil campo senzaincendiarlo, ricorrendo ovunque possibile all`arma estrema della guerriglia. Il regime non può più governare la Libia, ma non rinuncia a distruggerla. Dalle macerie della dittatura fiorirà uno Stato unitario, più o meno assimilabile a una democrazia, con un leader eletto e riconosciuto da tutti i cittadini libici (pur se non sappiamo chi e quanti sono, in assenza di un censimento)? Oppure sarà guerra civile permanente? O il pendolo della storia si fermerà in qualche punto intermedio fra i due estremi? Di sicuro, per ora, c`è che il vecchio regime sta sbriciolandosi e che milioni di libici festeggiano, liberi finalmente di immaginare una vita migliore. E mentre si dedicano a stroncare le sacche di resistenza degli ultrà gheddafisti - o dei disperati che non sanno a chi arrendersi senza rischiare la pelle - gli insorti già pensano a determinare i nuovi rapporti di forza. Chi fra loro comanderà, su quali territori e risorse, secondo quali regole o equilibri? In attesa che la polvere delle opposte propagande si depositi per aprire lo sguardo sull`orizzonte futuro, qualche illuminazione possiamo forse trarla dal modo in cui l`edificio gheddafiano si sta schiantando.
C`è un tratto comune nella fine di ogni tiranno: la perdita del senso della realtà. Come altri dittatori accecati dal potere, anche Gheddafi si era costruito un universo irreale. Quasi a immaginarsi eterno e invincibile. L`eco di tale paranoia risuona negli appelli lanciati durante la battaglia di Tripoli, a invocare una ad unabrigate fantasma, tribù ormai convertite alla causa della vittoria, milizie popolari di questo o quel quartiere, che un tempo sarebbero scattate in massa all`appello del qaid, inconcussa guida della rivoluzione, ma che ora aspettavano solo la fine del massacro. Gheddafi era da tempo un cadavere politico. La rapidità dell`avanzata finale su Tripoli, in cui non è peraltro difficile scorgere la mano professionale dell`intelligence e di forze speciali occidentali, conferma che il regime era marcio. Le sue architravi erano tarmate e usurate. In retrospettiva, i sei lunghi mesi di guerra - non i pochi giorni pronosticati in Occidente sull` entusiasmo dell`insurrezione di Bengasi - sono non tanto il prodotto della resistenza di Gheddafi, quanto delle divisioni tra chi ambiva ad abbatterlo per prenderne il posto.
Abbiamo assistito finora a due guerre parallele. Una calda e sanguinosa, tra i ribelli della Cirenaica e i loro alleati in Tripolitania e nel Fezzan, che con il sostegno delle potenze occidentali puntavano a finirla con il regime per aprire una nuova pagina nella storia della Libia. L`altra prevalentemente fredda e sotterranea, ma talvolta violenta (vedi il misterioso assassinio del generale Younes), fra le assai eterogenee componenti della coalizione anti-gheddafiana: islamisti e laici, conservatori e progressisti, esponenti tribali o di gruppi etnici particolarmente oppressi dal regime, berberi in testa. Unico fattore comune, la più o meno antica matrice gheddafista dei capi del Consiglio nazionale di transizione. In questo senso, il crepuscolo del colonnello può essere descritto come la progressiva e sempre più rapida diserzione dei suoi accoliti. Quasi un prolungato, strisciante colpo di Stato - avviato ben prima della rivolta di Bengasi - di chi si rendeva conto di non aver più nulla da guadagnare dal regime e perciò lo abbandonava. Perdendo foglia dopo foglia, la pianta del regime si è spogliata fino a esibire la radice ormai esausta: il colonnello e i suoi figli.
Il pericolo non è solo che da quella pianta morente emanino ancora veleni mortali, sotto forma di guerriglia, attentati, colpi di mano dei nostalgici del vecchio regime, a Tripoli come nella Sirtica o nel Fezzan. È soprattutto che la coalizione prodotta dalla necessità di eliminare Gheddafi si scopra troppo incoerente, che gli interessi particolari - tribali, etnici, regionali - prevalgano sulla necessità di costruire finalmente istituzioni libere nella Libia riunita. Un avvitamento di tipo iracheno, se non somalo. D`altronde, le performance del gruppo di Bengasi non sono incoraggianti quanto a capacità politiche e digestione. Né si deve dimenticare che l`assalto finale a Tripoli è venuto principalmente dall`Ovest e dalle montagne a prevalenza berbera, con il fronte orientale bloccato a Brega. Non sarà facile ricucire le antiche rivalità e le diffidenze fra tripolitani e cirenaici, o fra arabi, berberi e neri (questi ultimi assai compromessi col regime).
La speranza è che la fine della dittatura sia anche l`inizio della pacificazione fra le genti libiche e della costruzione di uno Stato unitario che non esiste, se mai è esistito. Per fortuna, la storia ha spesso più fantasia di chi prova a interpretarla. Le potenze europee ed atlantiche non possono comunque sottrarsi alle responsabilità che hanno voluto assumersi nel conflitto libico. Scesi in campo per un`improbabile "guerra umanitaria" - di fatto per cambiare il regime - la tentazione degli occidentali è di cantare vittoria, spartirsi le spoglie energetiche e tornare a occuparsi dei fatti propri. In tal caso la sconfitta è assicurata. Sconfitta dei libici che sperano in un futuro di pace, benessere e libertà. Ma anche di noi italiani ed altri europei che li avremo, come d`abitudine, usati e traditi.

Tuesday 23 August 2011

Taiwan, una scomoda eredità del passato

Taiwan, o Repubblica di Cina, è lo stato sovrano dell'Asia orientale composto da un arcipelago di isole formate da Taiwan (la più grande, che rappresenta il 99% del territorio nazionale), Penghu, Kinmen, Matsu e altri isolotti minori. E' il risultato della guerra civile cinese (1927-1937 e 1945-1950, interrotta dalla lotta contro i giapponesi), vinta dai comunisti guidati da Mao Tze-Tung, che sconfisse i nazionalisti del Kuomintang guidati da Chiang Kai-shek. Quando l'1 ottobre 1949 Mao proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese (Rpc), Chiang Kai-shek, grazie all'aiuto degli Stati Uniti, lasciò la Cina con circa 600.000 soldati e circa 2.000.000 di civili e si rifugiò sull'isola di Taiwan, dove istituì la Repubblica di Cina (Roc), con Taipei capitale provvisoria. Ci si attendeva che la situazione si potesse risolvere, contando anche sull'aiuto statunitense, tanto che ad oggi Taiwan si considera la sola vera Cina perchè espressione dell'eredità storica di Sun Yat-sen e Chiang Kai-shek. Il primo era per il rovesciamento dell'impero e la costituzione di una Cina democratica secondo quelli che considerava i tre Principi del Popolo: indipendenza nazionale, potere del popolo (cioè democrazia) e benessere del popolo (da ottenere attraverso una vasta riforma agraria). Nel Dopo la rivoluzione del 1911 che destituì l'ultimo imperatore della dinastia Qing e impose la repubblica, nel 1912 creò il Kuomintang, il partito nazionalista che dal 1925 venne guidato da Chiang Kai-shek, leader dell'ala della destra dello stesso partito, in forte rivalità con il partito comunista. Eroe della resistenza anti-giapponese (1937-1945), Chiang Kai-shek perse poi, come detto, la guerra civile e si rifugiò a Taiwan. Agli inizi del 1950 le forze maoiste invasero Taiwan e molti ritennero che il governo nazionalista di Taiwan sarebbe caduto a breve. La situazione cambiò del tutto con l'invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord (25 giugno 1950) e l'inizio della guerra di Corea. A questo punto l'allora presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, ordinò di occupare la porzione di mare tra la Cina continentale e Taiwan in modo da impedire il lancio di una operazione di sbarco da parte del governo di Pechino. Nel 1971 la Rpc venne ammessa all'Onu, al posto di Taiwan. Oggi Taiwan è formalmente uno stato indipendente e sovrano (anche se riconosciuto da una ventina di paesi appena, e solo dal Vaticano tra quelli stretegici), e il sole bianco su sfondo blu posto in alto a sinistra sulla bandiera è il disegno che venne usato per la prima volta in Cina dal Kuomintang, nel 1917, a rappresentare la presunta natura di unica e sola Cina. Ma la questione di Taiwan è di fatto ancora sospesa: Taiwan si considera indipendente, la Cina considera Taiwan una sua provincia. E da oggi anche gli Stati Uniti.

Monday 22 August 2011

«Tibet e Taiwan sono parte della Cina»

Il vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, riconosce «una sola Cina», e segna così il destino di due popoli. Sacrificati per via della crisi agli interessi economici di Washington.

di Emiliano Biaggio

Gli Stati Uniti sacrificano Taiwan e Tibet sull'altare della crisi e dei rapporti con la Cina, mettendo una pietra tombale su ogni possibilità di indipendenza dell'isola e di ogni effettiva autonomia della regione. «Non esiste per gli Stati Uniti una relazione più importante che quella rafforzata con la Cina», ha affermato il vicepresidente americano, Joe Biden, nel corso dell'incontro a Pechino con il suo omologo cinese, Xi Jinping. In un momento che vede gli Stati Uniti a rischio di una nuova recessione, con la valuta americana in affanno, e con la Cina a rappresentare uno dei maggiori creditori del colosso a stelle e strisce, non è un caso se per la Casa Bianca, come ha riconosciuto Biden, «nessun rapporto è più importante per gli Stati Uniti della relazione con la Cina», o meglio, con «una sola Cina». Parole non casuali, visto che da sempre il governo di Pechino considera l'isola di Taiwan un proprio possedimento, parte integrante della Repubblica popolare. Taiwan, anche nota come Formosa, era la Cina nazionalista che gli Stati Uniti riconobbero dopo la rivoluzione cinene, e che hanno sempre aiutato economicamente e militarmente. Allo stesso modo, fino all'incontro tra Biden e Jinping, il governo di Washington aveva sempre sposato la causa tibetana, e poche settimane fa il presidente Usa, Barack obama, non aveva esitato a ricevere il Dalai Lama, suscitando le ire di Pechino. Ma oggi i tempi sono cambiati, imprevedibilmente e in maniera critica. Gli equilibri sono mutati, e di conseguenza il peso delle Nazioni sullo scenario internazionale. E qui la Cina adesso è in posizione di forza, e gli Stati Uniti devono cedere e concedere. Per cui Biden ha dovuto ufficialmente dire che il Tibet è una «inalienabile parte della Cina». Ben inteso, sostenere la fattibilità del Tibet era cosa assai difficile e infatti solo una parte del popolo tibetano continua oggi a pensare che un ritorno alla situazione antecedente al 1950 sia possibile, ma le parole di Biden adesso legittimeranno ancora di più la Cina a imporre il proprio volere nella regione e cancellare ogni possibile di forma di reala autonomia. E infatti Xi Jinping - da molto considerato il quasi certo successore dell'attuale presidente Hu Jintao - ha accolto positivamente queste dichiarazioni. «Viste le nuove circostanze - ha risposto - Cina e Stati Uniti condividono ancora di più ampi interessi e responsabilità comuni». "Viste le nuove circostanze" sta a significare la crisi e il nuovo ruolo dei, "Cina e Stati Uniti condividono ancora di più ampi interessi" sta ad indicare la convergenza americana su posizioni più filo-cinesi. Per la disperazione dei tibetani e per lo sconcerto dei cinesi di Taipei.

Thursday 18 August 2011

breviario

«Dalle proteste degli indignados spagnoli contro le spese sostenute dalla Spagna per il tour del Papa a Madrid, viene un’idea buona anche per l’Italia: ma perché nella manovra di lacrime e sangue non si toglie qualche privilegio al vaticano?»
Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, 18 agosto 2011

Wednesday 17 August 2011

Saturday 13 August 2011

Tremonti e la cravatta di Yale



Curioso intermezzo alla conferenza stampa sulla manovra: un cronista nota la cravatta indossata dal ministro Giulio Tremonti, diversa dal solito, e lo invita a spiegare il perché. La risposta arriva dopo un po' di incertezza: "È della scuola di Diritto di Yale"

Tremonti e la cravatta: stile o messaggi in codice?

Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, illustra la manovra correttiva a palazzo Chigi con una cravatta insolita che attira l'attenzione di qualche giornalista in sala. «Noto che oggi sfoggia un cravatta diversa dalle solite che siamo abituati a vedere. La manovra correttiva segna anche una modifica nello stile?», domanda un cronista. «E' una cravatta della scuola di diritto di Yale», risponde il ministro.
Quella di Yale, nel Connecticut, è una delle più antiche e rinomate università degli Stati Uniti, alla quale si sono formati anche diversi presidenti degli Usa. Ma soprattutto è l'università al centro della storica rivalità con Harvard, altro prestigioso ateneo statunitense. Tremonti tra le due preferisce quindi Yale, e fin qui nulla di strano. O forse no. Perchè tra i tanti che sono passati per Harvard c'è anche un signore il cui nome è Mario Draghi. Nel giorno in cui Tremonti illustra una manovra imposta dalla Bce tra poco a guida Draghi la cravatta sarà allora un caso? (Emiliano Biaggio)

Friday 12 August 2011

Tangenti italiane ai talebani

In Afghanistan mazzette ai guerriglieri per evitare attacchi contro i nostri soldati. I file di WikiLeaks rivelano: nel 2008 Bush disse a Silvio di finirla con i pagamenti. E da allora i caduti in missione sono quadruplicati. Ecco l'inchiesta de l'Espresso, rilanciata anche da The Times di Londra.
di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi (l'Espresso)

I soldati italiani in Afghanistan combattono, uccidono e muoiono. I bollettini di guerra sui nostri militari colpiti ormai sono quasi quotidiani: in due settimane ci sono stati due caduti e dieci feriti. Un tributo di sangue elevato, pari a quello degli altri eserciti occidentali impegnati contro i talebani in questa estate di fuoco. Ma fino a due anni fa le nostre perdite erano molto più basse, tanto da venire citate come prova di una voce che circolava in tutti i comandi della Nato: il governo di Roma paga i guerriglieri per evitare attacchi. Un'accusa sempre smentita dai ministri che adesso prende consistenza nei cablo segreti della diplomazia americana, ottenuti da WikiLeaks e pubblicati in esclusiva da "l'Espresso". Con una rivelazione fondamentale: nel giugno 2008 George W. Bush ha domandato personalmente a Silvio Berlusconi di farla finita con le tangenti ai miliziani fondamentalisti. Lo ha chiesto nel primo summit dopo il ritorno al potere del centrodestra, ottenendo "la promessa del Cavaliere ad andare a fondo nella questione".
I documenti riservati di Washington mostrano come il problema fosse diventato fondamentale per gli americani, che continuavano a ricevere rapporti dall'intelligence e dalle altre nazioni schierate in Afghanistan, sempre più insofferenti per la "scorciatoia" usata dagli italiani per pacificare le zone affidate al loro controllo. Secondo le informazioni raccolte dai nostri alleati, i "pagamenti per la protezione" servivano a sancire tregue tra le truppe di Roma e i guerriglieri nei territori più caldi. Dal 2008 in poi ci sono almeno quattro dossier della diplomazia statunitense che sollecitano interventi al massimo livello sul governo Berlusconi per stroncare il giro di mazzette. Fino all'estate 2009, quando con la prima grande offensiva della Folgore anche i nostri militari sono passati all'assalto dimostrando con le armi la nuova volontà bellica del centrodestra. Ma da allora anche il numero di bare avvolte nel tricolore è cominciato a crescere, sempre di più fino a quadruplicare: nei primi quattro anni erano state sei, negli ultimi due sono state 24 a cui vanno aggiunti oltre cento feriti. Un lungo elenco di uomini che si sono sacrificati per rendere credibile la nostra politica estera e contribuire al tentativo di dare sicurezza alle popolazioni afghane.
Il forte segnale degli Usa. Il primo dei file scoperti da WikiLeaks è dell'aprile 2008, alla vigilia delle elezioni che portarono alla vittoria del centrodestra, quando l'ambasciatore Ronald Spogli definisce la strategia verso il prossimo governo. A partire dalla priorità di ottenere un potenziamento del dispositivo in Afghanistan. "Sia Berlusconi che Veltroni saranno riluttanti ad esporre i soldati italiani a rischi più grandi. Faremo pressioni perché le truppe assumano un atteggiamento più attivo contro gli insorti. Daremo anche un forte segnale opponendoci all'abitudine del passato di pagare denaro per ottenere protezione e negoziare riscatti per la liberazione di persone rapite". Quando il Cavaliere si insedia a Palazzo Chigi gli emissari di Washington cominciano subito a farsi sentire con decisione. Il 6 giugno, anniversario dello sbarco in Normandia, Spogli incontra il presidente del Consiglio e Gianni Letta per definire l'agenda dei colloqui con il presidente Bush. "L'ambasciatore ha detto a Berlusconi che continuiamo a ricevere fastidiosi resoconti sugli italiani che pagano i signori della guerra locali e altri combattenti. Berlusconi si è detto d'accordo che ciò vada fermato".
L'impegno del Cavaliere. Stando ai documenti ufficiali, nel successivo vertice con Bush "in merito alle accuse di pagamenti italiani ai leader degli insorti per evitare attacchi, Berlusconi ha promesso che andrà fino in fondo". Insorti è il termine con cui gli americani chiamano tutti i miliziani attivi in Afghanistan: fondamentalisti talebani, signori della guerra locali e terroristi di Al Qaeda.
Ma quattro mesi dopo la situazione non è cambiata. Anzi, nel suo resoconto indirizzato all'attenzione della Casa Bianca, Spogli è ancora più duro. Loda la decisione di concentrare i 2.200 soldati nella Regione Ovest, affidata al comando tricolore, sottolineando però il peso dell'affaire tangenti. "Disgraziatamente, l'importanza del contributo è messa a repentaglio dalla crescente reputazione negativa degli italiani che evitano i combattimenti, pagano riscatti e denaro per ottenere protezione. Questa reputazione è basata in parte su voci, in parte su informazioni dell'intelligence che non siamo stati capaci di verificare completamente. Vero o no, resta il fatto che gli italiani hanno perso 12 soldati in Afghanistan (questa cifra include le vittime di incidenti, ndr.), meno di gran parte degli alleati con responsabilità simili. La maggioranza degli scontri nella zona affidata all'Italia sono stati condotti dalle forze americane o dell'esercito di Kabul. Le indicazione che abbiamo ricevuto dal quartiere generale della Nato suggeriscono che questo comportamento potrebbe provocare tensioni tra gli alleati".

Wednesday 10 August 2011

Ici per il Vaticano e 8‰ inespresso allo Stato

Lo chiedono atei e agnostici. Uno scherzo? Assolutamente no. Un modo per far fronte alla crisi e pareggiare i conti.

Come uscire dalla tenaglia della crisi? Che cosa tagliare? A chi chiedere sacrifici? Ognuno esibisce la sua ricetta. L’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar), a costo di provocare scontate e virulente reazioni, propone di «intervenire sugli enormi contributi che lo Stato eroga ogni anno per fini religiosi». L’Uaar ricorda che, «anche solo lasciando allo Stato la quota delle scelte inespresse dell’otto per mille, si recupererebbero ogni anno oltre seicento milioni di euro». Altri fondi arriverebbero, sempre secondo gli Atei, «dall’introduzione dell’Ici sui beni ecclesiastici e dall’eliminazione di ogni onere statale per la scuola privata, come Costituzione comanda». Qualcuno, nella maggioranza, se la sente di prendere nota?
(Da la Repubblica del 10 agosto 2011)

Il mare nero tra le colonne d'Ercole

A Gibilterra il rifornimento in acqua ha già prodotto inquinamento, e il pericolo disastro ambientale è sempre dietro l'angolo.
di Emiliano Biaggio

Si chiama bunkering, ed è il rifornimento delle navi di carburante in mare attraverso tubi di gomma che collegano le navi alle stazioni galleggianti. Un fenomeno che tra le colonne d'Ercole è cresciuto a dismisura e che mette in pericolo lo stretto di Gibilterra. Perchè sempre più navi si riforniscono in acqua grazie a questa pratica non certo indolore, poichè rischia di far lievitare l'inquinamento. Di più: gli ecologisti parlano di «una bomba ecologica pronta a scoppiare». Dallo stretto transitano più di 110 mila navi ogni anno, che beneficiano di un regime fiscale privilegiato: il carburante non viene tassato. Perciò le navi riescono a economizzare le spese di ammaraggio nel porto. Risultato: quotidianamente decine di navi cargo effettuano il bunkering, tra mille incertezze. Infatti, sostengono gli ecologisti, basta un piccolo errore durante le operazioni e il rischio di una marea nera è molto elevato. Rischio peraltro permanente. A Gibilterra, infatti, per via della mancanza di spazio per stoccare le cisterne, tre grandi pompe si trovano in via permanente nella baia. Autorizzate dalla Gran Bretagna, esse sono invece vietate in Spagna. Tant'è vero che, dal lato iberico, il rifornimento si fa solo a terra. E per ovvi motivi: nel porto di Algesiras, attraccano navi in grado di imbarcare fino a 100 mila tonnellate di carburante. Insomma, i pericoli ambientali esistono, ma per le autorità internazionali il bunkering è un'attività legale, che «rispetta alla lettera le normative» internazionali e dell'Ue, che il bunkering non l'ha vietato.
Eppure il volume degli idrocarburi che in passato sono finiti in mare è enorme. Solo nella baia di Algeciras, ha denunciato Patricia Navarro, ispettrice ambientale di Cadice, la mole di greggio finita in acqua è ingente, ma probabilmente il danno più grave è causato dalle perdite dovute al bunkering. «Gibilterra si comporta con assoluta irresponsabilità. Qui il principio del "chi inquina paga" non funziona», ha denunciato Navarro. Il problema è di tariffe, e quindi economico. In mare si Vende carburante nautico al 20% in meno rispetto ai prezzi praticati a terra. L'attrazione di Gibilterra è irresistibile, tanto che se dieci anni fa il volume del carburante travasato nella baia di Algeciras non arrivava al milione di tonnellate, alla fine del 2009 la cifra si era più che quintuplicata. E oggi nello stretto si possono vedere regolarmente navi isolate che sfilano lungo la costa: sono in fila davanti alle pompe di benzina galleggianti, e nell'attesa vagano tra le acque spagnole e quelle di Gibilterra (da questo lato della Rocca la colonia ha giurisdizione su tre miglia), invocando quello che in gergo marino si chiama "passaggio innocente", il diritto di attraversare acque territoriali di altri paesi se si naviga in modo rapido e ininterrotto e senza arrecare danno allo stato costiero. Ma pronte ad arrarcarlo al tratto marino.

Tuesday 9 August 2011

breviario

«Le cose che dice la Santanchè non appartengono al novero delle cose serie. La Santanchè è una categoria antropologica, non può cambiare».
Fabio Granata, deputato di Fli, in un'intervista a il Fatto quotidiano del 9 agosto 2011.

Monday 8 August 2011

Nel tramonto del credito Usa la Cina vede il proprio tracollo

Caustici commenti dal Quotidiano del popolo e da Xinhua contro i politici americani, la loro democrazia, inutile, il loro avventurismo militare. Ma vi è soprattutto paura che il dollaro venga inflazionato, trascinando anche la Cina, che possiede 1160 miliardi in titoli di Stato. La supplica di Pechino.
di Wang Zhicheng (fonte: AsiaNews)
Da alcuni giorni sul Quotidiano del popolo e sull’agenzia Xinhua si sprecano i commenti sul declassamento del debito degli Stati Uniti. Anche oggi ve ne sono due o tre. Ma nessuno di questi commenti sembra rappresentare la voce ufficiale: finora i massimi leader si sono tenuti in un riserbato silenzio e i testi pubblicati appaiono troppo discordi fra di loro nei temi e nei modi.
Essi passano da un’accusa di “irresponsabilità” dei politici americani, fino a dubitare dell’efficacia della democrazia Usa; dalle offese sulla “dipendenza da drogati” per il debito della popolazione americana, fino alle accuse contro il militarismo e l’avventurismo Usa in Iraq e Afghanistan.
Ma alla fine, tutti i commenti finiscono in supplica che gli Stati Uniti onorino i loro debiti “per mantenere stabile il dollaro” e dare speranza alla crescita economica mondiale.
Il commento pubblicato oggi sul Quotidiano del popolo (a firma di Zhong Sheng, “voce della Cina”), sottolinea che le difficoltà degli Usa (e dell’Europa) derivano dalle loro strutture democratiche e dal partitismo, che fa mettere i propri interessi al primo posto, invece che quelli della nazione.
“Bisogna comprendere che se gli Usa , l’Europa e altre economie avanzate falliscono nel portare le loro responsabilità e continuano il loro incessante disordine [basato] su interessi egoistici, questo frenerà in modo serio uno sviluppo stabile dell’economia globale…La gente ha profondo senso negativo riguardo la capacità decisionale della politica delle nazioni occidentali”.
E riferendosi agli Stati Uniti, il commento predica: “Ciò che è stato portato sull’orlo del precipizio non è l’economia globale, ma la politica di Washington”.
Due giorni fa, quando Standard & Poor’s ha declassato il debito Usa ad Aa+, su Xinhua è apparso un altro commento, perfino sprezzante, che accusa gli States di essere “dipendente dal debito” e che è tempo di “stringere la cinghia”, risparmiando.
Oggi, Xinhua, riportando un commento in cui si accusano gli Stati Uniti di spendere troppo nelle armi e nell’esercito, con grandi spese in Iraq e Afghanistan, consiglia alla superpotenza in declino che “è tempo… di riflettere sui propri doveri e pensieri di dominio” e domanda a Washington di “cambiare le sue politiche di interferenza all’estero”.
Il commento accusa anche gli States di volere a tutti i costi “un dollaro debole” per rafforzare le esportazioni americane: “per questi disperati politici, potenziare le esportazioni sembra essere l’ultimo tentativo per dare un scossa all’economia Usa”.
Eppure tutti i commenti finiscono poi dicendo che prima di ogni mossa, gli Stati Uniti non devono dimenticare “la responsabilità di emettitore di moneta di riserva per mantenere stabile il valore del dollaro”, che è poi quanto alla Cina serve.
La Cina è Paese con una riserva monetaria straniera la più ricca al mondo. Ma il suo problema che almeno il 70% delle sue riserve – fra titoli di Stato e altri investimenti - sono in dollari. Pechino ha oggi almeno 1160 miliardi di dollari in titoli di Stato Usa. Una caduta del dollaro impoverisce almeno altrettanto la stessa Pechino.
In più, gli Stati Uniti sono il Paese a più alta importazione cinese, con 364,9 miliardi di dollari. Se le esportazioni verso gli States diminuiscono, il problema della sovrapproduzione cinese, già forte, diviene ancora più serio, con conseguenze sulla disoccupazione e sule tensioni sociali. Per questo, un altro commento di Xinhua, a firma di Li Xiangyang, dice che “gli americani non devono stringere la cinghia”: se riducono i consumi, addio esportazioni cinesi.
Secondo analisti, questi commenti servono soprattutto per calmare l’opinione pubblica cinese preoccupata di un possibile impoverimento del Paese (“svenduto all’America”, come dicono), esaltando la capacità decisionale, la nulla democrazia, il patriottismo anti-taiwanese dei cinesi. Ma rimane sempre l’ultima supplica: “Prima che gli Usa facciano qualunque mossa, per favore ricordate: non dimenticate la vostra responsabilità come emettitore di moneta di riserva per mantenere stabile il valore del dollaro”.

Friday 5 August 2011

La Cina alla guerra delle risorse

Il paese del dragone alla ricerca di petrolio, del pesce e del gas: la sfida della marina che guarda lontano.

(fonte: blitz quotidiano)

I cinesi la chiamano “la difesa del mare lontano”, è l’ultima strategia dell’esercito cinese che sta cercando di proiettare la sua potenza navale ben oltre la sua costa dai porti petroliferi del Medio Oriente, per spodestargli Stati Uniti dal loro primato conquistato negli anni. Pesce, petrolio e gas: l’assalto del dragone cinese parte con in testa i suoi militari vestiti di bianco. La velocità con cui sta avanzando in organizzazione, strutture e rotte è impressionante. La sua forza è la novità: rompere con la tradizione e sperimentare nuove tattiche. La strategia è una rottura netta da quello tradizionale, l’importante è non smettere di guardare il proprio obiettivo e rinnovarsi sulla base della forte preparazione che fa parte della memoria storica del gigante cinese.
L’obiettivo dei dirigenti cinesi è avere navi da guerra per scortare le navi mercantili, cruciali per l’economia del Paese, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti. L’area calda è quella che va dal Golfo Persico allo Stretto di Malacca, nel sud est asiatico. Se prima le battaglie si facevano frontalmente, adesso i cinesi hanno deciso di usare i militari per fare la guerra commerciale in mare senza mai mollare le risorse del Mare cinese e guardando anche oltre l’orizzonte delle zone pattugliate da anni. (leggi tutto)

Thursday 4 August 2011

"Il Governo rendiconta". Guida anti-crisi per Confindustria e sindacati

In occasione del tavolo governo-parti sociali a palazzo Chigi, Berlusconi distribuisce un libro con tutte le cose fatte in tre anni per l'economia.


di Emiliano Biaggio


«Intendiamo non solo avere idee e stipulare accordi, ma anche avere una più vasta comunicazione di quello che il Governo ha fatto e farà». Silvio Berlusconi, dopo aver incontrato le Parti sociali, mette in chiaro che le intese Da sole non bastano. Detto, fatto. E un po' a sorpresa, in attesa di capire quali fossero le ricette del governo per la crescita, i segretari confederali dei sindacati, nonchè il presidente di Confindustria si ritrovano - tra gli altri - a sfogliare e presidente della princiapile organizzazione degli industriali si sono quindi ritrovati a sfogliare un libricino, un opuscolo patinato, aggiornato al 30 marzo 2011, dal titolo che è davvero un programma: Il Governo rendiconta - I provvedimenti approvati: novita' e opportunità. Cento pagine per ripercorrere quanto fatto finora dall'esecutivo e quanto ancora intende fare per il rilancio del Paese e la ripresa dell'economia.
Sette le «missioni» che si è posto il IV Governo Berlusconi: rilanciare lo sviluppo, sostegno a famiglie e giovani, sicurezza e giustizia, sud, federalismo, piano straordinario di finanza pubblica e modernizzazione dei servizi. Per ognuna di queste voci il riassunto delle cose fatte e quelle da fare. Il tutto preceduto da un'introduzione autografata di Berlusconi (ritratto in controcopertina mentre saluta sorridente in doppiopetto), in cui si assicura che «il nostro governo del fare ha realizzazo il meglio possibile nella peggiore situazione economica possibile».
Ecco allora che, a guardar bene, sono state intraprese ben 106 azioni in oltre 42 voci economiche (dal sostegno agli imprenditori alla competitività delle Pmi, dalle agevolazione per l'imprenditoria giovanile all'internazionalizzazione delle imprese, dal libro unico alla legge obiettivo fino alla legge di stabilità del 2011). Così, si ribadisce che questa maggioranza ha previsto 100 milioni di euro di finanziamento per l'apprendistato (legge 191 del 2009), un aiuto agli imprenditori con ammortizzatori sociali per 950 milioni di euro al 2012 e la riduzione del 3% dell'acconto Irap ed Ires (legge 2 del 2009). E poi le infrastrutture, per le quali - si legge sempre nella pubblicazione - è stato istituito un fondo per il potenziamento delle rete nazionale, «comprese le reti di telecomunicazioni ed energetiche» (legge 133 del 2008). Senza dimenticare che per il finanziamento delle opere strategiche di «preminente interesse nazionale» sono stati concessi finanziamenti per 9,4 miliardi (legge 2 del 2009).
«Di tutte queste cose e di molto altro ancora rende conto questa pubblicazione istituzionale», sottolinea il premier nella sua prefazione. Che assicura: «Continueremo a lavorare negli interesse degli italiani fino al termine del nostro mandato».

Wednesday 3 August 2011

Al Senato i voti fantasma

La denuncia dei radicali: può esprimersi anche chi non c'è, fermare il fenomento. L'Aula non approva.

di Emiliano Biaggio

Persone fisicamente non in Aula possono votare ugualmente. Come? Semplice. Basta che un collega "delegato" presente voti anche per chi non c'è. Più che uno scherzo, una realtà. E' quella del Senato della Repubblica, dove anche gli assenti possono votare provvedimenti e leggi. Tanto che, in materia di riordino a palazzo Madama, i radicali del Pd (Emma Bonino, Donatella Poretti e Marco Perduca), chiedono - in un ordine del giorno presentato al
programma di bilancio interno al Senato - di intervenire una volta per tutta per eliminare il fenomeno.
I tre firmatari dell'odg denunciano infatti «la pratica molto diffusa di voto per gli assenti», e chiedono quindi al collegio dei questori di «promuovere la realizzazione di un impianto di voto che, sul modello di quello adottato alla Camera, impedisca il voto degli assenti». L'ordine del giorno è stato bocciato.

Tuesday 2 August 2011

Corno d'Africa, la siccità colpisce 13 milioni di persone. E mancano 580 milioni di dollari

L'allarme del vicedirettore generale del Wordl Food Program dell'Onu. Che avverte: «garantire finanziamenti o sarà crisi umanitaria».

di Emiliano Biaggio

Quella in atto nel Corno d'Africa «per la regione è la peggiore siccità degli ultimi 60 anni», anche se «non stiamo assistendo agli scenari tragici degli anni Ottanta e Novanta». Infatti «in passato c'era una minore siccità ma c'erano più vittime». Lo afferma Amir Mahmoud Abdulla, vicedirettore generale del Programma alimentare mondiale (Pam, in inglese Wfp- World food programm), ascoltato dalla commissione Affari esteri del Senato. La situazione, comunque, allo stato attuale è critica. «Ha raggiunto un livello inaccettabile il numero delle vittime tra i bambini», e ci sono «oltre 13 milioni di persone colpite dalla carestia» in tutta la regione. Finora, comunque, aggiunge Abdulla, come Pam «siamo riusciti a raggiungere 11 milioni di persone con gli aiuti alimentari», ma il problema è che i prezzi dei generi alimentari «sono elevati e volatili». Rischiano di più gli altri due milioni di persone, quelle della Somalia meridionale, dove «non siamo ancora riusciti ad accedere».
Per il corno d'Africa, mette in guardia Abdulla, «la sfida più importante è la gestione della crisi nel lungo periodo». In un periodo di crisi economica e finanziaria come quello
attuale, «la sfida sarà cercare di assicurare uno sforzo continuo» a sostegno dei popoli e dei paesi (Etiopia, Somalia, Kenia, Uganda e Gibuti), soprattutto a livello finanziario. Quindi occorrerà fare in modo che «i governi nazionali assicurino i finanziamenti», anche perchè «mancano 580 milioni di dollari» per i programmi di aiuto, denuncia. Allo stato attuale, infatti, sulla carta «ci sono 250 milioni di dollari garantiti dalle promesse dagli impegni di contribuzione». Impegni, precisa Abdulla, che hanno consentito «l'autorizzazione dell'acquisto di oltre 80 milioni di dollari in beni alimentari». Con le risorse economiche a disposizione, fa sapere, e' garantita la copertura «fino a gennaio 2012». Dopo, sarà ancor più emergenza.

AS Grifondoro, maggica giallo-rossa

Di Harry Poter ce n'è uno

«Non sono Harry Potter. Effettivamente manca ancora qualcosa, mancano giocatori, non so dire quanti. Questo spetterà allo staff e al club che ci stanno lavorando sopra, comunque posso assicurare che qualcosa ancora manca». Luis Enrique, noto per essere stato calciatore della nazionale spagnola e adesso noto per il suo ruolo di allenatore della Roma, cita Harry Potter per dire che se la Roma è magica lui invece magie non ne fa. Quelle le lascia al capitano del Grifondoro, sempre più idolo di Hogwarts.
Intanto, in attesa della nuova stagione, la dirigenza si muove sul mercato: per la stagione 2011-2012, la società del Grifone mira a rafforzare la rosa e affiancare capitan Potter con giocatori di alto livello. La dirigenza sta trattando con Serpeverde per Tiger, ma Draco Malfoy si oppone. Il presidente Francus Severus Sensibus intanto sta trattando in prima persona l'ingaggio di Nick Quasi-senza-testa, ma la federquidditch si oppone perchè il regolamento non contempla la possibilità di tesserare i fantasmi, ma neanche il divieto. In caso di veto della federazione dalla Roma offrono Mido e Fabio Junior.

Monday 1 August 2011

Il riposo del guerriero

Lui è Renato Brunetta, dall'8 maggio 2008 ministro della Pubblica Amministrazione. Famoso per la sua lotta ai "fannulloni" del pubblico impiego, è quello ricordato per l'iniziativa dei tornelli nei ministeri per combattere l'assenteismo. E' anche quello che insulta i giovani e i precari, soprattutto quelli che lo contestano, cui dice di essere «l'Italia peggiore», «dei poveretti». A loro lui rinfaccia di essere dei fannulloni: «Non lavorate». E chi è scenza lavoro «vada ai mercati generali a scaricare le cassette». Ecco, in questa foto d'archivio, il paladino del lavoro e nemico giurato degli scansafatiche durante il convegno di Confindustria del maggio 2009.

Dopo il «sì» si spegne il desiderio della donna

Lo dicono i sondaggi: dopo il matrimonio praticamente una donna su due fa sesso una volta alla settimana, e solo una su dieci si sente appagata.

di Emanuele Bonini

Sesso addio, o quasi. Dopo le nozze la donna avverte meno il desiderio di rapporti: è quanto emerge il sondaggio ''Che coppia siete sotto le lenzuola?'' condotto su 1248 utenti da matrimonio.it, il sito internet dedicato agli sposi più visitato in Italia, per indagare sulle dinamiche della vita sessuale di coppia dopo la pronuncia del fatidico si'. Il ritratto che emerge è quello di una sposa appagata, ma un pò stanca: sebbene due terzi delle donne siano sposate o convivano da non più di due anni, nella maggioranza dei casi l'amore si fa solo una volta la settimana (45,4%). Il 44% delle rappresentanti del gentil sesso risulta soddisfatto della propria vita sessuale, anche se si ritiene «spesso troppo stanca per fare l'amore» e solo il 12,5% si sente «pienamente appagata». Una domanda, valida per entrambi i sessi, appare quasi obbligatoria: davvero il matrimonio rende felici?
Sarà che forse dopo il «sì» la donna (o l'uomo) probabilmente sa di aver raggiunto ciò che voleva, o sarà magari il fatto che la relazione è diventata routine, ma sta di fatto che l'uomo deve darsi da fare se vuole riaccendere il desiderio. Dall'indagine emerge che per scatenarsi la sessualità femminile ha bisogno di stimoli (indossare lingerie sexy piace al 62%), di dolcezza (lo chiede il 25%) e di passione (22%), per esempio lasciandosi travolgere dalla libido nel salotto di casa (piace al 51%). La comunicazione resta poi la migliore arma per risolvere i problemi, anche se solo la metà delle donne dichiara di non avere remore a comunicare desideri e preferenze al partner.