Pompei che crolla e la nuova riforma dell'università: ecco lo stato della cultura made in Italy.
l'e-dittoreale
Sotto i colpi martellanti della pioggia cade e si sgretola Pompei, sotto una pioggia battente l'Aula della Camera approva la riforma dell'università, provvedimento che ridisegna il mondo accademico in chiave aziendal-privatistica ma in versione impresa in crisi, con la sola eccezione della mancanza di aiuti di stato. L'area archeologica campana si sbriciola e si dissolve, l'università pure, almeno come eravamo abituati a conoscerla. Ma nel complesso il panorama italiano è fatto di impoverimento culturale. Perdita di patrimoni e ricchezze passate ma soprattutto future, per un paese in mal distruzione che paga errori passati e pagherà nefandezze più attuali. L'ultima, in ordine cronologico, quella di fare dell'università - pagata dalle famiglie - un'impresa in mano ai privati. Al senato accademico si affianca un Consiglio di amministrazione - organo tipico delle aziende - che avrà - come le aziende - responsabilità di spesa, assunzioni e costi di gestione. In perfetto stile aziendale, ecco inserita nell'università del ministro Gelmini, più flessibilità (o precarietà, a seconda delle collocazioni ideologiche e non). Via libera quindi alla riforma del reclutamento dei ricercatori, con l'introduzione di un sistema di massimo due contratti a tempo determinato di 8 anni (4+4). Dopo otto anni un'esame d'idoneità determinerà se il ricercatore - ormai almeno trentaduenne- è valido e idoneo ad una conferma a tempo indeterminato come associato, in caso contrario terminerà il rapporto con l'università maturando, però dei titoli utili per i concorsi pubblici. Auguri, allora. Da parte di tutti, governo incluso. Scordatevi aiuti, perchè l'azienda-Stato di berlusconiana forma non ne ve ne darà: la nuova università così come voluta da Gelmini intende premiare il merito, e le borse di studio non sono più di chi ha redditi più bassi ma di chi racimola più trenta e lodi. Se siete poveri e bravi, buon per voi, anche se chi è povero la laurea non se la paga nè se la compra. Se non siete bravi e oltretutto poveri, peggio per voi: l'assistenzialismo è cosa di Stato, e la crisi ci dice il welfare non premia. A onor del vero va detta una cosa: laddove si parla di governance universitaria si riprende un'idea di Luigi Berlinguer, ministro di un governo di diverso colore che mise mano agli atenei di casa nostra con una riforma, allora proprio come oggi, discutibile. E sempre a onor del vero va aggiunta una seconda annotazione: se l'esecutivo, con questa sua riforma, opera tagli all'università pubblica a quella privata lo stesso Governo, questo, li cancella. E riguardaono gli ultimi tre anni. Nell'ultima versione del maxiemendamento alla legge di Stabilità approvato dalla commissione Bilancio della Camera c'è infatti un finanziamento di 25 milioni per «le università non statali legalmente riconosciute». Nel nostro paese, è bene ricordarlo, università non statali legalmente riconosciute vuol dire istituti cattolici. Un regalo alla Chiesa chissà, forse dettato dalla necessità di un premier sempre più in difficoltà da tempo scaricato dalla Santa sede e dai vescovi. In sintesi l'Italia lascia la cultura in balia dei tempi e degli eventi: e i tempi ci dicono che l'ateneo è ormai a conduzione d'impresa, e gli eventi travolgono il nostro patrimonio artistico-archeologico. Sotto i colpi di una piogga a questo punto acida la cultura va in pezzi: nella "mignottocrazia" di oggi trionfa dunque l'arretratezza al servizio dell'ignoranza. Ma cio non sorprende se un ministro dell'Economia dichiara: «Di cultura non si vive, vado a farmi un panino alla cultura». Parole simili non aiutano, al massimo alimentano il qualunquismo e quanti dicono e continueranno a dire "vi siete mangiati tutto adesso mangiatevi pure questo". Il guaio è che lo stanno facendo davvero.
(poi editoriale per la puntata del 3 dicembre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)
l'e-dittoreale
Sotto i colpi martellanti della pioggia cade e si sgretola Pompei, sotto una pioggia battente l'Aula della Camera approva la riforma dell'università, provvedimento che ridisegna il mondo accademico in chiave aziendal-privatistica ma in versione impresa in crisi, con la sola eccezione della mancanza di aiuti di stato. L'area archeologica campana si sbriciola e si dissolve, l'università pure, almeno come eravamo abituati a conoscerla. Ma nel complesso il panorama italiano è fatto di impoverimento culturale. Perdita di patrimoni e ricchezze passate ma soprattutto future, per un paese in mal distruzione che paga errori passati e pagherà nefandezze più attuali. L'ultima, in ordine cronologico, quella di fare dell'università - pagata dalle famiglie - un'impresa in mano ai privati. Al senato accademico si affianca un Consiglio di amministrazione - organo tipico delle aziende - che avrà - come le aziende - responsabilità di spesa, assunzioni e costi di gestione. In perfetto stile aziendale, ecco inserita nell'università del ministro Gelmini, più flessibilità (o precarietà, a seconda delle collocazioni ideologiche e non). Via libera quindi alla riforma del reclutamento dei ricercatori, con l'introduzione di un sistema di massimo due contratti a tempo determinato di 8 anni (4+4). Dopo otto anni un'esame d'idoneità determinerà se il ricercatore - ormai almeno trentaduenne- è valido e idoneo ad una conferma a tempo indeterminato come associato, in caso contrario terminerà il rapporto con l'università maturando, però dei titoli utili per i concorsi pubblici. Auguri, allora. Da parte di tutti, governo incluso. Scordatevi aiuti, perchè l'azienda-Stato di berlusconiana forma non ne ve ne darà: la nuova università così come voluta da Gelmini intende premiare il merito, e le borse di studio non sono più di chi ha redditi più bassi ma di chi racimola più trenta e lodi. Se siete poveri e bravi, buon per voi, anche se chi è povero la laurea non se la paga nè se la compra. Se non siete bravi e oltretutto poveri, peggio per voi: l'assistenzialismo è cosa di Stato, e la crisi ci dice il welfare non premia. A onor del vero va detta una cosa: laddove si parla di governance universitaria si riprende un'idea di Luigi Berlinguer, ministro di un governo di diverso colore che mise mano agli atenei di casa nostra con una riforma, allora proprio come oggi, discutibile. E sempre a onor del vero va aggiunta una seconda annotazione: se l'esecutivo, con questa sua riforma, opera tagli all'università pubblica a quella privata lo stesso Governo, questo, li cancella. E riguardaono gli ultimi tre anni. Nell'ultima versione del maxiemendamento alla legge di Stabilità approvato dalla commissione Bilancio della Camera c'è infatti un finanziamento di 25 milioni per «le università non statali legalmente riconosciute». Nel nostro paese, è bene ricordarlo, università non statali legalmente riconosciute vuol dire istituti cattolici. Un regalo alla Chiesa chissà, forse dettato dalla necessità di un premier sempre più in difficoltà da tempo scaricato dalla Santa sede e dai vescovi. In sintesi l'Italia lascia la cultura in balia dei tempi e degli eventi: e i tempi ci dicono che l'ateneo è ormai a conduzione d'impresa, e gli eventi travolgono il nostro patrimonio artistico-archeologico. Sotto i colpi di una piogga a questo punto acida la cultura va in pezzi: nella "mignottocrazia" di oggi trionfa dunque l'arretratezza al servizio dell'ignoranza. Ma cio non sorprende se un ministro dell'Economia dichiara: «Di cultura non si vive, vado a farmi un panino alla cultura». Parole simili non aiutano, al massimo alimentano il qualunquismo e quanti dicono e continueranno a dire "vi siete mangiati tutto adesso mangiatevi pure questo". Il guaio è che lo stanno facendo davvero.
(poi editoriale per la puntata del 3 dicembre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)
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