Wednesday, 29 May 2013

Ue: più contrattazione aziendale. Ma a chi giova?

Per l’Unione europea è necessario per rendere più dinamico il mondo del lavoro e incentivare la produttività. Ma è questo il modo giusto per far crescere i consumi e combattere la precarietà imperante?


di Renato Giannetti (fonte: eunews)

Dalla parte dei senza lavoro a parole, dalla parte delle imprese nei fatti. La Commissione europea continua con la sua ricetta di stimolo della produttività, dimenticando – a quanto pare – l’importanza dei consumi interni per far ripartire l’economia. Le raccomandazioni specifiche per Paese saranno rese pubbliche solo domani, ma la fuga di notizie ha già fatto sapere che all’Italia si chiederà – tra le altre cose – di intervenire sul mercato del lavoro prediligendo la contrattazione aziendale a quella nazionale dei contratti di lavoro.
Uno strumento per Bruxelles necessario per rendere più dinamico il mercato del lavoro. Sorge un dubbio: può un sistema di questo tipo funzionare? Probabilmente sì, a patto che ci sia un sistema sindacale solido e una concertazione vera. Senza entrare nel merito del panorama italiano, la strada tracciata dalla Commissione europea non è esente da rischi. Al contrario, potrebbe aggravare la situazione di un mondo del lavoro sempre più contraddistinto da lavoratori atipici e contratti di durata determinata. La lotta alla disoccupazione, insomma, rischia di non coincidere alla lotta alla precarietà, ammesso che questo intenda fare Bruxelles. Da più parti in Europa – a livello comunitario come di singoli Stati membri – si levano e si ripetono appelli per strategia che ponga fine all’inarrestabile emorragia di posti di lavoro.
Uno dei più convinti sostenitori di politiche per i giovani è il nuovo presidente del Consiglio: Enrico Letta si è immediatamente presentato come un leader che intende fare davvero qualcosa. Il rischio, però, è nel metodo di risposta al problema sul tavolo. Dare centralità all’azienda in un momento di crisi rischia di produrre gli effetti contrari. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, non più tardi di ieri ha detto di “credere fermamente alla contrattazione decentralizzata che adegui il salario alla produttività, e quindi ci fa piacere che anche la Commissione europea vada in questa direzione”. Legare gli stipendi alla produttività, però, potrebbe essere un intervento il cui unico effetto è creare altre distorsioni nel mercato. Produrre ciò che non viene venduto non è un vantaggio. Se non c’è una domanda l’offerta può fare poco, e il mercato dell’auto lo dimostra.
Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat e presidente dei costruttori di automobili europei, sta denunciando il problema della sovracapacità. Per lui, in assenza di sostegni esterni, è inevitabile la chiusura degli impianti con tutto quelle che ne consegue. C’è insomma la percezione che la Commissione europea continui a insistere su misure poco idonee a rispondere ai problemi. L’Italia, inoltre, non offre esempi di assicurazione sull’attuazione delle raccomandazioni. La tanto discussa legge 30, pensata per introdurre maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, ha finito con generare solo precarietà. E la precarietà non aiuta a stimolare domande e consumi interni.
Il caso della chiusura dello stabilimento Ford di Genk e del suo trasferimento a Valencia è legato ai costi di produzione: in Spagna la manodopera costa meno, le rivendicazioni sindacali sono minori. L’impresa, in sostanza, se messa di fatto nella posizione di esercitare il suo potere, lo fa nel modo più genuinamente imprenditoriale possibile. Ma è il gioco delle parti: non spetta all’imprenditore scrivere statuti dei lavoratori. Proprio per questo, se si dà solo alle imprese la possibilità di scrivere le regole del gioco, si rischia di innescare partite molto delicate. L’Europa, con le scelte compiute e con le scelte che sta per compiere, rischia di tracciare un solco sempre più ampio tra sé e i cittadini europei, smentendo sé stessa e fallendo nel compito – comunque non facile – che le spetta.

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