di Emiliano Biaggio
Ufficialmente “servirà a preservare la natura” ed scongiurare la “deforestazione” della foresta tropicale, in un provvedimento reso necessario per “evitare che le costruzioni abusive continuino ad avanzare”. Eppure il muro che le autorità brasiliane hanno deciso di realizzare a Rio de Janiero divide non solo la città, ma l’intero Paese e l’intera opinione pubblica. Ma procediamo con ordine: il sindaco di Rio, Eduardo Paes, ha in mente di realizzare all’incirca 2.500 chilometri di muro per delimitare 13 favelas della città, 12 delle quali nel sud dell’agglomerato urbano dagli oltre 5 milioni di brasiliani. Le “eco-barriere”, come le definiscono le autorità locali, costeranno intorno ai 40 milioni di reias (circa 14 milioni di euro) e, fanno notare i critici del progetto, finiranno per isolare i ricchi dai poveri. Secondo l'architetto Sérgio Magalhães, la difesa dell'ambiente è solo un pretesto: "La favela è percepita come un luogo di violenza. Il governo- sostiene- attribuisce ai muri un ruolo che non saranno in grado di svolgere”. Niente barriere, “rafforzare la presenza dello stato nei territori dominati dagli spacciatori di droga è l'unico muro credibile per arginare la violenza”. In Brasile c’è chi parla di “apartheid”, una parola che non piace però alle istituzioni: "Se la costruzione del muro sarà accompagnata da programmi d'integrazione sociale all'interno delle favelas, non ci sarà segregazione”, assicura il segretario nazionale alla sicurezza pubblica Ricardo Balestreri. Al di là di tutto, salta agli occhi la ‘moda’ di questi ultimi tempi: neanche un mese fa un analogo progetto di muro- meno “eco” e più barriera- è stato avanzato da Gustavo Posse, amministratore del distretto argentino di San Isidro. Qui dovrebbe sorgere un muro alto 3 metri e lungo più di 270, che dovrebbe dividere i due barrios di La Horqueta- quartiere ricco- e di Villa Jardin- povero e malfamato. La barriera dovrebbe servire per “ridurre gli spostamenti dei delinquenti e preservare la tranquillità di La Horqueta”, ha spiegato Posse. Insomma: qui a farla da padrone, più che la ragione ambientale, è quella delle sicurezza. La stessa che nel settembre 2006 ha indotto l’Arabia Saudita ad annunciare il via libera alla realizzazione di 900 chilometri di muro lungo la frontiera con l’Iraq: “Il suo scopo principale- ha spiegato il consigliere per la sicurezza nazionale dell’emirato, Nawaf Obaid- è quello di tentare di rendere più sicuro il confine con l’Iraq il quale, dopo l’invasione della Coalizione, non è più in grado di controllare i propri confini”. Frontiere ‘instabili’ sono anche quelle tra Stati Uniti e Messico- dove Gorge W. Bush ha dato l’ok alla cementificazione del confine- e quelle tra Israele e territori palestinesi, lungo le quali il governo di Tel Aviv sta lavorando per garantire la sicurezza. L’impressione è che questa globalizzazione abbia perso: i confini non sono stati abbattuti, ma ricostruiti; le divisione sono sempre più marcate e visibili; la fine della guerra fredda non ha prodotto sicurezza, ma ulteriore instabilità. Le costruzioni di cemento e filo spinato, quelle già esistenti e quelle che verranno realizzate, fanno del ‘villaggio globale’ un mondo non aperto al mondo, una comunità ancor più chiuso e diviso. Da divisioni geografiche si è passate a divisioni edilizie, e da quel clima di prosperità generale che tanto ci si attendeva, si è passati ad una situazione di alta tensione. E il muro sembra essere un recinto entro cui contenerla e circoscriverla. In tutto questo, sorge spontanea una riflessione provocatoria: nel 1961 Kruscev ritenne necessario ricorrere ad un muro divisorio per fermare il flusso migratorio da Berlino est a Berlino ovest. Oggi, quel muro, risulta precursore e, per questo, realmente rivoluzionario.
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