E' grande quanto il Canada, ed è composto da 100.000 tonnellate di plastica. Storia di uno dei più grandi disastri ambientali del mondo.
di Emiliano Biaggio
La più grande discarica a cielo aperto di cui si è mai avuto notizia, per quello che è uno degli episodi di inquinamento piè eclatanti mai prodotti dall'uomo: due isole di immondizia che, insieme, raggiungono i 2.500 chilometri di diametro. Per intenderci, 100.000 tonnellate di rifiuti che occupano, in mezzo all'oceano, una superficie grande quanto quella dell'intero Canada. Non a caso, tutta questa immondizia è stata ribattezzata "il sesto continente" del mondo. Questo "sesto continente" marino, la "nuova Atlantide" sepolta sotto i mari, è diviso in due grandi masse: una orientale, a sud-ovest del Giappone, e una occidentale, a nord-ovest delle Hawaii. E’ attorno a quest’ultima che si è concentrato il viaggio di sei settimane di Charles Moore, magnate-ambientalista partito lo scorso 10 giugno per analizzare questo nuovo Canada di scarti a capire che impatto avrà sulla salute del pianeta. Ma in cantiere sono già pronte altre spedizioni, per andare a studiare la seconda massa e cercare di studiare il movimento di questa singolare "tettonica delle placche" di immondizia, di cui qualcosa già si sa. E’ stato infatti appurato che la massa dei vari rifiuti- per lo più materiali plastici- è soggetta ad un continuo mescolamento dovuto al vortice dell’area del Nord Pacifico “the Gyre”, una delle più potenti correnti circolari oceaniche (gyre in inglese ‘giro’, ‘movimento circolare’, corrente circolare, appunto) dotata di un particolare movimento a spirale orario che permette alle particelle di rifiuti di aggregarsi fra di loro. Quello che invece non si sa, è quali effetti producano questi scarti nei pesci una volta che vengono mangiati e, quindi, che rischi ci sono per l’uomo. Perché “the Gyre” produce una miscela di plancton e composti di plastica di cui si nutrono i molluschi: questo fa sì che ciò che l’uomo produce e poi scarta venga immesso direttamente nella catena alimentare in un percorso che dal mare arriva sulla terra ferma. L’uomo smaltisce il rifiuto in mare, il mare lo fa mangiare al mollusco del quale si nutrono i pesci. Pesci che, poi, finiscono sulle nostre tavole.
Charles Moore è l’uomo che ha scoperto l’Atlantide di immondizia: miliardario, figlio di petrolieri con la passione per il mare, nel 1997 si imbatte per puro caso in una delle due isole di rifiuti, quella occidentale. «Durante una regata, di ritorno dalle Hawaii, decido di navigare in una zona poco battuta del Pacifico», ricorda Moore. E’ lì che scopre la montagna galleggiante di rifiuti, ed è lì che nasce il suo impegno ambientalista. Oggi, con la sua fondazione Algalita Marine Research, si batte perché tutti sappiano della discarica a cielo aperto più grande del mondo composta da sacchetti di plastica, bicchieri, bottiglie e soprattutto tappi. «Nel 2005, solo sulla spiaggia californiana di Long Beach, ne ho raccolti più di mille», denuncia Moore, che quello stesso anno ha sollevato il problema direttamente al governatore dello Stato, Arnold Schwarzenegger. La missione che si è posto il ricco magnate statunitense è infatti portare alla conoscenza del vasto pubblico il disastro ambientale rappresentato dal continente di immondizia. «Una volta un mio professore mi ha detto che meno del 5% di tutta la plastica che produciamo viene riciclata: oltretutto la plastica non è biodegradabile, e una larga parte di questo materiale- denuncia ancora Moore- finisce nei fiumi e da lì al mare». Con quale risultato? Campioni di acqua prelevata da Moore e il suo equipaggio durante le ricognizioni effettuate al largo delle Hawaii con una concentrazione di polietilene (il composto più comune tra le materie plastiche) e altre sostanze inquinanti «superiore di un milione di volte rispetto al livello delle altre acque marine circostanti», sottolinea il petroliere-ambientalista. Ma come detto la plastica non si limita a finire in acqua: finisce infatti nei pesci e in tutti quegli animali che vivono a contatto con il mare. «Nello stomaco di pesci comuni che popolano questi mari sono stati ritrovati fino a 84 pezzi» di queste sostanze chimiche e inquinanti, fa sapere Moore. E questo ha provocato una reazione a catena: «Albatros sono morti per sostanze tossiche ingerite, e centinaia di migliaia di anatre stanno morendo per via di materiali plastici e altra spazzatura», avverte. Adesso l’imbarcazione rientra in porto, a Long Beach, proprio dove Moore ha iniziato a toccare con mano gli effetti dell’inquinamento prodotto dall’uomo ‘collezionando’ i tappi delle bottigliette. Poi, a settembre, riprenderà il mare. Per raccogliere informazioni su questo continente mobile che rappresenta un’incognita e un rischio per il futuro. Perchè si rischia di consegnare all'avvenire un mare di immondizia, riconosce Charles Moore, e «non vogliamo che questa sia l’eredità che verrà lasciata ai nostri figli e, soprattutto, alla prossime generazioni».
Bellissima descrizione davvero! complimenti..
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