Thursday, 23 July 2009

Xinjiang, un conflitto non casuale

Indipendente nel 1940, riconquistato da Mao solo 9 anni più tardi. Ecco cosa c'è sotto le rivolte in Turkestan, miniera d'oro nero nella morsa del dragone.

di Emiliano Biaggio
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Dopo gli scontri e i 184 morti Urumqui, capoluogo della provincia autonoma dello Xinjang, resta chiusa e inaccessibile al mondo esterno. La condotta delle autorità di Pechino, non è nuova, al contrario è ben collaudata. Come nella regione autonoma tibetana dello Xizang, si reprime e si 'colonizza' in silenzio. Spostamento forzato della popolazione, controllo del territorio e rigidi controlli in entrata e in uscita dalla provincia- per scongiurare fughe di notizie- sono i tratti salienti della politica cinese nello Xinjang. Nella regione nord-occidentale del paese le tensioni tra uiguri musulmani di etnia turcomanna e i cinesi dell'etnia dominante Han ha origini antiche, secondo alcuni risale addirittura alla conquista dello Xinjiang da parte della dinastia manciura dei Qing nel 1700. Quel che è certo è che nel 1940 una parte dello Xinjiang- ricca di risorse minerarie- divenne indipendente col nome di Turkestan occidentale ma fu poi 'riconquistata' nove anni più tardi dalle truppe rosse di Mao Tze Tung e ridotta a provincia cinese. Una provincia formalmente e nominalmente autonoma, ma nei fatti guidata dal dirigismo del potere centrale e controllata rigidimente dagli esponenti del partito comunista. Nello Xinjang il potere è nelle mani di Wang Lequan, il segretario generale di partito della provincia, un cinese di etnia Han. Ma perchè questa stretta sul territorio? Per due ragioni: la prima è che non possono cedere nè concedere, altrimenti altre minoranze all'interno della Cina- specie quello tibetana dello Xizang- inizierebbero a creare altre ulteriori spinte disgregative intestine; la seconda è di natura economica: la regione, infatti, oltre agli uighuri 'ospita' vasti giacimenti di minerali, gas e petrolio. Nelle prefetture di Aksu e Karamay l'industria petrolifera è in piena espansione, e nel 2005 le autorità cinesi hanno inaugurato un oleodotto che collega la Cina con il Kazakhstan passando proprio attraverso lo Xinjiang; la pipeline, adesso, porta gas e petrolio liquido a Shanghai, città simbolo della crescita a ritmi vertiginosi del Paese del dragone. Gli interessi economici nella regione sono quindi forti, e sono dettati anche dalle crescenti esigenze energetiche del Paese. Paese, la Cina, che gestisce il potere economico della provincia e lascia che a detenerlo siano solo gli Han. La prosperità conosciuta dallo Xinjiang negli ultimi anni non è stata infatti redistribuita alla popolazione locale: come in Tibet, i benefici della crescita economica non sono andati a vantaggio degli uighuri, ma a una nuova generazione di coloni Han trapiantati da Pechino nel corso degli ultimi 20-30 anni. Sempre agli Han vanno i migliori posti di lavoro pubblici e privati, con gli uighuri tenuti fuori i centri di potere (politico ed economico) e costretti ai margini della società: il trasferimento di cinesi Han nella provincia ha infatti ridisegnato gli assetti etnici nel territorio. Secondo le stime dell'università di Yale, il 42% della popolazione dello Xinjiang è uighura, il 40 % han e il resto di altre etnie. Ma va sottolineato che gli han erano il 5% nel 1949.

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