Il Pdl presenta la documentazione per le regionali oltre i limiti consentiti, e le liste sono escluse. Berlusconi "sana" l'errore con un decreto interpretativo "ad hoc". Che Napolitano firma.
l'e-dittoreale
La vicenda delle liste elettorali, per come si è conclusa, fa male al paese. Perchè rimette in discussione uno dei principi fondamentali di uno stato di diritto quale l'Italia, fino a oggi, è stata. Si tratta della legalità, del rispetto delle regole e dell'agire secondo la legge. Questo, nel caso delle liste elettorali del Pdl, non è avvenuto. Anzi, con una forzatura legislativa - qual è quella del decreto interpretativo voluto dal Governo - si apre un pericoloso precedente che di fatto dice che le regole non sono valide sempre e allo stesso modo, che non valgono per tutti ma in alcuni casi solo per qualcuno, che si possono rispettare ma, all'occorrenza, aggirare. Un messaggio di deregulation che va proprio in direzione opposta rispetto a quanto dovrebbe fare chi è chiamato a governare, per una violazione di dettami giuridici compiuta con la complice compartecipazione del presidente della Repubblica. Proprio il capo dello Stato, il cui compito è quello di assicurare il pieno rispetto delle regole, ha dato il proprio benestare ad un provvedimento improprio perchè - ha spiegato lo stesso Napolitano - si doveva «garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici». Per carità, garantire una democratica consultazione elettorale è dovere di ogni democrazia, ci mancherebbe. Nulla da eccepire alle spiegazioni - peraltro fornite per la prima volta nella storia della Repubblica in un modo inusuale quanto la presa di posizione assunta dal Quirinale - fornite dal Colle. Napolitano ha voluto quindi precisare che il testo di decreto che gli è stato sottoposto «non ha presentato evidenti vizi di incostituzionalità». Peccato solo che, per l'articolo 3 della Costituzione, quella stessa Costituzione di cui Napolitano dovrebbe essere garante e difensore, sancisce l'ugualianza di fronte alla legge. Poniamo un esempio pratico: per la partecipazione ad un qualsiasi concorso, ognuno deve far pervenire la corretta documentazione, in genere, "entro e non oltre" un determinato termine, pena l'esclusione. Un caso non diverso a quanto capitato al Pdl per le liste, con la differenza - laddove differenza è l'opposto di uguaglianza - che per il partito di Governo si fanno decreti interpretativi "ad hoc", mentre il privato cittadino viene escluso dalla competizione nel rispetto - giusto - e nell'applicazione - sacrosanta - della legge. Napolitano ha sorvolato su quest'aspetto, ha sorvolato sul principio di uguaglianza previsto dalla nostra Carta costituzionale, decidendo con fretta e leggerezza. E poi non erano presenti vizi «evidenti». Lo stesso capo dello Stato ha riconosciuto che «erano in gioco due interessi o "beni" entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi». Con la firma al decreto è stata presa una decisione più politica che giuridica, quando, ad esempio, un rinvio delle elezioni avrebbe potuto garantire eguale - e migliore - rispetto di entrambi i "beni", per dirla alla Napolitano. Fermo restando che c'è modo e modo di dire le cose, le critiche rivolte al Quirinale non sono affato gratuite. Di Pietro è arrivato a parlare di «impeachment» per Napolitano, forse in un eccesso di rabbia. Chi invece da sempre è abituato ad utilizzare un linguaggio soppesato in ogni parola è la Chiesa, che attraverso il capo degli Affari giuridici della Cei, monsignor Domenico Mogavero, parla ai fedeli dentro e fuori i palazzi istituzionali: «Cambiare le regole del gioco mentre il gioco è già in atto è altamente scorretto, perché- ha criticato il vescovo- si legittima ogni intervento arbitrario con la motivazione che ragioni più o meno intrinseche o pertinenti mettono in gioco il valore della partecipazione». Le regole, ha detto ancora monsignor Mogavero, «sono a garanzia e a tutela di tutti». Con il decreto salva elezioni «a questo punto si legittima ogni intervento arbitrario con la motivazione che ragioni più o meno intrinseche o pertinenti mettono un gioco un valore: il valore della partecipazione oggi, e domani un altro valore». Parole che sanno di monito, di richiamo all'ordine. Di quel richiamo a una retta condotta che è stata abbandonata e che come conseguenza pone il dubbio per cui «forse siamo impreparati a una democrazia sostanziale». Se sorgono certi dubbi, se si verificano episodi come quelli verificatesi, se si rimettono in discussione regole e valori, il sistema - presto o tardi - crolla. Perchè si finisce con il delegittimare qualunque cosa a scapito della coesione sociale e dell'ordinamento statale. E del sistema paese nel suo complesso. Ecco perchè, scontri politici a parte, la vicenda delle liste elettorali fa male al paese.
l'e-dittoreale
La vicenda delle liste elettorali, per come si è conclusa, fa male al paese. Perchè rimette in discussione uno dei principi fondamentali di uno stato di diritto quale l'Italia, fino a oggi, è stata. Si tratta della legalità, del rispetto delle regole e dell'agire secondo la legge. Questo, nel caso delle liste elettorali del Pdl, non è avvenuto. Anzi, con una forzatura legislativa - qual è quella del decreto interpretativo voluto dal Governo - si apre un pericoloso precedente che di fatto dice che le regole non sono valide sempre e allo stesso modo, che non valgono per tutti ma in alcuni casi solo per qualcuno, che si possono rispettare ma, all'occorrenza, aggirare. Un messaggio di deregulation che va proprio in direzione opposta rispetto a quanto dovrebbe fare chi è chiamato a governare, per una violazione di dettami giuridici compiuta con la complice compartecipazione del presidente della Repubblica. Proprio il capo dello Stato, il cui compito è quello di assicurare il pieno rispetto delle regole, ha dato il proprio benestare ad un provvedimento improprio perchè - ha spiegato lo stesso Napolitano - si doveva «garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici». Per carità, garantire una democratica consultazione elettorale è dovere di ogni democrazia, ci mancherebbe. Nulla da eccepire alle spiegazioni - peraltro fornite per la prima volta nella storia della Repubblica in un modo inusuale quanto la presa di posizione assunta dal Quirinale - fornite dal Colle. Napolitano ha voluto quindi precisare che il testo di decreto che gli è stato sottoposto «non ha presentato evidenti vizi di incostituzionalità». Peccato solo che, per l'articolo 3 della Costituzione, quella stessa Costituzione di cui Napolitano dovrebbe essere garante e difensore, sancisce l'ugualianza di fronte alla legge. Poniamo un esempio pratico: per la partecipazione ad un qualsiasi concorso, ognuno deve far pervenire la corretta documentazione, in genere, "entro e non oltre" un determinato termine, pena l'esclusione. Un caso non diverso a quanto capitato al Pdl per le liste, con la differenza - laddove differenza è l'opposto di uguaglianza - che per il partito di Governo si fanno decreti interpretativi "ad hoc", mentre il privato cittadino viene escluso dalla competizione nel rispetto - giusto - e nell'applicazione - sacrosanta - della legge. Napolitano ha sorvolato su quest'aspetto, ha sorvolato sul principio di uguaglianza previsto dalla nostra Carta costituzionale, decidendo con fretta e leggerezza. E poi non erano presenti vizi «evidenti». Lo stesso capo dello Stato ha riconosciuto che «erano in gioco due interessi o "beni" entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi». Con la firma al decreto è stata presa una decisione più politica che giuridica, quando, ad esempio, un rinvio delle elezioni avrebbe potuto garantire eguale - e migliore - rispetto di entrambi i "beni", per dirla alla Napolitano. Fermo restando che c'è modo e modo di dire le cose, le critiche rivolte al Quirinale non sono affato gratuite. Di Pietro è arrivato a parlare di «impeachment» per Napolitano, forse in un eccesso di rabbia. Chi invece da sempre è abituato ad utilizzare un linguaggio soppesato in ogni parola è la Chiesa, che attraverso il capo degli Affari giuridici della Cei, monsignor Domenico Mogavero, parla ai fedeli dentro e fuori i palazzi istituzionali: «Cambiare le regole del gioco mentre il gioco è già in atto è altamente scorretto, perché- ha criticato il vescovo- si legittima ogni intervento arbitrario con la motivazione che ragioni più o meno intrinseche o pertinenti mettono in gioco il valore della partecipazione». Le regole, ha detto ancora monsignor Mogavero, «sono a garanzia e a tutela di tutti». Con il decreto salva elezioni «a questo punto si legittima ogni intervento arbitrario con la motivazione che ragioni più o meno intrinseche o pertinenti mettono un gioco un valore: il valore della partecipazione oggi, e domani un altro valore». Parole che sanno di monito, di richiamo all'ordine. Di quel richiamo a una retta condotta che è stata abbandonata e che come conseguenza pone il dubbio per cui «forse siamo impreparati a una democrazia sostanziale». Se sorgono certi dubbi, se si verificano episodi come quelli verificatesi, se si rimettono in discussione regole e valori, il sistema - presto o tardi - crolla. Perchè si finisce con il delegittimare qualunque cosa a scapito della coesione sociale e dell'ordinamento statale. E del sistema paese nel suo complesso. Ecco perchè, scontri politici a parte, la vicenda delle liste elettorali fa male al paese.
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