Monday, 1 June 2009

La Cina sul "Tetto del mondo"

Rivendicazioni storiche, e l’impossibilità di concessioni per la presenza di altre minoranze. Ma soprattutto la posizione strategica e le risorse naturali. Ecco perché la Cina non vuole lasciare il Tibet.
di Emiliano Biaggio

Nel 1950 le truppe rosse entrano a Lhasa per volere di Mao Tze Tung, e la Cina si riprende il Tibet. Sul tetto del mondo i Manciù ottennero un controllo nominale nel 1856, che negli anni si trasformò in un protettorato di fatto fino al 1904, anno in cui il territorio finì sotto il controllo britannico. La decolonizzazione, con la corona di Londra che rinunciò ai possedimenti asiatici, lasciò alla Cina nazionalista prima e quella comunista poi campo libero per il ritorno in Tibet. Qui la prima cosa che fecero fu smembrare il territorio per meglio poterlo controllare e per dividere il popolo, così da renderlo più debole. Il Tibet "storico" era infatti quello era infatti composto dalle tre regioni del Kham, Amdo e U-Tsang, ma i cinesi intendo per Tibet la Regione Autonoma tibetana (Tar), creata nel 1965 e comprendente in larga parte quella che per secoli è stata la regione dello U- Tsang. Nel 1965 il Kham e l’Amdo divennero parte delle province cinesi del Qinghai, dello Sichuan, del Gansu e dello Yunnan e da allora il controllo è divenuto sempre più capillare, a scapito della popolazione e della cultura locali. Il leader politico e spirituale dei tibetani, il Dalai Lama, fu costretto alla fuga e si rifugiò a Dharamsala, in India. La rivoluzione culturale colpì templi e monaci, e represse le tradizioni ultramillenarie. Oggi la situazione è anche peggio, con Pechino che ha di fatto colonizzato il Tibet: il governo ha operato un massiccio trasferimento di cinesi di etnia han (quella dominante) e oggi i tibetani sono una maggioranza solo nella capitale Lhasa. Questo è solo uno degli aspetti della questione del Tibet, attorno alla quale ruotano interessi notevoli. Il primo di natura territoriale: controllare il Tibet permette di avere sia un avamposto strategico nel cuore dell’Asia- a cavallo fra India, Nepal e Pakistan- sia uno snodo strategico verso i paesi dell’ex Unione Sovietica. Ma ci sono anche forti motivazioni economiche che spingono i cinesi a rimanere presenti sul territorio: prima fra tutte, la possibilità di sfruttare le risorse naturali di cui è ricca l’area in questione. L’acqua da sola, infatti, permette alla Cina attuale di rispondere alle esigenze idroelettriche richieste da una crescita come quella in atto nel Paese, mentre l’import-export frutta all’erario cinese 130 milioni di dollari annui. Ancora: in Tibet c’è l’82% di tutta l’acqua potabile asiatica, i più grandi giacimenti di uranio al mondo e petrolio. Per ottenere una maggiore penetrazione nel territorio ed un migliore controllo della regione, Pechino ha diviso il territorio in cinque regioni diverse, e ha portato la Cina, o meglio, i cinesi in Tibet, relegando i tibetani ai ruoli marginali della vita politica, economica e sociale. La contestazione della validità del trattato internazionale che nel 1951 ha sancito il riconoscimento della sovranità cinese sul Tibet, la denuncia della violazione dei diritti umani, unitamente all’intensa attività diplomatica del Dalai Lama, hanno indotto la comunità internazionale a interessarsi della situazione in atto in Tibet e ad adoperarsi per una sua risoluzione. Ciò anche grazie alla spinta dell’International Tibet Support Network, una rete di associazioni creata dagli esuli tibetani residenti nei vari paesi e sostenuta dal governo in esilio di Dharamsala, che preme sui governi dei vari paesi proprio per portare le varie amministrazioni al fianco della causa tibetana. Ma Pechino non vuole e non può trovare una soluzione: concessioni ai tibetani aprirebbero uguali rivendicazioni da parte di altre etnie, prima tra tutte quella degli Uighuri nello Xinjiang, rendendo instabile il Paese in più di una regione. Da questo punto di vista, l’interesse internazionale è che Pechino mantenga il suo ruolo di punto di riferimento dell’area e, nello stesso tempo, il pur ribadito impegno verso il Tibet- comunque non rivolto all’indipendenza dello stesso - viene sacrificato a possibilità e necessità economiche ben più concrete: gli Stati Uniti, infatti, se da una parte hanno espresso solidarietà alla causa tibetana, dall’altra hanno oggi necessità di ottenere da Pechino una fluttuazione della valuta cinese ed un riequilibrio degli scambi commerciali, dato che la Cina ha un enorme surplus su Washington; quanto all’Europa, la preoccupazione per il ristagno dell’economia da un lato e per l’invasione dei prodotti cinesi dall’altro fanno stemperare gli impegni presi a livello formale per il rispetto dei diritti umani in Cina e per la questione tibetana. Infine, la situazione è cambiata all’indomani dell’undici settembre e alla politica estera americana che ne è derivata: avendo Pechino impedito- con la chiusura della frontiera con l’Afghanistan- la fuga di Bin Laden nello stato uighuro-musulmano dello Xinjiang, può ora ottenere da Washington un atteggiamento più morbido circa la situazione tibetana. Oltre a ciò gli eventi successivi all’attentato alle torri gemelle, hanno fornito alle autorità pechinesi una legittimazione della repressione in atto in Tibet, giustificata ora come lotta interna ai separatisti e ai terroristi tibetani. La comunità internazionale oscilla dunque fra condanne alla Cina e solidarietà al Tibet da una parte, e il soddisfacimento di interessi politici, economici e commerciali più sostanziosi dall’altra: nonostante numerose risoluzioni approvate da vari paesi- in Europa come in Nord America- e l’istituzione di gruppi interparlamentari pro Tibet, i risultati concreti conseguiti a favore di esso sono infatti pochi. La coesistenza di tutti questi interessi e soggetti in gioco, rende difficile ogni previsione circa una possibile risoluzione della situazione tibetana nel breve periodo: solo il tempo e la futuri combinazione delle diverse spinte permetteranno di capire se e come si risolverà la questione del Tibet.

No comments:

Post a Comment