Pausa pranzo solo a fine turno (dopo 8 ore) e malattia non pagata: bentornati allo schiavismo dell'Ottocento. Della nuova Fiat.
di Emiliano Biaggio
Il "piano Pomigliano" di Sergio Marchionne è un ritorno al passato. Segna la fine di decenni di conquiste sindacali e del diritto del lavoro per un ritorno al salariato sotto padrone. Non ci vuole molto a capirlo: turni di otto ore filati, con appena dieci minuti di pausa e la possibilità di andare a pranzo solo dopo aver lavorato; nessuna forma di sciopero, restrizione ai permessi per malattia con la discrezionalità dell'azienda nel decidere se e quando retribuire i primi tre giorni di malattia; totale libertà di stabilire 80 ore in più di straordinari rispetto a quanto stabilito dai contratti nazionali. Questo è schiavismo, oltre che violazione unilaterale delle regole finora vigenti. L'alternativa? Andare in Serbia - dove comunque Fiat andrà - dove lo stipendio mensile di un operaio è di 200 euro. Elemosina, insomma. O moderna schiavitù per gli italiani oppure briciole ai serbi: bentornati nei Tempi moderni chapliniani, fatto di abusi e soprusi, ricatti e privazione di diritti. Con un particolare: contrariamente a quanto tutti pensavano - sindacati in testa - non sarà realtà esclusiva di Pomigliano d'Arco. E l'amministratore delegato della Fiat lo dice chiaramente: «Per noi la cosa importante è raggiungere il risultato e avere la certezza di gestire gli impianti. Produrre a singhiozzo, con livelli ingiustificati di assenteismo, o vedere le linee bloccato per giorni interi è un rischio che non possiamo accollarci. Da qui- aggiunge- nasce la volontà di aggiornare il metodo operativo negli stabilimenti italiani e di adeguarli agli standard necessari per competere». Tradotto: Pomigliano non sarà una eccezione. Pomigliano è l'inizio di una nuova stagione, una stagione scandita secondo i ritmi e le regole già attuate per Pomigliano. E non c'è spazio per le trattative. «Ci sono solo due parole che, al punto in cui siamo, richiedono di essere pronunciate», dice Marchionne. «Una è "sì", l'altra è "no"». O così o vado via. Un ricatto bello e buono. Di fronte al rischio disoccupazione e licenziamenti «noi diciamo a Marchionne che per noi la risposta è sì», si sbriga a rispondere il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, cui si associa quello della Uil, Luigi Angeletti. Giusto difendere il lavoro, ma fino a che punto? E a quali condizioni? Quelle imposte da Marchionne - perchè sono imposte - non sono accettabili per un paese democratico. Le violazioni di contratti nazionali, statuto dei lavoratori, principi costituzionali sono evidenti. Così come egualmente evidente è il modo con cui queste violazioni vengono compiute. Marchionne non l'ha mai detto esplicitamente, ma l'ha fatto capire chiaramente: la nuova linea Fiat è "qui decido e comando io, e tutti devono obbedire. E chi non si adegua, peggio per lui". Proprio come accadeva nell'Ottocento. A distanza di due secoli, siamo nuovamente fermi e ancorati al passato. Solo che oggi il padrone si chiama amministratore delegato e lo sfruttato operaio. E la schiavitù si chiama Fiat.
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