Proteste di piazza, popolazioni che insorgono, regimi che cadono: ci si interroga su quanto cambierà il mondo in regioni che vogliono cambiare.
di Emiliano Biaggio - Crisi ed "effetto domino" sul mondo arabo-islamica di nord-africa e Medio Oriente, ridisegnano quadri politici, alleanze, equilibri geopolitici, scenari. Le rivolte scoppiate in Tunisia hanno finito per contagiare un'area di mondo che corre dal Maghreb al golfo Persico, portando alla caduta del regime egiziano e sollevazioni popolari scoppiate anche in Libia, nello Yemen e in Bahrein. Il filo che sembra legare tutti questi disordini, se così si vogliono definire, è la richiesta di modernità: tutti i paesi vivono (o vivevano, nel caso tunisino ed egiziano) infatti da decenni con sistemi politici cristallizzati, fermi, lontani dai modelli occidentali e dalle libertà e dai diritti riconosciuti dalla democrazie del resto del mondo. Tunisia ed Egitto, sulla spinta di sistemi corrotti e voglia di cambiamento, hanno deposto Ben Alì e Mubarak, per decenni leader indiscussi e improvvisamente, nel giro di pochi giorni, re deposti. Difficile capire come si ridisegnerà lo scacchiere internazionale, ma certo tutti guardano col fiato sospeso agli ultimi avvenimenti, per capire come cambia e cosa cambierà. In TUNISIA si cerca ci capire quale sarà il nuovo governo, mentre si cerca di arginare il flusso migratorio di profughi. Quello che preoccupa è l'ascesa degli integralisti: la Tunisia non è mai stato un paese islamico radicale, ma con i vuoti di potere la transizione potrebbe avvenire in senso fortemente coranico. Pochi giorni fa al grido "No ai luoghi di prostituzione in un paese musulmano" gli integralisti hanno protestato davanti al ministero dell'Interno, mentre un gruppo di islamisti ha anche tentato di dare fuoco ad una strada nel centro dove lavorano le prostitute. Si pone poi "la questione algerina": il paese confinante soffre gli scontri con l'islam jihadista, con cellule di Al-Qaeda che adesso potrebbero trasferirsi dall'Algeria alla Tunisia, grazie alla fine del regime e a un movimento islamico tunisino in crescita. In EGITTO bisogna capire fino a quando l'esercito potrà contenere le spinte dei Fratelli musulmani, una delle più importanti organizzazioni islamiche con un approccio di tipo politico all'Islam. Loro sostengono di volere il cambiamento, ma la matrice islamica radicale potrebbe ridisegnare un Egitto non più laico e, soprattutto, antisionista. Più di qualcuno ha colto l'occasione della rivolta per dire che gli alleati naturali dell'Egitto sono i palestinesi e che Israele non potrà mai essere un paese amico. Questo preoccupa l'intera comunità internazionale: considerato che gli Stati Uniti danno 1,3 miliardi di dollari l'anno di aiuti militari, cosa succederebbe se con il più alto potenziale bellico dell'Africa, in pieno Medio Oriente, dovesse diventare improvvisamente una nazione non più filo-occidentale? Le alte sfere dell'esercito dovrebbero scongiurare un simile scenario, non fosse altro che chi ha ruolo di potere solo così potrebbe mantenerli. Ma certo quello egiziano è allo stato un rebus molto delicato. In LIBIA è finita l'era Gheddafi, nonostante il paese dell'area abbia il minor tasso di disoccupazione e il più elevato tenore di vita. Nonostante la repressione nel sangue, la Cirenaica è sotto il controllo dei manifestanti e anche a Tripoli il palazzo del Governo è caduto nella mani degli oppositori. Il rischio adesso è una rinascita in senso islamico del paese, fluttuazioni incontrollate del greggio e corse tutte occidentali ai giacimenti petroliferi (la Tamoil opera in partnership con i Paesi Bassi). Anche qui lo scenario è tutto da definire. Nello YEMEN si cerca di porre fine al regime corrotto di Ali Abdullah Saleh, padre-padrone del paese dal 1978 (all'epoca a capo dello Yemen del Nord, poi dal 1990 alla guida dello Yemen unificato). Ma qui il problema è legato alla guerriglia tra ribelli sciiti (qui una minoranza in un paese a maggioranza sunnita) e terroristi di Al-Qaeda, che nello stato hanno una delle basi più solide di tutto il Medio Oriente. Qui si gioca una partita di strategico interesse: i giacimenti di petrolio e il controllo del porto di Aden, "il passaggio per l'Asia", fanno gola a Stati Uniti e Cina, ed nell'interesse del mondo occidentale avere stabilità nel paese e buoni rapporti diplomatici. Disordini anche in GIORDANIA, da sempre stato chiave in Medio Oriente, filo-occidentale, vicino agli Stati Uniti e in buoni rapporti con Israele. Il re ha arginato le proteste formando un nuovo governo e annunciando riforme, ma incertezze permangono anche qui, dove molti cittadini giordani sono in realtà palestinesi immigrati. Il BAHREIN è un Iraq in piccolo: una stato a maggioranza sciita dove il potere è nelle mani della minoranza sunnita. Sulla scia delle turbolenze nel mondo arabo-islamico, gli sciiti chiedono la fine della monarchia di Hamad bin Isa Al Khalifa - al potere da 32 anni - più diritti, più poteri, più redistribuzione delle ricchezze. L'arcipelago del golfo persico che deve la sua ricchezza per le banche è un alleato chiave degli Usa: qui gli Stati Uniti hanno di stanza il V battaglione della propria flotta navale, qui gli Stati Uniti hanno un regime amico. Ma qui c'è chi sospetta un ruolo dell'Iran, paese sciita e interessato ad aumentare la propria influenza nella regione. Ma scontri si stanno riproponendo anche nella repubblica islamica, segno che il contagio ha affetto anche il regime degli Ayatollah. Che lavorano all'atomica.
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