di Lucio Caracciolo (direttore di Limes, da laRepubblica del 23 agosto 2011)
La fine del regime di Gheddafi segna l`inizio della vera lotta per il potere in Libia. La liquidazione del despota era il punto di fusione delle molte anime della aribellione. Ora sitratta di stabilire chi e cosa succederà al duce libico. Operazione non rapida e certamente sanguinosa: pur privato delle leve del potere, Gheddafi non sembra disposto a sgombrareil campo senzaincendiarlo, ricorrendo ovunque possibile all`arma estrema della guerriglia. Il regime non può più governare la Libia, ma non rinuncia a distruggerla. Dalle macerie della dittatura fiorirà uno Stato unitario, più o meno assimilabile a una democrazia, con un leader eletto e riconosciuto da tutti i cittadini libici (pur se non sappiamo chi e quanti sono, in assenza di un censimento)? Oppure sarà guerra civile permanente? O il pendolo della storia si fermerà in qualche punto intermedio fra i due estremi? Di sicuro, per ora, c`è che il vecchio regime sta sbriciolandosi e che milioni di libici festeggiano, liberi finalmente di immaginare una vita migliore. E mentre si dedicano a stroncare le sacche di resistenza degli ultrà gheddafisti - o dei disperati che non sanno a chi arrendersi senza rischiare la pelle - gli insorti già pensano a determinare i nuovi rapporti di forza. Chi fra loro comanderà, su quali territori e risorse, secondo quali regole o equilibri? In attesa che la polvere delle opposte propagande si depositi per aprire lo sguardo sull`orizzonte futuro, qualche illuminazione possiamo forse trarla dal modo in cui l`edificio gheddafiano si sta schiantando.
C`è un tratto comune nella fine di ogni tiranno: la perdita del senso della realtà. Come altri dittatori accecati dal potere, anche Gheddafi si era costruito un universo irreale. Quasi a immaginarsi eterno e invincibile. L`eco di tale paranoia risuona negli appelli lanciati durante la battaglia di Tripoli, a invocare una ad unabrigate fantasma, tribù ormai convertite alla causa della vittoria, milizie popolari di questo o quel quartiere, che un tempo sarebbero scattate in massa all`appello del qaid, inconcussa guida della rivoluzione, ma che ora aspettavano solo la fine del massacro. Gheddafi era da tempo un cadavere politico. La rapidità dell`avanzata finale su Tripoli, in cui non è peraltro difficile scorgere la mano professionale dell`intelligence e di forze speciali occidentali, conferma che il regime era marcio. Le sue architravi erano tarmate e usurate. In retrospettiva, i sei lunghi mesi di guerra - non i pochi giorni pronosticati in Occidente sull` entusiasmo dell`insurrezione di Bengasi - sono non tanto il prodotto della resistenza di Gheddafi, quanto delle divisioni tra chi ambiva ad abbatterlo per prenderne il posto.
Abbiamo assistito finora a due guerre parallele. Una calda e sanguinosa, tra i ribelli della Cirenaica e i loro alleati in Tripolitania e nel Fezzan, che con il sostegno delle potenze occidentali puntavano a finirla con il regime per aprire una nuova pagina nella storia della Libia. L`altra prevalentemente fredda e sotterranea, ma talvolta violenta (vedi il misterioso assassinio del generale Younes), fra le assai eterogenee componenti della coalizione anti-gheddafiana: islamisti e laici, conservatori e progressisti, esponenti tribali o di gruppi etnici particolarmente oppressi dal regime, berberi in testa. Unico fattore comune, la più o meno antica matrice gheddafista dei capi del Consiglio nazionale di transizione. In questo senso, il crepuscolo del colonnello può essere descritto come la progressiva e sempre più rapida diserzione dei suoi accoliti. Quasi un prolungato, strisciante colpo di Stato - avviato ben prima della rivolta di Bengasi - di chi si rendeva conto di non aver più nulla da guadagnare dal regime e perciò lo abbandonava. Perdendo foglia dopo foglia, la pianta del regime si è spogliata fino a esibire la radice ormai esausta: il colonnello e i suoi figli.
Il pericolo non è solo che da quella pianta morente emanino ancora veleni mortali, sotto forma di guerriglia, attentati, colpi di mano dei nostalgici del vecchio regime, a Tripoli come nella Sirtica o nel Fezzan. È soprattutto che la coalizione prodotta dalla necessità di eliminare Gheddafi si scopra troppo incoerente, che gli interessi particolari - tribali, etnici, regionali - prevalgano sulla necessità di costruire finalmente istituzioni libere nella Libia riunita. Un avvitamento di tipo iracheno, se non somalo. D`altronde, le performance del gruppo di Bengasi non sono incoraggianti quanto a capacità politiche e digestione. Né si deve dimenticare che l`assalto finale a Tripoli è venuto principalmente dall`Ovest e dalle montagne a prevalenza berbera, con il fronte orientale bloccato a Brega. Non sarà facile ricucire le antiche rivalità e le diffidenze fra tripolitani e cirenaici, o fra arabi, berberi e neri (questi ultimi assai compromessi col regime).
La speranza è che la fine della dittatura sia anche l`inizio della pacificazione fra le genti libiche e della costruzione di uno Stato unitario che non esiste, se mai è esistito. Per fortuna, la storia ha spesso più fantasia di chi prova a interpretarla. Le potenze europee ed atlantiche non possono comunque sottrarsi alle responsabilità che hanno voluto assumersi nel conflitto libico. Scesi in campo per un`improbabile "guerra umanitaria" - di fatto per cambiare il regime - la tentazione degli occidentali è di cantare vittoria, spartirsi le spoglie energetiche e tornare a occuparsi dei fatti propri. In tal caso la sconfitta è assicurata. Sconfitta dei libici che sperano in un futuro di pace, benessere e libertà. Ma anche di noi italiani ed altri europei che li avremo, come d`abitudine, usati e traditi.
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