Sunday, 20 November 2011

bLOGBOOK - Passeggiando per Bruxelles

Passeggiando per Bruxelles

I parchi sono davvero una sorpresa. Bruxelles ne è piena, e ogni spazio verde di rivela una vera e propria oasi cittadina, luogo di ristoro al centro delle frenesie urbane, al tempo stesso lontane e distanti, una volta messo piede in una delle tante zone pensate per i cittadini. Qui gli abitanti si riappropriano del proprio tempo e della propria vita, si nascondono per un istante in una dimensione parallela. Il parco del cinquantenario è uno dei tanti luoghi dove tempo e spazio restano sospesi. Realizzato per volere di Leopoldo II in occasione dell'expo del 1880, anno che coincise proprio con il cinquantesimo anniversario dell'indipendenza del regno di Belgio, oggi il parco dista poche centinaia di metri dalle istituzioni comunitarie. Ma i 30 ettari di verde attutiscono i rumori tipici della città: sinfonie di clacson e rombi di motori non arrivano all'orecchio umano. La città, anche se è lì a pochi passi, è un ricordo lontano una volta varcata la soglia del parco. Mi abbandono sull'erba morbida e fredda, nella luce dell'ultimo sole del giorno, a carpire gli ultimi tepori di un piacevole sole autunnale. Chiudo gli occhi e sprofondo nella quiete che regala questo angolo magico di città. Si sentono gli echi di cornacchie lontane, i latrati sporadici dei cani lasciati liberi di sgranchirsi le gambe, qualche passeggino solcare le vie acciottolate, qualche grida di bambini. Calma e senso di rilassatezza sono le sole sensazioni che si possano avvertire. Riapro gli occhi: il cielo ormai di tutti i colori si staglia profondo su questo posto da sogno. Ma non è un sogno, è il mondo reale. Come ricordano le giovani famiglie che percorrono l'area verde, i cani che si rotolonano nei mucchi di foglie appena cadute dagli alberi, dalle piccole partitelle di pallone che intravedono in lontananza. I frequentatori sono di tutte le età, a dimostrazione di come questi siano davvero i luoghi di tutti e per tutti. Giovani innamorati che si concedono romantiche e intime passeggiate, anziani che discutono pacatamente sulle panchine, nonni a spasso coi propri nipotini, giovani donne e giovani uomini con i loro amici umani e animali, famiglie allegre e gioiose. I colori dell'autunno tingono di fascino unico un paesaggio bucolico: il verde dei prati viene incorniciato dai viali alberati dai mille colori. Il bianco della ghiaia viene lambito da due lunghi tappeti giallo-arancio-beige, mentre sugli alberi ondeggiano chiome variopinte dalle infinite tinte: rosso, verde, giallo, marroncino, ocra, arancione, beige. Le tonalità si incontrano, si fondono, si mescolano, si confondono in un'esplosione di colore che sa donare vita anche nelle giornate grige non rare da queste parti. Il mondo è come se fosse fermo, anche se già in fondo, dalle arcate dell'arco di trionfo filtra la città. Sagome di automobili in movimento ricordano come anche il sogno più rilassante sia destinato a concludersi. Il parco del cinquantenario è violato da tutte quelle auto che si recano nei vari musei fatti costruire tutt'intorno all'arco di trionfo: il museo d'arte e storia, il museo dell'esercito, e il museo dell'automobile. Città e natura che vivono e convivono una dentro l'altra, in un equilibrio precario dove la mano dell'uomo ha comunque il sopravvento. Mi ritrovo a pensare il parco prima vissuto come oasi di relax come riserva indiana, e il mio umore - già provato dal dispiacere - ne risente. Ironia della sorte, la fermata della metro dove mi rifugio è quella di Merode, che letta in romanesco si sposa perfettamente con il mio stato d'animo.
Il viaggio per le viscere di Bruxelles porta a Simonis, altro luogo dove spazio e tempo perdono di significato, o forse più semplicemente ritrovano il senso migliore per l'uomo. Dove conduce la moderna, fredda e metallica scala mobile lo si capisce subito, da quel manto di foglie secche che ricoprono la sommità della struttura tecnologica: porta direttamente in un parco, l'Elizabeth park, per l'esattezza. Due lunghi viali alberati divisi da un'eguale lingua di verde prato, interrotto di tanto in tanto da passaggi in terra battura per consentire l'attraversamento dell'erba e il ricongiungimento tra i due lunghi viali, ancora coperti dalla volta fogliata policroma dei possenti fusti. Ma non sarà per sempre: gli arazzi di foglie cadute e la rappresentazione reale di una sconfinata natura morta indicano che a breve il parco sarà orfano della sua vera natura. L'oscurità filtra tra i rami, mentre al centro il lungo corridoio d'erba è già di difficile visione. Sull'altro lato, sfilano le case. Una zona di confine tra il mondo urbano e quel luogo che all'urbanizzazione è precluso, o che forse, l'urbanizzazione ha solo saputo conservare. Per il frequentatore del parco quelle case rappresentano il mondo da cui non potrà illudersi di scappare, per l'abitante di quegli appartamenti la vista-parco è l'offerta di vedute e scorci insoliti per un abitante di città, un posto su cui specchiare le proprie illusioni di felicità. Ma forse queste sono solo mie considerazioni, frutto di un gelo interiore. E non solo. Il buio portà con sè il freddo proprio dell'autunno, e allora il parco - qualunque parco - non è luogo dove stare. Ritorno sui miei passi e raggiungo la botola che si apre nel terreno. Quindi, sulla spinta della scala mobile, sparisco lentamente nelle viscere della terra.

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