Racconto di un autunno inoltrato
La pioggia che si infrangeva sulla tela dell'ombrello era l'unico suono che l'accompagnava nel suo cammino senza meta. Le automobili rigavano il manto stradale pieno d'acqua, e le cornacchie sugli alberi manifestavano la propria presenza con il loro tipico gracchiare che rendevano ancor più gotica quella giornata fredda e tetra. Il grigio intenso e profondo del cielo rendeva i colori tanto sbiaditi quasi da annullarli: se non fosse stato per la pioggia, che rendeva lucida ogni superficie, quella avrebbe assunto le sembianze di una città fantasma, spenta e smorta. L'uomo non era che un ricordo. Non un'anima per le strade, a rendere ancor più spettrale tutto quel mondo che aveva attorno. Camminava per riflettere, su sè stesso e la sua solitudine, sul presente e l'avvenire. Si fermò e chiuse gli occhi: il ticchettio delle gocce d'aqua sull'ombrello era tutto ciò che poteva percepire. Non un uccello, non un'auto, non un tram in lontananza, non il passo di un uomo. Chissà come, in quel preciso istante il mondo si era fermato. Anche il vento aveva smesso di soffiare. Riaprì gli occhi: tutto era scuro, ma non seppe dire se per via di quella giornata o se perchè ci si stava lentamente avvicinando alla sera. Si guardò attorno: dalle case non filtrava una luce. Dov'erano tutto? Si trovava in un quartiere residenziale. In una giornata come quella dove poteva essere la vita se non a casa o nei locali? Ma i bar davanti ai quali era passato erano tutti vuoti. SI disse che dovevano stare per forza di cose nelle proprie abitazioni, ma gli esseri umani erano spariti. Non una luce accesa, non una persona affacciata alla finestra.
Riprese a camminare. Gli scarponcini che pestavano l'acqua delle pozzanghere coprivano di tanto in tanto in continuo suono dell'acqua sull'ombrello. Ogni tanto provava a togliersi dal riparo di quel piccolo scudo anti-intemperie, per vedere se l'entità della pioggia era tale da permettere di poter proseguire solo con il cappuccio. Ma non lo era. E così continuò a vagare senza una destinazione. Era uscito di casa solo perchè stanco di vivere seduto su una sedia davanti a un computer. No, era uscito per fuggire dai suoi pensieri. Non accettava ancora tante cose, e probabilmente non vi sarebbe mai riuscito. Camminava per riflettere. Su sè stesso e gli altri, sul passato che fu e sul passato che non fu. Su tutto quello che avrebbe potuto essere e su ogni cosa che sarebbe stata. Nessuno può prevedere il futuro, e lo lo sapeva. Ma non si fece nè illusioni nè sogni. Quelli aveva imparato a sue spese a non cullarli mai più. Chiuse gli occhi: ancora quel sordo rumore di pioggia sul suo ombrello, e nient'altro. Non percepiva nulla. Riaprì gli occhi: quella città fantasma avvolta dalle tenebre, padrona del silenzio e del nulla, era la realtà. Sì, i sogni molto spesso finiscono laddove si interrompe il sonno. Oppure dove inizia un incubo. NOn si pose il problema di dove potesse finire: sapeva già che da quella dimensione non avrebbe fatto ritorno. E si chiese se la cosa gli dispiacesse. Si guardò attorno: quella città fantasma non sembrava fatta perchè un uomo potesse viverci. Chiuse gli occhi. La pioggia che si infrangeva sulla tela dell'ombrello era l'unico suono che l'accompagnava nel suo cammino senza meta. Stava per riaprirli quando udì della musica. Una melodia dolce. Un pianoforte. Riaprì gli occhi. Iniziò a cercare con lo sguardo il luogo da dove proveniva quella musica. Era una casa più avanti, dove qualcuno aveva socchiuso la finestra per permettere all'aria di entrare e alla musica di uscire. Si fermò sotto quella finestra. Chiuse gli occhi. Si lasciò trasportate dalle note. Chopin, forse. NOn seppe dirlo con certezza, ma gli ricordava Chopin. Da quanto non suonava un pianoforte? Per quante persone non lo suonò e per quante altre non l'avrebbe suonato? Per tutte quelle che avrebbe incontrato di lì in avanti. Lui il piano l'aveva... a casa.
Abbassò l'ombrello e guardò in alto, quel cielo piangente nero come la pece. Restò così per un attimo, quanto bastò per non poter dire con esattezza se stesse piangendo anche lui o se quel viso solcato da rivoli rilucenti non fosse il risultato della pioggia. Quindi si ripose l'ombrello sulla testa, e si incamminò. Dove non si sa. Lo sapeva soltanto lui. E mentre andava rifletteva. Su sè stesso, sul quel presente e su chissà quale futuro. Con la pioggia che si infrangeva sulla tela dell'ombrello che l'accompagnava nel suo cammino.
La pioggia che si infrangeva sulla tela dell'ombrello era l'unico suono che l'accompagnava nel suo cammino senza meta. Le automobili rigavano il manto stradale pieno d'acqua, e le cornacchie sugli alberi manifestavano la propria presenza con il loro tipico gracchiare che rendevano ancor più gotica quella giornata fredda e tetra. Il grigio intenso e profondo del cielo rendeva i colori tanto sbiaditi quasi da annullarli: se non fosse stato per la pioggia, che rendeva lucida ogni superficie, quella avrebbe assunto le sembianze di una città fantasma, spenta e smorta. L'uomo non era che un ricordo. Non un'anima per le strade, a rendere ancor più spettrale tutto quel mondo che aveva attorno. Camminava per riflettere, su sè stesso e la sua solitudine, sul presente e l'avvenire. Si fermò e chiuse gli occhi: il ticchettio delle gocce d'aqua sull'ombrello era tutto ciò che poteva percepire. Non un uccello, non un'auto, non un tram in lontananza, non il passo di un uomo. Chissà come, in quel preciso istante il mondo si era fermato. Anche il vento aveva smesso di soffiare. Riaprì gli occhi: tutto era scuro, ma non seppe dire se per via di quella giornata o se perchè ci si stava lentamente avvicinando alla sera. Si guardò attorno: dalle case non filtrava una luce. Dov'erano tutto? Si trovava in un quartiere residenziale. In una giornata come quella dove poteva essere la vita se non a casa o nei locali? Ma i bar davanti ai quali era passato erano tutti vuoti. SI disse che dovevano stare per forza di cose nelle proprie abitazioni, ma gli esseri umani erano spariti. Non una luce accesa, non una persona affacciata alla finestra.
Riprese a camminare. Gli scarponcini che pestavano l'acqua delle pozzanghere coprivano di tanto in tanto in continuo suono dell'acqua sull'ombrello. Ogni tanto provava a togliersi dal riparo di quel piccolo scudo anti-intemperie, per vedere se l'entità della pioggia era tale da permettere di poter proseguire solo con il cappuccio. Ma non lo era. E così continuò a vagare senza una destinazione. Era uscito di casa solo perchè stanco di vivere seduto su una sedia davanti a un computer. No, era uscito per fuggire dai suoi pensieri. Non accettava ancora tante cose, e probabilmente non vi sarebbe mai riuscito. Camminava per riflettere. Su sè stesso e gli altri, sul passato che fu e sul passato che non fu. Su tutto quello che avrebbe potuto essere e su ogni cosa che sarebbe stata. Nessuno può prevedere il futuro, e lo lo sapeva. Ma non si fece nè illusioni nè sogni. Quelli aveva imparato a sue spese a non cullarli mai più. Chiuse gli occhi: ancora quel sordo rumore di pioggia sul suo ombrello, e nient'altro. Non percepiva nulla. Riaprì gli occhi: quella città fantasma avvolta dalle tenebre, padrona del silenzio e del nulla, era la realtà. Sì, i sogni molto spesso finiscono laddove si interrompe il sonno. Oppure dove inizia un incubo. NOn si pose il problema di dove potesse finire: sapeva già che da quella dimensione non avrebbe fatto ritorno. E si chiese se la cosa gli dispiacesse. Si guardò attorno: quella città fantasma non sembrava fatta perchè un uomo potesse viverci. Chiuse gli occhi. La pioggia che si infrangeva sulla tela dell'ombrello era l'unico suono che l'accompagnava nel suo cammino senza meta. Stava per riaprirli quando udì della musica. Una melodia dolce. Un pianoforte. Riaprì gli occhi. Iniziò a cercare con lo sguardo il luogo da dove proveniva quella musica. Era una casa più avanti, dove qualcuno aveva socchiuso la finestra per permettere all'aria di entrare e alla musica di uscire. Si fermò sotto quella finestra. Chiuse gli occhi. Si lasciò trasportate dalle note. Chopin, forse. NOn seppe dirlo con certezza, ma gli ricordava Chopin. Da quanto non suonava un pianoforte? Per quante persone non lo suonò e per quante altre non l'avrebbe suonato? Per tutte quelle che avrebbe incontrato di lì in avanti. Lui il piano l'aveva... a casa.
Abbassò l'ombrello e guardò in alto, quel cielo piangente nero come la pece. Restò così per un attimo, quanto bastò per non poter dire con esattezza se stesse piangendo anche lui o se quel viso solcato da rivoli rilucenti non fosse il risultato della pioggia. Quindi si ripose l'ombrello sulla testa, e si incamminò. Dove non si sa. Lo sapeva soltanto lui. E mentre andava rifletteva. Su sè stesso, sul quel presente e su chissà quale futuro. Con la pioggia che si infrangeva sulla tela dell'ombrello che l'accompagnava nel suo cammino.
No comments:
Post a Comment