Resoconti introspettivi e retrospettivi di un individuo scappato da casa. Come parlare di sè in quarta persona per confondere le idee al lettore. E all'analista.
Si guardò allo specchio. Aveva una ruga. Non si era mai soffermato a contemplarsi su quella parete riflettente: tale era la sua disistima che non aveva mai voluto guardarsi nè in faccia nè tanto meno negli occhi. In tutta la sua vita aveva usato lo specchio solo per le procedure della rasatura, procedure che - va detto - egli non conosceva neanche troppo bene, date le ferite che si infliggeva ogni volta. Ma quel giorno, per puro caso, qualcosa attirò la sua attenzione: quella ruga. Non era una vera e propria ruga, quanto un solco ormai profondo e incolmabibile tra le sopracciglia, proprio sopra il naso. Era la fossetta che si formava ogni qual volta corrugava la fronte, ogni qual volta si crucciava di qualcosa. Ogni qual volta si incupiva. «Ridi di più», sussurrò ripetendosi ciò che gli disse l'amica prima della sua partenza. «Ridi di più. Ma cosa c'ho da ridere?»
Quella telefonata gli aveva lasciato i dubbi di sempre, regalandogli una certezza in più. Pensò a sè stesso e alla sua tristezza. «Non ho niente per cui ridere», disse a voce a bassa, parlando a sè stesso come sovente gli capitava. Neanche l'autoironia riusciva a strapparlo da quella sua condizione. Pensò a quel suo solco tra le due ciglia, e gli riaffiorò alla mente un ricordo d'infanzia. Una maestra delle elementari che gli diceva «Non corrucciare così la fronte, altrimenti a lungo andare ti si formerà una ruga che poi non toglierai più». Davvero aveva riso così poco in tutta la sua vita? Forse sì, a giudicare da quella cicatrice sul volto. Magari qualcuno l'avrebbe trovata interessante, ma lui sapeva che di interessante c'era ben poco. La ruga era anche una testimonianza del trascorrere del tempo. Era già così vecchio? Cosa aveva fatto per tutto quel tempo? Non gradì la risposta che si diede. E in preda alla rabbia, si allontanò da quello specchio, per non guardare in faccia, ancora una volta, quello che era.
(2. continua)
Si guardò allo specchio. Aveva una ruga. Non si era mai soffermato a contemplarsi su quella parete riflettente: tale era la sua disistima che non aveva mai voluto guardarsi nè in faccia nè tanto meno negli occhi. In tutta la sua vita aveva usato lo specchio solo per le procedure della rasatura, procedure che - va detto - egli non conosceva neanche troppo bene, date le ferite che si infliggeva ogni volta. Ma quel giorno, per puro caso, qualcosa attirò la sua attenzione: quella ruga. Non era una vera e propria ruga, quanto un solco ormai profondo e incolmabibile tra le sopracciglia, proprio sopra il naso. Era la fossetta che si formava ogni qual volta corrugava la fronte, ogni qual volta si crucciava di qualcosa. Ogni qual volta si incupiva. «Ridi di più», sussurrò ripetendosi ciò che gli disse l'amica prima della sua partenza. «Ridi di più. Ma cosa c'ho da ridere?»
Quella telefonata gli aveva lasciato i dubbi di sempre, regalandogli una certezza in più. Pensò a sè stesso e alla sua tristezza. «Non ho niente per cui ridere», disse a voce a bassa, parlando a sè stesso come sovente gli capitava. Neanche l'autoironia riusciva a strapparlo da quella sua condizione. Pensò a quel suo solco tra le due ciglia, e gli riaffiorò alla mente un ricordo d'infanzia. Una maestra delle elementari che gli diceva «Non corrucciare così la fronte, altrimenti a lungo andare ti si formerà una ruga che poi non toglierai più». Davvero aveva riso così poco in tutta la sua vita? Forse sì, a giudicare da quella cicatrice sul volto. Magari qualcuno l'avrebbe trovata interessante, ma lui sapeva che di interessante c'era ben poco. La ruga era anche una testimonianza del trascorrere del tempo. Era già così vecchio? Cosa aveva fatto per tutto quel tempo? Non gradì la risposta che si diede. E in preda alla rabbia, si allontanò da quello specchio, per non guardare in faccia, ancora una volta, quello che era.
(2. continua)
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