Un piccolo angolo d'italia e un grande assaggio di italianità. Per ridere. O(h) no.
Thursday, 30 September 2010
Berlusconi senza maggioranza, governo instabile
La Camera vota la fiducia sui cinque punti, ma a vincere è Fini. Che si dimostra determinante. Con il premier ostaggio anche dell'Mpa e alla prese con i malumori della Lega. Che invoca il voto.
l'e-dittoreale*
Il governo c'è ancora, ma non la sua maggioranza. Il voto di fiducia di Montecitorio sui cinque punti chiesto da Silvio Berlusconi per fare chiarezza - sia pur parziale - sulla situazione in atto, regala al presidente del Consiglio e al governo una maggioranza numerica e non politica, per quello che si configura come vero e proprio mosaico politico tutta da costruire. Al termine di mesi di tensioni, sospetti e attacchi reciproci e fratture interne al centrodestra, Berlusconi sa adesso che potrà continuare a lavorare, ma sa anche che dovrà trovare di volta in volta l'intesa con i finiani e con l'Mpa di Lombardo, altro schieramento con cui Berlusconi ha rapporti tesi. Dei 342 voti ottenuti in aula a Montecitorio, 40 sono di Futuro e libertà e Mpa (rispettivamente 35 e 5), il che porta il premier ben lontano dai 316 deputati richiesti per avere la maggioranza alla Camera e la certezza di non subire brutti scherzi. Il ramo del parlamento, quello stesso parlamento che Berlusconi vede «libero e forte» come dice in Aula, gli garantisce numeri per andare avanti; resta da capire però fino a quando. Perchè se la prova del voto è stata superata, resta la situazione di profonda incertezza in cui il presidente del Consiglio si trova. Nuove alleanze, altri e diversi interlocutori, precari equilibri e innumerevoli incognite animano uno scenario imprevedibile e mutevole degno di un caleidoscopio. Berlusconi ha chiesto il voto di fiducia per capire dove e come potrà muoversi: lo strappo con Gianfranco Fini lo ha reso più instabile, soprattutto adesso che i voti dei finiani serviranno, mentre l'accresciuto peso della Lega lo ha fatto anche ostaggio dell'amico e alleato Umberto Bossi. Sempre che Bossi amico e alleato lo sia ancora. Il leader del Carroccio riconosce che «la strada è stretta». Adesso «è dura ma ce la faremo», anche se «a lungo termine non regge niente. Non c'è niente di eterno». Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera, sembra avvertire Berlusconi quando dice che «La Lega è già in campagna elettorale». Ed è proprio il leader della Lega, Bossi, che alla fine lo scandisce chiaramente: «Nella vita è meglio la strada maestra e la strada maestra è il voto». Del resto i leghisti già in precedenza non avevano fatto mistero delle proprie preoccupazioni per un eventuale prosieguo delle legislatura alla continua ricerca dei deputati mancanti, col timore di poter cadere da un momento all'altro. Per Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, Berlusconi sconta il fatto di aver raccontato «quindici anni di favole», e quella voluta dal premier è «una fiducia messa per debolezza». Per Berlusconi, che pure respinge le critiche dell'opposizione, sarà dura smentire il segretario del Pd, dato che da Montecitorio capo di governo e governo escono se non sconfitti ridimensionati e con un futuro del tutto incerto.
*(poi editoriale della puntata del 3 ottobre 2010 di E' la stampa bellezza, in onda su RadioLiberaTutti)
l'e-dittoreale*
Il governo c'è ancora, ma non la sua maggioranza. Il voto di fiducia di Montecitorio sui cinque punti chiesto da Silvio Berlusconi per fare chiarezza - sia pur parziale - sulla situazione in atto, regala al presidente del Consiglio e al governo una maggioranza numerica e non politica, per quello che si configura come vero e proprio mosaico politico tutta da costruire. Al termine di mesi di tensioni, sospetti e attacchi reciproci e fratture interne al centrodestra, Berlusconi sa adesso che potrà continuare a lavorare, ma sa anche che dovrà trovare di volta in volta l'intesa con i finiani e con l'Mpa di Lombardo, altro schieramento con cui Berlusconi ha rapporti tesi. Dei 342 voti ottenuti in aula a Montecitorio, 40 sono di Futuro e libertà e Mpa (rispettivamente 35 e 5), il che porta il premier ben lontano dai 316 deputati richiesti per avere la maggioranza alla Camera e la certezza di non subire brutti scherzi. Il ramo del parlamento, quello stesso parlamento che Berlusconi vede «libero e forte» come dice in Aula, gli garantisce numeri per andare avanti; resta da capire però fino a quando. Perchè se la prova del voto è stata superata, resta la situazione di profonda incertezza in cui il presidente del Consiglio si trova. Nuove alleanze, altri e diversi interlocutori, precari equilibri e innumerevoli incognite animano uno scenario imprevedibile e mutevole degno di un caleidoscopio. Berlusconi ha chiesto il voto di fiducia per capire dove e come potrà muoversi: lo strappo con Gianfranco Fini lo ha reso più instabile, soprattutto adesso che i voti dei finiani serviranno, mentre l'accresciuto peso della Lega lo ha fatto anche ostaggio dell'amico e alleato Umberto Bossi. Sempre che Bossi amico e alleato lo sia ancora. Il leader del Carroccio riconosce che «la strada è stretta». Adesso «è dura ma ce la faremo», anche se «a lungo termine non regge niente. Non c'è niente di eterno». Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera, sembra avvertire Berlusconi quando dice che «La Lega è già in campagna elettorale». Ed è proprio il leader della Lega, Bossi, che alla fine lo scandisce chiaramente: «Nella vita è meglio la strada maestra e la strada maestra è il voto». Del resto i leghisti già in precedenza non avevano fatto mistero delle proprie preoccupazioni per un eventuale prosieguo delle legislatura alla continua ricerca dei deputati mancanti, col timore di poter cadere da un momento all'altro. Per Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, Berlusconi sconta il fatto di aver raccontato «quindici anni di favole», e quella voluta dal premier è «una fiducia messa per debolezza». Per Berlusconi, che pure respinge le critiche dell'opposizione, sarà dura smentire il segretario del Pd, dato che da Montecitorio capo di governo e governo escono se non sconfitti ridimensionati e con un futuro del tutto incerto.
*(poi editoriale della puntata del 3 ottobre 2010 di E' la stampa bellezza, in onda su RadioLiberaTutti)
Wednesday, 29 September 2010
Il Labour cambia: nuovo segretario e nuova linea. In senso anti-Blair.
Il partito laburista britannico elegge Ed Miliband nuovo leader. E lui volta pagina: «la politica conosciuta fino a ieri è finita».
di Emiliano Biaggio
Il Labour cambia e volta pagina: il congresso del partito laburista di Manchester elegge un nuovo segretario e inverte la rotta. A raccogliere l'eredità di Tony Blair e Gordon Brown è Ed Miliband, fratello minore dell'altro Miliband, David, ministro delle Comunità e degli Enti Locali nel governo Brown. Ma soprattutto un convinto critico del "New labour" inaugurato da Blair, e non lo ha tenuto nascosto. Le prime parole da nuovo segretario sono chiare: la politica come è stata conosciuta fino a ieri è «finita», travolta «dalla caduta di credibilità e di fiducia». Miliband critica, quindi avvia il nuovo corso. «Abbiamo perso le elezioni e le abbiamo perse malamente. So che dobbiamo cambiare». Come? Con il ritorno ai valori più progressisti abbandonati all'epoca di Blair. Ed Miliband riproponeo la sua visione di un capitalismo che lavori per la gente, perchè «dobbiamo ridurre il deficit ma fare molto di più», dato che «questo Paese è troppo iniquo e la differenza tra ricchi e poveri non danneggia solo i poveri, ma tutti». Per il neo-segretario dei laburisti vuole inoltre un cambio della politica estera, «perché sia basata su valori e non solo su alleanze», in un chiaro riferimento alla «guerra sbagliata» voluta da Blair in Iraq, decisa senza l'avallo dell'Onu e senza sufficiente base legale. Bisogna insomma scordarsi la spinta riformista voluta da Blair, per un Labour che ha inteso collocarsi negli ultimi 15 anni (da quando cioè Tony Blair assunse la guida del partito, il 21 luglio 1994) tra il neoliberismo della destra e le politiche assistenziali della vecchia sinistra. Perchè è proprio a quella vecchia sinistra che Miliband guarda, o quantomeno pensa. E ripensa. «Noi progressisti siamo gli eredi di una straordinaria tradizione, di grandi leader che furono gli ottimisti della Storia», ricorda non a caso alla platea di Manchester. E «oggi- afferma l'appena 40enne Miliband- noi siamo gli ottimisti che cambieranno la Gran Bretagna». E promette, al popolo laburista ma soprattutto alla nazione: quello di David Cameron «sarà un governo di un solo mandato». Il partito laburista, dunque, riparte da Manchester e dal suo nuovo segretario. Che spazza il campo da parole inutili e scherzi fuori luogo. «Mi chiamano Ed il Rosso (Ed the red, in inglese, ndr)? Per piacere, andiamo oltre». C'è un partito da rifondare, perchè «non è successo per caso che un partito come questo abbia perso così tanti voti» negli ultimi anni. E c'è una nuova stagione del Labour da scrivere.
di Emiliano Biaggio
Il Labour cambia e volta pagina: il congresso del partito laburista di Manchester elegge un nuovo segretario e inverte la rotta. A raccogliere l'eredità di Tony Blair e Gordon Brown è Ed Miliband, fratello minore dell'altro Miliband, David, ministro delle Comunità e degli Enti Locali nel governo Brown. Ma soprattutto un convinto critico del "New labour" inaugurato da Blair, e non lo ha tenuto nascosto. Le prime parole da nuovo segretario sono chiare: la politica come è stata conosciuta fino a ieri è «finita», travolta «dalla caduta di credibilità e di fiducia». Miliband critica, quindi avvia il nuovo corso. «Abbiamo perso le elezioni e le abbiamo perse malamente. So che dobbiamo cambiare». Come? Con il ritorno ai valori più progressisti abbandonati all'epoca di Blair. Ed Miliband riproponeo la sua visione di un capitalismo che lavori per la gente, perchè «dobbiamo ridurre il deficit ma fare molto di più», dato che «questo Paese è troppo iniquo e la differenza tra ricchi e poveri non danneggia solo i poveri, ma tutti». Per il neo-segretario dei laburisti vuole inoltre un cambio della politica estera, «perché sia basata su valori e non solo su alleanze», in un chiaro riferimento alla «guerra sbagliata» voluta da Blair in Iraq, decisa senza l'avallo dell'Onu e senza sufficiente base legale. Bisogna insomma scordarsi la spinta riformista voluta da Blair, per un Labour che ha inteso collocarsi negli ultimi 15 anni (da quando cioè Tony Blair assunse la guida del partito, il 21 luglio 1994) tra il neoliberismo della destra e le politiche assistenziali della vecchia sinistra. Perchè è proprio a quella vecchia sinistra che Miliband guarda, o quantomeno pensa. E ripensa. «Noi progressisti siamo gli eredi di una straordinaria tradizione, di grandi leader che furono gli ottimisti della Storia», ricorda non a caso alla platea di Manchester. E «oggi- afferma l'appena 40enne Miliband- noi siamo gli ottimisti che cambieranno la Gran Bretagna». E promette, al popolo laburista ma soprattutto alla nazione: quello di David Cameron «sarà un governo di un solo mandato». Il partito laburista, dunque, riparte da Manchester e dal suo nuovo segretario. Che spazza il campo da parole inutili e scherzi fuori luogo. «Mi chiamano Ed il Rosso (Ed the red, in inglese, ndr)? Per piacere, andiamo oltre». C'è un partito da rifondare, perchè «non è successo per caso che un partito come questo abbia perso così tanti voti» negli ultimi anni. E c'è una nuova stagione del Labour da scrivere.
Facebook e Skype nel mirino della Casa Bianca
Obama e il suo staff lavorano a un progetto di legge per intercettare comunicazioni on-line in nome di maggiore sicurezza nazionale. Su pressione di Fbi e Cia.
di Emiliano Biaggio
Barack Obama pensa di controllare gli internauti, intercettandone le comunicazioni web e tracciandone i messaggi per l'intero percorso, dalla fonte al punto di arrivo. Motivo, garantire una maggiore sicurezza nazionale. La Casa Bianca sta mettendo a punto un piano - ma soprattutto un progetto di legge - che andrebbe a colpire in particolare gli utenti di Facebook e Skype. Chat e conversazioni rischiano dunque di finire sotto l'attento controllo delle autorità, in una mossa a sopresa che riapre il dibattito su diritto della privacy e ragion di Stato. «Non si tratta di estendere la nostra autorità, ma di preservare la nostra capacità di proteggere la popolazione e la sicurezza nazionale», spiegato Valerie Caproni, dell’Fbi. Non è un caso che dichiarazioni sul tema arrivino dal braccio operativo del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, perchè i servizi di sicurezza Usa sono preoccupati dal fatto che sempre più persone utilizzano internet per comunicare al posto del telefono: una cosa, questa, che rappresenta un serio ostacolo per le indagini condotte su criminali e sospetti terroristi. Stando a quanto riportati da alcuni media statunitensi, gli 007 vogliono che il Congresso imponga a tutti i servizi di comunicazione - BlackBerry inclusi - di essere tecnicamente in grado di poter fare intercettazioni sui propri clienti se richiesto dalle autorità, inclusi i messaggi criptati. Il presidente degli Stati Uniti e il suo staff lavorano ad un progetto di legge che sembra non arriverà all'attenzione del Congresso prima del prossimo anno. Al momento si sa che il progetto di legge si baserà su tre capisaldi: un sistema di decriptazione per i servizi di comunicazione che permettono lo scambio di messaggi criptati, installazione di strumenti per le intercettazioni per i fornitori esterni che operano negli States e sviluppo di programma per intercettare le comunicazioni peer-to-peer. Ma resta tuttavia da chiarire come il governo Usa potrà regolare i servizi che hanno sede e server oltreoceano, ma di qui a un anno la soluzione potrà essere trovata. Almeno questo auspicano alla Casa Bianca. Insomma, c'è tempo per lavorare e discutere, e la discussione è già partita e si è già accesa; blogger e internauti infatti insorgono, con James Dempsey, vicepresidente del Center for Democracy and Technology, che avverte che qualora la legge dovesse essere prodotta e approvata ci saranno «enormi implicazioni» sugli «elementi fondamentali della rivoluzione di Internet». Non solo: si teme che Obama possa fornire un esempio per i governi degli altri paesi, ponendo fine al libero navigare e rischiando di far rimanere intrappolati nella rete.
di Emiliano Biaggio
Barack Obama pensa di controllare gli internauti, intercettandone le comunicazioni web e tracciandone i messaggi per l'intero percorso, dalla fonte al punto di arrivo. Motivo, garantire una maggiore sicurezza nazionale. La Casa Bianca sta mettendo a punto un piano - ma soprattutto un progetto di legge - che andrebbe a colpire in particolare gli utenti di Facebook e Skype. Chat e conversazioni rischiano dunque di finire sotto l'attento controllo delle autorità, in una mossa a sopresa che riapre il dibattito su diritto della privacy e ragion di Stato. «Non si tratta di estendere la nostra autorità, ma di preservare la nostra capacità di proteggere la popolazione e la sicurezza nazionale», spiegato Valerie Caproni, dell’Fbi. Non è un caso che dichiarazioni sul tema arrivino dal braccio operativo del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, perchè i servizi di sicurezza Usa sono preoccupati dal fatto che sempre più persone utilizzano internet per comunicare al posto del telefono: una cosa, questa, che rappresenta un serio ostacolo per le indagini condotte su criminali e sospetti terroristi. Stando a quanto riportati da alcuni media statunitensi, gli 007 vogliono che il Congresso imponga a tutti i servizi di comunicazione - BlackBerry inclusi - di essere tecnicamente in grado di poter fare intercettazioni sui propri clienti se richiesto dalle autorità, inclusi i messaggi criptati. Il presidente degli Stati Uniti e il suo staff lavorano ad un progetto di legge che sembra non arriverà all'attenzione del Congresso prima del prossimo anno. Al momento si sa che il progetto di legge si baserà su tre capisaldi: un sistema di decriptazione per i servizi di comunicazione che permettono lo scambio di messaggi criptati, installazione di strumenti per le intercettazioni per i fornitori esterni che operano negli States e sviluppo di programma per intercettare le comunicazioni peer-to-peer. Ma resta tuttavia da chiarire come il governo Usa potrà regolare i servizi che hanno sede e server oltreoceano, ma di qui a un anno la soluzione potrà essere trovata. Almeno questo auspicano alla Casa Bianca. Insomma, c'è tempo per lavorare e discutere, e la discussione è già partita e si è già accesa; blogger e internauti infatti insorgono, con James Dempsey, vicepresidente del Center for Democracy and Technology, che avverte che qualora la legge dovesse essere prodotta e approvata ci saranno «enormi implicazioni» sugli «elementi fondamentali della rivoluzione di Internet». Non solo: si teme che Obama possa fornire un esempio per i governi degli altri paesi, ponendo fine al libero navigare e rischiando di far rimanere intrappolati nella rete.
Tuesday, 28 September 2010
Alieni, ecco l'ambasciatore Onu. Anzi, no.
La notizia fa il giro del mondo, poi però viene smentita. Dalla stessa ambasciatrice per i rapporti con gli extraterrestri.
di Emiliano Biaggio
Un'intuizione geniale o solo un'altra storia di sprechi e superstipendi inutili? Alla fine sembra si tratti solo di una "bufala", ma certo è che l'ufficio per le relazioni con gli extraterrestri delle Nazioni Unite e la nomina dell'ambasciatore Onu per i rapporti con gli abitanti di altri pianeti fa discutere. Per gli scettici si tratta di una provocazione, per i critici solo un modo per sperperare denaro. Eppure per un momento media di tutto il mondo hanno fatto sapere che al Palazzo di Vetro sembra si lavori seriamente al progetto, tanto che Mazlan Binti Othman - astrofisica malese già responsabile dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari dello Spazio Extra-atmosferico (Unoosa) - sarebbe già stata nominata ambasciatrice per i rapporti con le forme di vita extratterestri. «La continua ricerca di comunicazioni extraterrestri da parte di più soggetti- ha dettp Binti Othman all'australiano News- ci lascia sperare che un giorno l'umanità riceverà segnali dagli alieni», e «quando succederà dovremo avere in piedi una risposta». Insomma, «dobbiamo essere pronti», ha spiegato l'astrofisica. Le sue dichiarazioni, diffuse da News, sono state riprese e rilanciate da numerose testate europee, a cominciare dal Sunday Times (dello stesso gruppo di News), e da telegiornali e giornali italiani, creando il caso e suscitando non pochi imbarazzi negli ambienti delle Nazioni Unite. Tanto che la stessa Mazlan Binti Othman ha fatto retromarcia smentendo sè stessa. L’Onu non nominerà alcun ambasciatore con il compito di occuparsi degli alieni, ha detto. «Sembra un’idea molto bella, ma devo smentirla». Insomma, E.T. può attendere. Proprio come lo attendono molti di noi.
di Emiliano Biaggio
Un'intuizione geniale o solo un'altra storia di sprechi e superstipendi inutili? Alla fine sembra si tratti solo di una "bufala", ma certo è che l'ufficio per le relazioni con gli extraterrestri delle Nazioni Unite e la nomina dell'ambasciatore Onu per i rapporti con gli abitanti di altri pianeti fa discutere. Per gli scettici si tratta di una provocazione, per i critici solo un modo per sperperare denaro. Eppure per un momento media di tutto il mondo hanno fatto sapere che al Palazzo di Vetro sembra si lavori seriamente al progetto, tanto che Mazlan Binti Othman - astrofisica malese già responsabile dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari dello Spazio Extra-atmosferico (Unoosa) - sarebbe già stata nominata ambasciatrice per i rapporti con le forme di vita extratterestri. «La continua ricerca di comunicazioni extraterrestri da parte di più soggetti- ha dettp Binti Othman all'australiano News- ci lascia sperare che un giorno l'umanità riceverà segnali dagli alieni», e «quando succederà dovremo avere in piedi una risposta». Insomma, «dobbiamo essere pronti», ha spiegato l'astrofisica. Le sue dichiarazioni, diffuse da News, sono state riprese e rilanciate da numerose testate europee, a cominciare dal Sunday Times (dello stesso gruppo di News), e da telegiornali e giornali italiani, creando il caso e suscitando non pochi imbarazzi negli ambienti delle Nazioni Unite. Tanto che la stessa Mazlan Binti Othman ha fatto retromarcia smentendo sè stessa. L’Onu non nominerà alcun ambasciatore con il compito di occuparsi degli alieni, ha detto. «Sembra un’idea molto bella, ma devo smentirla». Insomma, E.T. può attendere. Proprio come lo attendono molti di noi.
Monday, 27 September 2010
Il (mio) cammino da Santiago
Dopo un lavoro durato due anni, ecco finalmente Il (mio) cammino da Santiago, ultima fatica del sottoscritto. Diario di viaggio e non solo per un cammino iniziato da quello che da sempre è un punto di arrivo. Resoconto e ricordo di pochi giorni carichi di emozioni e di esperienze, frutto di incontri, spostamenti, visite, condivisione di momenti e spazi. Qui di fianco la copertina, che però non sarà nel file formato pdf che troverete cliccando nella sezione "Scritti biaggeschi" alla voce Il (mio) cammino da Santiago oppure cliccando qui. Chiunque fosse interessato a riceverla basta che lo richieda attraverso commento a questo o ad altri post.
Buona lettura.
Emiliano
Buona lettura.
Emiliano
Saturday, 25 September 2010
Memorabilia
Tuesday, 14 September 2010
Monday, 13 September 2010
Turchia, al referendum vince il "si": meno poteri all'esercito
Decisione storica in un paese dove i militari hanno sempre avuto grande influenza. Gül: «Così ci adeguiamo all'Ue».
di Emiliano Biaggio
La Turchia cambia: il 58% dei votanti ha detto "si" al referendum che chiede di rivedere la costituzione del paese e ridefinire l'assetto dello Stato. In particolare, se - come appare ormai cosa fatta - passa il progetto del premier Recep Tayyip Erdogan verranno posti limiti ai poteri dell'esercito, in Turchia da sempre molto influente sulla vita politica e la giustizia e depositaria di quel laicismo di stato che finora ha saputo evitare la nascita di uno spirito islamico forte. Alcune delle modifiche in cantiere riguardano la Corte costituzionale, che sarà composta da 17 giudici (e non più da 11 come oggi), 14 dei quali nominati dal capo dello Stato e tre dal Parlamento. L'alta Corte potrà giudicare i massimi gradi militari, mentre d'ora in poi saranno i tribunali civili e non più quelli militari, a processare i membri delle forze armate accusati di reati contro la sicurezza dello Stato o la Costituzione. Resta da vedere come lo prenderanno i militari, ma sia per il premier Erdogan (dell'Akp, Partito per la giustizia e lo sviluppo) che per il presidente della Repubblica Abdullah Gül, adesso si apre una nuova pagina per la storia del paese. «Condividiamo i valori del mondo occidentale», ha commentato Gül. «Con questo voto abbiamo assolto alla richiesta di adeguare i nostri standard a livello comunitario». Sul tavolo resta aperta la questione di Cipro, ma per il governo di Ankara questo referendum segna senza ombra di dubbio un risultato senza precedenti.
di Emiliano Biaggio
La Turchia cambia: il 58% dei votanti ha detto "si" al referendum che chiede di rivedere la costituzione del paese e ridefinire l'assetto dello Stato. In particolare, se - come appare ormai cosa fatta - passa il progetto del premier Recep Tayyip Erdogan verranno posti limiti ai poteri dell'esercito, in Turchia da sempre molto influente sulla vita politica e la giustizia e depositaria di quel laicismo di stato che finora ha saputo evitare la nascita di uno spirito islamico forte. Alcune delle modifiche in cantiere riguardano la Corte costituzionale, che sarà composta da 17 giudici (e non più da 11 come oggi), 14 dei quali nominati dal capo dello Stato e tre dal Parlamento. L'alta Corte potrà giudicare i massimi gradi militari, mentre d'ora in poi saranno i tribunali civili e non più quelli militari, a processare i membri delle forze armate accusati di reati contro la sicurezza dello Stato o la Costituzione. Resta da vedere come lo prenderanno i militari, ma sia per il premier Erdogan (dell'Akp, Partito per la giustizia e lo sviluppo) che per il presidente della Repubblica Abdullah Gül, adesso si apre una nuova pagina per la storia del paese. «Condividiamo i valori del mondo occidentale», ha commentato Gül. «Con questo voto abbiamo assolto alla richiesta di adeguare i nostri standard a livello comunitario». Sul tavolo resta aperta la questione di Cipro, ma per il governo di Ankara questo referendum segna senza ombra di dubbio un risultato senza precedenti.
Saturday, 11 September 2010
Il Pentagono, costruito e abbattuto lo stesso giorno: l'11 settembre
Nel 1941 l'inizio degli scavi e l'avvio dei lavori, sessant'anni più tardi l'aereo che cade sulla parete ovest.
di Emiliano Biaggio
Come ogni anno dal 2002 gli Stati Uniti ricordano l'11 settembre. Dopo nove anni dall'attacco alle torri gemelle e all'ottava celebrazione delle vittime di quello stesso attacco, a Ground Zero ci si stringe attorno ai caduti ma soprattutto alla nazione. Tutti a ricordare i quasi 3.000 morti e i 6.000 feriti di quell'11 settembre in cui 4 aerei si lanciarono contro il World Trade Center e non solo. Uno dei quattro velivoli precipitò contro la facciata ovest del Pentagono, il palazzo sede del quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d'America, uno dei simboli della potenza Usa. Ironia della sorte, quello stesso edificio venne costruito proprio un 11 settembre. Non in un giorno solo, si intende. Ma quel giorno, quell'11 settembre del 1941, è il giorno in cui iniziarono gli scavi - e quindi i lavori - per la realizzazione del Pentagono. Operativo dal 1943, è oggi il più grande edificio al mondo per estenzione di superificie, ben di 604.000 metri quadrati adagiata su cinque piani. Di questi, 344.000 metri quadrati sono di uffici. Ogni giorno circa 23.000 tra militari e personale civile, oltre ad altre 3.000 persone di supporto al Dipartimento ma non facenti parte della Difesa.
di Emiliano Biaggio
Come ogni anno dal 2002 gli Stati Uniti ricordano l'11 settembre. Dopo nove anni dall'attacco alle torri gemelle e all'ottava celebrazione delle vittime di quello stesso attacco, a Ground Zero ci si stringe attorno ai caduti ma soprattutto alla nazione. Tutti a ricordare i quasi 3.000 morti e i 6.000 feriti di quell'11 settembre in cui 4 aerei si lanciarono contro il World Trade Center e non solo. Uno dei quattro velivoli precipitò contro la facciata ovest del Pentagono, il palazzo sede del quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d'America, uno dei simboli della potenza Usa. Ironia della sorte, quello stesso edificio venne costruito proprio un 11 settembre. Non in un giorno solo, si intende. Ma quel giorno, quell'11 settembre del 1941, è il giorno in cui iniziarono gli scavi - e quindi i lavori - per la realizzazione del Pentagono. Operativo dal 1943, è oggi il più grande edificio al mondo per estenzione di superificie, ben di 604.000 metri quadrati adagiata su cinque piani. Di questi, 344.000 metri quadrati sono di uffici. Ogni giorno circa 23.000 tra militari e personale civile, oltre ad altre 3.000 persone di supporto al Dipartimento ma non facenti parte della Difesa.
Ricordando l'11 settembre. Quello cileno.
Nel 1973 il golpe dei militari di Pinochet. Ordito dallo stesso Paese che oggi vorrebbe estirpare il terrorismo.
di Emiliano Biaggio
Nove anni fa l’incidente che sconvolse l’America e cambiò il mondo, perché il mondo, dopo l’attacco alle torri gemelle di New York, non è stato più lo stesso. A nove anni di distanza da quell’attacco il mondo ricorda, e si interroga. Oggi, a nove anni di distanza dagli aerei scagliati contro il World Trade Center, il terrorismo è stato sconfitto? Pentagono, Cia e Casa Bianca non sembrano aver offerto la risposta che ognuno di noi avrebbe voluto sentire, anzi, e le varie registrazioni audio e riapparizioni in video del signore del terrore, Osama Bin Laden, sembrano confermare che dopo nove anni la lotta al terrorismo è tutt’altro che conclusa, forse è addirittura appena cominciata.
Intanto oggi il mondo tutto si unisce nel ricordo del dolore e della rabbia per la morte e il terrore che l’11 settembre di nove anni fa hanno squarciato il cielo newyorkese, con scene tanto apocalittiche da far rimanere increduli i passanti prima e i telespettatori poi a quanto avvenuto. Duro e difficile richiamare alla mente i momenti dell’11 settembre, di quell’altro 11 settembre. Già perché c’è un altro identico giorno, distante 29 anni da quello Usa: l’11 settembre del golpe cileno, del palazzo della Moneda in fiamme, del tradimento del generale Augusto Pinochet. Un attacco alla democrazia ordito dalle multinazionali del rame, dall'allora segretario di Stato Henry Kissinger, e da quella stessa Cia che oggi pianifica le strategie da adottare per contrastare il terrorismo. A trentasette anni di distanza da una delle pagine più buie della storia cilena e una delle più nere dei "democratici" Stati Uniti, tutti esprimono solidarietà alla ferita America mentre solo in pochi ricordano come un Paese che non accetta di finire sotto attacco, di attacchi ne ha sferrati, e tutt’ora continua a sferrarne. Pochi, probabilmente, sono disposti a credere che chi si erge a paladino di giustizia e democrazia è poi il primo che le infrange. Ecco perché oggi, 11 settembre, otto anni dopo l’attacco alle torri gemelle e trentasei anni dopo il golpe cileno, il mondo si interroga. Ma ben altre sono le domande che ci si dovrebbe porre, perché è certo: il terrorismo non è mai morto. E questo, a Washington, lo sanno bene.
di Emiliano Biaggio
Nove anni fa l’incidente che sconvolse l’America e cambiò il mondo, perché il mondo, dopo l’attacco alle torri gemelle di New York, non è stato più lo stesso. A nove anni di distanza da quell’attacco il mondo ricorda, e si interroga. Oggi, a nove anni di distanza dagli aerei scagliati contro il World Trade Center, il terrorismo è stato sconfitto? Pentagono, Cia e Casa Bianca non sembrano aver offerto la risposta che ognuno di noi avrebbe voluto sentire, anzi, e le varie registrazioni audio e riapparizioni in video del signore del terrore, Osama Bin Laden, sembrano confermare che dopo nove anni la lotta al terrorismo è tutt’altro che conclusa, forse è addirittura appena cominciata.
Intanto oggi il mondo tutto si unisce nel ricordo del dolore e della rabbia per la morte e il terrore che l’11 settembre di nove anni fa hanno squarciato il cielo newyorkese, con scene tanto apocalittiche da far rimanere increduli i passanti prima e i telespettatori poi a quanto avvenuto. Duro e difficile richiamare alla mente i momenti dell’11 settembre, di quell’altro 11 settembre. Già perché c’è un altro identico giorno, distante 29 anni da quello Usa: l’11 settembre del golpe cileno, del palazzo della Moneda in fiamme, del tradimento del generale Augusto Pinochet. Un attacco alla democrazia ordito dalle multinazionali del rame, dall'allora segretario di Stato Henry Kissinger, e da quella stessa Cia che oggi pianifica le strategie da adottare per contrastare il terrorismo. A trentasette anni di distanza da una delle pagine più buie della storia cilena e una delle più nere dei "democratici" Stati Uniti, tutti esprimono solidarietà alla ferita America mentre solo in pochi ricordano come un Paese che non accetta di finire sotto attacco, di attacchi ne ha sferrati, e tutt’ora continua a sferrarne. Pochi, probabilmente, sono disposti a credere che chi si erge a paladino di giustizia e democrazia è poi il primo che le infrange. Ecco perché oggi, 11 settembre, otto anni dopo l’attacco alle torri gemelle e trentasei anni dopo il golpe cileno, il mondo si interroga. Ma ben altre sono le domande che ci si dovrebbe porre, perché è certo: il terrorismo non è mai morto. E questo, a Washington, lo sanno bene.
Wednesday, 8 September 2010
Primi effetti del "modello Marchionne", Federmeccanica disdice contratto nazionale.
L'associazioned degli industriali recede unilateralmente dall'accordo di categoria siglato nel 2008, la Fiom sempre più ai margini.
di Emiliano Biaggio
Federmeccanica recede dal contratto collettivo dei metalmeccanici del 2008, l'ultimo firmato da tutti i sindacati compresa la Fiom. Con una mossa a sorpresa l'associazioned degli industriali stabilisce che dal primo gennaio 2012 quel contratto perderà dunque i suoi effetti. In questo modo la federazione dell'industria metalmeccanica si mette al riparo da eventuali ricorsi nei confronti dei contenuti dell'accordo Fiat di Pomigliano (firmato da Fim, Uilm, Fismic e Ugl). Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, parla di «diktat di Marchionne», l'ad della Fiat che unilateralmente ha deciso di uscire da Federmeccanica per non sottostare a vincoli ritenuti insostenibili dal Lingotto. Per Landini non sorprende la decsione di Federmeccanica: «Questa discussione- sostiene - ha subito un'accelerazione perché la Fiat ha minacciato che senza le deroghe sarebbe uscita dall'associazione, ma meccanismi di confronto sotto diktat alla lunga non aiutano neanche le imprese». Gli industriali, com'era facile immaginarsi, si schierano con Federmeccanica. Per il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, «la disdetta è solo una questione tecnica», è «un atto di chiarezza». Minimizza anche il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, secondo cui «va ridimensionato il significato della decisione di Federmeccanica» di disdettare il contratto nazionale del gennaio 2008. Per il titolare del dicastero che si occupa, tra l'altro, anche di Lavoro (oltre che a salute e politiche sociali) la decisione di Federmeccanica «è un atto assolutamente formalistico di un contratto che nemmeno è stato applicato, utile probabilmente soltanto per dare maggiore certezza al contratto che è in vigore, che non fu sottoscritto dalla Fiom che è molto più conveniente di quello che è stato disdetto». Sacconi prova a rassicurare: «Per i metalmeccanici non cambia assolutamente nulla anzi, probabilmente, viene conferita maggiore certezza in termini formali». Dal minsitro nessun accenno o riferimenti ai termini sostanziali, che contano eccome, forse anche più delle mere formalità. Per Fiom la decisione di Federmeccanica è «uno strappo alle regole democratiche», e il sindacato dei metalmeccanici ha già proclamato 4 ore di sciopero. Intanto a livello sindacale è scontro: il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, sostiene che la decisione di Federmeccanica è di fatto dovuta. «Non poteva che essere così per allineare il contratto di lavoro, quello siglato pochi mesi fa, con l'accordo fatto per Pomigliano». E la decisione presa è colpa della Fiom, perchè «a loro non va bene nulla, innalzano solo barricate». Parole che costano a Bonanni fischi e contestazione alla festa del Pd di Torino, ma che soprattutto sanciscono lo sfaldamento interno alla classe sindacale che non giova ai lavoratori del settore e che, vicecersa, rafforzano una classe industriale che sempre più rivede da sola (anche se gode dell'appoggio, tacito o meno, della classe politica) le regole del diritto del lavoro.
di Emiliano Biaggio
Federmeccanica recede dal contratto collettivo dei metalmeccanici del 2008, l'ultimo firmato da tutti i sindacati compresa la Fiom. Con una mossa a sorpresa l'associazioned degli industriali stabilisce che dal primo gennaio 2012 quel contratto perderà dunque i suoi effetti. In questo modo la federazione dell'industria metalmeccanica si mette al riparo da eventuali ricorsi nei confronti dei contenuti dell'accordo Fiat di Pomigliano (firmato da Fim, Uilm, Fismic e Ugl). Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, parla di «diktat di Marchionne», l'ad della Fiat che unilateralmente ha deciso di uscire da Federmeccanica per non sottostare a vincoli ritenuti insostenibili dal Lingotto. Per Landini non sorprende la decsione di Federmeccanica: «Questa discussione- sostiene - ha subito un'accelerazione perché la Fiat ha minacciato che senza le deroghe sarebbe uscita dall'associazione, ma meccanismi di confronto sotto diktat alla lunga non aiutano neanche le imprese». Gli industriali, com'era facile immaginarsi, si schierano con Federmeccanica. Per il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, «la disdetta è solo una questione tecnica», è «un atto di chiarezza». Minimizza anche il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, secondo cui «va ridimensionato il significato della decisione di Federmeccanica» di disdettare il contratto nazionale del gennaio 2008. Per il titolare del dicastero che si occupa, tra l'altro, anche di Lavoro (oltre che a salute e politiche sociali) la decisione di Federmeccanica «è un atto assolutamente formalistico di un contratto che nemmeno è stato applicato, utile probabilmente soltanto per dare maggiore certezza al contratto che è in vigore, che non fu sottoscritto dalla Fiom che è molto più conveniente di quello che è stato disdetto». Sacconi prova a rassicurare: «Per i metalmeccanici non cambia assolutamente nulla anzi, probabilmente, viene conferita maggiore certezza in termini formali». Dal minsitro nessun accenno o riferimenti ai termini sostanziali, che contano eccome, forse anche più delle mere formalità. Per Fiom la decisione di Federmeccanica è «uno strappo alle regole democratiche», e il sindacato dei metalmeccanici ha già proclamato 4 ore di sciopero. Intanto a livello sindacale è scontro: il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, sostiene che la decisione di Federmeccanica è di fatto dovuta. «Non poteva che essere così per allineare il contratto di lavoro, quello siglato pochi mesi fa, con l'accordo fatto per Pomigliano». E la decisione presa è colpa della Fiom, perchè «a loro non va bene nulla, innalzano solo barricate». Parole che costano a Bonanni fischi e contestazione alla festa del Pd di Torino, ma che soprattutto sanciscono lo sfaldamento interno alla classe sindacale che non giova ai lavoratori del settore e che, vicecersa, rafforzano una classe industriale che sempre più rivede da sola (anche se gode dell'appoggio, tacito o meno, della classe politica) le regole del diritto del lavoro.
Saturday, 4 September 2010
Federalismo fiscale, quanto ci costa? Si va a intuito
La Lega cifre non ne dà e Tremonti dice: «Sulle regioni non siamo ancora pronti per dire cosa diamo loro».
di Emiliano Biaggio
Federalismo fiscale: per la Lega quasi una parola d'ordine, per il governo un impegno, per ministro dell'Econonomia ed enti locali, forse, un rompicapo. Perchè tra proclami, promesse e rassicurazioni, mancano - ancora - numeri netti e definitivi sul costo del federalismo. Quel che è certo, e lo ha detto il ministro per le Riforme, Umberto Bossi, leghista e federalista convinto, è che il federalismo rfiscale assegna ai Comuni le tasse sugli immobili, introducento il principio di responsabilità. Il federalismo fiscale, ha spiegato Bossi, dunque «serve per cambiare dalla finanza derivata dove lo Stato incassa tutte le tasse e paga a piè di lista i livelli istituzionali che spendono». D'accordo, ma in "soldoni", questo cosa significa? Giulio Tremonti ha dovuto ammettere che non lo sa, almeno per quanto riguarda il capitolo regioni. «Sulle regioni non siamo ancora pronti per dire cosa diamo loro in termini di finanza locale», ha detto. Il titolare del dicastero di via XX settembre ha spiegato che il federalismo dà «poteri fiscali statali ai territori. Pensiamo di ritirare i 15 miliardi che i comuni richiedono come finanziamenti, ma di dare loro 15 miliardi di titoli di finanziamento proprio». Insomma, come si articolerà il federalismo fiscale? Criteri ancora non sono stati fissati, e cifre ancora non sono disponibili, ma una qualche idea del “peso” che assumerà il fisco nelle varie regioni si può dedurre dall’analisi delle risorse attualmente attribuite agli enti territoriali sotto forma di trasferimento. Come si legge nel documento della commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, «dovrà essere attribuita la titolarità del gettito ai diversi comparti degli enti territoriali».
I dati forniti dalla commissione, va detto, fanno riferimento al 2008. Ad ogni modo in termini di entrate complessive (tributi propri, compartecipazione Iva, trasferimenti), e’ la Lombardia a primeggiare, con 23,7 miliardi di euro, di cui 1,5 miliardi da trasferimenti dalle amministrazioni centrali. Nettamente distanziato il Lazio, con entrate totali per 13,5 miliardi, 1,1 dei quali provenienti dalle amministrazioni centrali. Seguono Campania (entrate complessive di 12,2 miliardi, che però riceve dalle amministrazioni centrali ben 4,8 miliardi), Veneto (10,2 miliardi, 0,9 dei quali dal centro) ed Emilia Romagna (10 miliardi di entrate complessive, con trasferimenti dal centro pari a 1 miliardo). In base ai numeri a oggi disponibili quanto peserà il fisco nelle varie regioni già si può intuire non solo dalle attuali entrate complessive, ma anche dagli attuali trasferimenti. La relazione della commissione sottolinea comunque, al di là di tutto, la necessità «di non creare, almeno nella fase del federalismo fiscale, un'eccessiva frammentazione del sistema tributario».
di Emiliano Biaggio
Federalismo fiscale: per la Lega quasi una parola d'ordine, per il governo un impegno, per ministro dell'Econonomia ed enti locali, forse, un rompicapo. Perchè tra proclami, promesse e rassicurazioni, mancano - ancora - numeri netti e definitivi sul costo del federalismo. Quel che è certo, e lo ha detto il ministro per le Riforme, Umberto Bossi, leghista e federalista convinto, è che il federalismo rfiscale assegna ai Comuni le tasse sugli immobili, introducento il principio di responsabilità. Il federalismo fiscale, ha spiegato Bossi, dunque «serve per cambiare dalla finanza derivata dove lo Stato incassa tutte le tasse e paga a piè di lista i livelli istituzionali che spendono». D'accordo, ma in "soldoni", questo cosa significa? Giulio Tremonti ha dovuto ammettere che non lo sa, almeno per quanto riguarda il capitolo regioni. «Sulle regioni non siamo ancora pronti per dire cosa diamo loro in termini di finanza locale», ha detto. Il titolare del dicastero di via XX settembre ha spiegato che il federalismo dà «poteri fiscali statali ai territori. Pensiamo di ritirare i 15 miliardi che i comuni richiedono come finanziamenti, ma di dare loro 15 miliardi di titoli di finanziamento proprio». Insomma, come si articolerà il federalismo fiscale? Criteri ancora non sono stati fissati, e cifre ancora non sono disponibili, ma una qualche idea del “peso” che assumerà il fisco nelle varie regioni si può dedurre dall’analisi delle risorse attualmente attribuite agli enti territoriali sotto forma di trasferimento. Come si legge nel documento della commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, «dovrà essere attribuita la titolarità del gettito ai diversi comparti degli enti territoriali».
I dati forniti dalla commissione, va detto, fanno riferimento al 2008. Ad ogni modo in termini di entrate complessive (tributi propri, compartecipazione Iva, trasferimenti), e’ la Lombardia a primeggiare, con 23,7 miliardi di euro, di cui 1,5 miliardi da trasferimenti dalle amministrazioni centrali. Nettamente distanziato il Lazio, con entrate totali per 13,5 miliardi, 1,1 dei quali provenienti dalle amministrazioni centrali. Seguono Campania (entrate complessive di 12,2 miliardi, che però riceve dalle amministrazioni centrali ben 4,8 miliardi), Veneto (10,2 miliardi, 0,9 dei quali dal centro) ed Emilia Romagna (10 miliardi di entrate complessive, con trasferimenti dal centro pari a 1 miliardo). In base ai numeri a oggi disponibili quanto peserà il fisco nelle varie regioni già si può intuire non solo dalle attuali entrate complessive, ma anche dagli attuali trasferimenti. La relazione della commissione sottolinea comunque, al di là di tutto, la necessità «di non creare, almeno nella fase del federalismo fiscale, un'eccessiva frammentazione del sistema tributario».
Thursday, 2 September 2010
Acqua, come renderla sostenibile. E di tutti.
In Svezia la "World water week", contro sprechi e utilizzo irrazionale.
di Emiliano Biaggio
Prevenzione, riduzione degli sprechi, uso oculato e sostenibile della risorsa, disponibilità e accesso al bene: tutto questo è al centro della "World water week", la Settimana mondiale dell'acqua in programma dal 5 all'11 settembre a Stoccolma. La capitale svedese sarà il luogo d'incontro annuale per le questioni più urgenti riguardanti le risorse idriche del pianeta, e il summit - spiega l'Unesco, che ospita il Programma di valutazione delle risorse idriche mondiali dell'Onu - «vuole definire questioni chiave e punti di discussione» legati al tema dell'edizione 2010, che è "Le sfide relative alla qualità dell'acqua - Prevenzione, adeguato utilizzo e riduzione". Organizzata dallo Stockholm international water institute (Siwi), raduna esperti, tecnici, politici, opinionisti e leader da tutto il mondo. Scopo del meeting è «approfondire la conoscenza, stimolare idee e coinvolgere la comunità dell'acqua nelle sfide relative alla qualità di questa risorsa».
Seminari, dibattiti e tavole rotonde tra le inziative in programma: tra questi spiccano "La capacità delle Nazioni unite di sviluppo idrico e gestione dell'inquinamento nelle aree costiere", in programma domenica, "La gestione idrica urbana: problemi e priorità", in programma martedì, e "La siccità che mette a rischio gli obiettivi del Millennio", organizzato per l'8 settembre. Ma al di là delle varie singole tematiche legate a quello che sempre più è considerato vero e proprio "oro blu", la Settimana mondiale dell'acqua si concentra sulle prospettiva di lungo periodo, e per il periodo 2009-2012 il tema su cui concentrarsi è quello dell'"Acqua - Risposta ai cambiamenti climatici". All'interno del dibattito - scientifico e politico - le questioni delll'accesso all'acqua per uso comune, la qualità dell'acqua, sicurezza alimentare mondiale. Tutti temi da non sottovalutare, perchè l'uso (e l'abuso) di acqua incide a livello globale. Un esempio, in tal senso, l'ha fornito il Wwf durante la "World water week" del 2008. In quell'occasione l'associazione del Panda rilevò che «ogni italiano usa in media 215 litri di acqua reale al giorno, per bere e per lavarsi, ma il consumo è 30 volte superiore se consideriamo anche l'acqua virtuale impiegata per produrre ciò che mangiamo e indossiamo». In totale, «fanno più di 6.500 litri a testa, ogni giorno». Il valore «più alto al mondo dopo quello degli Stati Uniti». Non solo: nel 2008 risultò che l'Italia era il quinto importatore d'acqua del pianeta.
Insomma, l'acqua a disposizione si spreca e si finisce col prelevarla altrove sottraendola a qualcun altro. E ciò non va bene, visto che la scarsità d'acqua è uno dei problemi più gravi con cui l'uomo dovrà presto fare i conti: la popolazione mondiale raggiungerà infatti 9 miliardi di individui nel 2040. E a una domanda crescente d'acqua farà riscontro una riduzione della disponibilità' della risorsa. Per questo a Stoccolma si cerca di capire come iniziare a comportarsi.
di Emiliano Biaggio
Prevenzione, riduzione degli sprechi, uso oculato e sostenibile della risorsa, disponibilità e accesso al bene: tutto questo è al centro della "World water week", la Settimana mondiale dell'acqua in programma dal 5 all'11 settembre a Stoccolma. La capitale svedese sarà il luogo d'incontro annuale per le questioni più urgenti riguardanti le risorse idriche del pianeta, e il summit - spiega l'Unesco, che ospita il Programma di valutazione delle risorse idriche mondiali dell'Onu - «vuole definire questioni chiave e punti di discussione» legati al tema dell'edizione 2010, che è "Le sfide relative alla qualità dell'acqua - Prevenzione, adeguato utilizzo e riduzione". Organizzata dallo Stockholm international water institute (Siwi), raduna esperti, tecnici, politici, opinionisti e leader da tutto il mondo. Scopo del meeting è «approfondire la conoscenza, stimolare idee e coinvolgere la comunità dell'acqua nelle sfide relative alla qualità di questa risorsa».
Seminari, dibattiti e tavole rotonde tra le inziative in programma: tra questi spiccano "La capacità delle Nazioni unite di sviluppo idrico e gestione dell'inquinamento nelle aree costiere", in programma domenica, "La gestione idrica urbana: problemi e priorità", in programma martedì, e "La siccità che mette a rischio gli obiettivi del Millennio", organizzato per l'8 settembre. Ma al di là delle varie singole tematiche legate a quello che sempre più è considerato vero e proprio "oro blu", la Settimana mondiale dell'acqua si concentra sulle prospettiva di lungo periodo, e per il periodo 2009-2012 il tema su cui concentrarsi è quello dell'"Acqua - Risposta ai cambiamenti climatici". All'interno del dibattito - scientifico e politico - le questioni delll'accesso all'acqua per uso comune, la qualità dell'acqua, sicurezza alimentare mondiale. Tutti temi da non sottovalutare, perchè l'uso (e l'abuso) di acqua incide a livello globale. Un esempio, in tal senso, l'ha fornito il Wwf durante la "World water week" del 2008. In quell'occasione l'associazione del Panda rilevò che «ogni italiano usa in media 215 litri di acqua reale al giorno, per bere e per lavarsi, ma il consumo è 30 volte superiore se consideriamo anche l'acqua virtuale impiegata per produrre ciò che mangiamo e indossiamo». In totale, «fanno più di 6.500 litri a testa, ogni giorno». Il valore «più alto al mondo dopo quello degli Stati Uniti». Non solo: nel 2008 risultò che l'Italia era il quinto importatore d'acqua del pianeta.
Insomma, l'acqua a disposizione si spreca e si finisce col prelevarla altrove sottraendola a qualcun altro. E ciò non va bene, visto che la scarsità d'acqua è uno dei problemi più gravi con cui l'uomo dovrà presto fare i conti: la popolazione mondiale raggiungerà infatti 9 miliardi di individui nel 2040. E a una domanda crescente d'acqua farà riscontro una riduzione della disponibilità' della risorsa. Per questo a Stoccolma si cerca di capire come iniziare a comportarsi.
Wednesday, 1 September 2010
Cina, in aumento la tratta di esseri umani
Pechino preoccupata ricorre sempre di più alla pena capitale
fonte: PeaceReporter
Sono più di duemila i condannati per traffico di esseri umani in Cina nei primi sette mesi del 2010. La notizia è stata data dalla stampa di Pechino su dati della Suprema Corte del Popolo. Dall'inizio dell'anno 2.137 criminali sono finiti sul banco degli imputati con l'accusa di aver rapito e rivenduto esseri umani. Un aumento del 45 percento rispetto all'anno precedente. Nella maggior parte dei casi si tratta di bambini strappati alle loro famiglie per essere portati nelle campagne. Qui i contadini, colpiti dalla legge del "primo figlio", comprano i ragazzini per sfruttarli nei campi.
L'aumento dei casi di scomparsa, nonostante l'applicazione della pena capitale, preoccupa il governo di Pechino che ha promesso un giro di vite. Oggi, se un uomo rapisce più di tre bambini può essere condannato da un minimo di cinque anni alla pena di morte. Nello scorso anno sono 1.238 le condanne eseguite, ma se il malfattore riconsegna ai genitori il bambino il giudice non può imputarlo. Secondo Sun Jungong, portavoce del Supremo Tribunale Cinese, minori pene sono inflitte a chi ha «trattato con gentilezza i rapiti».
fonte: PeaceReporter
Sono più di duemila i condannati per traffico di esseri umani in Cina nei primi sette mesi del 2010. La notizia è stata data dalla stampa di Pechino su dati della Suprema Corte del Popolo. Dall'inizio dell'anno 2.137 criminali sono finiti sul banco degli imputati con l'accusa di aver rapito e rivenduto esseri umani. Un aumento del 45 percento rispetto all'anno precedente. Nella maggior parte dei casi si tratta di bambini strappati alle loro famiglie per essere portati nelle campagne. Qui i contadini, colpiti dalla legge del "primo figlio", comprano i ragazzini per sfruttarli nei campi.
L'aumento dei casi di scomparsa, nonostante l'applicazione della pena capitale, preoccupa il governo di Pechino che ha promesso un giro di vite. Oggi, se un uomo rapisce più di tre bambini può essere condannato da un minimo di cinque anni alla pena di morte. Nello scorso anno sono 1.238 le condanne eseguite, ma se il malfattore riconsegna ai genitori il bambino il giudice non può imputarlo. Secondo Sun Jungong, portavoce del Supremo Tribunale Cinese, minori pene sono inflitte a chi ha «trattato con gentilezza i rapiti».
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