Con le amministrative sempre più prossime, aumentano i problemi per Bersani e i suoi. E crescono i malumori interni al partito.
di Emiliano Biaggio
Tensioni e divisioni. Il Partito democratico tra un presente difficie e un futuro tutt'altro che semplice da immaginare. Per via di quelli che saranno i risultati delle amministrative, ma anche e soprattutto per le lotte interne al partito. Il sostegno dato ad Emma Bonino nel Lazio ha suscitato le ire dei teodem, ma il Pd è adesso scosso da due terremoti, entrambi politici: il primo Bologna, il secondo in Puglia. Nel comune emiliano, roccaforte storica del centrosinistra, il sindaco Flavio Del Bono si dimette a causa dello scandalo del cosiddetto "Cinzia-gate", mentre in Puglia il governatore uscente Nichi Vendola sconfigge alla primarie il candidato bersaniano del Pd francesco Boccia. Un risultato, questo, che apre la crisi: l'Udc non è disposto ad appoggiare Vendola, rompe con i democrat e e appoggia Adriana Poli Bortone, candaidata alla presidenza della regione con la sua lista Io Sud. Nel Pd crescono i malumori, e già c'è chi parla di resa dei conti post-elettorale, e quindi dopo i risultati delle consultazioni. Ma adesso al strada non è certo sgombra da ostacoli: la Puglia produce un effetto domino, è così si va alle primarie anche in Umbria, Campania e Calabria. Nella prima di queste regioni Besani propone Catiuscia Marini, Veltroni Mauro Agostini, nome però poco gradito a Franceschini e Fioroni, con quest'ultimo che pensa al nome di Giampiero Bocci. In Campania a correre dovrebbero essere Ennio Cascetta e Vincezo De Luca, ma il secondo è incrollabile avversario di Sassolino, che pensa quindi di correre anch'egli alle primarie, rischiando di scombinare i piani del Pd. Pd che con Bersani in prima persona in Calabria cerca di indurre Agazio Loiero a farsi da parte, col governatore uscente intenzionanto però a non mollare. Rebus e dilemmi logorano un Pd cheunavolta di più mostra tutta la propria fragilità e quelli che sono tutti i propri limiti. Bersani gioca allora la carta Di Pietro, e stringe una nuova intesa conl'Idv. Una mossa, questa, che offre nuove prospettive nonchè una boccata d'ossigenoa ad un Pd più che mai in apnea. E da una posizione di difficoltà e dalla netta sensazione di una strategia improntata sulla difesa, adesso Bersani va alcontrattacco svelando che il suo obiettivo - e quindi quello del suo partito - è di vincere almeno 7 delle 13 regioni in palio, tra presidenze da confermare e poltrone da conquistare. Un risultato che a ben vedere può non essere un miraggio, perchè il Pdl al porprio interno deve resistere ora agli strattoni della Lega, ora a quelli di Poli Bortone, ora a Fini e agli ex-An. Tradotto, anche la maggioranza non è poi così compatta come Berlusconi & Co. vorrebbero far credere. Lo stesso premier ha ammesso di temere di perdere 7-6, ed è quindi passato ad attaccare gli avversari anche per la ritrovata intesa tra il Pd e l'Idv del suo acerrimo nemico Di Pietro. Ma si sa, siamo in pieno clima elettorale, ed è naturale che si discuta di elezioni, alleanze e strategie, ci si attacchi e ci si accusi reciprocamente. E poco importa se in tutto questo la Fiat decida unilateralmente la chiusura di tutti gli impianti per due settimane, o se nel silenzio più totale nel decreto "Milleproroghe" si proponga un nuovo condono per gli abusi edilizi commessi anche prima del 2003, perchè con le amministrative alle porte si parla di politica e si fa polica. E come tanto amava ripetere D'Alema, la politica è un'altra cosa.
(Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 29 gennaio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
Saturday, 30 January 2010
Friday, 29 January 2010
Stanchi delle solite emozioni? Ecco l'eco-sesso
Su internet i dieci consigli per amare partner e natura.
di Emiliano Biaggio
Sesso? Se è sicuro è meglio, se poi è anche pulito è meglio ancora. Ecco allora "Sesso in auto: fallo con amore", gruppo di Facebook dove è possibile consultare un eco-decalogo per "farlo", ma nel rispetto dell'ambiente. Come? Semplice. Tanto per iniziare, dopo il rapporto basta non gettare per terra il profilattico usato. Questo è solo il primo della singolare lista contenuta nel gruppo del social network, istituito dal comune di Trani per risolvere il problema dei "rifiuti sessuali". L'idea è di Pina Chiarello, assessore all’Ambiente del comune pugliese, decisa a intervenire in una zona periferica frequentata dalle coppiette che poi, una volta andate via, lasciano sul luogo una vera e propria mini-discarica abvusiva. E dire che l'Assessore le aveva provate proprio tutte: prima ha potenziato l'illuminazione per la strada, mettendo i lampioni laddove non c'erano e riparando quelli che non funzionavano. Poi, stabilito che l'adeguamento della rete di illuminazione della zona richiede più tempo del previsto e va per le lunghe, e il problema va risolto, il lancio della gruppo "ad hoc". Chiarello spiega così l'iniziativa: quando fai sesso «fallo con amore verso il tuo partner e sii discreto. Fallo con amore verso l’ambiente: non lasciare rifiuti». Se non sapete come fare, leggete l'eco-decalogo. E poi, fatelo con amore.
di Emiliano Biaggio
Sesso? Se è sicuro è meglio, se poi è anche pulito è meglio ancora. Ecco allora "Sesso in auto: fallo con amore", gruppo di Facebook dove è possibile consultare un eco-decalogo per "farlo", ma nel rispetto dell'ambiente. Come? Semplice. Tanto per iniziare, dopo il rapporto basta non gettare per terra il profilattico usato. Questo è solo il primo della singolare lista contenuta nel gruppo del social network, istituito dal comune di Trani per risolvere il problema dei "rifiuti sessuali". L'idea è di Pina Chiarello, assessore all’Ambiente del comune pugliese, decisa a intervenire in una zona periferica frequentata dalle coppiette che poi, una volta andate via, lasciano sul luogo una vera e propria mini-discarica abvusiva. E dire che l'Assessore le aveva provate proprio tutte: prima ha potenziato l'illuminazione per la strada, mettendo i lampioni laddove non c'erano e riparando quelli che non funzionavano. Poi, stabilito che l'adeguamento della rete di illuminazione della zona richiede più tempo del previsto e va per le lunghe, e il problema va risolto, il lancio della gruppo "ad hoc". Chiarello spiega così l'iniziativa: quando fai sesso «fallo con amore verso il tuo partner e sii discreto. Fallo con amore verso l’ambiente: non lasciare rifiuti». Se non sapete come fare, leggete l'eco-decalogo. E poi, fatelo con amore.
Wednesday, 27 January 2010
Tuesday, 26 January 2010
Sopresa Cina, acqua sotto l'altipiano tibetano
Scoperte in Qinghai riserve idriche a 3000 metri di altitudine. Per la gioia di Pechino e lo sgomento di un popolo, che ora teme una volta di più l'autorità centrale.
di Emiliano Biaggio
Ricchezze naturali nascoste nelle viscere d'alta montagna, a quota 3.000 metri. La scoperta sull'altipiano del Tibet-Qinghai, dove geologi cinesi hanno individuato due riserve idriche sotterranee del Qaidam, il bacino idrico più elevato della regione. Una involontaria caccia al tesoro che rende al governo cinese nuove importanti risors e che aumenta l'importanza - a questo punto sempre più strategica e sempre più economica - di un territorio già ricco di per sè. Nel Tibet vi sono infatti petrolio, uranio, oro, rame e minerali, insieme all'82% dell'acqua potabile dell'intera Asia. A tutto questo adesso si aggiunge altro "oro blu", con le riserve idriche sotto i coni alluvionali dalla capacità di stoccaggio di 2,8 miliardi di metri cubi, circa 465 milioni di metri cubi di acqua sotterranea dei quali sfruttabili annualmente. E in un paese dallo sviluppo accelerato, questo sfruttamento sembra essere molto più che un'ipotesi. Come conferma Luo Yinfei, responsabile dell'Ufficio per la gestione ambientale e geologica della provincia del Qinghai. «La scoperta di queste riserve permetterà di facilitare grandemente lo sfruttamento delle risorse naturali nel bacino», commenta a caldo. Parole che invece gelano i tibetani, consapevoli dei rischi per l'ambiente ma soprattutto dell'ulteriore stretta dell'autorità centrale sul territorio. In Tibet - ex stato oggi Xizang e parte delle regioni Qinghai, Gansu, Yunnan e Sichuan - da cinquant'anni il partito comunista cinese applica una politica di rigidco controllo e violenta repressione, e ora la natura offrono un'ulteriore più che valida motivazione per intensificare la presenza sul territorio e un intervento su di esso. "Sfortunati" davvero i tibetani ad avere così tante ricchezze, talmente tante che ancora oggi se ne trovano ancora, e in certi casi si tratta di veri e propri pezzi unici. Le riserve idriche nel sottosuolo dell'altipiano del Tibet-Qinghai sono uno di questi, vero è che la scoperta di riserve di acqua in un bacino situato in una regione interna è molto rara. Per i cinesi quindi una buona notizia, per i tibetani un pò meno. Adesso Pechino ha infatti un motivo in più per far naufragare i negoziati sullo status del Tibet, che è facile prevedere non beneficerà di questa nuova scoperta. Almeno così sarà per quelli non di etnia Han.
di Emiliano Biaggio
Ricchezze naturali nascoste nelle viscere d'alta montagna, a quota 3.000 metri. La scoperta sull'altipiano del Tibet-Qinghai, dove geologi cinesi hanno individuato due riserve idriche sotterranee del Qaidam, il bacino idrico più elevato della regione. Una involontaria caccia al tesoro che rende al governo cinese nuove importanti risors e che aumenta l'importanza - a questo punto sempre più strategica e sempre più economica - di un territorio già ricco di per sè. Nel Tibet vi sono infatti petrolio, uranio, oro, rame e minerali, insieme all'82% dell'acqua potabile dell'intera Asia. A tutto questo adesso si aggiunge altro "oro blu", con le riserve idriche sotto i coni alluvionali dalla capacità di stoccaggio di 2,8 miliardi di metri cubi, circa 465 milioni di metri cubi di acqua sotterranea dei quali sfruttabili annualmente. E in un paese dallo sviluppo accelerato, questo sfruttamento sembra essere molto più che un'ipotesi. Come conferma Luo Yinfei, responsabile dell'Ufficio per la gestione ambientale e geologica della provincia del Qinghai. «La scoperta di queste riserve permetterà di facilitare grandemente lo sfruttamento delle risorse naturali nel bacino», commenta a caldo. Parole che invece gelano i tibetani, consapevoli dei rischi per l'ambiente ma soprattutto dell'ulteriore stretta dell'autorità centrale sul territorio. In Tibet - ex stato oggi Xizang e parte delle regioni Qinghai, Gansu, Yunnan e Sichuan - da cinquant'anni il partito comunista cinese applica una politica di rigidco controllo e violenta repressione, e ora la natura offrono un'ulteriore più che valida motivazione per intensificare la presenza sul territorio e un intervento su di esso. "Sfortunati" davvero i tibetani ad avere così tante ricchezze, talmente tante che ancora oggi se ne trovano ancora, e in certi casi si tratta di veri e propri pezzi unici. Le riserve idriche nel sottosuolo dell'altipiano del Tibet-Qinghai sono uno di questi, vero è che la scoperta di riserve di acqua in un bacino situato in una regione interna è molto rara. Per i cinesi quindi una buona notizia, per i tibetani un pò meno. Adesso Pechino ha infatti un motivo in più per far naufragare i negoziati sullo status del Tibet, che è facile prevedere non beneficerà di questa nuova scoperta. Almeno così sarà per quelli non di etnia Han.
Saturday, 23 January 2010
Informazione e imprenditoria, il dilemma di internet sugli accessi nella rete
Barriere all'ingresso dei siti news con abbonamenti: quando il libero mercato si scontra con il libero web. Che libero lo è un pò (sempre) meno.
di Emiliano Biaggio
New York Times on-line a pagamento: la testata a stelle e strisce adotta questa politica, e a partire dal 2011 si potranno leggere gratuitamente fino a dieci articoli ogni mese. Dopodichè, o si sottoscrive l'abbonamento o niente informazione. L'offerta, hanno spiegato i vertici della testata, riguarderà solo i lettori occasionali e non sarà rivolta a chi invece avesse già l'abbonamento per la versione cartacea del NYT. Una scelta che non dovrebbe sorprendere, dato che il Financial Times sta già praticando la stessa strategia di marketing (lettura gratuita di un certo numero di articoli al mese e, superata tale soglia, richiesta di pagamento all'utente) mentre il Wall Street Journal di Rupert Murdoch già offre parte delle news on-line gratuitamente e parte in abbonamento. Proprio il tycoon australiano è stato il primo grande fautore del "pay-per-read" su web, e questo da un punto di vista imprenditoriale è comprensibile: essendoci una forte utenza multimediale, il flusso di lettori - e quindi potenziali acquirenti - è maggiore di quello che si reca nelle edicole. Il che significa, con accesso al sito a pagamento, entrate maggiori e - quindi - maggiori utili. L'Italia, in tal senso, è un esempio più che valido: secondo la ricerca La stampa in Italia 2005-2007 della Fieg, nel nostro paese sono stati 40,4 milioni gli individui che nel 2007 hanno letto copie di quotidiani tradizionali a pagamento. Il che significa, in termini monetari, milioni di euro. Per gli editori il "pay-per-read" su web rappresenta un affare, non c'è che dire. Ma i lettori sono disposti a fare il gioco degli editori? Il rischio potrebbe essere quello di un "effetto boomerang", vale a dire riduzione degli accessi. Del resto, finchè c'è pluralismo e - soprattutto - pluralità, la scelta del consumatore potrebbe sempre orientarsi per quei siti che offrono lo stesso prodotto ma "free". Ma ciò su cui si dovrebbe ragionare è forse il restringimento agli accessi nella rete: consultare pagine web solo con previo pagamento è limitizione della libertà di navigare, oltre ad essere un ostacolo all'accesso di informazioni e sapere. Certo la libertà non fa ricchi gli imprenditori, ma fa più contenti gli internauti, questo è certo. Il compromesso quale potrebbe essere, allora? Ma l'equilibrio, è chiaro. L'equilibrio determinato dal punto di incontro tra domanda e offerta. In parole povere, il prezzo: finchè la messa in vendita sarà a prezzi "ragionevoli" e sostenibili per il lettore, un abbonamento potrà essere sottoscritto. Ma il prezzo da pagare in termini di libertà di diritto all'informazione e accesso nella rete è sostenibile? Almeno finchè resta a una manciata il numero dei siti che mettono barrire all'ingresso.
di Emiliano Biaggio
New York Times on-line a pagamento: la testata a stelle e strisce adotta questa politica, e a partire dal 2011 si potranno leggere gratuitamente fino a dieci articoli ogni mese. Dopodichè, o si sottoscrive l'abbonamento o niente informazione. L'offerta, hanno spiegato i vertici della testata, riguarderà solo i lettori occasionali e non sarà rivolta a chi invece avesse già l'abbonamento per la versione cartacea del NYT. Una scelta che non dovrebbe sorprendere, dato che il Financial Times sta già praticando la stessa strategia di marketing (lettura gratuita di un certo numero di articoli al mese e, superata tale soglia, richiesta di pagamento all'utente) mentre il Wall Street Journal di Rupert Murdoch già offre parte delle news on-line gratuitamente e parte in abbonamento. Proprio il tycoon australiano è stato il primo grande fautore del "pay-per-read" su web, e questo da un punto di vista imprenditoriale è comprensibile: essendoci una forte utenza multimediale, il flusso di lettori - e quindi potenziali acquirenti - è maggiore di quello che si reca nelle edicole. Il che significa, con accesso al sito a pagamento, entrate maggiori e - quindi - maggiori utili. L'Italia, in tal senso, è un esempio più che valido: secondo la ricerca La stampa in Italia 2005-2007 della Fieg, nel nostro paese sono stati 40,4 milioni gli individui che nel 2007 hanno letto copie di quotidiani tradizionali a pagamento. Il che significa, in termini monetari, milioni di euro. Per gli editori il "pay-per-read" su web rappresenta un affare, non c'è che dire. Ma i lettori sono disposti a fare il gioco degli editori? Il rischio potrebbe essere quello di un "effetto boomerang", vale a dire riduzione degli accessi. Del resto, finchè c'è pluralismo e - soprattutto - pluralità, la scelta del consumatore potrebbe sempre orientarsi per quei siti che offrono lo stesso prodotto ma "free". Ma ciò su cui si dovrebbe ragionare è forse il restringimento agli accessi nella rete: consultare pagine web solo con previo pagamento è limitizione della libertà di navigare, oltre ad essere un ostacolo all'accesso di informazioni e sapere. Certo la libertà non fa ricchi gli imprenditori, ma fa più contenti gli internauti, questo è certo. Il compromesso quale potrebbe essere, allora? Ma l'equilibrio, è chiaro. L'equilibrio determinato dal punto di incontro tra domanda e offerta. In parole povere, il prezzo: finchè la messa in vendita sarà a prezzi "ragionevoli" e sostenibili per il lettore, un abbonamento potrà essere sottoscritto. Ma il prezzo da pagare in termini di libertà di diritto all'informazione e accesso nella rete è sostenibile? Almeno finchè resta a una manciata il numero dei siti che mettono barrire all'ingresso.
Thursday, 21 January 2010
Il lento e innarrestabile imbarbarimento d'Italia
Sui banchi di scuola a lezione di analfabetismo. E mentre gli italiani fanno fatica a leggere e scrivere, il governo abbassa l'età dell'istruzione obbligatoria.
l'e-dittoreale
Studenti italiani che hanno difficoltà a scrivere in italiano, e non in prima elementare - come sarebbe lecito aspettarsi - ma in quinto liceo, alla prova di maturità. La metà delle prove scritte contiene errori di ortografia, frasi senza senso e periodi sgrammaticati; e poi i giovani studenti non riescono a capire quello che leggono. A questo va aggiunto che il tasso di abbandono degli studi da parte degli studenti tra 1 18 e i 24 anni è del 21,9%, contro una media europea del 14,9%. Peggio degli studenti italiani, in questa graduatoria, solo Malta (44,3%), Portogallo (38,2%) e Spagna (30,8%). Un problema di sistema scolastico, dunque. Ma non solo. Difficile credere che i giovani e èiù giovani italiani siano stupidi: se fanno fatica a comprendere il senso di quello che leggono, forse - azzardiamo un'ipotesi - non sono abituati a leggere e ragionare. Colpa della troppa tv e di una società invasa da telefonia cellulare e modelli non proprio educativi, ma anche dell'istruzione e, quindi, dello stato. Perchè è lo stato che deve garantire istruzione ai propri cittadini. Almeno, a livello teorico. Perchè nella pratica il Governo - in una situazione come quella appena dipinta - anzichè cercare di invertire questi trend con politiche scolastiche, propone un emendamento al disegno di legge Lavoro collegato alla Finanziaria - approvato dalla commissione Lavoro della Camera - che prevede che l'apprendistato possa valere a tutti gli effetti come assolvimento dell'obbligo di istruzione. Tradotto, se la proposta dovesse andare in porto, l'obbligo scolastico in Italia passerebbe così dai 16 ai 15 anni di età. Non senza polemiche: «La maggioranza e il ministro del Lavoro Sacconi hanno deciso di fare carta straccia dell'obbligo scolastico» critica Beppe Fioroni, ex-ministro della Pubblica istruzione. «E' inaccettabile- sostiene- che, invece di intensificare gli sforzi per collegare la fase educativa alla formazione e mettere in grado i ragazzi italiani di poter competere ad armi pari con i loro colleghi nel resto del mondo, qui si decida di fare un salto all'indietro così macroscopico». Di diverso avviso Confidustria e, ovviamente, il Governo secondo cui - a detta del ministro Sacconi - con questo provvedimento si intende dare vita ad una «efficace modalità di apprendimento in un contesto lavorativo». Diversa la posizione dei sindacati, con la Cgil che parla di «ultimo atto dello smantellamento di un vero obbligo scolastico». Smantellamento. Accusa forte, ma che sembra trovare fondatezza nel fatto che dai programmi dei licei e degli istituti tecnici e professionali - in via di definizione - sta per scomparire la geografia. Volendo essere maligni verrebbe da pensare che tutto sembrerebbe rispondere ad un disegno ben preciso, che è quello di affossare il sistema la scuola e regalare ignoranza alle future generazioni (e anche quelle "attuali"). E, sempre a voler essere maligni, si potrebbe quasi sostenere che il Governo voglia indebolire quella che dovrebbe essere la "fabbrica" del sapere, visto che il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini ha addirittura annunciato tagli del 25% ai fondi per la pulizia nelle scuole. Tutti sanno, o almeno dovrebbero sapere, quanto è facile manipolare un popolo ignorante. E quello italiano, come si vede, ignorante lo è sempre di più. Se mai doveste capitare a Praga, recatevi al museo Kampa: là, affissa sulla parete d'ingresso, troverete una targa con su scritto "Se la cultura di una nazione sopravvive, allora sopravvive anche la nazione". Alla luce di questa semplice frase, per chi riesce a coglierne il significato, la sfida dell'Italia per l'immediato futuro è quella di non morire. Perchè lo sta lentamente facendo.
l'e-dittoreale
Studenti italiani che hanno difficoltà a scrivere in italiano, e non in prima elementare - come sarebbe lecito aspettarsi - ma in quinto liceo, alla prova di maturità. La metà delle prove scritte contiene errori di ortografia, frasi senza senso e periodi sgrammaticati; e poi i giovani studenti non riescono a capire quello che leggono. A questo va aggiunto che il tasso di abbandono degli studi da parte degli studenti tra 1 18 e i 24 anni è del 21,9%, contro una media europea del 14,9%. Peggio degli studenti italiani, in questa graduatoria, solo Malta (44,3%), Portogallo (38,2%) e Spagna (30,8%). Un problema di sistema scolastico, dunque. Ma non solo. Difficile credere che i giovani e èiù giovani italiani siano stupidi: se fanno fatica a comprendere il senso di quello che leggono, forse - azzardiamo un'ipotesi - non sono abituati a leggere e ragionare. Colpa della troppa tv e di una società invasa da telefonia cellulare e modelli non proprio educativi, ma anche dell'istruzione e, quindi, dello stato. Perchè è lo stato che deve garantire istruzione ai propri cittadini. Almeno, a livello teorico. Perchè nella pratica il Governo - in una situazione come quella appena dipinta - anzichè cercare di invertire questi trend con politiche scolastiche, propone un emendamento al disegno di legge Lavoro collegato alla Finanziaria - approvato dalla commissione Lavoro della Camera - che prevede che l'apprendistato possa valere a tutti gli effetti come assolvimento dell'obbligo di istruzione. Tradotto, se la proposta dovesse andare in porto, l'obbligo scolastico in Italia passerebbe così dai 16 ai 15 anni di età. Non senza polemiche: «La maggioranza e il ministro del Lavoro Sacconi hanno deciso di fare carta straccia dell'obbligo scolastico» critica Beppe Fioroni, ex-ministro della Pubblica istruzione. «E' inaccettabile- sostiene- che, invece di intensificare gli sforzi per collegare la fase educativa alla formazione e mettere in grado i ragazzi italiani di poter competere ad armi pari con i loro colleghi nel resto del mondo, qui si decida di fare un salto all'indietro così macroscopico». Di diverso avviso Confidustria e, ovviamente, il Governo secondo cui - a detta del ministro Sacconi - con questo provvedimento si intende dare vita ad una «efficace modalità di apprendimento in un contesto lavorativo». Diversa la posizione dei sindacati, con la Cgil che parla di «ultimo atto dello smantellamento di un vero obbligo scolastico». Smantellamento. Accusa forte, ma che sembra trovare fondatezza nel fatto che dai programmi dei licei e degli istituti tecnici e professionali - in via di definizione - sta per scomparire la geografia. Volendo essere maligni verrebbe da pensare che tutto sembrerebbe rispondere ad un disegno ben preciso, che è quello di affossare il sistema la scuola e regalare ignoranza alle future generazioni (e anche quelle "attuali"). E, sempre a voler essere maligni, si potrebbe quasi sostenere che il Governo voglia indebolire quella che dovrebbe essere la "fabbrica" del sapere, visto che il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini ha addirittura annunciato tagli del 25% ai fondi per la pulizia nelle scuole. Tutti sanno, o almeno dovrebbero sapere, quanto è facile manipolare un popolo ignorante. E quello italiano, come si vede, ignorante lo è sempre di più. Se mai doveste capitare a Praga, recatevi al museo Kampa: là, affissa sulla parete d'ingresso, troverete una targa con su scritto "Se la cultura di una nazione sopravvive, allora sopravvive anche la nazione". Alla luce di questa semplice frase, per chi riesce a coglierne il significato, la sfida dell'Italia per l'immediato futuro è quella di non morire. Perchè lo sta lentamente facendo.
Tuesday, 19 January 2010
Haiti, disgusto e vergogna alla luce del sisma
La comunità corre a prendersi i meriti degli interventi. Mentre le vittime sono ancora da conteggiare e i superstiti aspettano aiuti.
l'e-dittoreale
Un terremoto che distrugge una città e mette in ginocchio un paese, una tragedia che colpisce milioni di persone e che lascia - per le strade e sotto le macerie - centinaia di migliaia di morti. Una nazione al collasso, con un governo senza più sedi operative, e - soprattutto - una popolazione allo stremo, senza più case nè viveri. Haiti si mostra così al mondo, in tutta la sua impotenza di fronte a un terremoto che è destinato a segnare per sempre la storia di questo stato. Uno stato che inizia a fare i conti con gli effetti del sisma: secondo alcuni i morti sarebbero almeno 70.000, per altri addirittura 200.000, ma il bilancio è comunque destinato a essere rivisto con il passare del tempo, e via via che si scava sotto ciò che resta degli case e palazzi; e poi c'è la questione degli edifici, dei collegamenti, delle infrastrutture: un paese bloccato e che risulta difficile da raggiungere, e che fa fatica a ricevere gli aiuti proprio per questo. O meglio, anche per questo. Sulle attività di soccorso si assiste ad una sceneggiata forse senza eguali, ma sicuramente non da applausi. Lo scenario di devastazione diventa per ognuno motivo di salire in passerella e dire "io ho salvato questo", "io ho fatto questo". Il primo a volersi mettere in mostra è Guido Bertolaso, l'uomo delle emergenze italiane e capo di una Protezione civile il cui funzionamento è stato in più di un'occasione riconosciuto e pubblicamente apprezzato. Sarà per questo che Bertolaso arriva a dire che «manca coordinamento» nelle attività di soccorso e che «sarebbe stato opportuno nominare un responsabile per le operazioni». L'Italia, insomma non resta indifferente di fronte a questa tragedia, e il ministro degli Esteri Frattini annuncia che come paese «diamo la nostra disponibilità da ora a cancellare il debito che Haiti ha verso l'Italia, e che ammonta a 40 milioni di euro». Per carità, Frattini si sbriga a precisare che «questo riconoscimento è un primo modo per aiutare l'inizio della ricostruzione», ma come ha dimostrato anche il G8 di Genova, cancellare un debito - sostanzioso o meno che sia - senza creare le condizioni per non contrarne più di nuovi non è un aiuto, ma solo uno specchietto per le allodole: un modo per sentirsi a posto con la coscienza e far credere di aver teso una mano, quando in realtà si è operato all'insegna di ipocrita buonismo e umiliante raggiro. I fatti diranno quanto l'Italia avrà saputo essere veramente vicina ad Haiti, ma resta il dubbio su quelli che sono gli annunci. Non solo quelli tricolore. Il comportamento assunto dagli altri paesi è anche più imbarazzante: Washington ha portato più di 10.000 soldati sull'isola, con marines statunitensi che hanno preso il controllo dell'unico aeroporto di Port au Prince, regolando il flusso dei voli. Un impegno assunto per «riportare un pò d'ordine nello scalo in modo che gli aerei possano arrivare e partire», secondo le spiegazioni fornite dal colonnello dell'aeronautica degli Stati Uniti Patrick Hollrah. Ma i francesi protestano: «Si tratta di aiutare Haiti, non di occuparla», afferma il segretario di stato francese alla Cooperazione, Alain Joyandet, che critica il modo con cui gli Usa stanno gestendo i soccorsi. Anche il ministro degli Esteri brasiliano, Celso Amorim, chiede spiegazioni a Washington sulle difficoltà che gli aerei con aiuti inviati da Brasilia incontrano per poter atterrare nella capitale haitiana. L'impressione è che gli Stati Uniti stiano cogliendo questa occasione per costituire un protettorato dell'isola e un controllo del paese, e che ognuno voglia fare la propria parte più per vanità (per non dire interesse) che per altro. Una conferma sembrerebbe offrirla il premier italiano, che - in un contesto di vie bloccate, accessi difficoltosi e aiuti a singhiozzo - chiede ufficialmente a Bertolaso di recarsi personalmente ad Haiti. Per aiutare o per farsi pubblicità? Il venezuelano Hugo Chavez e il cubano Fidel Castro l'hanno definita «la vergogna della nostra era». Come dar loro torto? In fin dei conti gli abitanti di Haiti hanno bisogno di aiuto, ma all'intero della comunità internazionale c'è qualcuno - e anche più di qualcuno - che non sembra essersene accorto.
(Editoriale per la puntata del 22 gennaio 2010 di E' la stampa bellezza, trasmissione in onda su Radio Libera tutti)
l'e-dittoreale
Un terremoto che distrugge una città e mette in ginocchio un paese, una tragedia che colpisce milioni di persone e che lascia - per le strade e sotto le macerie - centinaia di migliaia di morti. Una nazione al collasso, con un governo senza più sedi operative, e - soprattutto - una popolazione allo stremo, senza più case nè viveri. Haiti si mostra così al mondo, in tutta la sua impotenza di fronte a un terremoto che è destinato a segnare per sempre la storia di questo stato. Uno stato che inizia a fare i conti con gli effetti del sisma: secondo alcuni i morti sarebbero almeno 70.000, per altri addirittura 200.000, ma il bilancio è comunque destinato a essere rivisto con il passare del tempo, e via via che si scava sotto ciò che resta degli case e palazzi; e poi c'è la questione degli edifici, dei collegamenti, delle infrastrutture: un paese bloccato e che risulta difficile da raggiungere, e che fa fatica a ricevere gli aiuti proprio per questo. O meglio, anche per questo. Sulle attività di soccorso si assiste ad una sceneggiata forse senza eguali, ma sicuramente non da applausi. Lo scenario di devastazione diventa per ognuno motivo di salire in passerella e dire "io ho salvato questo", "io ho fatto questo". Il primo a volersi mettere in mostra è Guido Bertolaso, l'uomo delle emergenze italiane e capo di una Protezione civile il cui funzionamento è stato in più di un'occasione riconosciuto e pubblicamente apprezzato. Sarà per questo che Bertolaso arriva a dire che «manca coordinamento» nelle attività di soccorso e che «sarebbe stato opportuno nominare un responsabile per le operazioni». L'Italia, insomma non resta indifferente di fronte a questa tragedia, e il ministro degli Esteri Frattini annuncia che come paese «diamo la nostra disponibilità da ora a cancellare il debito che Haiti ha verso l'Italia, e che ammonta a 40 milioni di euro». Per carità, Frattini si sbriga a precisare che «questo riconoscimento è un primo modo per aiutare l'inizio della ricostruzione», ma come ha dimostrato anche il G8 di Genova, cancellare un debito - sostanzioso o meno che sia - senza creare le condizioni per non contrarne più di nuovi non è un aiuto, ma solo uno specchietto per le allodole: un modo per sentirsi a posto con la coscienza e far credere di aver teso una mano, quando in realtà si è operato all'insegna di ipocrita buonismo e umiliante raggiro. I fatti diranno quanto l'Italia avrà saputo essere veramente vicina ad Haiti, ma resta il dubbio su quelli che sono gli annunci. Non solo quelli tricolore. Il comportamento assunto dagli altri paesi è anche più imbarazzante: Washington ha portato più di 10.000 soldati sull'isola, con marines statunitensi che hanno preso il controllo dell'unico aeroporto di Port au Prince, regolando il flusso dei voli. Un impegno assunto per «riportare un pò d'ordine nello scalo in modo che gli aerei possano arrivare e partire», secondo le spiegazioni fornite dal colonnello dell'aeronautica degli Stati Uniti Patrick Hollrah. Ma i francesi protestano: «Si tratta di aiutare Haiti, non di occuparla», afferma il segretario di stato francese alla Cooperazione, Alain Joyandet, che critica il modo con cui gli Usa stanno gestendo i soccorsi. Anche il ministro degli Esteri brasiliano, Celso Amorim, chiede spiegazioni a Washington sulle difficoltà che gli aerei con aiuti inviati da Brasilia incontrano per poter atterrare nella capitale haitiana. L'impressione è che gli Stati Uniti stiano cogliendo questa occasione per costituire un protettorato dell'isola e un controllo del paese, e che ognuno voglia fare la propria parte più per vanità (per non dire interesse) che per altro. Una conferma sembrerebbe offrirla il premier italiano, che - in un contesto di vie bloccate, accessi difficoltosi e aiuti a singhiozzo - chiede ufficialmente a Bertolaso di recarsi personalmente ad Haiti. Per aiutare o per farsi pubblicità? Il venezuelano Hugo Chavez e il cubano Fidel Castro l'hanno definita «la vergogna della nostra era». Come dar loro torto? In fin dei conti gli abitanti di Haiti hanno bisogno di aiuto, ma all'intero della comunità internazionale c'è qualcuno - e anche più di qualcuno - che non sembra essersene accorto.
(Editoriale per la puntata del 22 gennaio 2010 di E' la stampa bellezza, trasmissione in onda su Radio Libera tutti)
Monday, 18 January 2010
"R" di Rosarno. Ma anche di Ronde e Razzismo
Nel sud d'Italia si assiste alla deriva del paese. Economica e (sempre più) sociale.
di Emiliano Biaggio
E’ caccia all’uomo. O meglio, è caccia al nero. Scene da America del Ku Klux Klan, se non fosse che a queste scene si assiste nel nostro paese. A Rosarno per la precisione, comune del reggino dove pulsioni di espulsioni hanno raggiunto l’apice, con rivolta degli extracomunitari e ronde dei bianchi. Situazione convulsa, che non si sa bene da dove abbia avuto origine: i braccianti di colore – dicono quelli del posto – avrebbero creato disordini; loro – africani che accusano di essere sfruttati e costretti a vivere in condizioni estreme – secondo altri avrebbero detto “basta” alla propria condizione. C’è chi addirittura ipotizza che la ‘Ndrangheta abbia fatto scoppiare una guerra tra poveri per distogliere l’attenzione dopo la bomba fatta esplodere a Reggio Calabria.. Situazione tutta da chiarire, dunque, ma che mette in evidenza una tendenza sempre più diffusa al non volere stranieri sul proprio territorio: una moda sempre più nazionale, e verrebbe da dire anche sempre più nazionalista. A partire dalla istituzioni, con il ministro dell’Interno Roberto Maroni che dice che «il problema è che c’è stata troppa tolleranza» con gli extracomunitari. L’Idv attacca con l’eurodeputato De Magistris, che accusa il ministro leghista di non perdere occasione per esasperare il clima, mentre di «scaricabarile» parla il segretario del Pd Pierluigi Bersani, alle prese – ancora una volta – con le liti interne al partito democratico: da parte di Bersani «nessuna pregiudiziale» alla candidatura di Emma Bonino nel Lazio, ma il segretario del Pd regionale Mazzoli – bersaniano – è meno entusiasta: «valuteremo», dice, mentre Dario Franceschini invoca a gran voce le primarie. «La candidatura della Bonino può rappresentare dei problemi», tuona la teodem Paola Binetti, che minaccia: un eventuale appoggio del Pd alla Bonino sarebbe per me motivo per uscire dal partito. Tutto questo mentre il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini annuncia che dal prossimo anno ci sarà un tetto massimo del 30% del numero degli studenti stranieri nelle classi delle scuole italiane: torna alla mente Rosa Parks, e quel posto a sedere simbolo prima di segregazione e poi di lotta per l’uguaglianza socio-giuridica. Ricordi lontani mezzo secolo, ma anche un mare e un oceano: sarà forse per questo che in Italia di lotta per i diritti civili non c’è ormai più memoria. Anzi, riecheggiano le frasi degli abitanti di Rosarno: a loro avete addirittura dato da mangiare, ha gridato qualcuno. Come se non fosse un diritto, per chi ha una colore di pelle diverso dal nostro e una diversa cittadinanza, mangiare e sfamarsi. A questo punto due perplessità: la prima è che probabilmente abbiamo accettato una globalizzazione forse in maniera troppo precipitosa, se non abbiamo previsto quello che avrebbe comportato la creazione di un villaggio globale, con tutti i suoi aspetti – positivi e meno positivi; la seconda è invece relativa all’essere cristiani: si è pronti e scattanti a difendere un simbolo – quale il crocifisso che Strasburgo ha detto di non dover appendere e mostrare in classe – ma si è poco inclini a mettere in pratica la morale e la solidarietà cristiana. Ma forse questo è un altro aspetto della società dell’apparire. (Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 15 gennaio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
E’ caccia all’uomo. O meglio, è caccia al nero. Scene da America del Ku Klux Klan, se non fosse che a queste scene si assiste nel nostro paese. A Rosarno per la precisione, comune del reggino dove pulsioni di espulsioni hanno raggiunto l’apice, con rivolta degli extracomunitari e ronde dei bianchi. Situazione convulsa, che non si sa bene da dove abbia avuto origine: i braccianti di colore – dicono quelli del posto – avrebbero creato disordini; loro – africani che accusano di essere sfruttati e costretti a vivere in condizioni estreme – secondo altri avrebbero detto “basta” alla propria condizione. C’è chi addirittura ipotizza che la ‘Ndrangheta abbia fatto scoppiare una guerra tra poveri per distogliere l’attenzione dopo la bomba fatta esplodere a Reggio Calabria.. Situazione tutta da chiarire, dunque, ma che mette in evidenza una tendenza sempre più diffusa al non volere stranieri sul proprio territorio: una moda sempre più nazionale, e verrebbe da dire anche sempre più nazionalista. A partire dalla istituzioni, con il ministro dell’Interno Roberto Maroni che dice che «il problema è che c’è stata troppa tolleranza» con gli extracomunitari. L’Idv attacca con l’eurodeputato De Magistris, che accusa il ministro leghista di non perdere occasione per esasperare il clima, mentre di «scaricabarile» parla il segretario del Pd Pierluigi Bersani, alle prese – ancora una volta – con le liti interne al partito democratico: da parte di Bersani «nessuna pregiudiziale» alla candidatura di Emma Bonino nel Lazio, ma il segretario del Pd regionale Mazzoli – bersaniano – è meno entusiasta: «valuteremo», dice, mentre Dario Franceschini invoca a gran voce le primarie. «La candidatura della Bonino può rappresentare dei problemi», tuona la teodem Paola Binetti, che minaccia: un eventuale appoggio del Pd alla Bonino sarebbe per me motivo per uscire dal partito. Tutto questo mentre il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini annuncia che dal prossimo anno ci sarà un tetto massimo del 30% del numero degli studenti stranieri nelle classi delle scuole italiane: torna alla mente Rosa Parks, e quel posto a sedere simbolo prima di segregazione e poi di lotta per l’uguaglianza socio-giuridica. Ricordi lontani mezzo secolo, ma anche un mare e un oceano: sarà forse per questo che in Italia di lotta per i diritti civili non c’è ormai più memoria. Anzi, riecheggiano le frasi degli abitanti di Rosarno: a loro avete addirittura dato da mangiare, ha gridato qualcuno. Come se non fosse un diritto, per chi ha una colore di pelle diverso dal nostro e una diversa cittadinanza, mangiare e sfamarsi. A questo punto due perplessità: la prima è che probabilmente abbiamo accettato una globalizzazione forse in maniera troppo precipitosa, se non abbiamo previsto quello che avrebbe comportato la creazione di un villaggio globale, con tutti i suoi aspetti – positivi e meno positivi; la seconda è invece relativa all’essere cristiani: si è pronti e scattanti a difendere un simbolo – quale il crocifisso che Strasburgo ha detto di non dover appendere e mostrare in classe – ma si è poco inclini a mettere in pratica la morale e la solidarietà cristiana. Ma forse questo è un altro aspetto della società dell’apparire. (Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 15 gennaio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
Monday, 11 January 2010
Saturday, 9 January 2010
Medio Oriente + Asia meridionale = instabilità. L'equazione (im)possibile di una guerra sempre più a scala mondiale.
Terrorismo, conflitto arabo-israeliano e disordini intestini ai singoli paesi per una lunga striscia di mondo pronta a esplodere.
di Emiliano Biaggio
Da Tel Aviv a Kabul passando attraverso l’Iran: la diplomazia passa di qua, per una rotta di oltre 3.000 chilometri di pericolosa instabilità. Questa la sfida per il 2010 appena iniziato e già fin troppo carico di pochi graditi regali. Per gli interi equilibri geo-politici internazionali, ma soprattutto per chi è impegnato in prima linea nella lotta al terrore. Al Qaeda, Afghanistan, Pakistan e adesso anche lo Yemen: tante le questioni da affrontare, per il mondo e per lui, Barack Obama. Perché dopo un Nobel per la pace inaspettato anche per colui che se lo è visto assegnare, è chiaro che adesso gli occhi siano puntati tutti sul presidente americano. E Barack Obama si riunisce nella Security Room della Casa Bianca con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale, per discutere di terrorismo e fare il punto della situazione sullo scacchiere internazionale, sempre più instabile e ad alta tensione. Sono lontani i giorni della storica riforma del sistema sanitario per il presidente degli Stati Uniti, richiamato bruscamente alla realtà da un Medio Oriente sempre più irto di insidie e una minaccia terroristica che improvvisamente si ripropone prepotentemente. Un fallito attentato contro il volo della Norhtwestern in arrivo a Detroit da parte di un giovane nigeriano apre una pista investigativa che porta alla luce il ruolo centrale dello Yemen come avamposto di Al Qaeda nelle operazioni di terrorismo internazionale. Washington – almeno per il momento - esclude l’eventualità di un intervento nel paese arabo. Nella lotta al terrorismo islamico, lo Yemen «non sarà un secondo fronte militare», assicura il consigliere della Casa Bianca John Brennan. Obama precisa: non sarà un fronte di azione diretta. Il presidente Usa spiega infatti che gli Stati Uniti sono al lavoro per «rafforzare la partnership con il governo yemenita, addestrando ed equipaggiando le sue forze di sicurezza, condividendo le informazioni d'intelligence e lavorando assieme per colpire i terroristi di al Qaeda». Il nobel per la Pace Obama ricorda quindi che gli Stati Uniti sono in guerra contro quella che non esita a definire una «rete di odio e di violenza di grande vigore»: un messaggio lanciato agli alleati, ad Al Qaeda e anche agli elettori. Obama sa quanto il tema sicurezza sia sensibile all’opinione pubblica americana, e non vuole mostrare il fianco ai repubblicani, che già fanno il nome di Petraus – il comandante delle forze americane in Iraq e Afghanistan – per le prossime elezioni del Mid term. Più a breve termine, invece, vanno sciolti tutti i nodi in tema di sicurezza internazionale: c’è da vincere in Afghanistan e nelle zone turbolente del Pakistan, e c’è da tenere sotto controllo il Medio Oriente, dove non ci sono solo i qaedisti yemeniti. Nella regione la situazione precipita infatti in Israele: «il processo di pace è paralizzato», denuncia Abu Mazen, che minaccia di non ricandidarsi per la guida dell’Anp, mentre Tel Aviv autorizza la costruzione di 4 nuovi edifici a Gerusalemme est, uno dei nodi cruciali della questione arabo-israeliana. Altro duro colpo per Obama, che aveva fatto della risoluzione del conflitto israelo-palestinese uno dei suoi imperativi di politica estera. Ma medio Oriente non è solo Israele e territori palestinesi, è anche Iraq, e soprattutto Iran. Nella repubblica islamica una nuova ondata di protesta contro il regime degli ayatollah ha portato a scontri con le forze dell’ordine, che causano 15 morti e suscitano l’indignazione della comunità internazionale. La repubblica islamica risponde con censura dei media e arresti, tra i quali quello del leader riformista Mehdi Karroubi, costretto ai domiciliari. Il presidente del paese, Mahmud Ahmadinejad, bolla le manifestazioni come «una nauseante mascherata promossa da americani e sionisti», quindi attacca: «È uno spettacolo che fa vomitare- dice- ma quelli che l'hanno pianificato e quelli che vi hanno partecipato si sbagliano». Il regime accusa la comunità internazionale di «complotto» e impone manifestazioni pro-governo per mostrare come la leadership goda del consenso della maggioranza degli iraniani. Ma è tutto inutile. «L'Iran è in seria crisi», ammette Mir-Hosein Moussavi, il leader dell’opposizione iraniana. «Arrestare o uccidere Moussavi o Karrubi non calmerà la situazione», aggiunge l’ex primo ministro. Obama lo sa molto bene, ed è ora chiamato a lavorare per riportare alla normalità un’area geografica improvvisamente troppo vasta e pericolosamente fuori controllo e – come se non bastasse – culla dell’atomica pakistana e delle voglie nucleari iraniane. Questa estate è stato presentato un cartone animato con Obama in versione super-eroe: adesso più che mai il presidente degli Stati Uniti vorrebbe davvero esserlo, peccato che non si chiami Clark Kent e che venti di tempesta soffino dal Mediterraneo all’Asia meridionale. (Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 7 gennaio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
Da Tel Aviv a Kabul passando attraverso l’Iran: la diplomazia passa di qua, per una rotta di oltre 3.000 chilometri di pericolosa instabilità. Questa la sfida per il 2010 appena iniziato e già fin troppo carico di pochi graditi regali. Per gli interi equilibri geo-politici internazionali, ma soprattutto per chi è impegnato in prima linea nella lotta al terrore. Al Qaeda, Afghanistan, Pakistan e adesso anche lo Yemen: tante le questioni da affrontare, per il mondo e per lui, Barack Obama. Perché dopo un Nobel per la pace inaspettato anche per colui che se lo è visto assegnare, è chiaro che adesso gli occhi siano puntati tutti sul presidente americano. E Barack Obama si riunisce nella Security Room della Casa Bianca con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale, per discutere di terrorismo e fare il punto della situazione sullo scacchiere internazionale, sempre più instabile e ad alta tensione. Sono lontani i giorni della storica riforma del sistema sanitario per il presidente degli Stati Uniti, richiamato bruscamente alla realtà da un Medio Oriente sempre più irto di insidie e una minaccia terroristica che improvvisamente si ripropone prepotentemente. Un fallito attentato contro il volo della Norhtwestern in arrivo a Detroit da parte di un giovane nigeriano apre una pista investigativa che porta alla luce il ruolo centrale dello Yemen come avamposto di Al Qaeda nelle operazioni di terrorismo internazionale. Washington – almeno per il momento - esclude l’eventualità di un intervento nel paese arabo. Nella lotta al terrorismo islamico, lo Yemen «non sarà un secondo fronte militare», assicura il consigliere della Casa Bianca John Brennan. Obama precisa: non sarà un fronte di azione diretta. Il presidente Usa spiega infatti che gli Stati Uniti sono al lavoro per «rafforzare la partnership con il governo yemenita, addestrando ed equipaggiando le sue forze di sicurezza, condividendo le informazioni d'intelligence e lavorando assieme per colpire i terroristi di al Qaeda». Il nobel per la Pace Obama ricorda quindi che gli Stati Uniti sono in guerra contro quella che non esita a definire una «rete di odio e di violenza di grande vigore»: un messaggio lanciato agli alleati, ad Al Qaeda e anche agli elettori. Obama sa quanto il tema sicurezza sia sensibile all’opinione pubblica americana, e non vuole mostrare il fianco ai repubblicani, che già fanno il nome di Petraus – il comandante delle forze americane in Iraq e Afghanistan – per le prossime elezioni del Mid term. Più a breve termine, invece, vanno sciolti tutti i nodi in tema di sicurezza internazionale: c’è da vincere in Afghanistan e nelle zone turbolente del Pakistan, e c’è da tenere sotto controllo il Medio Oriente, dove non ci sono solo i qaedisti yemeniti. Nella regione la situazione precipita infatti in Israele: «il processo di pace è paralizzato», denuncia Abu Mazen, che minaccia di non ricandidarsi per la guida dell’Anp, mentre Tel Aviv autorizza la costruzione di 4 nuovi edifici a Gerusalemme est, uno dei nodi cruciali della questione arabo-israeliana. Altro duro colpo per Obama, che aveva fatto della risoluzione del conflitto israelo-palestinese uno dei suoi imperativi di politica estera. Ma medio Oriente non è solo Israele e territori palestinesi, è anche Iraq, e soprattutto Iran. Nella repubblica islamica una nuova ondata di protesta contro il regime degli ayatollah ha portato a scontri con le forze dell’ordine, che causano 15 morti e suscitano l’indignazione della comunità internazionale. La repubblica islamica risponde con censura dei media e arresti, tra i quali quello del leader riformista Mehdi Karroubi, costretto ai domiciliari. Il presidente del paese, Mahmud Ahmadinejad, bolla le manifestazioni come «una nauseante mascherata promossa da americani e sionisti», quindi attacca: «È uno spettacolo che fa vomitare- dice- ma quelli che l'hanno pianificato e quelli che vi hanno partecipato si sbagliano». Il regime accusa la comunità internazionale di «complotto» e impone manifestazioni pro-governo per mostrare come la leadership goda del consenso della maggioranza degli iraniani. Ma è tutto inutile. «L'Iran è in seria crisi», ammette Mir-Hosein Moussavi, il leader dell’opposizione iraniana. «Arrestare o uccidere Moussavi o Karrubi non calmerà la situazione», aggiunge l’ex primo ministro. Obama lo sa molto bene, ed è ora chiamato a lavorare per riportare alla normalità un’area geografica improvvisamente troppo vasta e pericolosamente fuori controllo e – come se non bastasse – culla dell’atomica pakistana e delle voglie nucleari iraniane. Questa estate è stato presentato un cartone animato con Obama in versione super-eroe: adesso più che mai il presidente degli Stati Uniti vorrebbe davvero esserlo, peccato che non si chiami Clark Kent e che venti di tempesta soffino dal Mediterraneo all’Asia meridionale. (Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 7 gennaio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
Friday, 8 January 2010
Quando si dice l'essenzialità della notizia...
Ricordate le famose "cinque W"? Sono who, what, why, where, when (chi, cosa, perchè, dove e quando), e sono alla base dello stile giornalistico anglosassone. Cosa vuol dire? Che quando si scrive seguendo questa regola, si mettono nero su bianco le cose essenziali ma al tempo stesso fondamentali della vicenda. Si da, per intenderci, la notizia nel suo carattere assoluto. Chi ha fatto cosa, dove, quando e perchè. Un modo riproposto da bessemer451 con la sua rubrica In trenta parole... . Notizie in pillole dal formato tascabile, facili da leggere e da digerire. Provare per credere.
Pd, crisi di un partito che fa male all'Italia
Liti e pochi pogrammi. E mentre la sinistra perde terreno, il paese viaggia verso un inquietante assetto "monocolore".
l'e-dittoreale
In Puglia una coalizione a dieci, nel Lazio nessun candidato, con la dirigenza nazionale che dice "si" a Emma Bonino e i bersaniani della sezione laziale del Pd che invece invocano le primarie. Il Partito democratico non perde occasione per dimostrare il profondo stato confusionale che lo anima, e stiamo pur certi che non perderà occasione per perdere. In Puglia, anche ammesso che il progetto a dieci alla fine prevalga (insieme si troverebbero Udc, Idv, Socialisti, Verdi, Pdci, Api, Radicali, Repubblicani, Comunisti Sinistra Popolare e il Movimento di Enzo Divella) si pone il problema della stabilità di una eventuale giunta: come potrebbe essere formata e quanto potrebbe durare. Nel Lazio, invece, si manifesta l'assenza di un progetto, palesato dalla mancanza di candidati. Renata Polverini la propria campagna elettorale l'ha già avviata, e da tempo. Viceversa il Pd da tempo perde terreno prezioso, sia nella corsa alla prima poltrona regionale, sia sul fronte dei consensi. Le strade - almeno nella Capitale - sono tappezzate da manifesti con l'immagine di Pierluigi Bersani sopra un slogan che recita "per l'alternativa". Diciamolo chiaramente: questo Partito democratico, in questo momento, non offre alcuna seria alternativa credibile ed efficacia al Pdl di Silvio Berlusconi. Il premier, certo, ha i suoi problemi interni, e sostenere che il cavaliere non sia ostaggio delle varie correnti di coalizione (si pensi a Lega e alla corrente finiana dell'An che fu) più di quanto lo sia Bersani nel suo partito, sarebbe offrire un lettura miope del panorama politico nazionale. Ma l'immagine del Pd è ben diversa, perchè se nella maggioranza c'è comunque un gruppo che nonostante tutto e malgrado tutto va per una prorpia strada e segua una propria politica - sia questa condivisibile o meno - sul fronte dell'opposizione permane l'immagine di un fronte disomogeneo - se pensiamo ai rapporti Pd-Idv e al ruolo dell'Udc - e di partito, il Pd, diviso al proprio interno e in preda ad una confusione tale da portare l'apparato tutto alla paralisi e all'inevitabile fallimento polico. Finora solo sconfitte, da quelle subite da Veltroni a quelle - inevitabili - che dovrà metaboizzare Bersani: sia chiaro che nessuno ha il dono di prevedere il futuro, ma certo è arduo credere che la linea assunta dal Pd fino ad oggi possa pagare. Al massimo potrà essere fatta pagare. A danno del Pd, certo, ma anche a danno del Paese. L'assenza di una opposizione che sia non tanto forte quanto almeno credibile, rafforza Berlusconi sbilanciando pericolosamente l'asse democratico in Italia. Con i partiti di centro-sinistra che perdono terreno, voti e consensi e un parallelo continuo rafforzamento delle forze di centro-destra, l'Italia viaggia verso un assetto "monocolore" di inquietante preoccupazione. E non potrebbe essere altrimenti: in un sistema democratico, per quanto imperfetto, c'è bisogno di una destra e di una sinistra, di pesi e di contrappessi. Altrimenti si instaura un regime e la democrazia viene meno. Con un Berlusconi che attacca stampa, potere giudiziario, e una maggioranza che si scaglia contro la Costituzione, sarebbe lecito nutrire timori. Va qui chiarito che la Costituzione non è certo un tabù, ma come tutte le cose il problema non è cambiare, ma come cambiare. Va quindi precisato che dico sarebbe lecito nutrire timori se ci fosse un fronte tra la società civile che si rendesse conto dei rischi che si corrono. L'impressione è che invece ci sia un sempre maggiore consenso, silenzioso e manifesto. Ciò si deve anche alla sinistra, sempre più incapace di essere alternativa e sempre più sull'orlo dell'autodisgregazione. Malinconico specchio di un società da reinventare in un paese in crisi. D'identità e non solo.
l'e-dittoreale
In Puglia una coalizione a dieci, nel Lazio nessun candidato, con la dirigenza nazionale che dice "si" a Emma Bonino e i bersaniani della sezione laziale del Pd che invece invocano le primarie. Il Partito democratico non perde occasione per dimostrare il profondo stato confusionale che lo anima, e stiamo pur certi che non perderà occasione per perdere. In Puglia, anche ammesso che il progetto a dieci alla fine prevalga (insieme si troverebbero Udc, Idv, Socialisti, Verdi, Pdci, Api, Radicali, Repubblicani, Comunisti Sinistra Popolare e il Movimento di Enzo Divella) si pone il problema della stabilità di una eventuale giunta: come potrebbe essere formata e quanto potrebbe durare. Nel Lazio, invece, si manifesta l'assenza di un progetto, palesato dalla mancanza di candidati. Renata Polverini la propria campagna elettorale l'ha già avviata, e da tempo. Viceversa il Pd da tempo perde terreno prezioso, sia nella corsa alla prima poltrona regionale, sia sul fronte dei consensi. Le strade - almeno nella Capitale - sono tappezzate da manifesti con l'immagine di Pierluigi Bersani sopra un slogan che recita "per l'alternativa". Diciamolo chiaramente: questo Partito democratico, in questo momento, non offre alcuna seria alternativa credibile ed efficacia al Pdl di Silvio Berlusconi. Il premier, certo, ha i suoi problemi interni, e sostenere che il cavaliere non sia ostaggio delle varie correnti di coalizione (si pensi a Lega e alla corrente finiana dell'An che fu) più di quanto lo sia Bersani nel suo partito, sarebbe offrire un lettura miope del panorama politico nazionale. Ma l'immagine del Pd è ben diversa, perchè se nella maggioranza c'è comunque un gruppo che nonostante tutto e malgrado tutto va per una prorpia strada e segua una propria politica - sia questa condivisibile o meno - sul fronte dell'opposizione permane l'immagine di un fronte disomogeneo - se pensiamo ai rapporti Pd-Idv e al ruolo dell'Udc - e di partito, il Pd, diviso al proprio interno e in preda ad una confusione tale da portare l'apparato tutto alla paralisi e all'inevitabile fallimento polico. Finora solo sconfitte, da quelle subite da Veltroni a quelle - inevitabili - che dovrà metaboizzare Bersani: sia chiaro che nessuno ha il dono di prevedere il futuro, ma certo è arduo credere che la linea assunta dal Pd fino ad oggi possa pagare. Al massimo potrà essere fatta pagare. A danno del Pd, certo, ma anche a danno del Paese. L'assenza di una opposizione che sia non tanto forte quanto almeno credibile, rafforza Berlusconi sbilanciando pericolosamente l'asse democratico in Italia. Con i partiti di centro-sinistra che perdono terreno, voti e consensi e un parallelo continuo rafforzamento delle forze di centro-destra, l'Italia viaggia verso un assetto "monocolore" di inquietante preoccupazione. E non potrebbe essere altrimenti: in un sistema democratico, per quanto imperfetto, c'è bisogno di una destra e di una sinistra, di pesi e di contrappessi. Altrimenti si instaura un regime e la democrazia viene meno. Con un Berlusconi che attacca stampa, potere giudiziario, e una maggioranza che si scaglia contro la Costituzione, sarebbe lecito nutrire timori. Va qui chiarito che la Costituzione non è certo un tabù, ma come tutte le cose il problema non è cambiare, ma come cambiare. Va quindi precisato che dico sarebbe lecito nutrire timori se ci fosse un fronte tra la società civile che si rendesse conto dei rischi che si corrono. L'impressione è che invece ci sia un sempre maggiore consenso, silenzioso e manifesto. Ciò si deve anche alla sinistra, sempre più incapace di essere alternativa e sempre più sull'orlo dell'autodisgregazione. Malinconico specchio di un società da reinventare in un paese in crisi. D'identità e non solo.
Wednesday, 6 January 2010
Cina, incendio in miniera: 25 morti
Venticinque minatori sono morti nell'incendio divampato in una miniera di carbone nella zona centrale della Cina. Lo indica un nuovo bilancio diffuso dalle autorità. Molti minatori continuano a mancare all'appello dopo il rogo di ieri e le ricerche stanno proseguendo. L'amministrazione locale delle miniere ha ordinato la sospensione di ogni attività nelle miniere di Xiangtian, il distretto coinvolto nella provincia di Hunan. Le fiamme, innescate da un cortocircuito, si sono propagate a inizio pomeriggio nella miniera Lisheng, a Xiangtan, mentre 73 minatori si trovavano 240 metri sottoterra, secondo il governo locale. Sono riusciti a risalire in 43. Apparentemente, i minatori intrappolati hanno tentato di scendere ulteriormente per sfuggire al fuoco: i corpi trovati oggi si trovavano tra i 450 e i 640 metri di profondità. Gli incidenti sono frequenti nelle miniere cinesi, in particolare le miniere di carbone in cui 3.215 operai sono morti nel 2008, secondo le statistiche ufficiali, ritenute in gran parte sottostimate da organizzazioni non governative. (fonte: Apcom)
Monday, 4 January 2010
Non solo sport, il 2010 "punta" anche su petrolio ed eventi naturali
Adesso si scommette anche sulle eruzioni: quelle dell'Etna data 1:29. E se arriva l'afa si vince sette volte quello che si è puntato.
di Emiliano Biaggio
Mi gioco la vittoria del Manchester, il pareggio tra Boca Juniors e River Plate e poi... l'eruzione del Vesuvio e temperature record. Strano, ma vero: per questo 2010 si scommette non solo sugli eventi sportivi, ma anche su quelli naturali e climatici. No, non è uno scherzo. Del resto si è sempre detto che quella del gioco è una febbre e - in altri casi - una malattia, e l'Agicos - l'agenzia che raccoglie tutte le scommesse - ha confermato una volta di più questo modo di dire che proprio di dire non è, registrando puntate tanto originali quanto singolari: aumento delle temperature ed eruzione dei vulcani italiani. I bookmakers hanno infatti stilato una nuova e speciale "lista quote" con tanto di montepremi: per cui, per esempio, chi è disposto a scommettere su temperature record nel 2010 potrà vincere 7 volte quello che ha messo sul piatto. Sempre che l'afa arrivi, ovviamente. Ma dopo l'evacuazione in Colombia di oltre 8.000 persone per le intemperanze del vulcano Galeras, i bookmaker si chiedono anche quale sarà il prossimo "gigante" a risvegliarsi nel corso di questo anno: ecco allora che vengono tenuti sotto controllo gli italiani Stromboli (dato 1:17.00), Vesuvio ed Etna (entrambi a 29.00). Più scontata - viste le quotazioni - appare un'eventuale eruzione del giapponese Unzen (1:4.00). Ma non per questo vuol dire che possa effettivamente "esplodere". Pronti a scommettere? A piazza Affari, lo sono di certo. Perchè la voglia di giocare è tale che sono già pronte le previsioni sul prezzo medio che l'oro nero dovrebbe toccare nel 2010. Che vuol dire? Semplice, che i bookmakers sono pronti ad accettare le vostre scommesse. Quindi, fate il vostro gioco e dite quanto - secondo voi - arriverà a costare il greggio al barile. Il prezzo più indicato dai quotisti è tra 81 e 95 dollari, una evenienza quotata a 3.50. Si gioca a 4.00 invece un prezzo medio compreso tra 96 e 110 dollari, mentre è a 4.33 la possibilità di un prezzo più basso, tra i 66 e gli 80 dollari al barile. Più quotate, invece, le ipotesi di un prezzo superiore addirittura ai 125 dollari (9 volte la posta) o inferiore a 35 (12.00). Insomma, come fa notare l'Agicos, se per alcuni quella del petrolio resta «un'altra variabile importante per la ripresa economica», con il greggio che «resta l'ago della bilancia nell'economia dei paesi industrializzati», altri invece ci giocano su. Chissà se potranno partecipare anche gli scommettitori dei paesi Opec...
di Emiliano Biaggio
Mi gioco la vittoria del Manchester, il pareggio tra Boca Juniors e River Plate e poi... l'eruzione del Vesuvio e temperature record. Strano, ma vero: per questo 2010 si scommette non solo sugli eventi sportivi, ma anche su quelli naturali e climatici. No, non è uno scherzo. Del resto si è sempre detto che quella del gioco è una febbre e - in altri casi - una malattia, e l'Agicos - l'agenzia che raccoglie tutte le scommesse - ha confermato una volta di più questo modo di dire che proprio di dire non è, registrando puntate tanto originali quanto singolari: aumento delle temperature ed eruzione dei vulcani italiani. I bookmakers hanno infatti stilato una nuova e speciale "lista quote" con tanto di montepremi: per cui, per esempio, chi è disposto a scommettere su temperature record nel 2010 potrà vincere 7 volte quello che ha messo sul piatto. Sempre che l'afa arrivi, ovviamente. Ma dopo l'evacuazione in Colombia di oltre 8.000 persone per le intemperanze del vulcano Galeras, i bookmaker si chiedono anche quale sarà il prossimo "gigante" a risvegliarsi nel corso di questo anno: ecco allora che vengono tenuti sotto controllo gli italiani Stromboli (dato 1:17.00), Vesuvio ed Etna (entrambi a 29.00). Più scontata - viste le quotazioni - appare un'eventuale eruzione del giapponese Unzen (1:4.00). Ma non per questo vuol dire che possa effettivamente "esplodere". Pronti a scommettere? A piazza Affari, lo sono di certo. Perchè la voglia di giocare è tale che sono già pronte le previsioni sul prezzo medio che l'oro nero dovrebbe toccare nel 2010. Che vuol dire? Semplice, che i bookmakers sono pronti ad accettare le vostre scommesse. Quindi, fate il vostro gioco e dite quanto - secondo voi - arriverà a costare il greggio al barile. Il prezzo più indicato dai quotisti è tra 81 e 95 dollari, una evenienza quotata a 3.50. Si gioca a 4.00 invece un prezzo medio compreso tra 96 e 110 dollari, mentre è a 4.33 la possibilità di un prezzo più basso, tra i 66 e gli 80 dollari al barile. Più quotate, invece, le ipotesi di un prezzo superiore addirittura ai 125 dollari (9 volte la posta) o inferiore a 35 (12.00). Insomma, come fa notare l'Agicos, se per alcuni quella del petrolio resta «un'altra variabile importante per la ripresa economica», con il greggio che «resta l'ago della bilancia nell'economia dei paesi industrializzati», altri invece ci giocano su. Chissà se potranno partecipare anche gli scommettitori dei paesi Opec...
Friday, 1 January 2010
Buon anno
Ecco il nuovo anno. Il secondo per Emiliano Biaggio, che torna nell'intestazione proprio per salutare il 2010. Auguri a tutti.
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