Friday, 29 July 2011
Kosovo, aria di rivolta nel nord serbo
Scontri a fuoco e assalto alla stazione Onu di confine di Jarinje, nel nord di un paese che la minoranza serba non sa riconoscere.
di Emiliano Biaggio
Tensione in Kosovo, dove un gruppo della minoranza serba ha attaccato e incendiato la località di frontiera di Jarinje, al confine con la Serbia. Si riaccende improvvisa e violenta la questione kosovara, con i serbi - minoranza in Kosovo ma maggioranza nel nord della Repubblica - che non accettano l'indipendenza della regione che fu della Serbia e vorrebbero un ricongiungimento politico e territoriale con Belgrado. «Gli estremisti e gli hooligans agiscono contro gli interessi dei cittadini serbi e della Serbia», ha detto subito il presidente della Repubblica serbo, Boris Tadic, preoccupato per una possibile rivitalizzazione del conflitto proprio mentre la Serbia sta accelerando il processo di ingresso all'interno dell'Unione europea. E proprio l'Ue ha condannato l'accaduto, con l'alto rappresentante della politica estera dell'Unione, Catherine Ashton, che ha parlato di «violenze inaccettabili». Ma l'accaduto non suscita solo le preoccupazioni europee: anche le Nazioni Unite guardano con timore ai nuovi scontro in Kosovo, tanto che il Consiglio di sicurezza dell'Onu si riunirà giovedì «a porte chiuse» proprio per affrontare il tema della nuova emergenza in Kosovo. E mentre i capi di governo serbo e kosovaro, Boris Tadic e Hashim Thaci condannano l'accaduto e invitano a riprendere la via del dialogo, il capo del team negoziale di Belgrado con Pristina, Borislav Stefanovic, lascia trasparire l'incertezza per quello che verrà. Quello verificatosi al confine nord, afferma è un «atto criminale commesso quando eravamo molto vicini a una soluzione, un colpo alle speranze dei serbi del Nord del Kosovo». Intanto tornano i carriarmati, come non accadeva dal 1999.
di Emiliano Biaggio
Tensione in Kosovo, dove un gruppo della minoranza serba ha attaccato e incendiato la località di frontiera di Jarinje, al confine con la Serbia. Si riaccende improvvisa e violenta la questione kosovara, con i serbi - minoranza in Kosovo ma maggioranza nel nord della Repubblica - che non accettano l'indipendenza della regione che fu della Serbia e vorrebbero un ricongiungimento politico e territoriale con Belgrado. «Gli estremisti e gli hooligans agiscono contro gli interessi dei cittadini serbi e della Serbia», ha detto subito il presidente della Repubblica serbo, Boris Tadic, preoccupato per una possibile rivitalizzazione del conflitto proprio mentre la Serbia sta accelerando il processo di ingresso all'interno dell'Unione europea. E proprio l'Ue ha condannato l'accaduto, con l'alto rappresentante della politica estera dell'Unione, Catherine Ashton, che ha parlato di «violenze inaccettabili». Ma l'accaduto non suscita solo le preoccupazioni europee: anche le Nazioni Unite guardano con timore ai nuovi scontro in Kosovo, tanto che il Consiglio di sicurezza dell'Onu si riunirà giovedì «a porte chiuse» proprio per affrontare il tema della nuova emergenza in Kosovo. E mentre i capi di governo serbo e kosovaro, Boris Tadic e Hashim Thaci condannano l'accaduto e invitano a riprendere la via del dialogo, il capo del team negoziale di Belgrado con Pristina, Borislav Stefanovic, lascia trasparire l'incertezza per quello che verrà. Quello verificatosi al confine nord, afferma è un «atto criminale commesso quando eravamo molto vicini a una soluzione, un colpo alle speranze dei serbi del Nord del Kosovo». Intanto tornano i carriarmati, come non accadeva dal 1999.
Tuesday, 26 July 2011
breviario
«Il killer Breivik è il risultato di questa società aperta, multirazziale, direi orwelliana. La società aperta e multirazziale non è quel paradiso terrestre che ci voglion far credere coloro che comandano l’informazione. La società aperta e multirazziale fa schifo». Mario Borghezio, eurodeputato della Lega nord, a radio 24, 25 luglio 2011
«Il silenzio è un vero amico che non tradisce mai». Confucio (Dialoghi, 479 a.C.-221 a.C. circa)
«Il silenzio è un vero amico che non tradisce mai». Confucio (Dialoghi, 479 a.C.-221 a.C. circa)
Monday, 25 July 2011
Papa, rifiuti e missioni: l'estate rovente del governo che soffre il Carroccio
Si incrina l'asse Pdl-Lega dopo il sì all'arresto per il deputato berlusconiano. Il premier ammette e promette. «Problemi con la Lega, ma andremo avanti», dice. Ma i dubbi restano.
l'e-dittoreale
Alfonso Papa, Marco Milanese, ministeri al nord, missioni all'estero, decreto rifiuti: l'estate non è mai stata così rovente per Silvio Berlusconi, scosso con tutto il suo esecutivo dalle vicende giudiziarie e dalle liti interne alla maggioranza. Divisioni tra Pdl e Lega, scontri all'interno dei due partiti, con il Carroccio al momento al governo che vorrebbe diventare di governo. Il presidente del Consiglio vede traballare il suo esecutivo, vede un calo nei consensi, sarà anche per questo che in un vertice a palazzo Grazioli con i coordinatori regionali lascia filtrare sondaggi che vedrebbero il suo partito in vantaggio, anche se per due soli punti percentuali. Ma qualcosa non va, ed è lo stesso Berlusconi a riconoscerlo, lamentando «problemi con la Lega, che sull'inchiesta della P4 non ha rispettato gli impegni». Inchiesta P4, filone di indagini su nomine pilotate, informazioni e carpite e confezionate ad arte. Gli inquirenti chiedono l'arresto del deputato Pdl Alfonso Papa, e la Camera dice sì grazie ai voti della Lega. 319 voti a favore, per un voto che getta in un silenzio irreale l'Aula di Montecitorio e sancisce la crisi. Berlusconi prima batte un pugno sul tavolo, non riuscendo a trattenere l'ira, quindi ostenta sicurezza: «Il governo va avanti, è più solido di prima», assicura, e il leghista Calderoli rassicura: «Berlusconi mangerà il panettone e pure la colomba». Si va avanti, insomma. Ma il governo è nel caos: sul decreto rifiuti alla Camera il ministro Prestigiacomo vota a favore di una parte di una mozione dell'Idv, gli altri componenti del governo presenti in Aula votano contro, sconfessando Prestigiacomo che nel frattempo si astiene. E' la sintesi dello stato confusionale in cui versa un esecutivo di fatto ricattata dalla Lega, che voleva e ha ottenuto il rinvio del testo in commissione per lasciar morire un decreto fortemente contestato.
Ma l'asse Pdl-Lega è incrinata anche sui ministeri al nord: il Carroccio, dopo tanti annunci e minacce, ha inaugurato tre uffici ministeriali a Monza. Un fatto più simbolico che altro (c'è un solo computer), ma che basta a rendere i rapporti di forza all'interno della maggioranza, dove Berlusconi appare in un angolo. L'immagine del premier solo alla conferenza stampa dopo il consiglio dei ministri mostra bene la solitudine di un Berlusconi visibilmente provato e che dovrà superare ostacoli insidiosi: il decreto sul rifinanziamento delle missioni all'estero, su cui la Lega sembra fortemente orientata a votare contro, e la richiesta di arresto per Mario Milianese, l'ex braccio destro del ministro dell'Economia Giulio Tremonti accusato di corruzione, rivelazione di segreto d'ufficio e associazione a delinquere. Anche per lui la Lega quasi certamente voterà per l'arresto, a meno di concessioni dell'ultima ora. Tutto è dunque in sospeso: si tratta di capire come finirà il confronto/scontro interno alla Lega tra maroniani e fedelissimi di Bossi, e quanto Berlusconi sarà disposto a cedere alle pretese degli alleati. Intanto, mentre nel Pdl si cerca un rilancio in grande stile del partito, Berlusconi annuncia la salita al Colle per proporre il nome del nuovo ministro della Giustizia, dopo aver annunciato l'approvazione definitiva della riforma istituzionale per il 4 settembre. Si tratta di una domenica: un lapsus che ha dell'incredibile, e che per l'opposizione mostra «il disfacimento di questo governo». «C’è piena collaborazione e la volontà di andare avanti con le riforme», assicurano dal governo. Il difficile è capire in che modo.
l'e-dittoreale
Alfonso Papa, Marco Milanese, ministeri al nord, missioni all'estero, decreto rifiuti: l'estate non è mai stata così rovente per Silvio Berlusconi, scosso con tutto il suo esecutivo dalle vicende giudiziarie e dalle liti interne alla maggioranza. Divisioni tra Pdl e Lega, scontri all'interno dei due partiti, con il Carroccio al momento al governo che vorrebbe diventare di governo. Il presidente del Consiglio vede traballare il suo esecutivo, vede un calo nei consensi, sarà anche per questo che in un vertice a palazzo Grazioli con i coordinatori regionali lascia filtrare sondaggi che vedrebbero il suo partito in vantaggio, anche se per due soli punti percentuali. Ma qualcosa non va, ed è lo stesso Berlusconi a riconoscerlo, lamentando «problemi con la Lega, che sull'inchiesta della P4 non ha rispettato gli impegni». Inchiesta P4, filone di indagini su nomine pilotate, informazioni e carpite e confezionate ad arte. Gli inquirenti chiedono l'arresto del deputato Pdl Alfonso Papa, e la Camera dice sì grazie ai voti della Lega. 319 voti a favore, per un voto che getta in un silenzio irreale l'Aula di Montecitorio e sancisce la crisi. Berlusconi prima batte un pugno sul tavolo, non riuscendo a trattenere l'ira, quindi ostenta sicurezza: «Il governo va avanti, è più solido di prima», assicura, e il leghista Calderoli rassicura: «Berlusconi mangerà il panettone e pure la colomba». Si va avanti, insomma. Ma il governo è nel caos: sul decreto rifiuti alla Camera il ministro Prestigiacomo vota a favore di una parte di una mozione dell'Idv, gli altri componenti del governo presenti in Aula votano contro, sconfessando Prestigiacomo che nel frattempo si astiene. E' la sintesi dello stato confusionale in cui versa un esecutivo di fatto ricattata dalla Lega, che voleva e ha ottenuto il rinvio del testo in commissione per lasciar morire un decreto fortemente contestato.
Ma l'asse Pdl-Lega è incrinata anche sui ministeri al nord: il Carroccio, dopo tanti annunci e minacce, ha inaugurato tre uffici ministeriali a Monza. Un fatto più simbolico che altro (c'è un solo computer), ma che basta a rendere i rapporti di forza all'interno della maggioranza, dove Berlusconi appare in un angolo. L'immagine del premier solo alla conferenza stampa dopo il consiglio dei ministri mostra bene la solitudine di un Berlusconi visibilmente provato e che dovrà superare ostacoli insidiosi: il decreto sul rifinanziamento delle missioni all'estero, su cui la Lega sembra fortemente orientata a votare contro, e la richiesta di arresto per Mario Milianese, l'ex braccio destro del ministro dell'Economia Giulio Tremonti accusato di corruzione, rivelazione di segreto d'ufficio e associazione a delinquere. Anche per lui la Lega quasi certamente voterà per l'arresto, a meno di concessioni dell'ultima ora. Tutto è dunque in sospeso: si tratta di capire come finirà il confronto/scontro interno alla Lega tra maroniani e fedelissimi di Bossi, e quanto Berlusconi sarà disposto a cedere alle pretese degli alleati. Intanto, mentre nel Pdl si cerca un rilancio in grande stile del partito, Berlusconi annuncia la salita al Colle per proporre il nome del nuovo ministro della Giustizia, dopo aver annunciato l'approvazione definitiva della riforma istituzionale per il 4 settembre. Si tratta di una domenica: un lapsus che ha dell'incredibile, e che per l'opposizione mostra «il disfacimento di questo governo». «C’è piena collaborazione e la volontà di andare avanti con le riforme», assicurano dal governo. Il difficile è capire in che modo.
Sunday, 24 July 2011
Sull'uomo e sulla donna
Monologo di Giorgio Gaber, estratto dallo spettacolo teatrale "Un'idiozia conquistata a fatica".
Saturday, 23 July 2011
Norvegia, nazione sotto choc e col fiato sospeso
Autobombe a Oslo e sparatoria a Utoja, per quello che è il peggior attacco dalla seconda guerra mondiale. La monarchia scandinava tra paura e interrogativi.
di Emiliano Biaggio
Norvegia, il giorno dopo. Il paese ancora si interroga sugli attentati costati la vita 92 persone, con l'attacco dinamitardo alle sedi di governo e ministero dell'energia, e la sparatoria sull'isola di Utoja. «Penso che sia ancora troppo presto per parlare di terrorismo», ha detto alla Nazione il primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg. Dal capo del governo un invito alla calma e alla cautela, e ad attendere lo sviluppo delle indagini. Indagini che al momento sembrano condurre verso gli ambienti dell'estrama destra, e ridimensionare la tesi della matrice jihadista e qaedista.
La polizia ha infatti arrestato Anders Behring Breivik, un trentaduenne norvegese con l'hobby per la caccia e la passione per i giochi di per guerra per il computer che si definisce «conservatore» e «cristiano fondamentalista». Un uomo che lo scorso mese di maggio, ha fatto sapere una cooperativa agricola del paese, ha acquistato ben 6 tonnellate di fertillizzante, con cui si possono anche realizzare esplosivi. Per adesso si sa che Anders Behring Breivik è il responsabile della strage di Utoja, dove vestito da poliziotto ha aperto il fuoco sui giovani laburisti riuniti nella consueta convention nazionale. Le forze dell'ordine hanno già interrogato l'uomo, e si cerca di capire se possa aver agito da solo o con l'aiuto di complici. Per cercare di fare chiarezza l'Europol, l'agenzia anticrimine dell'Unione europea, ha istituito una speciale unità di crisi che collaborerà con le autorità norvegesi.
Il paese è sotto choc, e con i nervi a fior di pelle, anche se il ministro della giustizia, Kurt Storberget, ha fatto sapere che allo stato non c'è motivo per innalzare il livello di allerta. Tuttavia oggi attimi di tensione si sono registrati a Oslo - per un allarme bomba - e a Utoja, dove la polizia ha fermato un uomo con un coltello che si stava avvicinando all'hotel dove il primo ministro norvegese si trovava per far visita ai feriti scampati all'agguato. L'uomo è stato fermato, e ha detto di essere armato perchè non si sente sicuro. Stoltenberg, terminata la sua visita, ha reso omaggio ai superstiti e ai soccorritori («sono degli eroi», ha detto), e ha lanciato un appello di coesione nazionale. «Dobbiamo restare uniti come paese», ha invitato il capo del governo.
In attesa di risposta, per i norvegesi arrivano intanto ulteriori brutte norizie: il bilancio delle vittime degli attacchi potrebbe presto aumentare. L'ultimo bollettino medico parla infatti di 30 feriti in condizioni gravi, con 20 di loro in fin di vita.
di Emiliano Biaggio
Norvegia, il giorno dopo. Il paese ancora si interroga sugli attentati costati la vita 92 persone, con l'attacco dinamitardo alle sedi di governo e ministero dell'energia, e la sparatoria sull'isola di Utoja. «Penso che sia ancora troppo presto per parlare di terrorismo», ha detto alla Nazione il primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg. Dal capo del governo un invito alla calma e alla cautela, e ad attendere lo sviluppo delle indagini. Indagini che al momento sembrano condurre verso gli ambienti dell'estrama destra, e ridimensionare la tesi della matrice jihadista e qaedista.
La polizia ha infatti arrestato Anders Behring Breivik, un trentaduenne norvegese con l'hobby per la caccia e la passione per i giochi di per guerra per il computer che si definisce «conservatore» e «cristiano fondamentalista». Un uomo che lo scorso mese di maggio, ha fatto sapere una cooperativa agricola del paese, ha acquistato ben 6 tonnellate di fertillizzante, con cui si possono anche realizzare esplosivi. Per adesso si sa che Anders Behring Breivik è il responsabile della strage di Utoja, dove vestito da poliziotto ha aperto il fuoco sui giovani laburisti riuniti nella consueta convention nazionale. Le forze dell'ordine hanno già interrogato l'uomo, e si cerca di capire se possa aver agito da solo o con l'aiuto di complici. Per cercare di fare chiarezza l'Europol, l'agenzia anticrimine dell'Unione europea, ha istituito una speciale unità di crisi che collaborerà con le autorità norvegesi.
Il paese è sotto choc, e con i nervi a fior di pelle, anche se il ministro della giustizia, Kurt Storberget, ha fatto sapere che allo stato non c'è motivo per innalzare il livello di allerta. Tuttavia oggi attimi di tensione si sono registrati a Oslo - per un allarme bomba - e a Utoja, dove la polizia ha fermato un uomo con un coltello che si stava avvicinando all'hotel dove il primo ministro norvegese si trovava per far visita ai feriti scampati all'agguato. L'uomo è stato fermato, e ha detto di essere armato perchè non si sente sicuro. Stoltenberg, terminata la sua visita, ha reso omaggio ai superstiti e ai soccorritori («sono degli eroi», ha detto), e ha lanciato un appello di coesione nazionale. «Dobbiamo restare uniti come paese», ha invitato il capo del governo.
In attesa di risposta, per i norvegesi arrivano intanto ulteriori brutte norizie: il bilancio delle vittime degli attacchi potrebbe presto aumentare. L'ultimo bollettino medico parla infatti di 30 feriti in condizioni gravi, con 20 di loro in fin di vita.
«I repubblicani lavorino per evitare il default»
Monito del presidente Usa, Barack Obama: mettere da parte divisioni e diversità. Aumentare il tetto del debito o sarà l'Armageddon.
di Emiliano Biaggio
«Democratici e repubblicani devono lavorare insieme» per raggiungere un accordo sull'innalzamento del tetto del debito pubblico Usa. Questo vuol dire che «bisogna mettere da parte le differenze per fare ciò che è più giusto per il paese», e in tal senso «ognuno deve mostrare la volontà di giungere a un compromesso». Barack Obama è tornato a invitare i parlamentari statunitenti a rilanciare i colloqui per mettere a punto un piano che rilanci l'economia americana e soprattutto scongiuri il rischio default.
Il presidente degli Stati Uniti ha infatti avvertito deputati e senatori che «il tempo sta scadere», riferendosi al termine, sempre più prossimo, del 2 agosto, giorno in cui
si raggiungerà il limite del debito di 14,3 trilioni di dollari. «Bisogna adottare un piano» per far fronte all'emergenza, ha detto l'inquilino della Casa Bianca, rivolgendosi principalmente ai repubblicani e allo speaker della Camera dei rappresentanti, John Boenher, che ha abbandonato il tavolo delle trattative. «Non è stato raggiunto un accordo, e non si è nemmeno vicini a un accordo», ha ammesso Boenher. Ciò «non per contrapposizioni personali, ma per una diversa visione del Paese», ha spiegato. A dividere democratici e repubblicani, e più nello specifico Obama e Boenher, il programma del presidente degli Stati Uniti, che prevede più tasse per i ricchi. Per Obama, infatti, non si può prescindere da un aumento della pressione fiscale per i ceti più abbienti, una misura bocciata però da Boenher e da larga parte dei repubblicani.
Alla Casa Bianca si continua a lavorare senza sosta per cercare di scongiurare «l'Armaggedon», come Obama ha definito l'ipotesi di un rischio default. Nella dimora del presidente Usa sono attesi i capigruppo dei democratici alla Camera e al Senato, Nancy Pelosi e Harry Reid, insieme al capogruppo dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell. L'intento è chiaro: cercare un accordo, anche senza Boenher, con la mediazione del repubblicano McConnell, più incline a proseguire la via del confronto. Si resta dunque col fiato sospeso, ma una cosa è certa: si andrà avanti alla ricerca di un accordo per l'innalzamento del tetto - prefissato per legge - al debito pubblico entro lunedì, così da mandare messaggi rassicuranti ai mercati.
di Emiliano Biaggio
«Democratici e repubblicani devono lavorare insieme» per raggiungere un accordo sull'innalzamento del tetto del debito pubblico Usa. Questo vuol dire che «bisogna mettere da parte le differenze per fare ciò che è più giusto per il paese», e in tal senso «ognuno deve mostrare la volontà di giungere a un compromesso». Barack Obama è tornato a invitare i parlamentari statunitenti a rilanciare i colloqui per mettere a punto un piano che rilanci l'economia americana e soprattutto scongiuri il rischio default.
Il presidente degli Stati Uniti ha infatti avvertito deputati e senatori che «il tempo sta scadere», riferendosi al termine, sempre più prossimo, del 2 agosto, giorno in cui
si raggiungerà il limite del debito di 14,3 trilioni di dollari. «Bisogna adottare un piano» per far fronte all'emergenza, ha detto l'inquilino della Casa Bianca, rivolgendosi principalmente ai repubblicani e allo speaker della Camera dei rappresentanti, John Boenher, che ha abbandonato il tavolo delle trattative. «Non è stato raggiunto un accordo, e non si è nemmeno vicini a un accordo», ha ammesso Boenher. Ciò «non per contrapposizioni personali, ma per una diversa visione del Paese», ha spiegato. A dividere democratici e repubblicani, e più nello specifico Obama e Boenher, il programma del presidente degli Stati Uniti, che prevede più tasse per i ricchi. Per Obama, infatti, non si può prescindere da un aumento della pressione fiscale per i ceti più abbienti, una misura bocciata però da Boenher e da larga parte dei repubblicani.
Alla Casa Bianca si continua a lavorare senza sosta per cercare di scongiurare «l'Armaggedon», come Obama ha definito l'ipotesi di un rischio default. Nella dimora del presidente Usa sono attesi i capigruppo dei democratici alla Camera e al Senato, Nancy Pelosi e Harry Reid, insieme al capogruppo dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell. L'intento è chiaro: cercare un accordo, anche senza Boenher, con la mediazione del repubblicano McConnell, più incline a proseguire la via del confronto. Si resta dunque col fiato sospeso, ma una cosa è certa: si andrà avanti alla ricerca di un accordo per l'innalzamento del tetto - prefissato per legge - al debito pubblico entro lunedì, così da mandare messaggi rassicuranti ai mercati.
Friday, 22 July 2011
Berlusconi: «riforma costituzionale per il 4 settembre». Ma è domenica
di Emiliano Biaggio
«Il 4 settembre ci sarà il via libera definitivo» al ddl costituzionale di riforma dell'architettura dello Stato. L'ha assicurato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri. Il calendario governativo è dunque fissato, peccato però che strida con il calendario gregoriano. Il 4 settembre 2011 si festeggia Santa Rosalia, ma la notizia è un'altra: è domenica. Rimane adesso da capire se sia stato un lapsus, quello del premier, oppure l'annuncio di una seduta (festiva) straordinaria.
«Il 4 settembre ci sarà il via libera definitivo» al ddl costituzionale di riforma dell'architettura dello Stato. L'ha assicurato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri. Il calendario governativo è dunque fissato, peccato però che strida con il calendario gregoriano. Il 4 settembre 2011 si festeggia Santa Rosalia, ma la notizia è un'altra: è domenica. Rimane adesso da capire se sia stato un lapsus, quello del premier, oppure l'annuncio di una seduta (festiva) straordinaria.
breviario
«La coesione nazionale è tutt'altro che un compromesso al ribasso. Vuol dire non avere dubbi sul fatto che gli articoli della Costituzione li devono rispettare tutti e valgono per tutti».
Gianfranco Fini, presidente della Camera, 21 luglio 2011
«Se continua così nel 2050 in Italia saremo una minoranza della popolazione, e se non ci siamo più noi diventa poi problema integrare gli altri».
Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla famiglia, 22 luglio 2011
Gianfranco Fini, presidente della Camera, 21 luglio 2011
«Se continua così nel 2050 in Italia saremo una minoranza della popolazione, e se non ci siamo più noi diventa poi problema integrare gli altri».
Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla famiglia, 22 luglio 2011
Thursday, 21 July 2011
Strappo tra Pdl e Lega
Rifiuti, cronaca di un caos annunciato
La Lega era sempre stata contraria al decreto per l'emergenza campana, e nel momento del voto si consuma lo psico-dramma della maggioranza. Ecco gli eventi di un incandescente 19 luglio.
di Emiliano Biaggio
Pdl e e maggioranza "inciampano" sui rifiuti. Nell'Aula della Camera il governo va sotto per sei voti sulla richiesta del relatore Agostino Ghiglia (Pdl) di rinviare il decreto ad hoc in commissione e, a Montecitorio, si vive un'altra giornata di passione. Cosa è successo? La Lega, da sempre critica nei confronti del testo, non vota contro, come paventato nelle fila del Pdl. Anzi, «siamo a favore del rinvio, vista anche la sentenza del Consiglio di Stato», assicura Angelo Alessandri (Lega), presidente della commissione Ambiente della Camera. Sulla carta quindi nessuno sgambetto, il problema è legato al numero degli assenti: 66 quelli "giustificati" perchè in missione, ma probabilmente qualche ulteriore defezione ingiustificata puo' aver mandato in tilt la maggioranza, che si riunisce immediatamente nella saletta del Governo di Montecitorio. Si chiudono in stanza tra gli altri il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, i capigruppo di Pdl e Lega, Fabrizio Cicchitto e Marco Reguzzoni, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi e il relatore di maggioranza, Ghiglia. Successivamente arrivano Paolo Bonaiuti e il deputato della Lega Guido Dussin. Resteranno riuniti oltre due ore, per capire come uscire dall'impasse.
L'ipotesi che emerge da subito (che viene poi approvata dall'Aula con 14 voti di differenza) è il rinvio del voto al giorno successivo e prende corpo addirittura la possibilità che il decreto venga ritirato. Una sua eventuale cancellazione toglierebbe infatti non poche castagne dal fuoco, data la sentenza del Consiglio di Stato che permette il trasferimento dei rifiuti fuori dalla Campania. La tensione è altissima: la Lega sposa «il concetto per cui ognuno si smaltisce i propri rifiuti», ribadendo la contrarietà alla possibilità che la regione Campania trasferisca in altre regioni, senza il loro nulla osta, l'immondizia di Napoli (ipotesi invece difesa dai deputati campani del Pdl) e minacciando il voto contrario come già avvenuto in Consiglio dei ministri. Il Pdl non può permettersi passi falsi. Il perchè lo spiega il presidente dei deputati dell'Idv, Massimo Donadi: «Se la Lega dovesse votare contro il decreto rifiuti, a Berlusconi non resterebbe che formalizzare la crisi e salire al Quirinale per dimettersi».
Il Pdl prende tempo e molti deputati prendono la parola, facendo scorrere il tempo. Alla fine Ghiglia, facendo notare l'orario inoltrato (sono ormai le sette) chiede e ottiene il rinvio a domani. Il pericolo è scampato e la questione rimandata, e domani mattina si capirà cosa succederà. Intanto, per Ermete Realacci (Pd), «la maggioranza ha sbagliato tutto e ha fatto auto-ostruzionismo». «Hanno subito una sconfitta», commentano i suoi colleghi di partito.
di Emiliano Biaggio
Pdl e e maggioranza "inciampano" sui rifiuti. Nell'Aula della Camera il governo va sotto per sei voti sulla richiesta del relatore Agostino Ghiglia (Pdl) di rinviare il decreto ad hoc in commissione e, a Montecitorio, si vive un'altra giornata di passione. Cosa è successo? La Lega, da sempre critica nei confronti del testo, non vota contro, come paventato nelle fila del Pdl. Anzi, «siamo a favore del rinvio, vista anche la sentenza del Consiglio di Stato», assicura Angelo Alessandri (Lega), presidente della commissione Ambiente della Camera. Sulla carta quindi nessuno sgambetto, il problema è legato al numero degli assenti: 66 quelli "giustificati" perchè in missione, ma probabilmente qualche ulteriore defezione ingiustificata puo' aver mandato in tilt la maggioranza, che si riunisce immediatamente nella saletta del Governo di Montecitorio. Si chiudono in stanza tra gli altri il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, i capigruppo di Pdl e Lega, Fabrizio Cicchitto e Marco Reguzzoni, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi e il relatore di maggioranza, Ghiglia. Successivamente arrivano Paolo Bonaiuti e il deputato della Lega Guido Dussin. Resteranno riuniti oltre due ore, per capire come uscire dall'impasse.
L'ipotesi che emerge da subito (che viene poi approvata dall'Aula con 14 voti di differenza) è il rinvio del voto al giorno successivo e prende corpo addirittura la possibilità che il decreto venga ritirato. Una sua eventuale cancellazione toglierebbe infatti non poche castagne dal fuoco, data la sentenza del Consiglio di Stato che permette il trasferimento dei rifiuti fuori dalla Campania. La tensione è altissima: la Lega sposa «il concetto per cui ognuno si smaltisce i propri rifiuti», ribadendo la contrarietà alla possibilità che la regione Campania trasferisca in altre regioni, senza il loro nulla osta, l'immondizia di Napoli (ipotesi invece difesa dai deputati campani del Pdl) e minacciando il voto contrario come già avvenuto in Consiglio dei ministri. Il Pdl non può permettersi passi falsi. Il perchè lo spiega il presidente dei deputati dell'Idv, Massimo Donadi: «Se la Lega dovesse votare contro il decreto rifiuti, a Berlusconi non resterebbe che formalizzare la crisi e salire al Quirinale per dimettersi».
Il Pdl prende tempo e molti deputati prendono la parola, facendo scorrere il tempo. Alla fine Ghiglia, facendo notare l'orario inoltrato (sono ormai le sette) chiede e ottiene il rinvio a domani. Il pericolo è scampato e la questione rimandata, e domani mattina si capirà cosa succederà. Intanto, per Ermete Realacci (Pd), «la maggioranza ha sbagliato tutto e ha fatto auto-ostruzionismo». «Hanno subito una sconfitta», commentano i suoi colleghi di partito.
Sunday, 17 July 2011
Le indipendenze africane
Saturday, 16 July 2011
In Sud Sudan e Somalia il Corno d’Africa si spacca
Il Sud Sudan è indipendente, ma diverse questioni restano ancora aperte. La missione etiopica di peace-keeping ad Abyei e il ruolo dell’Uganda in Somalia hanno inaugurato un nuovo asse regionale. L’approccio militare può dividere il Corno d’Africa.
di Matteo Guglielmo (dottore in Sistemi Politici dell’Africa all’Università degli studi “L’Orientale” di Napoli)
Il 9 luglio è nato il 54° stato africano. Il Sud Sudan ha dichiarato la sua indipendenza, conquistata dopo vent’anni anni di lotta di liberazione e ufficializzata dal referendum popolare tenutosi lo scorso gennaio, ma i cui esiti erano già largamente prevedibili. Dopo l’Eritrea, il Sud Sudan è il secondo stato dell’Africa sub-sahariana, e in particolare del Corno d’Africa, ad aver compiuto una secessione in deroga ai principi di conservazione dei confini ereditati dal periodo coloniale sanciti nel 1964 dall’Organizzazione per l’unità africana, oggi Unione Africana (Ua).
Come sottolineano diversi analisti, non sarà di certo l’indipendenza a sciogliere alcuni nodi che caratterizzano e continuano a mettere a dura prova la stabilità dell’area. Su tutti vi è la demarcazione confinaria legata alla provincia di Abyei, con le sue riserve petrolifere e dunque preziosa sia per il governo di Khartoum che per quello di Juba. Anche se molti restano scettici sull’effettiva ricchezza dei pozzi di Abyei, il 21 maggio scorso le forze armate sudanesi acquisivano il controllo della città, causando la fuga di migliaia di persone e portando i due paesi sull’orlo della guerra.
La crisi di Abyei è parzialmente rientrata a fine giugno, quando ad Addis Abeba i due governi hanno siglato un accordo quadro che, oltre a sancire un’intesa militare sulla provincia contesa, sarebbe stato seguito da un altro, riguardante il Kordofan meridionale e il Nilo Azzurro, due regioni ufficialmente sotto Khartoum, ma che al pari del Sud Sudan si erano distinte per l’opposizione militare al governo sudanese.
Gli accordi di Addis Abeba, pur restando confinati in un ambito militare e scaturiti dall’attività di mediazione di un High level implementation panel dell’Unione africana (Auhlip) presieduto dal presidente sudafricano Thabo Mbeki, testimoniano il ruolo centrale dell’Etiopia all’interno dei sistemi di potere e di leadership regionale. Come sancito dagli accordi, Addis Abeba ha da pochi giorni ultimato un primo dispiegamento di una forza di peace-keeping che conterà circa 4200 caschi blu, anche se il numero potrebbe nei prossimi mesi salire a 7mila.
La missione, denominata United nations interim security force for Abyei (Unifsa), è stata approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu attraverso la risoluzione 1990 del 27 giugno, e avrà il compito di monitorare il ritiro delle forze armate sudanesi in modo da smilitarizzare completamente l’area consentendo la protezione dei civili e - come sancito dal testo - delle infrastrutture petrolifere presenti in loco.
La proposta di risoluzione è stata avanzata dagli Stati Uniti, che attraverso il loro rappresentante alle Nazioni unite Susan Rice hanno espresso piena soddisfazione non solo per l’approvazione in Consiglio di Sicurezza, ma anche per la disponibilità delle forze etiopiche. Secondo alcuni analisti, l’Etiopia dovrebbe garantire solidità e professionalità alla missione, data l’esperienza del suo personale militare e la conoscenza del territorio.
Nonostante la risoluzione Onu e il ruolo centrale giocato dall’Etiopia, le misure intraprese restano per ora confinate all'ambito militare. Aspettando che il successo dei negoziati possa tradursi anche in un processo di normalizzazione politica, il caso sudanese rappresenta un’ulteriore conferma di vecchi e nuovi equilibri di potere la cui strutturazione rischia di incrementare altre tensioni legate alla regione del Corno d’Africa.
Oltre all’Etiopia infatti, un attore che ha saputo guadagnarsi la stima della comunità internazionale è l’Uganda di Yoweri Museveni. Dal 2007 il paese è il maggior contributor in termini di personale militare di Amisom, la missione di peace-support dell’Unione africana in Somalia, e di cui gli Stati Uniti restano il primo finanziatore. Ad oggi Amisom è composta da circa 9mila caschi verdi, in gran parte provenienti dall’Uganda.
Il 26 giugno il Pentagono ha stanziato una spesa aggiuntiva di 45milioni di dollari per Amisom, parte di un pacchetto di 145milioni riservati a varie operazioni su cui il Dipartimento per la Difesa attende a breve un’approvazione da parte del Congresso. Kampala riceverà altri aiuti (poco più di 4milioni) in equipaggiamento militare, mentre è possibile quantificare il totale del finanziamento statunitense all’Uganda e al Burundi per Amisom in una cifra non lontana dai 185milioni di dollari.
Grazie al contributo per Amisom, l’Uganda ha potuto maturare in Somalia anche ambizioni politiche. Ne è prova il ruolo giocato dal presidente Museveni negli accordi di Kampala del 9 giugno, volti a ricucire la frattura tra il presidente somalo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed e lo speaker del parlamento Sharif Hassan Sheikh Aden. Nonostante la sostanza di tali accordi rimanga piuttosto controversa, soprattutto per i sostenitori dell’ex primo ministro Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmaajo” costretto a dimettersi, l’Uganda sembra aver allargato il proprio ambito di azione oltre il ruolo prettamente tecnico-militare, massimizzando i guadagni in termini sia economici sia politici.
L’asse etiopico-ugandese si pone quale nuovo fulcro del delicato balance of power del Corno d’Africa. Il sostegno degli Usa e dell'Onu tende a legittimarne l’operato su scala globale, mentre l’Unione Europea, priva di un inviato speciale, non riesce ancora ad assumere una posizione chiara e ad agire in modo più compatto e articolato.
Anche all’interno dell’Unione Africana Kampala e Addis Abeba si distinguono per un attivismo che già da tempo hanno saputo imporre all’interno dell’Inter-governmental authority on development (Igad). È proprio in quest’ambito che il nuovo sistema di alleanze mostra tuttavia le lacune più profonde. I dubbi ruotano intorno alla sostanza della leadership proposta dai due paesi, che ancora una volta risulta efficace sul piano militare e della sicurezza, ma quasi assente su quello politico-diplomatico.
Il 4 luglio scorso, la diciottesima sessione straordinaria dei capi di Stato e di governo dell’Igad rilasciava un comunicato incentrato sugli sviluppi politici in Sudan, Somalia ed Eritrea. La riunione, tenutasi proprio ad Addis Abeba e preceduta pochi giorni prima da una sessione straordinaria del Consiglio esecutivo e dei ministri dell’Igad convocata a Malabo (Guinea Equatoriale), oltre ad esprimere soddisfazione per gli esiti della mediazione dell’Auhlip riguardo la questione di Abyei, ha evidenziato un approccio più duro e militante verso la crisi somala e sul ruolo del governo eritreo nella regione.
Su quest’ultimo punto l’Igad, di cui tecnicamente Asmara sarebbe ancora un membro, ha invitato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a inasprire le sanzioni contro l’Eritrea, colpevole secondo l’Assemblea di destabilizzare il Corno d’Africa offrendo aiuto militare a vari gruppi di opposizione armata. La risposta del governo eritreo alle nuove accuse è arrivata attraverso una nota del ministero degli Esteri, in cui si tende a sottolineare ancora una volta un’eccessiva parzialità nell’operato della comunità internazionale nel Corno d’Africa, e in particolare di uno sbilanciamento verso posizioni filo-etiopiche.
Se rispetto al caso eritreo l’Igad ha preferito un approccio di scontro, anche riguardo al conflitto somalo la sua posizione non cambia. Nel comunicato restano evidenti alcune affermazioni incongrue rispetto alle dinamiche riscontrabili sul campo: i paesi membri sono invitati a proseguire nel sostenere le Istituzioni federali di transizione (Ift) nel rafforzare le amministrazioni locali di un governo il cui controllo resta però confinato ad alcuni quartieri di Mogadiscio.
Nello stesso comunicato si richiede inoltre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di incrementare un regime di embargo sui porti controllati dagli Shabaab di Chisimaio, Brava, Merca ed el-Maan, per evitare che possano arrivare nuovi rifornimenti di armi. Se la guerriglia somala si avvale costantemente degli introiti finanziari ricavati dalla gestione dei vettori portuali, questi sono anche utilizzati per altri scopi, come il rifornimento di merci e di derrate alimentari.
In un momento in cui il Corno d’Africa, e in particolare la Somalia, attraversa una delle più gravi carestie degli ultimi anni, il rafforzamento del blocco sui porti meridionali potrebbe aggravare la crisi umanitaria in atto. Se a Juba si festeggia, Mogadiscio è destinata ancora una volta a sopportare gli effetti negativi di un approccio militare che da diversi anni si è sostituito alla politica.
Il nuovo asse etiopico-ugandese sta assumendo un ruolo determinante negli equilibri regionali, ma se il suo fulcro continuerà a reggersi in modo esclusivo sulla sicurezza, l’impressione è che difficilmente possa essere risolutivo delle crisi che continuano ad attraversare il Corno d’Africa.
di Matteo Guglielmo (dottore in Sistemi Politici dell’Africa all’Università degli studi “L’Orientale” di Napoli)
Il 9 luglio è nato il 54° stato africano. Il Sud Sudan ha dichiarato la sua indipendenza, conquistata dopo vent’anni anni di lotta di liberazione e ufficializzata dal referendum popolare tenutosi lo scorso gennaio, ma i cui esiti erano già largamente prevedibili. Dopo l’Eritrea, il Sud Sudan è il secondo stato dell’Africa sub-sahariana, e in particolare del Corno d’Africa, ad aver compiuto una secessione in deroga ai principi di conservazione dei confini ereditati dal periodo coloniale sanciti nel 1964 dall’Organizzazione per l’unità africana, oggi Unione Africana (Ua).
Come sottolineano diversi analisti, non sarà di certo l’indipendenza a sciogliere alcuni nodi che caratterizzano e continuano a mettere a dura prova la stabilità dell’area. Su tutti vi è la demarcazione confinaria legata alla provincia di Abyei, con le sue riserve petrolifere e dunque preziosa sia per il governo di Khartoum che per quello di Juba. Anche se molti restano scettici sull’effettiva ricchezza dei pozzi di Abyei, il 21 maggio scorso le forze armate sudanesi acquisivano il controllo della città, causando la fuga di migliaia di persone e portando i due paesi sull’orlo della guerra.
La crisi di Abyei è parzialmente rientrata a fine giugno, quando ad Addis Abeba i due governi hanno siglato un accordo quadro che, oltre a sancire un’intesa militare sulla provincia contesa, sarebbe stato seguito da un altro, riguardante il Kordofan meridionale e il Nilo Azzurro, due regioni ufficialmente sotto Khartoum, ma che al pari del Sud Sudan si erano distinte per l’opposizione militare al governo sudanese.
Gli accordi di Addis Abeba, pur restando confinati in un ambito militare e scaturiti dall’attività di mediazione di un High level implementation panel dell’Unione africana (Auhlip) presieduto dal presidente sudafricano Thabo Mbeki, testimoniano il ruolo centrale dell’Etiopia all’interno dei sistemi di potere e di leadership regionale. Come sancito dagli accordi, Addis Abeba ha da pochi giorni ultimato un primo dispiegamento di una forza di peace-keeping che conterà circa 4200 caschi blu, anche se il numero potrebbe nei prossimi mesi salire a 7mila.
La missione, denominata United nations interim security force for Abyei (Unifsa), è stata approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu attraverso la risoluzione 1990 del 27 giugno, e avrà il compito di monitorare il ritiro delle forze armate sudanesi in modo da smilitarizzare completamente l’area consentendo la protezione dei civili e - come sancito dal testo - delle infrastrutture petrolifere presenti in loco.
La proposta di risoluzione è stata avanzata dagli Stati Uniti, che attraverso il loro rappresentante alle Nazioni unite Susan Rice hanno espresso piena soddisfazione non solo per l’approvazione in Consiglio di Sicurezza, ma anche per la disponibilità delle forze etiopiche. Secondo alcuni analisti, l’Etiopia dovrebbe garantire solidità e professionalità alla missione, data l’esperienza del suo personale militare e la conoscenza del territorio.
Nonostante la risoluzione Onu e il ruolo centrale giocato dall’Etiopia, le misure intraprese restano per ora confinate all'ambito militare. Aspettando che il successo dei negoziati possa tradursi anche in un processo di normalizzazione politica, il caso sudanese rappresenta un’ulteriore conferma di vecchi e nuovi equilibri di potere la cui strutturazione rischia di incrementare altre tensioni legate alla regione del Corno d’Africa.
Oltre all’Etiopia infatti, un attore che ha saputo guadagnarsi la stima della comunità internazionale è l’Uganda di Yoweri Museveni. Dal 2007 il paese è il maggior contributor in termini di personale militare di Amisom, la missione di peace-support dell’Unione africana in Somalia, e di cui gli Stati Uniti restano il primo finanziatore. Ad oggi Amisom è composta da circa 9mila caschi verdi, in gran parte provenienti dall’Uganda.
Il 26 giugno il Pentagono ha stanziato una spesa aggiuntiva di 45milioni di dollari per Amisom, parte di un pacchetto di 145milioni riservati a varie operazioni su cui il Dipartimento per la Difesa attende a breve un’approvazione da parte del Congresso. Kampala riceverà altri aiuti (poco più di 4milioni) in equipaggiamento militare, mentre è possibile quantificare il totale del finanziamento statunitense all’Uganda e al Burundi per Amisom in una cifra non lontana dai 185milioni di dollari.
Grazie al contributo per Amisom, l’Uganda ha potuto maturare in Somalia anche ambizioni politiche. Ne è prova il ruolo giocato dal presidente Museveni negli accordi di Kampala del 9 giugno, volti a ricucire la frattura tra il presidente somalo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed e lo speaker del parlamento Sharif Hassan Sheikh Aden. Nonostante la sostanza di tali accordi rimanga piuttosto controversa, soprattutto per i sostenitori dell’ex primo ministro Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmaajo” costretto a dimettersi, l’Uganda sembra aver allargato il proprio ambito di azione oltre il ruolo prettamente tecnico-militare, massimizzando i guadagni in termini sia economici sia politici.
L’asse etiopico-ugandese si pone quale nuovo fulcro del delicato balance of power del Corno d’Africa. Il sostegno degli Usa e dell'Onu tende a legittimarne l’operato su scala globale, mentre l’Unione Europea, priva di un inviato speciale, non riesce ancora ad assumere una posizione chiara e ad agire in modo più compatto e articolato.
Anche all’interno dell’Unione Africana Kampala e Addis Abeba si distinguono per un attivismo che già da tempo hanno saputo imporre all’interno dell’Inter-governmental authority on development (Igad). È proprio in quest’ambito che il nuovo sistema di alleanze mostra tuttavia le lacune più profonde. I dubbi ruotano intorno alla sostanza della leadership proposta dai due paesi, che ancora una volta risulta efficace sul piano militare e della sicurezza, ma quasi assente su quello politico-diplomatico.
Il 4 luglio scorso, la diciottesima sessione straordinaria dei capi di Stato e di governo dell’Igad rilasciava un comunicato incentrato sugli sviluppi politici in Sudan, Somalia ed Eritrea. La riunione, tenutasi proprio ad Addis Abeba e preceduta pochi giorni prima da una sessione straordinaria del Consiglio esecutivo e dei ministri dell’Igad convocata a Malabo (Guinea Equatoriale), oltre ad esprimere soddisfazione per gli esiti della mediazione dell’Auhlip riguardo la questione di Abyei, ha evidenziato un approccio più duro e militante verso la crisi somala e sul ruolo del governo eritreo nella regione.
Su quest’ultimo punto l’Igad, di cui tecnicamente Asmara sarebbe ancora un membro, ha invitato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a inasprire le sanzioni contro l’Eritrea, colpevole secondo l’Assemblea di destabilizzare il Corno d’Africa offrendo aiuto militare a vari gruppi di opposizione armata. La risposta del governo eritreo alle nuove accuse è arrivata attraverso una nota del ministero degli Esteri, in cui si tende a sottolineare ancora una volta un’eccessiva parzialità nell’operato della comunità internazionale nel Corno d’Africa, e in particolare di uno sbilanciamento verso posizioni filo-etiopiche.
Se rispetto al caso eritreo l’Igad ha preferito un approccio di scontro, anche riguardo al conflitto somalo la sua posizione non cambia. Nel comunicato restano evidenti alcune affermazioni incongrue rispetto alle dinamiche riscontrabili sul campo: i paesi membri sono invitati a proseguire nel sostenere le Istituzioni federali di transizione (Ift) nel rafforzare le amministrazioni locali di un governo il cui controllo resta però confinato ad alcuni quartieri di Mogadiscio.
Nello stesso comunicato si richiede inoltre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di incrementare un regime di embargo sui porti controllati dagli Shabaab di Chisimaio, Brava, Merca ed el-Maan, per evitare che possano arrivare nuovi rifornimenti di armi. Se la guerriglia somala si avvale costantemente degli introiti finanziari ricavati dalla gestione dei vettori portuali, questi sono anche utilizzati per altri scopi, come il rifornimento di merci e di derrate alimentari.
In un momento in cui il Corno d’Africa, e in particolare la Somalia, attraversa una delle più gravi carestie degli ultimi anni, il rafforzamento del blocco sui porti meridionali potrebbe aggravare la crisi umanitaria in atto. Se a Juba si festeggia, Mogadiscio è destinata ancora una volta a sopportare gli effetti negativi di un approccio militare che da diversi anni si è sostituito alla politica.
Il nuovo asse etiopico-ugandese sta assumendo un ruolo determinante negli equilibri regionali, ma se il suo fulcro continuerà a reggersi in modo esclusivo sulla sicurezza, l’impressione è che difficilmente possa essere risolutivo delle crisi che continuano ad attraversare il Corno d’Africa.
Friday, 15 July 2011
Il Simenon di Tremonti
Cappuccino e cornetto per la pausa dei lavori. Durante la quale il ministro dell'Economia suggerisce due letture interessanti.
di Emiliano Biaggio
Cappuccino e cornetto: il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, al termine del voto di fiducia in Aula alla Camera si concede un momento di relax facendo merenda alla buvette della Camera, accompagnato dalla collega di governo Giorgia Meloni, che offre lo spuntino al ministro. Il titolare del Tesoro vorrebbe magari allentare la tensione dopo giorni di frenetico lavoro per licenziare in tempi rapidissimi la manovra, ma i cronisti lo assediano. «Non parlo», chiarisce subito Tremonti. A questo punto Meloni lo "abbandona" al suo destino. «Buona colazione», augura Meloni mentre lascia la buvette. «Speriamo che abbia pagato...», commenta Tremonti mentre finisce di consumare. Nel frattempo, tra un sorso di cappuccino e un boccone di brioches, parla con la stampa che lo assedia. Del più e del meno, tenendo fede alla sua promessa. In fin dei conti è un momento di pausa dei lavori, un momento per non pensare alla manovra, alle inchieste su Milanese, alle tensioni nel governo, alla maggioranza in fibrillazione per il caso P4 e il voto della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera sulla richiesta di arresto del deputato del Pdl Alfonso Papa. Non si parla di attualità: il titolare del Tesoro si sofferma sua passione per Simenon, ma non per il suo famoso ispettore Maigret. Tre camere a Manhattan e Il presidente le opere lette e citate da Tremonti.
Il primo è una storia sull'amour fou per una donna non più giovane e fresca, ma seducente. Il secondo titolo, più politico, narra la storia di un uomo che è stato molto potente per tanti anni fino a sfiorare la carica di presidente della Repubblica. Il presidente è la storia di un politico vecchio e malato che si è ritirato in Normandia dopo la caduta del suo ultimo governo. E' un uomo strettamente sorvegliato e alla fine della vita, ma che tiene in pugno il fedele amico di una volta che sta per diventare premier. Lo tiene in pugno perchè possiede documenti compromettenti su di lui. Questa è solo letteratura: ogni somiglianza alle vicende della politica italiana è del tutto casuale.
di Emiliano Biaggio
Cappuccino e cornetto: il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, al termine del voto di fiducia in Aula alla Camera si concede un momento di relax facendo merenda alla buvette della Camera, accompagnato dalla collega di governo Giorgia Meloni, che offre lo spuntino al ministro. Il titolare del Tesoro vorrebbe magari allentare la tensione dopo giorni di frenetico lavoro per licenziare in tempi rapidissimi la manovra, ma i cronisti lo assediano. «Non parlo», chiarisce subito Tremonti. A questo punto Meloni lo "abbandona" al suo destino. «Buona colazione», augura Meloni mentre lascia la buvette. «Speriamo che abbia pagato...», commenta Tremonti mentre finisce di consumare. Nel frattempo, tra un sorso di cappuccino e un boccone di brioches, parla con la stampa che lo assedia. Del più e del meno, tenendo fede alla sua promessa. In fin dei conti è un momento di pausa dei lavori, un momento per non pensare alla manovra, alle inchieste su Milanese, alle tensioni nel governo, alla maggioranza in fibrillazione per il caso P4 e il voto della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera sulla richiesta di arresto del deputato del Pdl Alfonso Papa. Non si parla di attualità: il titolare del Tesoro si sofferma sua passione per Simenon, ma non per il suo famoso ispettore Maigret. Tre camere a Manhattan e Il presidente le opere lette e citate da Tremonti.
Il primo è una storia sull'amour fou per una donna non più giovane e fresca, ma seducente. Il secondo titolo, più politico, narra la storia di un uomo che è stato molto potente per tanti anni fino a sfiorare la carica di presidente della Repubblica. Il presidente è la storia di un politico vecchio e malato che si è ritirato in Normandia dopo la caduta del suo ultimo governo. E' un uomo strettamente sorvegliato e alla fine della vita, ma che tiene in pugno il fedele amico di una volta che sta per diventare premier. Lo tiene in pugno perchè possiede documenti compromettenti su di lui. Questa è solo letteratura: ogni somiglianza alle vicende della politica italiana è del tutto casuale.
Thursday, 14 July 2011
Tremonti: «La crisi si aggira per il mondo come un mutante»
Il ministro dell'Economia, dal Senato, avverte l'Europa: «C'è il dramma euro, si rischia di andare a fondo come il Titanic». E ripropone l'eurobond.
di Emiliano Biaggio
«Siamo dentro a un paradosso: l'area euro è la la più ricca e la meno indebitata del mondo, ma la percezione dei mercati finanziari non riflette questa forza». Doveva intervenire per spiegare meccanismi e ragioni della manovra, e Giulio Tremonti in Aula al Senato lascia intendere senza troppi giri di parole che il testo è frutto della congiuntura economica e delle necessità che questa impone. Per l'Italia e soprattutto per l'Europa. Perchè il problema, aggiunge il ministro dell'Economia, è che «la crisi finanziaria si aggira per il mondo come un mutante, oggi ha forma della Grecia» e pone «il dramma o il dilemma dell'euro». Ma c'e' anche dell'altro: a detta di Tremonti c'è infatti «un problema di fiducia politica», e proprio per questo «la politica non deve fare piu' errori». Occore dunque agire, perchè «o si va avanti o si va a fondo», avverte Tremonti. Occorre però «una risposta comune», «una risposta europea», perchè «come per il Titanic i passeggeri di prima classe non si salvano se la nave affonda». per evitare che la barca coli a picco, il titolare del Tesoro ripropoone un'idea a lui tanto cara. «Nel 2003 proposi l'eurobond: credo che questa idea, finora poco sostenuta, sia quella giusta» per salvare euro ed Europa.
di Emiliano Biaggio
«Siamo dentro a un paradosso: l'area euro è la la più ricca e la meno indebitata del mondo, ma la percezione dei mercati finanziari non riflette questa forza». Doveva intervenire per spiegare meccanismi e ragioni della manovra, e Giulio Tremonti in Aula al Senato lascia intendere senza troppi giri di parole che il testo è frutto della congiuntura economica e delle necessità che questa impone. Per l'Italia e soprattutto per l'Europa. Perchè il problema, aggiunge il ministro dell'Economia, è che «la crisi finanziaria si aggira per il mondo come un mutante, oggi ha forma della Grecia» e pone «il dramma o il dilemma dell'euro». Ma c'e' anche dell'altro: a detta di Tremonti c'è infatti «un problema di fiducia politica», e proprio per questo «la politica non deve fare piu' errori». Occore dunque agire, perchè «o si va avanti o si va a fondo», avverte Tremonti. Occorre però «una risposta comune», «una risposta europea», perchè «come per il Titanic i passeggeri di prima classe non si salvano se la nave affonda». per evitare che la barca coli a picco, il titolare del Tesoro ripropoone un'idea a lui tanto cara. «Nel 2003 proposi l'eurobond: credo che questa idea, finora poco sostenuta, sia quella giusta» per salvare euro ed Europa.
Manovra, al Senato scoppia il "caso forfettone"
La maggioranza rivede il testo licenziato dalla commissione e su cui il Governo chiede (e ottiene) la fiducia. Ma il Pd attacca Tremonti: così c'è un rischio di copertura finanziaria.
di Emiliano Biaggio
Una modifica all'ultimo momento crea un caso in Aula al Senato, e innesca una polemica tra il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ed il capogruppo Pd in commissione Bilancio di palazzo Madama, Enrico Morando. Ma soprattutto mette in evidenza un problema di coperture finanziarie. E' l'ultimo colpo di scena che regala la manovra, dopo la lite sugli ordini professionali. L'incidente si verifica in Assemblea e si trascina anche dopo il voto alla fiducia, ma è ancor prima che tutto ha inizio, nel periodo di sospensione dei lavori dell'Aula per permettere la messa a punto del maxiemendamento su cui chiedere la fiducia. Al rientro in Aula la sorpresa. «Il testo licenziato dalla commissione ha subito delle variazioni», esordisce Antonio Azzollini, presidente della commissione Bilancio del Senato. Una novità che lascia «perplesso» il presidente dei senatori dell'Idv, Felice Belisario e che costringe il presidente del Senato, Renato Schifani, a rassicurare. «Resto vigile», dice subito la seconda carica dello Stato. «C'è una scopertura finanziaria», denuncia a stretto giro Enrico Morando, capogruppo Pd in commissione Bilancio di palazzo Madama.
E' proprio il senatore del Pd a svelare cosa è cambiato rispetto al testo della commissione: sono state introdotte modifiche al cosiddetto "forfettone" per i giovani che avviano nuove attività. E' successo questo, spiega a critica Morando: la versione originale stabiliva l'istituzione di un regime fiscale speciale con aliquota al 5% da applicare per l'anno d'imposta di inizio attivita' e per i quattro anni successivi. La modifica apportata stabilisce che tale regime si applica anche oltre i quattro anno successivi. Ma «non si dice per quanto tempo», lamenta. E soprattutto la modifica introdotta, «è scoperta». La questione sembra finire qui: si esauriscono infatti gli interventi per le dichiarazioni di voto senza che nessuno torni sul problema, ma Giulio Tremonti chiede inaspettatamente di poter replicare a Morando e Schifani gli dà la parola. «Lei pone un caso che non ha la consuistenza materiale che lei ha presentato», replica. «Capisca quanto ingiusto sarebbe eliminare quella norma e quanto giusta sarebbe invece per l'economia». Che vuole dire il titolare del Tesoro? «Ha cercato di dire, per me con scarso successo, che riconosce che il problema c'è ma non è poi così grave», continua Mordanodo al termine del voto e dopo aver già lasciato palazzo Madama. «Il problema c'è ed è inequivocabile", accusa quindi il senatore del Pd. «Come si fa a dire che questa modifica non porta una problema di copertura?». La verità, conclude Morando, è che «il ministro non sapeva cosa dire».
di Emiliano Biaggio
Una modifica all'ultimo momento crea un caso in Aula al Senato, e innesca una polemica tra il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ed il capogruppo Pd in commissione Bilancio di palazzo Madama, Enrico Morando. Ma soprattutto mette in evidenza un problema di coperture finanziarie. E' l'ultimo colpo di scena che regala la manovra, dopo la lite sugli ordini professionali. L'incidente si verifica in Assemblea e si trascina anche dopo il voto alla fiducia, ma è ancor prima che tutto ha inizio, nel periodo di sospensione dei lavori dell'Aula per permettere la messa a punto del maxiemendamento su cui chiedere la fiducia. Al rientro in Aula la sorpresa. «Il testo licenziato dalla commissione ha subito delle variazioni», esordisce Antonio Azzollini, presidente della commissione Bilancio del Senato. Una novità che lascia «perplesso» il presidente dei senatori dell'Idv, Felice Belisario e che costringe il presidente del Senato, Renato Schifani, a rassicurare. «Resto vigile», dice subito la seconda carica dello Stato. «C'è una scopertura finanziaria», denuncia a stretto giro Enrico Morando, capogruppo Pd in commissione Bilancio di palazzo Madama.
E' proprio il senatore del Pd a svelare cosa è cambiato rispetto al testo della commissione: sono state introdotte modifiche al cosiddetto "forfettone" per i giovani che avviano nuove attività. E' successo questo, spiega a critica Morando: la versione originale stabiliva l'istituzione di un regime fiscale speciale con aliquota al 5% da applicare per l'anno d'imposta di inizio attivita' e per i quattro anni successivi. La modifica apportata stabilisce che tale regime si applica anche oltre i quattro anno successivi. Ma «non si dice per quanto tempo», lamenta. E soprattutto la modifica introdotta, «è scoperta». La questione sembra finire qui: si esauriscono infatti gli interventi per le dichiarazioni di voto senza che nessuno torni sul problema, ma Giulio Tremonti chiede inaspettatamente di poter replicare a Morando e Schifani gli dà la parola. «Lei pone un caso che non ha la consuistenza materiale che lei ha presentato», replica. «Capisca quanto ingiusto sarebbe eliminare quella norma e quanto giusta sarebbe invece per l'economia». Che vuole dire il titolare del Tesoro? «Ha cercato di dire, per me con scarso successo, che riconosce che il problema c'è ma non è poi così grave», continua Mordanodo al termine del voto e dopo aver già lasciato palazzo Madama. «Il problema c'è ed è inequivocabile", accusa quindi il senatore del Pd. «Come si fa a dire che questa modifica non porta una problema di copertura?». La verità, conclude Morando, è che «il ministro non sapeva cosa dire».
Wednesday, 13 July 2011
Artico, la Russia all'Onu: rivedere i confini
Mosca accelera nella corsa alle risorse sotto i ghiacci del Polo, Canada e Danimarca rivendicano i territori per sè.
di Emiliano Biaggio
La Russia avanza. Complici lo scioglimento dei ghiacci e le ricchezze naturali censite nel sottosuolo artico, il gigante euroasiatico intende espandersi sempre più verso nord. Con tanto di annuncia ufficiale. Il governo di Mosca ha infatti annunciato che il prossimo anno presenterà una richiesta formale alle Nazioni Unite per ridefinire la mappa dell'Artico, espandendo i propri confini sul territorio ricco di risorse naturali. Era il marzo del 2009 quando la stessa Russia minacciava il ricorso alla forza e alle armi per accaparrarsi il polo nord con le sue risorse. Secondo il Geological Survey americano, il fondale artico dovrebbe contenere 90 miliardi di barili di petrolio e il 30% delle risorse di gas ancora non sfruttate: nuermi da capogiro, che ben lasciano intendere gli interessi in gioco. Interessi che fanno gola alla Russia, e a tutti gli altri paesi che si affacciano sull'area: Stati Uniti, Canada e Norvegia (tutti, come la Russia, produttori di greggio ma non appartenenti all'Opec), oltre alla Danimarca, che però è presente grazie alla Groenlandia in odor di indipendenza. il governo di Copenhagen avrà dunque forti motivi per evitare l'indipendenza dell'isola, ma questa è una questione tutta danese. Sul fronte geopolitico la Russia, uno dei principali produttori al mondo di energia, ha annunciato la spesa di milioni di dollari per studi scientifici che dimostrino che la catena montuosa sottomarina - ricca di petrolio, gas naturale e depositi minerari - sia da ricondurre al territorio euroasiatico di sua competenza. A repingere le velleità russe sono principalmente Canada e Danimarca, secondo cui che la formazione geografica (conosciuta come la dorsale di Lomonosov del Mar Artico), sarebbe un'stensione geografica dei loro territori. La corsa, insomma, non si arresta. Anzi, prosegue a ritmo serrato.
di Emiliano Biaggio
La Russia avanza. Complici lo scioglimento dei ghiacci e le ricchezze naturali censite nel sottosuolo artico, il gigante euroasiatico intende espandersi sempre più verso nord. Con tanto di annuncia ufficiale. Il governo di Mosca ha infatti annunciato che il prossimo anno presenterà una richiesta formale alle Nazioni Unite per ridefinire la mappa dell'Artico, espandendo i propri confini sul territorio ricco di risorse naturali. Era il marzo del 2009 quando la stessa Russia minacciava il ricorso alla forza e alle armi per accaparrarsi il polo nord con le sue risorse. Secondo il Geological Survey americano, il fondale artico dovrebbe contenere 90 miliardi di barili di petrolio e il 30% delle risorse di gas ancora non sfruttate: nuermi da capogiro, che ben lasciano intendere gli interessi in gioco. Interessi che fanno gola alla Russia, e a tutti gli altri paesi che si affacciano sull'area: Stati Uniti, Canada e Norvegia (tutti, come la Russia, produttori di greggio ma non appartenenti all'Opec), oltre alla Danimarca, che però è presente grazie alla Groenlandia in odor di indipendenza. il governo di Copenhagen avrà dunque forti motivi per evitare l'indipendenza dell'isola, ma questa è una questione tutta danese. Sul fronte geopolitico la Russia, uno dei principali produttori al mondo di energia, ha annunciato la spesa di milioni di dollari per studi scientifici che dimostrino che la catena montuosa sottomarina - ricca di petrolio, gas naturale e depositi minerari - sia da ricondurre al territorio euroasiatico di sua competenza. A repingere le velleità russe sono principalmente Canada e Danimarca, secondo cui che la formazione geografica (conosciuta come la dorsale di Lomonosov del Mar Artico), sarebbe un'stensione geografica dei loro territori. La corsa, insomma, non si arresta. Anzi, prosegue a ritmo serrato.
Saturday, 9 July 2011
Sudan del Sud, indipendente e poco libero
Nasce il nuovo stato africano, che si svincola da Karthoum ma si accentra gli interessi di potenze vecchie e nuove. Per le risorse.
di Emiliano Biaggio
E' ufficiale: da oggi sul planisfero geopolitico c'è una nazione in più. Come da cronoprogramma il Sudan del sud è indipendente. Si tratta del 54esimo stato africano, il 193esimo delle Nazioni Unite. Grande la gioia degli oltre 8 milioni di abitanti della neo-repubblica, tutti per le strade a cantare l'inno nazionale. Caroselli, balli e celebrazioni di ogni tipo: è festa grande in tutto il paese, tra le strade di Juba - la capitale - e le piazze di ogni città sud sudanese. Soddisfazione anche dall'Onu, con il segretario generale dell'organizzazione Ban Ki-moon, presente a Juba, che promette tutta l'assistenza di cui il neo stato avrà bisogno. «Il popolo del Sudan del Sud ha realizzato un sogno», commenta Ban Ki-moon. Da adesso in poi, assicura, «l'Onu e la comunità internazionale continueranno a restare a fianco del Sud Sudan». Viene da crederci, e per due motivi: intanto perchè le Nazioni Unite hanno già dato vita alla missione Unmiss (7.000 militari e 900 civili) per accompagnare la costruzione del paese e garantire la sicurezza; in secondo luogo per contenere gli appetiti che suscita il nuovo fragile paese. E' infatti opinione diffusa tra gli esperti che gli investitori stranieri sono assai interessati allo sfruttamento delle risorse petrolifere del nuovo Stato. Dopo la divisione tra nord e sud, la maggiore parte di queste risorse si ritrova infatti proprio nel Sudan del Sud. Molti paesi già dimostrano un vivo interesse per il loro sfruttamento: solo la Cina, ad esempio, negli ultimi 15 anni ha investito nello sfruttamento del petrolio sudanese circa 20 miliardi di dollari, ed ora spera di portare avanti la cooperazione in questo campo. Analoghi interessi sono nutriti da Stati Uniti e Francia - entrambi con seggio permanente in Consiglio di sicurezza dell'Onu, proprio come la Cina - e dall'India, altra grande potenza emergente. Potenze vecchie e nuove si ritrovano dunque tutte ad orbitare attorno al nuovo stato. A loro si aggiunge la presenza ingombrante della Russia: il nuovo governo di Juba sembra infatti molto interessato allo sviluppo dei rapporti commerciali con il paese euroasiatico. Una corsa tutta occidentale che rischia di cambiare ordini ed equilibri, e non a caso Iran e Libia - paesi fortemente ostili all'occidente - hanno fin da subito manifestato aperta contrarietà alla concessione dell'indipendenza al sudan del Sud. Il nuovo stato è dunque una sfida per la democrazia, per un continente e anche per gli ordini geopolitici mondiali.
di Emiliano Biaggio
E' ufficiale: da oggi sul planisfero geopolitico c'è una nazione in più. Come da cronoprogramma il Sudan del sud è indipendente. Si tratta del 54esimo stato africano, il 193esimo delle Nazioni Unite. Grande la gioia degli oltre 8 milioni di abitanti della neo-repubblica, tutti per le strade a cantare l'inno nazionale. Caroselli, balli e celebrazioni di ogni tipo: è festa grande in tutto il paese, tra le strade di Juba - la capitale - e le piazze di ogni città sud sudanese. Soddisfazione anche dall'Onu, con il segretario generale dell'organizzazione Ban Ki-moon, presente a Juba, che promette tutta l'assistenza di cui il neo stato avrà bisogno. «Il popolo del Sudan del Sud ha realizzato un sogno», commenta Ban Ki-moon. Da adesso in poi, assicura, «l'Onu e la comunità internazionale continueranno a restare a fianco del Sud Sudan». Viene da crederci, e per due motivi: intanto perchè le Nazioni Unite hanno già dato vita alla missione Unmiss (7.000 militari e 900 civili) per accompagnare la costruzione del paese e garantire la sicurezza; in secondo luogo per contenere gli appetiti che suscita il nuovo fragile paese. E' infatti opinione diffusa tra gli esperti che gli investitori stranieri sono assai interessati allo sfruttamento delle risorse petrolifere del nuovo Stato. Dopo la divisione tra nord e sud, la maggiore parte di queste risorse si ritrova infatti proprio nel Sudan del Sud. Molti paesi già dimostrano un vivo interesse per il loro sfruttamento: solo la Cina, ad esempio, negli ultimi 15 anni ha investito nello sfruttamento del petrolio sudanese circa 20 miliardi di dollari, ed ora spera di portare avanti la cooperazione in questo campo. Analoghi interessi sono nutriti da Stati Uniti e Francia - entrambi con seggio permanente in Consiglio di sicurezza dell'Onu, proprio come la Cina - e dall'India, altra grande potenza emergente. Potenze vecchie e nuove si ritrovano dunque tutte ad orbitare attorno al nuovo stato. A loro si aggiunge la presenza ingombrante della Russia: il nuovo governo di Juba sembra infatti molto interessato allo sviluppo dei rapporti commerciali con il paese euroasiatico. Una corsa tutta occidentale che rischia di cambiare ordini ed equilibri, e non a caso Iran e Libia - paesi fortemente ostili all'occidente - hanno fin da subito manifestato aperta contrarietà alla concessione dell'indipendenza al sudan del Sud. Il nuovo stato è dunque una sfida per la democrazia, per un continente e anche per gli ordini geopolitici mondiali.
Friday, 8 July 2011
Sudan del Sud, è l'ora dell'indipendenza
Domani nasce ufficialmente il nuovo stato, già diviso sulla Costituzione. Tanto che l'Onu manda nuovi caschi blu.
di Emiliano Biaggio
Il conto alla rovescia è cominciato: il Sud Sudan da domani sarà uno stato indipendente e sovrano. Dopo il referendum che ha visto la popolazione del luogo dire sì alla separazione dal nord, il nuovo stato domani celebrerà ufficialmente la propria nascita. Capitale Juba, nessuno sbocco al mare, ma tante risorse naturali. Alcune ancora da spartire, come il petrolio nel sottosuolo dell`enclave strategica di Abyei. Questa la nuova nazione, 619.745 chilometri quadrati di estensione per poco più di 8 milioni di abitanti, in larga parte cristiani. Il Sudan del Sud si è già dotata di una Costituzione: provvisoria, ma il punto di partenza per la costruzione della repubblica, tutta da fare. Se,bra infatti che il testo non sia stato accolto con unanime favore tanto da spingere Joyce Kwaje, portavoce del parlamento, a negare che la Costituzione conceda eccessivi poteri al capo dello Stato. Il quotidiano Sudan Tribune denuncia però squilibri: stando a quanto riportato il partito di opposizione Splm-Dc lamenterebbe che la commissione incaricata di redigere la Costituzione sia stata dominata dal partito al potere e riflette le posizioni di questo. Secondo l’Splm-Dc, la Costituzione non garantirebbe quindi un sistema federale “concentrando tutti i poteri a Juba e consentendo al presidente di sostituire un governatore eletto o di sciogliere un’assemblea legislativa". Il capo dello Stato avrebbe "inoltre la prerogativa di dichiarare guerra o lo stato d’emergenza senza l’avallo del parlamento".
Tensioni e preoccupazioni crescenti alla vigilia del grande giorno che lascia inquieti i sudanesi del sud e le Nazioni Unite, tanto che l'Onu autorizzato una missione ad hoc - la Unmiss - per accompagnare la costruzione del paese e garantire la sicurezza. Forte di 7.000 militari e 900 civili, la Unmiss prende il posto della precedente missione che riguardava l’insieme dell’ormai vecchio Sudan e che aveva comunque gran parte del suo personale dislocato a sud. La nuova missione dovrà quindi aiutare il Sud Sudan sia sul piano politico che nella fornitura di servizi, nel rispetto dei diritti umani, nella gestione delle risorse e in altri aspetti dell’economia locale. Intanto una buona notizia arriva dal nord: il governo di Khartoum ha riconosciuto il nuovo Stato con un intervento del ministro degli Affari presidenziali, Bakri Hassan Saleh, alla televisione pubblica. E domani a Juba è atteso il presidente sudanese Omar El Bashir.
di Emiliano Biaggio
Il conto alla rovescia è cominciato: il Sud Sudan da domani sarà uno stato indipendente e sovrano. Dopo il referendum che ha visto la popolazione del luogo dire sì alla separazione dal nord, il nuovo stato domani celebrerà ufficialmente la propria nascita. Capitale Juba, nessuno sbocco al mare, ma tante risorse naturali. Alcune ancora da spartire, come il petrolio nel sottosuolo dell`enclave strategica di Abyei. Questa la nuova nazione, 619.745 chilometri quadrati di estensione per poco più di 8 milioni di abitanti, in larga parte cristiani. Il Sudan del Sud si è già dotata di una Costituzione: provvisoria, ma il punto di partenza per la costruzione della repubblica, tutta da fare. Se,bra infatti che il testo non sia stato accolto con unanime favore tanto da spingere Joyce Kwaje, portavoce del parlamento, a negare che la Costituzione conceda eccessivi poteri al capo dello Stato. Il quotidiano Sudan Tribune denuncia però squilibri: stando a quanto riportato il partito di opposizione Splm-Dc lamenterebbe che la commissione incaricata di redigere la Costituzione sia stata dominata dal partito al potere e riflette le posizioni di questo. Secondo l’Splm-Dc, la Costituzione non garantirebbe quindi un sistema federale “concentrando tutti i poteri a Juba e consentendo al presidente di sostituire un governatore eletto o di sciogliere un’assemblea legislativa". Il capo dello Stato avrebbe "inoltre la prerogativa di dichiarare guerra o lo stato d’emergenza senza l’avallo del parlamento".
Tensioni e preoccupazioni crescenti alla vigilia del grande giorno che lascia inquieti i sudanesi del sud e le Nazioni Unite, tanto che l'Onu autorizzato una missione ad hoc - la Unmiss - per accompagnare la costruzione del paese e garantire la sicurezza. Forte di 7.000 militari e 900 civili, la Unmiss prende il posto della precedente missione che riguardava l’insieme dell’ormai vecchio Sudan e che aveva comunque gran parte del suo personale dislocato a sud. La nuova missione dovrà quindi aiutare il Sud Sudan sia sul piano politico che nella fornitura di servizi, nel rispetto dei diritti umani, nella gestione delle risorse e in altri aspetti dell’economia locale. Intanto una buona notizia arriva dal nord: il governo di Khartoum ha riconosciuto il nuovo Stato con un intervento del ministro degli Affari presidenziali, Bakri Hassan Saleh, alla televisione pubblica. E domani a Juba è atteso il presidente sudanese Omar El Bashir.
Subscribe to:
Posts (Atom)