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Thursday, 28 February 2013
Wednesday, 27 February 2013
Il Sahara occidentale denuncia l'Ue
Il Fronte Polisario denuncia gli accordi bilaterali con il Marocco e si appella alla Corte di giustizia europea: si fanno affari con le nostre risorse.
di Emiliano Biaggio
La questione saharawi arriva al tribunale della Corte di giustizia europea, e l’Unione europea viene portata sul banco degli accusati. Il Fronte Polisario, il movimento politico e militare che si batte per l’indipendenza del Sahara occidentale, ha sollevato la questione di legittimità degli accordi commerciali tra Ue e Marocco, il Paese africano che dagli anni Settanta controlla il territorio del Sahara occidentale. Il caso è stato pubblicato sulla gazzetta ufficiale dell’Unione europea, sotto il silenzio dell’Unione europea. A render pubblico il tutto è stato lo stesso Fronte Polisario. L’organizzazione chiede di «annullare» l’accordo sottoscritto tra le istituzioni di Bruxelles e il governo di Rabat per la liberalizzazione dei prodotti agricoli e di acquacoltura marocchini. Il problema, lamenta il Fronte, è che «una larga parte della produzione agricola e ittica coperta dall’accordo avviene nel territorio occupato del Sahara occidentale».
La questione del Sahara occidentale risale al 1976. Terminato il periodo di colonizzazione spagnola, il paese autoproclamò la propria indipendenza come Repubblica araba democratica saharawi (Rads). Riconosciuta da un’ottantina di Paesi – principalmente africani e sudamericani – la Rads è membro dell’Unione africana ma non è riconosciuta dall’Onu, da nessuna nazione europea (e quindi neanche dall’Ue) né da alcuno dei principali Stati occidentali. Dal 1976 la Rasd è in realtà un territorio conteso tra il Fronte Polisario e il Marocco, che lo controlla per l’80% della sua estensione. Il governo di Rabat considera la Rasd una propria regione, e la mancata opposizione internazionale ha permesso un implicito riconoscimento "de facto" della situazione anche se ufficialmente nessun Paese ha riconosciuto l’annessione del Sahara occidentale da parte del Marocco. Dopo i violenti scontri tra le due fazioni, nel 1991 le Nazioni Unite hanno avviato la missione di Pace Minurso, per organizzare un referendum con cui far scegliere al popolo saharawi tra l’indipendenza o l’autonomia all’interno dello stato marocchino. A oggi nessun referendum è stato organizzato e la situazione resta cristallizzata.
«L’Unione europea non può continuare a ignorare il diritto internazionale e opporsi al popolo saharawi», lamenta Emhammed Khada, membro del segretariato nazionale del Fronte Polisario. «Includendo il territorio occupato del Sahara occidentale nei suoi accordi commerciali con il Marocco l’Unione europea sta minando i diritti dei saharawi e ostacolando gli sforzi dell’Onu per una risoluzione del conflitto». L’Unione europea, continua, «non ha il diritto di stipulare accordi commerciali con il Marocco su risorse che appartengono ai saharawi». Per questo, conclude Khada, «ci auguriamo che alla fine la giustizia prevalga».
di Emiliano Biaggio
La questione saharawi arriva al tribunale della Corte di giustizia europea, e l’Unione europea viene portata sul banco degli accusati. Il Fronte Polisario, il movimento politico e militare che si batte per l’indipendenza del Sahara occidentale, ha sollevato la questione di legittimità degli accordi commerciali tra Ue e Marocco, il Paese africano che dagli anni Settanta controlla il territorio del Sahara occidentale. Il caso è stato pubblicato sulla gazzetta ufficiale dell’Unione europea, sotto il silenzio dell’Unione europea. A render pubblico il tutto è stato lo stesso Fronte Polisario. L’organizzazione chiede di «annullare» l’accordo sottoscritto tra le istituzioni di Bruxelles e il governo di Rabat per la liberalizzazione dei prodotti agricoli e di acquacoltura marocchini. Il problema, lamenta il Fronte, è che «una larga parte della produzione agricola e ittica coperta dall’accordo avviene nel territorio occupato del Sahara occidentale».
La questione del Sahara occidentale risale al 1976. Terminato il periodo di colonizzazione spagnola, il paese autoproclamò la propria indipendenza come Repubblica araba democratica saharawi (Rads). Riconosciuta da un’ottantina di Paesi – principalmente africani e sudamericani – la Rads è membro dell’Unione africana ma non è riconosciuta dall’Onu, da nessuna nazione europea (e quindi neanche dall’Ue) né da alcuno dei principali Stati occidentali. Dal 1976 la Rasd è in realtà un territorio conteso tra il Fronte Polisario e il Marocco, che lo controlla per l’80% della sua estensione. Il governo di Rabat considera la Rasd una propria regione, e la mancata opposizione internazionale ha permesso un implicito riconoscimento "de facto" della situazione anche se ufficialmente nessun Paese ha riconosciuto l’annessione del Sahara occidentale da parte del Marocco. Dopo i violenti scontri tra le due fazioni, nel 1991 le Nazioni Unite hanno avviato la missione di Pace Minurso, per organizzare un referendum con cui far scegliere al popolo saharawi tra l’indipendenza o l’autonomia all’interno dello stato marocchino. A oggi nessun referendum è stato organizzato e la situazione resta cristallizzata.
«L’Unione europea non può continuare a ignorare il diritto internazionale e opporsi al popolo saharawi», lamenta Emhammed Khada, membro del segretariato nazionale del Fronte Polisario. «Includendo il territorio occupato del Sahara occidentale nei suoi accordi commerciali con il Marocco l’Unione europea sta minando i diritti dei saharawi e ostacolando gli sforzi dell’Onu per una risoluzione del conflitto». L’Unione europea, continua, «non ha il diritto di stipulare accordi commerciali con il Marocco su risorse che appartengono ai saharawi». Per questo, conclude Khada, «ci auguriamo che alla fine la giustizia prevalga».
Tuesday, 26 February 2013
Vincono Berlusconi, Razzi e Scilipoti
Gli italiani non negano il sostegno al cavaliere, e premiano chi lo salvò da Fini.
di Emiliano Biaggio
Ancora una volta ha vinto Berlusconi. Nell'Italia che cambia ancora una volta fisionomia partitica e composizione politica, il re indiscusso ma discusso dell'ultimo ventennio - ebbene sì, ventennio! - ha vinto ancora una volta. Non solo perchè ha compiuto una rimonta da capogiro nei sondaggi e nei consensi arrivando ben oltre il previsto e quasi a contendere il primato al Pd, ma soprattutto perchè ha saputo disfarsi ancora una volta dei suoi nemici. Se nel 2008 a uscire dal Parlamento furono i comunisti di Rifondazione e Pdci, questa volta l'ondata elettorale ha spazzato via Fini e i finiani, quelli che avevano aperto lo strappo interno al Pdl cambiando le sorti della legislatura tentando anche - ma invano - di porvi fine. Un atto considerato come un vero e proprio tradimento, oggi reso per Berlusconi più dolce per la scomparsa politica di Fli, di Fini e dei suoi fedelissimi. Alla fine il belusconismo paga. Lo sa bene Antonio Razzi, l'ex deputato dipietrista fuoriuscito dall'Idv all'ultimo momento per andare a ingrossare le fila del cavaliere e salvarlo dalla caduta da governo. Gli abruzzesi lo hanno fatto uscire dalle circoscrizioni dell'Abruzzo e dunque Razzi continuerà il suo "cursus honorum" (lo diciamo in latino, perchè sia sottolineata l'onorabilità del senatore) a palazzo Madama, assieme al suo compagno di avventure Domenico Scilipoti, anche lui premiato da cavaliere e fidi vassalli. L'altro grande fuoriuscito dall'Idv è stato tra i più scelti dagli elettori calabresi del Pdl, e quindi anche per Scilipoti il "cursus honorum" prosegue (anche per lui spendiamo il latino, per gli stessi motivi). «Prima gli interessi del paese, poi quelli di bandiera», il commento del diretto interessato. Se lo dice Scilipoti c'è da crederci. Gli italiani lo hanno capito, rinnovando fiducia (non la stessa, a dir la verità) ai soliti noti. Sì, ha vinto Grillo. Ma sicuri che Berlusconi abbia perso?
Domenico Scilipoti (a sinistra) e Antonio Razzi |
Ancora una volta ha vinto Berlusconi. Nell'Italia che cambia ancora una volta fisionomia partitica e composizione politica, il re indiscusso ma discusso dell'ultimo ventennio - ebbene sì, ventennio! - ha vinto ancora una volta. Non solo perchè ha compiuto una rimonta da capogiro nei sondaggi e nei consensi arrivando ben oltre il previsto e quasi a contendere il primato al Pd, ma soprattutto perchè ha saputo disfarsi ancora una volta dei suoi nemici. Se nel 2008 a uscire dal Parlamento furono i comunisti di Rifondazione e Pdci, questa volta l'ondata elettorale ha spazzato via Fini e i finiani, quelli che avevano aperto lo strappo interno al Pdl cambiando le sorti della legislatura tentando anche - ma invano - di porvi fine. Un atto considerato come un vero e proprio tradimento, oggi reso per Berlusconi più dolce per la scomparsa politica di Fli, di Fini e dei suoi fedelissimi. Alla fine il belusconismo paga. Lo sa bene Antonio Razzi, l'ex deputato dipietrista fuoriuscito dall'Idv all'ultimo momento per andare a ingrossare le fila del cavaliere e salvarlo dalla caduta da governo. Gli abruzzesi lo hanno fatto uscire dalle circoscrizioni dell'Abruzzo e dunque Razzi continuerà il suo "cursus honorum" (lo diciamo in latino, perchè sia sottolineata l'onorabilità del senatore) a palazzo Madama, assieme al suo compagno di avventure Domenico Scilipoti, anche lui premiato da cavaliere e fidi vassalli. L'altro grande fuoriuscito dall'Idv è stato tra i più scelti dagli elettori calabresi del Pdl, e quindi anche per Scilipoti il "cursus honorum" prosegue (anche per lui spendiamo il latino, per gli stessi motivi). «Prima gli interessi del paese, poi quelli di bandiera», il commento del diretto interessato. Se lo dice Scilipoti c'è da crederci. Gli italiani lo hanno capito, rinnovando fiducia (non la stessa, a dir la verità) ai soliti noti. Sì, ha vinto Grillo. Ma sicuri che Berlusconi abbia perso?
La storia che si ripete
L'Italia degli indecisi opta per la non politica e la non governabilità. Tra la complicità dei partiti tradizionali e la miopia degli stessi elettori.
l'e-dittoreale
L'Italia si è espressa e ha scelto. Ancora una volta gli italiani mostrano una volontà popolare votata (e votante) alla figura del duce. Che si chiami Mussolini, Berlusconi o Grillo, non fa differenza. Per l'italiano qualunque - quello a cui il fascismo prometteva grandezza, quello a cui il berlusconismo ha promesso un milione di posti di lavoro, crescita, ricchezza, restituzione di fortune, abolizione di Ici e poi di Imu, quello a cui Grillo promette di mandare tutti a casa e non si capisce cosa - ecco, per l'italiano qualunque il fascino del primo imbonitore di piazze pronto a urlare e promettere non perde mai appeal. Il fatto che "fascino" e "fascismo" siano termini molto simili a scriversi può essere un caso, ma il risultato elettorale no. Berlusconi ha promesso la restituzione dell'Imu, e gli italiani gli hanno creduto come sempre hanno fatto negli ultimi anni. Soprende la credulonità di un italiano ancora disposto a credere alle realtà virtuali e iperboliche di una persona che in quindici anni ha fatto parlare di sè solo per i suoi scandali, le sue leggi "ad personam" e la sua squadra di calcio che per il resto. Grillo ha promesso cambiamento nel modo più embrional-fascista possibile: il Movimento 5 stelle non sarà nè di destra nè di sinistra (perchè «destra e sinistra sono uguali», parole sue), non sarà europeista, non sarà nè con Pd nè con il Pdl. Nel 1921 Benito Mussolini presentava così il suo movimento (termine che oggi designa la realtà grillina). «Il Fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa si propone? Lo diciamo senza false modestie: governare la Nazione. Con quale programma? Col programma necessario ad assicurare la grandezza morale e materiale del popolo italiano. Parliamo schietto: non importa se il nostro programma concreto, non è antitetico ed è piuttosto convergente con quello dei socialisti, per tutto ciò che riguarda la riorganizzazione tecnica, amministrativa e politica del nostro Paese. Noi agitiamo dei valori morali e tradizionali che il socialismo trascura o disprezza, ma soprattutto lo spirito fascista rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro». Mussolini non definì nè chiarì cosa intendesse fare il suo movimento: Grillo agisce forse diversamente? Ha tagliato gli stipendi in Sicilia, un gesto per gli italiani grande quanto il contratto firmato da Berlusconi nel 2001. Abile mossa per conquistare gli indecisi, gli scontenti, i citrulli. Ma quando lo si incalza su programmi, proposte, idee, questioni personali e di partito, il comico non risponde alle domande, minaccia di ridimensionare la stampa e le sue libertà. Molti di questi tratti accomunano Mussolini, Berlusconi e Grillo. Ultimi fra tutti l'essere nati dal qualunquistico brodo primordiale dell'anti-politica e dall'ottenere in dichiarato consenso. Maestri, cavalieri e comici vengono portati in trionfo mentre la sinistra si isola sul suo Aventino di illusioni (è l'immagine del Pd che già proclamava vittorie prime ancora delle elezioni) e tutti gli altri si servono dell'Italia per i propri tornaconti locali (è l'immagine di una Lega che continua a pensare al nord e alla macro-regione). Non sorprende, dunque, l'ultimo dato elettorale di un paese già storicamente e tradizionalmente di destra, un paese dove - è giusto ricordarlo - il fascismo è stato sconfitto politicamente, ma non culturalmente. Oggi l'Italia lo dimostra, consegnando sè stessa all'ultimo passante in grado di catalizzare le frustrazioni di un popolo stanco e malleabile non in grado di capire veramente dove certe scelte rischiano di portare. Il governo ancora non è stato nominato e già si scommette sulla sua durata. Semmai si dovesse tornare alle urne speriamo solo che si voti a Natale: qualora Babbo Natale dovesse decidere anche lui di scendere in campo, in Italia avrebbe quanto meno il 25% dei voti assicurato. Quanto basta per portare tutte le sue renne in parlamento e gli italiani a trainare la slitta.
l'e-dittoreale
L'Italia si è espressa e ha scelto. Ancora una volta gli italiani mostrano una volontà popolare votata (e votante) alla figura del duce. Che si chiami Mussolini, Berlusconi o Grillo, non fa differenza. Per l'italiano qualunque - quello a cui il fascismo prometteva grandezza, quello a cui il berlusconismo ha promesso un milione di posti di lavoro, crescita, ricchezza, restituzione di fortune, abolizione di Ici e poi di Imu, quello a cui Grillo promette di mandare tutti a casa e non si capisce cosa - ecco, per l'italiano qualunque il fascino del primo imbonitore di piazze pronto a urlare e promettere non perde mai appeal. Il fatto che "fascino" e "fascismo" siano termini molto simili a scriversi può essere un caso, ma il risultato elettorale no. Berlusconi ha promesso la restituzione dell'Imu, e gli italiani gli hanno creduto come sempre hanno fatto negli ultimi anni. Soprende la credulonità di un italiano ancora disposto a credere alle realtà virtuali e iperboliche di una persona che in quindici anni ha fatto parlare di sè solo per i suoi scandali, le sue leggi "ad personam" e la sua squadra di calcio che per il resto. Grillo ha promesso cambiamento nel modo più embrional-fascista possibile: il Movimento 5 stelle non sarà nè di destra nè di sinistra (perchè «destra e sinistra sono uguali», parole sue), non sarà europeista, non sarà nè con Pd nè con il Pdl. Nel 1921 Benito Mussolini presentava così il suo movimento (termine che oggi designa la realtà grillina). «Il Fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa si propone? Lo diciamo senza false modestie: governare la Nazione. Con quale programma? Col programma necessario ad assicurare la grandezza morale e materiale del popolo italiano. Parliamo schietto: non importa se il nostro programma concreto, non è antitetico ed è piuttosto convergente con quello dei socialisti, per tutto ciò che riguarda la riorganizzazione tecnica, amministrativa e politica del nostro Paese. Noi agitiamo dei valori morali e tradizionali che il socialismo trascura o disprezza, ma soprattutto lo spirito fascista rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro». Mussolini non definì nè chiarì cosa intendesse fare il suo movimento: Grillo agisce forse diversamente? Ha tagliato gli stipendi in Sicilia, un gesto per gli italiani grande quanto il contratto firmato da Berlusconi nel 2001. Abile mossa per conquistare gli indecisi, gli scontenti, i citrulli. Ma quando lo si incalza su programmi, proposte, idee, questioni personali e di partito, il comico non risponde alle domande, minaccia di ridimensionare la stampa e le sue libertà. Molti di questi tratti accomunano Mussolini, Berlusconi e Grillo. Ultimi fra tutti l'essere nati dal qualunquistico brodo primordiale dell'anti-politica e dall'ottenere in dichiarato consenso. Maestri, cavalieri e comici vengono portati in trionfo mentre la sinistra si isola sul suo Aventino di illusioni (è l'immagine del Pd che già proclamava vittorie prime ancora delle elezioni) e tutti gli altri si servono dell'Italia per i propri tornaconti locali (è l'immagine di una Lega che continua a pensare al nord e alla macro-regione). Non sorprende, dunque, l'ultimo dato elettorale di un paese già storicamente e tradizionalmente di destra, un paese dove - è giusto ricordarlo - il fascismo è stato sconfitto politicamente, ma non culturalmente. Oggi l'Italia lo dimostra, consegnando sè stessa all'ultimo passante in grado di catalizzare le frustrazioni di un popolo stanco e malleabile non in grado di capire veramente dove certe scelte rischiano di portare. Il governo ancora non è stato nominato e già si scommette sulla sua durata. Semmai si dovesse tornare alle urne speriamo solo che si voti a Natale: qualora Babbo Natale dovesse decidere anche lui di scendere in campo, in Italia avrebbe quanto meno il 25% dei voti assicurato. Quanto basta per portare tutte le sue renne in parlamento e gli italiani a trainare la slitta.
Friday, 22 February 2013
bLOGBOOK
Fa freddo, come tradizione prevede. L'aria è sempre gelida e carica di vento, e timidi fiocchi di neve scendono a spingere i passanti al caldo dei locali. Le strade sono insolitamente deserte per essere l'inizio del fine settimana. In compenso la città è uno scintillio di luci e colori. Le mille vetrate dei caffè e dei ristoranti proiettano l'illuminazione degli interni con le sagome e i volti di chi vive la vita nella sicurezza di una prigione di vetro e nella comodità dei comodi divanetti che offre la casa; le insegne cariche di neon o messe in risalto da poderosi faretti pongono il centro sotto la luce dei riflettori, mentre le vie fanno bella mostra di sè con le vetrine accese di negozi ormai chiusi. Nella grande piazza si affacciano solo gli imponenti edifici in stile gotico, tra l'indifferenza dei passanti e la curiosità dei pochi turisti presenti. E' monumentale e sconfinata nella sua fredda accoglienza: priva di luci e bancarelle, c'è solo chi l'attraversa a renderla viva. I locali che la lambiscono, la lasciano fuori delle porte ben serrate. Persino il vecchio venditore di acquarelli è scomparso, lui che espone da sempre i suoi colori racchiusi su foglio. Le giovani coppie passano veloci e silenziose per la zona pedonale riservata a pochi intimi, mentre un suonatore di violino vende la sua dolce melodia al miglior offerente. Se non fosse per lui sarebbe quasi difficile cogliere la differenza tra l'inizio della sera e la fine della notte fatta di incontri, feste e divertimenti, in questa città preda della notte. La galleria dello shopping e dei bistrot è ormai un'opera dechirichiana in eredità al domani lontano poche ore, e i giardini di Mont des arts sono per i fidanzatini che scaldano con il fuoco delle loro prime passioni le siepi imperlate dalla prima brina notturna. Fuori dall'area preclusa alle futuristiche conquiste della scienza e della tecnica, è sordo e pigro il risuonare delle automobili, mentre i tram, in silenzio passaggio, solcano la città con precisa puntualità. Dai finestrini scorre un mondo come avvolto in un telo di misterioso abbandono, poggiato sull'aspettativa di una primavera forse mai così desiderata. Per la via della moda donne racchiuse in multicromaitici cappelli di lana e imbottite giacche di stagione, contemplano gli individui senza volto lasciati nelle vetrine a mostrare gli abiti già pronti per il bel tempo. Peccato che faccia freddo, come tradizione vuole. Timidi fiocchi di neve tornano per un istante da chissà dove per la gioia dei bimbi, i solo a emozionarsi per la semplicità. Il tram continua nella sua silenziosa corsa verso le appendici urbane, mentre il vento oltraggia il viso con dolorosa insistenza. Ma è questioni di poco, quanto basta per far scattare la serratura e sparire dietro la porta.
Nel 2014 l'Italia non lascerà l'Afghanistan
Il ministro della Difesa: parte delle truppe rimarrà con compiti di supporto. E sulle richieste di tagliare gli F35 dice: Non va dimenticato quanto è stato già deciso.
di Camilla Tagino (per Eunews)
La crisi economica continua, ma i “cattivi” non vanno in vacanza. Dunque mentre la Nato insiste che si smetta di tagliare i fondi per la difesa, l’Italia conferma il suo impegno in Afghanistan, anche oltre il 2014.
Anders Fogh Rasmussen, Segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ha aperto il Consiglio dei ministri della difesa che si è tenuto a Bruxelles mettendo le mani avanti. Si è, dapprima, mostrato comprensivo nei confronti dei paesi che sono stati costretti a riduzioni di budget, ma ha poi aggiunto che, se si continua così, “avremo delle conseguenze negative sulle capacità di difesa dei nostri popoli”. Così, preoccupato per la futura sicurezza dei paesi alleati, ha loro proposto una soluzione in tre passi: prima fermare i tagli, poi utilizzare i fondi disponibili in modo più efficiente attraverso la cooperazione multilaterale, ed, infine, impegnarsi ad aumentare le spese per la difesa non appena le loro economie lo consentiranno. Un discorso che rientra nella logica della Smart Defence, adottata durante l’ultimo vertice di Chicago: collaborare per utilizzare al meglio i limitati mezzi a disposizione.
L’Italia condivide a pieno questa linea del risparmio intelligente, lo stesso Ministro per la Difesa Giampaolo Di Paola ha detto, a margine del Consiglio, che “con le risorse che si hanno bisogna produrre capacità vere”. Tra queste risorse a disposizione rientrano anche i bombardieri F35, finiti sul tavolo della campagna elettorale. L’Italia è uno dei grandi paesi dell’Alleanza in Europa e, in quanto tale, le sono richieste delle capacità militari adeguate, tra cui gli F35, “il governo ha già fatto una riduzione molto importante – ha ricordato il Ministro – non si può dimenticare quello che si fa prima e ricominciare da capo”.
Tra gli impegni che richiederanno ulteriori sforzi economici resta anche quello per la missione in Afghanistan. Durante il Consiglio è stato discusso il processo di transizione ancora in corso. Le truppe Isaf stanno ora lasciando la difesa del paese in mano alle forze nazionali afghane: un processo cominciato nel marzo 2011 e che è, ormai, entrato nell’ultima fase. Il termine è annunciato per la fine del 2014, ma per quella data non è previsto un totale abbandono del territorio. “I cattivi ci sono ancora” ha detto il Ministro per la Difesa. L’Italia lascerà, dunque, degli addestratori in supporto alla popolazione afghana, sui numeri e la consistenza delle forze italiane starà, però, al nuovo governo decidere.
Un soldato italiano in Afghanistan |
La crisi economica continua, ma i “cattivi” non vanno in vacanza. Dunque mentre la Nato insiste che si smetta di tagliare i fondi per la difesa, l’Italia conferma il suo impegno in Afghanistan, anche oltre il 2014.
Anders Fogh Rasmussen, Segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ha aperto il Consiglio dei ministri della difesa che si è tenuto a Bruxelles mettendo le mani avanti. Si è, dapprima, mostrato comprensivo nei confronti dei paesi che sono stati costretti a riduzioni di budget, ma ha poi aggiunto che, se si continua così, “avremo delle conseguenze negative sulle capacità di difesa dei nostri popoli”. Così, preoccupato per la futura sicurezza dei paesi alleati, ha loro proposto una soluzione in tre passi: prima fermare i tagli, poi utilizzare i fondi disponibili in modo più efficiente attraverso la cooperazione multilaterale, ed, infine, impegnarsi ad aumentare le spese per la difesa non appena le loro economie lo consentiranno. Un discorso che rientra nella logica della Smart Defence, adottata durante l’ultimo vertice di Chicago: collaborare per utilizzare al meglio i limitati mezzi a disposizione.
L’Italia condivide a pieno questa linea del risparmio intelligente, lo stesso Ministro per la Difesa Giampaolo Di Paola ha detto, a margine del Consiglio, che “con le risorse che si hanno bisogna produrre capacità vere”. Tra queste risorse a disposizione rientrano anche i bombardieri F35, finiti sul tavolo della campagna elettorale. L’Italia è uno dei grandi paesi dell’Alleanza in Europa e, in quanto tale, le sono richieste delle capacità militari adeguate, tra cui gli F35, “il governo ha già fatto una riduzione molto importante – ha ricordato il Ministro – non si può dimenticare quello che si fa prima e ricominciare da capo”.
Tra gli impegni che richiederanno ulteriori sforzi economici resta anche quello per la missione in Afghanistan. Durante il Consiglio è stato discusso il processo di transizione ancora in corso. Le truppe Isaf stanno ora lasciando la difesa del paese in mano alle forze nazionali afghane: un processo cominciato nel marzo 2011 e che è, ormai, entrato nell’ultima fase. Il termine è annunciato per la fine del 2014, ma per quella data non è previsto un totale abbandono del territorio. “I cattivi ci sono ancora” ha detto il Ministro per la Difesa. L’Italia lascerà, dunque, degli addestratori in supporto alla popolazione afghana, sui numeri e la consistenza delle forze italiane starà, però, al nuovo governo decidere.
Tuesday, 19 February 2013
Nagorno Karabakh, il conflitto silenzioso
La disputa geopolita risale agli inizi XIX secolo, e ancora non si risolve. Una guerra, da molti ignorata in occidente, non è bastata a porre la parola fine.
di Emiliano Biaggio
Si trascina praticamente da sempre, nel silenzio e nell'ignoranza, ma il conflitto del Nagorno Karabakh parte da lontano e ancora non trova una conclusione. Ufficialmente è una regione caucasica tra Armenia e Azerbaijan, de facto è una repubblica indipendente autoproclamata nel 1992 ma non riconosciuta ufficialmente da nessuno. Nel 1806 la Russia strappò il khanato di Karabakh alla Persia, che lo avevano istituito attorno al 1750 come territorio autonomo del loro dominio. Dopo la conquista russa il khanato venne sciolto e fatto diventare parte della provincia russa dell'Azerbaijan. Una decisione che determinò la nascita della questione che ancora oggi si trascina: la maggior parte della popolazione era infatti armena, ma anche successivamente alla rivoluzione d'ottobre i bolscevichi istituirono - nel 1923, per volere di Stalin in persona - la regione autonona del Nagorno-Karabakh all'interno della repubblica socialista sovietica azera. Ciò nonostante il censimento di due anni prima avesse determinato che all'epoca il 95% della popolazione era armena e solo il restante 5% azera. Con il crollo dell'Unione sovietica la questione riemerse, e gli azeri iniziarono subito a mobilitarsi per riunificarsi all'Armenia, ancora prima dell'indipendenza di quest'ultima (dichiarata nel 1990, riconosciuta nel 1991). Con l'Azerbaijan che invece voleva mantenere il controllo del territorio, le frizioni sfociarono inevitabilmnete nella guerra del Nagorno-Karabakh (1992-1994). IN base alle leggi sovietiche se all'interno di una repubblica che decideva il distacco dall'Urss vi era una regione autonoma, questa aveva diritto di scegliere o meno la repubblica secessionista nel suo distacco dall'Urss. Una scelta che non fece la regione autonoma del Nagorno-Karabakh nel 1991, quando il 30 agosto l'Azerbaijan dichiarò la propria indipendenza. Pochi giorni più tardi, il 2 settembre, il Nagorno Karabakh annuncia la sua indipendenza, confermata con referendum a gennaio dell'anno successivo. Il 31 gennaio 1992 l'Azerbaijan inizia i bombardamenti del Nagorno Karabakh: la guerra ha inizio. Da una parte l'Azerbaijan, dall'altra l'Armenia, che sostiene la piccola repubblica. Nel 1994 la guerra si conclude con un nulla di fatto: il Nagorno Karabakh rimane de facto indipendente anche se non riconosciuta da nessuno. L'Azerbaijan ha però dalla sua un'arma molto affilata: le risorse. Il paese vanta giacimenti di gas piuttosto ingenti, soprattutto nel bacino del mar Caspio, ed è pronto a venderli soprattutto agli europei, desiderosi di diversificare le fonti di approvvigionamenti energetiche uscendo dalla pericolosa dipendenza russa. I gasdotti che partono dall'Azerbaijan e arrivano in Turchia attraverso la Georgia (paese per nulla filo-russo) rappresentano un elemento per indebolire l'Armenia con un'economia meno florida, un paese meno ricco di risorse e al contrario fortemente dipendente dal greggio russo. La Russia gioca un ruolo fondamentale nella regione: non vuole perdere i clienti energivori europei nè il pagatore armeno, ma non può tollerare che l'Azerbaijan possa diventare troppo forte economicamente, soprattutto con l'energia da vendere agli europei. Allo stesso tempo Mosca non può permettersi un nuovo scoppio di un conflitto, che rischierebbe di destabilizzare una regione dove ancora il Cremlino ha poteri amministrativi forti (si pensi all'Ossezia del sud) e controllo. Si cerca quindi di lasciare tutto così com'è, cristallizzato in questo limbo. Dal 1994 l'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, lavora a una soluzione della questione attraverso il Gruppo di Minsk. Ma le condizioni di pace dello speciale gruppo di lavoro non sono accettabili nè per gli armeni nè per il Nagorno Karabakh: si chiede di ripristinare provvisoriamente il controllo azero sulla regione, a cui vanno garantiti poteri di auto-controllo fino a un nuovo referendum sullo status del Nagorno Karabakh. Peccato che il Nagorno Karabakh si sia già espresso. L'Unione europea adotta una politica poco chiara: da una parte difende l'integrità territoriale dell'Azerbaijan, dall'altra riconosce il principio di autodeterminazione dei popoli. Chiede in sostanza di prepare il terreno a un nuovo referendum e invita i due paesi a lavorare per rispettare le condizioni poste dal gruppo di Minsk. Senza successo, proprio come il gruppo di lavoro dell'Osce.
Il Nagorno Karabakh e il corridoio energetico |
Si trascina praticamente da sempre, nel silenzio e nell'ignoranza, ma il conflitto del Nagorno Karabakh parte da lontano e ancora non trova una conclusione. Ufficialmente è una regione caucasica tra Armenia e Azerbaijan, de facto è una repubblica indipendente autoproclamata nel 1992 ma non riconosciuta ufficialmente da nessuno. Nel 1806 la Russia strappò il khanato di Karabakh alla Persia, che lo avevano istituito attorno al 1750 come territorio autonomo del loro dominio. Dopo la conquista russa il khanato venne sciolto e fatto diventare parte della provincia russa dell'Azerbaijan. Una decisione che determinò la nascita della questione che ancora oggi si trascina: la maggior parte della popolazione era infatti armena, ma anche successivamente alla rivoluzione d'ottobre i bolscevichi istituirono - nel 1923, per volere di Stalin in persona - la regione autonona del Nagorno-Karabakh all'interno della repubblica socialista sovietica azera. Ciò nonostante il censimento di due anni prima avesse determinato che all'epoca il 95% della popolazione era armena e solo il restante 5% azera. Con il crollo dell'Unione sovietica la questione riemerse, e gli azeri iniziarono subito a mobilitarsi per riunificarsi all'Armenia, ancora prima dell'indipendenza di quest'ultima (dichiarata nel 1990, riconosciuta nel 1991). Con l'Azerbaijan che invece voleva mantenere il controllo del territorio, le frizioni sfociarono inevitabilmnete nella guerra del Nagorno-Karabakh (1992-1994). IN base alle leggi sovietiche se all'interno di una repubblica che decideva il distacco dall'Urss vi era una regione autonoma, questa aveva diritto di scegliere o meno la repubblica secessionista nel suo distacco dall'Urss. Una scelta che non fece la regione autonoma del Nagorno-Karabakh nel 1991, quando il 30 agosto l'Azerbaijan dichiarò la propria indipendenza. Pochi giorni più tardi, il 2 settembre, il Nagorno Karabakh annuncia la sua indipendenza, confermata con referendum a gennaio dell'anno successivo. Il 31 gennaio 1992 l'Azerbaijan inizia i bombardamenti del Nagorno Karabakh: la guerra ha inizio. Da una parte l'Azerbaijan, dall'altra l'Armenia, che sostiene la piccola repubblica. Nel 1994 la guerra si conclude con un nulla di fatto: il Nagorno Karabakh rimane de facto indipendente anche se non riconosciuta da nessuno. L'Azerbaijan ha però dalla sua un'arma molto affilata: le risorse. Il paese vanta giacimenti di gas piuttosto ingenti, soprattutto nel bacino del mar Caspio, ed è pronto a venderli soprattutto agli europei, desiderosi di diversificare le fonti di approvvigionamenti energetiche uscendo dalla pericolosa dipendenza russa. I gasdotti che partono dall'Azerbaijan e arrivano in Turchia attraverso la Georgia (paese per nulla filo-russo) rappresentano un elemento per indebolire l'Armenia con un'economia meno florida, un paese meno ricco di risorse e al contrario fortemente dipendente dal greggio russo. La Russia gioca un ruolo fondamentale nella regione: non vuole perdere i clienti energivori europei nè il pagatore armeno, ma non può tollerare che l'Azerbaijan possa diventare troppo forte economicamente, soprattutto con l'energia da vendere agli europei. Allo stesso tempo Mosca non può permettersi un nuovo scoppio di un conflitto, che rischierebbe di destabilizzare una regione dove ancora il Cremlino ha poteri amministrativi forti (si pensi all'Ossezia del sud) e controllo. Si cerca quindi di lasciare tutto così com'è, cristallizzato in questo limbo. Dal 1994 l'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, lavora a una soluzione della questione attraverso il Gruppo di Minsk. Ma le condizioni di pace dello speciale gruppo di lavoro non sono accettabili nè per gli armeni nè per il Nagorno Karabakh: si chiede di ripristinare provvisoriamente il controllo azero sulla regione, a cui vanno garantiti poteri di auto-controllo fino a un nuovo referendum sullo status del Nagorno Karabakh. Peccato che il Nagorno Karabakh si sia già espresso. L'Unione europea adotta una politica poco chiara: da una parte difende l'integrità territoriale dell'Azerbaijan, dall'altra riconosce il principio di autodeterminazione dei popoli. Chiede in sostanza di prepare il terreno a un nuovo referendum e invita i due paesi a lavorare per rispettare le condizioni poste dal gruppo di Minsk. Senza successo, proprio come il gruppo di lavoro dell'Osce.
Sunday, 17 February 2013
AS Grifondoro, maggica giallo-rossa
Celo' celo' mimanca celo'. Strano a dirsi ma anche a Hogwarts, tra tante formule magiche può capitare si sentire le classiche espressioni tipiche del mondo dei babbani relative al mondo delle figurine. Soprattutto da quando la stessa casa produttrice delle cioccorane ha deciso di dar vita all'album dei giocatori di quidditich. Proprio così. Dopo il grande successo riscosso con la magiche figurine contenute dentro le confezioni dei cioccolatini a forma di rana più popolari tra il mondo dei maghi, la stessa ditta ha deciso di dar vita a un album speciale interamente dedicato al mondo dello sport per definizione nel regno delle magia. Grande spazio alle squadre di Hogwarts, ma c'è anche una sezione con le nazionali. Per ognuna di queste formazioni realizzate le figurine dell'intera squadra, giocatore per giocatore. Tutti da collezionare e scambiare. A differenza dei maghi contenuti nelle carte che si trovano con le cioccorane, in questa nuova collezione tutti i giovani maghetti sportivi resteranno per sempre incollati sulle vostre pagine. Si tratta di semplici fotografie adesive, un'idea presa in prestito dai babbani ma già apprezzata da maghi e streghe. La figurina più ambita? Ma quella di Potter, ovviamente (qui a sinistra). Per le nazionali, inutile dirlo, la figurina adesiva più ricercata è quella di Viktor Krum.
Thursday, 14 February 2013
Wednesday, 13 February 2013
Programmi educativi e creativi per bambini
Negli anni Ottanta, quando ero piccino, era ancora possibile vedere "Mio Mao", programma tutto italiano pensato per i bambini. Un programma particolare per realizzato attraverso l'animazione di figure di pongo. Tutti gli episodi - lunghi appena cinque minuti - sono contraddistinti dall'uso della plastilina e da tutte le combinazioni che è possibile ottenere attraverso questo particolare materiale. Un programma creativo, che stimolava la fantasia, la voglia di giocare, creare, conoscere. E reso ancor più attraente dai protagonisti, due gattini - Mio e Mao, per l'appunto - curiosi e simpatici che si confrontano col mondo circostante, scoprendo ogni puntata una cosa nuova (le api, le formiche, i ragni, ecc.). Nel video qui sopra, in particolare, scoprono il maiale. Il tutto condito da una canzoncina allegra ed essenziale, pensata proprio per i più piccoli. Oggi programmi così educativi e didattici non se ne vedono più. Davvero un peccato. Non resta che far riscoprire ai bimbi di oggi queste gioiellino di un tempo.
Tuesday, 12 February 2013
Nuovo test nucleare, è allarme Corea del Nord
Bomba da diversi chilotoni. La diplomazia mondiale al lavoro per studiare le contromisure dopo l'annuncio del nuovo esperimento sotterraneo.
di Emiliano Biaggio
La Corea del Nord continua nella sua corsa agli armamenti atomici. Il regime di Kim Jong-un ha effettuato il terzo test nucleare sotterraneo, portato a termine «con successo e in maniera sicura», come riferito dallo stesso governo di Pyongyang. Un annuncio che torna a far crescere la tensione nella regione e nel mondo. Per la prima volta nella storia la Cina, paese da sempre alleato della Corea del Nord, ha convocato l'ambasciatore del paese confinante per condannare la politica nucleare della giunta militare nordcoreana e il test sottorraneo, condotto in prossimità delle frontiera cinese. Un esperimento che ha provocato un sisma di magnitudo di cinque gradi e che lascia supporre che la Corea del nord abbia testato un ordigno di diversi chilotoni. Il governo di Pyongyang sostiene si tratti di esperimenti per arsenale di natura difensiva. «Questo test nucleare è un’ulteriore e sfacciata sfida al regime di non proliferazione globale e una grave minaccia sia per una pace duratura nella penisola coreana e che per la sicurezza regionale e internazionale», la reazione dell'Europa affidata all’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea, Catherine Ashton. Di «atto irresponsabile» parla invece la Nato, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha convocato d’urgenza un incontro per delle «consultazioni informali», ma sono previste reazioni al test nordcoreano. Si cerca di capire come arginare la minaccia del paese. Pyongyang l'aveva promesso, e ora quella promessa la sta mantenendo: nuove sanzioni erano state comminate a carico del paese dopo il lancio in orbita del satellite per usi civili condotto con missili a lungo raggio, e la Corea del Nord aveva promesso immediate risposte a tali sanzioni. «I satelliti e i missili a lunga gittata che noi continueremo a lanciare e i test nucleari di alto livello che faremo sono rivolti al nostro nemico giurato, gli Stati Uniti», aveva annunciato la Commissione di difesa nazionale nordcoreana. «La disputa con gli Stati Uniti si risolve con la forza, non con le parole».
Kim Jong-un |
La Corea del Nord continua nella sua corsa agli armamenti atomici. Il regime di Kim Jong-un ha effettuato il terzo test nucleare sotterraneo, portato a termine «con successo e in maniera sicura», come riferito dallo stesso governo di Pyongyang. Un annuncio che torna a far crescere la tensione nella regione e nel mondo. Per la prima volta nella storia la Cina, paese da sempre alleato della Corea del Nord, ha convocato l'ambasciatore del paese confinante per condannare la politica nucleare della giunta militare nordcoreana e il test sottorraneo, condotto in prossimità delle frontiera cinese. Un esperimento che ha provocato un sisma di magnitudo di cinque gradi e che lascia supporre che la Corea del nord abbia testato un ordigno di diversi chilotoni. Il governo di Pyongyang sostiene si tratti di esperimenti per arsenale di natura difensiva. «Questo test nucleare è un’ulteriore e sfacciata sfida al regime di non proliferazione globale e una grave minaccia sia per una pace duratura nella penisola coreana e che per la sicurezza regionale e internazionale», la reazione dell'Europa affidata all’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea, Catherine Ashton. Di «atto irresponsabile» parla invece la Nato, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha convocato d’urgenza un incontro per delle «consultazioni informali», ma sono previste reazioni al test nordcoreano. Si cerca di capire come arginare la minaccia del paese. Pyongyang l'aveva promesso, e ora quella promessa la sta mantenendo: nuove sanzioni erano state comminate a carico del paese dopo il lancio in orbita del satellite per usi civili condotto con missili a lungo raggio, e la Corea del Nord aveva promesso immediate risposte a tali sanzioni. «I satelliti e i missili a lunga gittata che noi continueremo a lanciare e i test nucleari di alto livello che faremo sono rivolti al nostro nemico giurato, gli Stati Uniti», aveva annunciato la Commissione di difesa nazionale nordcoreana. «La disputa con gli Stati Uniti si risolve con la forza, non con le parole».
Monday, 11 February 2013
Il Papa abdica: «Sono troppo vecchio»
Il capo dello Stato della Chiesa lascerà il ruolo di pontefice a fine mese. Bertone e Bagnasco in lizza per la successione.
di Emiliano Biaggio
Il Papa abdica, come non accadeva da sei secoli. Benedetto XVI ha annunciato di lasciare la carica di pontefice, tra l'incredulità di fedeli e lo stupore dell'intera comunità internazionale. Tranquilli, di Papa se ne fa sempre un altro. Certo, la decisione ha preso un po' alla sprovvista, ma Joseph Ratzinger, ottantacinque anni, va in pensione. Succede anche questo, in Vaticano. Scelta per certi aspetti rivoluzionaria, come sottolineato in Europa dal presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy. «Esprimo profondo rispetto per la decisione di Papa Benedetto XVI, tanto più in quanto non è in linea con la tradizione», il commento, uno dei tanti di giornata. Strano per la Chiesa rompere con le tradizioni. Ma si vede che l'uomo non era più grado di sopportare lo spirito (santo). «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Così Benedetto XVI ha spiegato la sua decisione, irrevocabile. Il diritto canonico stabilisce infatti che «nel caso in cui il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Il 28 febbraio, dunque, finirà il pontificato di Benedetto XVI, noto in Italia come "il pastore tedesco". Tra i suoi successori l'attuale segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, e il presidente della Conferenza episcopale, Angelo Bagnasco. Candidatura di peso anche quella dell'arcivescovo di Milano, Angelo Scola.
Il mondo si chiede se Benedetto XVI, al pari del suo predecessore Giovanni Paolo II, sia malato. Probabilmente a dettare la scelta di Ratzinger anche la silenziosa lotta interna alla Santa sede, mai sopita dopo lo scandalo "vaticanleaks". Colpisce, comunque, il tempismo dell'annuncio del pontefice: arriva nel bel mezzo di una campagna elettorale italiana chiamata a eleggere il nuovo parlamento, che dovrà a sua volta nominare il nuovo esecutivo. I paragoni vengono da sè: il messaggio e l'esempio di Papa Ratzinger sono "mi dimetto perchè troppo vecchio". Un suggerimento davvero niente male, per un certo candidato premier...
Benedetto XVI |
Il Papa abdica, come non accadeva da sei secoli. Benedetto XVI ha annunciato di lasciare la carica di pontefice, tra l'incredulità di fedeli e lo stupore dell'intera comunità internazionale. Tranquilli, di Papa se ne fa sempre un altro. Certo, la decisione ha preso un po' alla sprovvista, ma Joseph Ratzinger, ottantacinque anni, va in pensione. Succede anche questo, in Vaticano. Scelta per certi aspetti rivoluzionaria, come sottolineato in Europa dal presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy. «Esprimo profondo rispetto per la decisione di Papa Benedetto XVI, tanto più in quanto non è in linea con la tradizione», il commento, uno dei tanti di giornata. Strano per la Chiesa rompere con le tradizioni. Ma si vede che l'uomo non era più grado di sopportare lo spirito (santo). «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Così Benedetto XVI ha spiegato la sua decisione, irrevocabile. Il diritto canonico stabilisce infatti che «nel caso in cui il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Il 28 febbraio, dunque, finirà il pontificato di Benedetto XVI, noto in Italia come "il pastore tedesco". Tra i suoi successori l'attuale segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, e il presidente della Conferenza episcopale, Angelo Bagnasco. Candidatura di peso anche quella dell'arcivescovo di Milano, Angelo Scola.
Il mondo si chiede se Benedetto XVI, al pari del suo predecessore Giovanni Paolo II, sia malato. Probabilmente a dettare la scelta di Ratzinger anche la silenziosa lotta interna alla Santa sede, mai sopita dopo lo scandalo "vaticanleaks". Colpisce, comunque, il tempismo dell'annuncio del pontefice: arriva nel bel mezzo di una campagna elettorale italiana chiamata a eleggere il nuovo parlamento, che dovrà a sua volta nominare il nuovo esecutivo. I paragoni vengono da sè: il messaggio e l'esempio di Papa Ratzinger sono "mi dimetto perchè troppo vecchio". Un suggerimento davvero niente male, per un certo candidato premier...
Saturday, 9 February 2013
FACT SHEET/ La procedura legislativa comunitaria
Prima lettura
La (1) Commissione presenta un testo legislativo contemporaneamente al (2) Parlamento e al (3) Consiglio.
Il Parlamento adotta (4) la sua posizione e la sottopone al Consiglio
Se il Consiglio è d'accordo con i risultati della prima lettura al Parlamento, (5) il testo legislativo è adottato.
Se il Consiglio non è d'accordo con i risultati della prima lettura al Parlamento, (5) il testo si procede alla discussione in seconda lettura.
Seconda lettura
(3) Il Parlamento dispone di tre mesi (può essere richiesta una proroga a quattro mesi) per reagire. Se approva la posizione del Consiglio o non si pronuncia, il (4) testo legislativo adottato corrisponde alla posizione del Consiglio
Il Parlamento può presentare emendamenti alla posizione del Consiglio (fatte salve alcune limitazioni). In tal caso:
--- il (5) Consiglio, entro tre mesi (può essere richiesta una proroga a quattro mesi) li approva e il (6) testo legislativo è adottato.
--- il Consiglio li respinge: viene convocato il comitato di conciliazione (27 membri del Parlamento e 27 membri del Consiglio), incaricato di individuare un compromesso tra le posizioni divergenti.
Il Parlamento può invece respingere la posizione del Consiglio alla maggioranza assoluta dei suoi membri: in tal caso il testo legislativo è respinto.
Conciliazione e terza lettura
Se viene rimesso tutto al (1) comitato di conciliazione, questo adotta un (2) "progetto comune" basato sulla posizione del Consiglio e sugli emendamenti presentati dal Parlamento in seconda lettura.
Se il Consiglio e il (3) Parlamento approvano il "progetto comune", (4) l'atto legislativo è adottato.
Se il comitato di conciliazione non riesce a elaborare un progetto comune oppure se il Parlamento o il Consiglio non lo approvano, (5) l'atto si considera non adottato.
Thursday, 7 February 2013
Il Parlamento Ue in streaming, ma non per tutti
Il servizio tv web visibile solo per chi ha lavora con sistema operativo Microsoft. Un problema per ora non risolvibile.
di Renato Giannetti (per eunews.it)
Non hai un sistema operativo Microsoft sul tuo portatile? E allora non puoi seguire l’attività del Parlamento europeo. Proprio così: il canale multimediale del Parlamento europeo pensato per seguire in diretta streaming i lavori delle commissioni e della plenaria è fruibile solo per coloro che hanno installato sul proprio laptop Windows. Contratto in esclusiva sottoscritto con Bill Gates, patron di Microsoft, o disguido comunitario? La risposta è la seconda, per la gioia di quanti possiedono un computer Apple o abbiano installato un sistema operativo Linux. Per questi software, la ricezione del segnale video e audio non è possibile, in quanto il formato audio-video del “Ep Tv” – Windows Media Video (Wmv) – è compatibile solo con i computer che lavorano con pacchetto Microsoft. Il problema ha investito più addetti ai lavori, che hanno contattato i responsabili del Parlamento europeo per segnalare – e lamentare – l’impossibilità di poter lavorare per scelte di software. Ma la risposta che il webmaster del Parlamento europeo offre sempre è che effettivamente il problema esiste ma al momento non è possibile far niente. “Il formato video per la trasmissione in diretta e delle registrazioni è il Wmv, per cui altri sistemi operativi (come ad esempio Mac e Linux) non riescono a leggere questo formato correttamente”, ammette il webmaster. Il problema, riconosce sempre il responsabile web del Parlamento Ue, è che “al momento non possiamo offrire nessun’altra alternativa, ma questa è una delle nostre priorità”. Il Parlamento è infatti “al lavoro per offrire altri formati video e garantire una maggiore compatibilità” con agli altri software attraverso l’utilizzo di video mpeg-4. Intanto, però, seguire i lavori del Parlamento per molti resta impossibile.
di Renato Giannetti (per eunews.it)
Non hai un sistema operativo Microsoft sul tuo portatile? E allora non puoi seguire l’attività del Parlamento europeo. Proprio così: il canale multimediale del Parlamento europeo pensato per seguire in diretta streaming i lavori delle commissioni e della plenaria è fruibile solo per coloro che hanno installato sul proprio laptop Windows. Contratto in esclusiva sottoscritto con Bill Gates, patron di Microsoft, o disguido comunitario? La risposta è la seconda, per la gioia di quanti possiedono un computer Apple o abbiano installato un sistema operativo Linux. Per questi software, la ricezione del segnale video e audio non è possibile, in quanto il formato audio-video del “Ep Tv” – Windows Media Video (Wmv) – è compatibile solo con i computer che lavorano con pacchetto Microsoft. Il problema ha investito più addetti ai lavori, che hanno contattato i responsabili del Parlamento europeo per segnalare – e lamentare – l’impossibilità di poter lavorare per scelte di software. Ma la risposta che il webmaster del Parlamento europeo offre sempre è che effettivamente il problema esiste ma al momento non è possibile far niente. “Il formato video per la trasmissione in diretta e delle registrazioni è il Wmv, per cui altri sistemi operativi (come ad esempio Mac e Linux) non riescono a leggere questo formato correttamente”, ammette il webmaster. Il problema, riconosce sempre il responsabile web del Parlamento Ue, è che “al momento non possiamo offrire nessun’altra alternativa, ma questa è una delle nostre priorità”. Il Parlamento è infatti “al lavoro per offrire altri formati video e garantire una maggiore compatibilità” con agli altri software attraverso l’utilizzo di video mpeg-4. Intanto, però, seguire i lavori del Parlamento per molti resta impossibile.
Tuesday, 5 February 2013
Saturday, 2 February 2013
C'era una volta Zemanladia
Se ne va un'altra volta Zdenek Zeman, il profeta errante di un calcio che non c'è più. Lascia la guida della Roma, la "sua Roma, quella tanto voluta, che tanto l'ha acclamato e che - causa risultati e gioco deficitari - alla fine ne ha chiesto e ottenuto la testa. Le colpe ricadono sempre sull'allenatore, si sa. Ma l'allenatore è pur sempre lo specchio di una società, e nel caso specifico Zeman paga probabilmente anche responsabilità non sue. Ma questa è un'altra storia, che qualcouno più bravo magari un giorno racconterà. Oggi salutiamo un guerriero sconfitto, un eroe solitario e ombroso, a tratti malinconico, ma mai incapace di rinnegare sè stesso, anche a rischio di sbagliare. Il pubblico non perdona, la folla non ama mai veramente il suo leader: lo adora solo quando fa comodo. Ora Zeman è rinnegato, dopo essere stato rimpianto. Pazienza, il genere sarà anche umano ma non ha umanità. Dispiace che non sia stata data a quest'uomo di altri tempi l'ultima possibilità di rivincita: mancavano appena due partite a quella sfida contro la Juventus emblema di un calcio che non è più sport, compagine societaria che ha fatto di Zeman nemico giurato solo perchè l'uomo di boemia ha avuto il coraggio, lui soltanto, di denunciare pratiche poco consone all'agonismo e per nulla compatibili con la moralità. Non è mai stato un vincente, Zeman. Almeno, non nello sport. Trofei non ne ha mai fatti vincere, ma ha sempre regalato emozioni: cosa non da poco, in un mondo che non sa più emozionarsi ma solo caricarsi di rabbia e tensioni. Chi si aspettava squadre ai vertici non aveva capito niente. Ma chi si aspettava di poter vedere Zeman guidare la riscossa contro i rivali di sempre rimarrà certamente deluso. Una partita, di per sè, non vale niente. Nulla di più sbagliato, perchè nessuna partita è uguale alle altre. E questa verità Zeman l'ha appresa a sue spese. Ma se si riesce a farsi perdonare quattro derby persi in una stagione in una città come Roma, allora vuol dire che il frutto seminato ha germogliato: il calcio rimane calcio, dimensione sportiva, certo, ma soprattutto umana nel senso più genuino del termine. Umanamente parlando, allora, quanto sarebbe stato bello - bello perchè giusto - vedere un uomo prendersi una rivincita sportiva contro l'avversario di una vita? Questa possibilità gli è stata negata, attraverso un esonero per certi aspetti prevedeibile e comprensibile, ma comunque carico di malinconia. Un esonero che ancora una volta segna la sconfitta di un uomo - sempre lo stesso - di sani principi e giusti ideali. Ma in campo contano i punti, i gol, gli schemi: se sei onesto e bravo conta poco, e interessa ancora meno. Oggi più che mai, con il pallone in borsa. I cattivi di sempre lo saluteranno come colui che tanto parlò e poco ottenne: niente di più normale, la derisione e la dannazione sono il caro prezzo che pagano gli sconfitti. E alcune sconfitte fanno più male di altre. Addio o arrivederci? Arrivederci, ovviamente. A Zemanlandia.
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