Friday, 30 October 2009

Così è. Se vi pare (possibile).

Debutto col botto per il film su Micheal Jackson. Complice la sua morte, e la relativa speculazione delle major.

di Emiliano Biaggio

La morte non è mai stata così bella, anzi, per dirla in termini hollywoodiani, La morte ti fa bella. E allora ecco This is it, film-documentario su Micheal Jackson che - sulla cresta dell'onda del tam-tam mediatico generato dalla scomparsa dell'artista - già sbanca i botteghini e si candida - c'è chi ha proposto di candidarlo - all'Oscar. La pellicola è stata letteralmente realizzata a tempo di record. Miracolo del cinema? Macchè, il trucco sta nel fatto che è stato utilizzato il materiale video girato dalla pop-star mentre preparava le coreografie per il tour This Is It. Il tour, causa morte dello stesso Jackson, alla fine non si è tenuto. Anzi, neanche è partito. Ma si sa, nel mondo dove tutto fa spettacolo "show must go on". Soprattutto se rende. E in questo caso rende eccome. Le cifre parlano da sole: solo nel primo giorno di uscita nei botteghini di tutto il mondo il film ha già incassato 20,1 milioni di dollari, secondo i dati forniti dalla distribuzione. Solo negli Stati Uniti sono stati venduti ticket per quasi sette milioni e mezzo. Steve Elzer, della Sony Pictures, ha fatto sapere che la casa di distribuzione intende sottoporre il film all'Academy Awards per farlo prendere in considerazione nella corsa all'Oscar per il miglior film. Ben venga la morte allora, se paga e - soprattutto - ripaga. E quella di Jackson lo sta facendo a meraviglia, non c'è dubbio. Merito della società del capitale e dei consumi di massa, che riescono a monetizzare qualunque cosa. Miracolo divino. E allora, onore al dio denaro.

Thursday, 29 October 2009

Newsweak, la settimana italiana vista da fuori

a cura di Emiliano Biaggio

«La giustizia conferma che Berlusconi corruppe Mills», titola el Pais. «L'avvocato britannico, condannato a quattro anni e mezzo di carcere, venne corrotto dal cavaliere nel 1997 per testimoaniare a suoa favore». «Italia: condannato l'avvocato di Berlusconi», scrive Le Figaro. «La corte d'appello ha confermato i quattro anni e mezzo di carcere a David Mills per falsa testimonianza nei confronti del capo del governo italiano». «Rimane la condanna per un alleato di Berlusconi», rimarca l'Herald Tribune. «La corte d'appello di Milano conferma la colpevolezza di un giudice britannico di essere stato corrotto». «Un Silvio Berlusconi ammalato chiama in tv e declama ai "cospiratori"», titola il Times. «Il premier italiano si lancia in un monologo sulla sua condizione di vittima». «La videocrazia di Berlusconi», si legge sul Guardian . «L'ossesione del leader italiano di essere solo al comando rischia di danneggiare la fragile intelaiatura democratica della Costituzione».

Tuesday, 27 October 2009

Pd a un bivio, vince Bersani. E "si perde" Rutelli

L'e-dittoreale

La prima notizia è che il Partito democratico ha un nuovo segretario, ed è Bersani; la seconda notizia è che il nuovo segretario ha già iniziato a dare una linea al Pd: «Priorità lavoro e precariato», ha detto il neo-segretario. La terza notizia è che Rutelli lascia, consegnando al Pd la sua sconfitta storica. Spendiamo due parole prima sul partito, per poi tornare al suo segretario: in un'ottica di ridisegno del sistema partitico italiano il Pd era e resta un percorso obbligato. Se davvero vogliamo un sistema sullo stile di quelli statunitense o britannico, Pd da una parte e Pdl rispondono alla ricerca di questi nuovi assetti. Ovviamente, non si può pretendere che questo processo si realizzi e si completi in un battito di ciglia; la storia ha sempre concesso i suoi tempi, e il Pd non farà eccezione. Anche per via di quelle che molti definiscono le correnti interne, ma che sono al tempo stesso la scommessa, la sfida e gli elementi costituenti di questa nuova creatura partitica: in molti hanno sottolineato, in questi mesi, la novità e la modernità del Partito democratico. Di nuovo cosa c'è?, potrebbe domandarsi qualcuno. I nomi e le facce sono quelle che ricordiamo, se non da sempre, da diversi anni. D'Alema, Rutelli, Bindi, Fioroni, solo per citarne alcuni. Ma sta nel vederli insieme in uno stesso schieramento e non sotto una coalizione l'elemento di novità, parte di un percorso di modernità che vuole - secondo i progetti - dotare il Paese di un partito che sappia superare le logiche e gli ideali di una società che sembra ragionare in modo diverso. Perchè la precarietà (o flessibilità, se preferite), la famigerata quarta settimana, il caro-prezzi, la disoccupazione, sono problematiche che accomunano elettori di orientamenti di sinistra come votanti di centro. E adesso torniamo al segretario: dopo una prima fase embrionale, ecco allora un Bersani appena eletto mettere ordine e impostare il cammino di un Partito che rivendica - legittimamente - il proprio ruolo nella società. «Per prima cosa incontrerò un gruppo di artigiani a Prato, perché bisogna rompere il muro tra politica e lavoratori», ha detto Bersani dopo essere stato messo alla guida del partito, partito che «preferisco si definisca un partito dell'alternativa piuttosto che dell'opposizione, perché l'alternativa comprende anche l'opposizione ma non sempre è vero il contrario». Il nuovo leader del Pd mostra di avere le idee chiare, ma in Italia - paese di comuni e contrade - le diffidenze e le differenze non si appianano mai. E allora, Francesco Rutelli non dimentica il passato diverso tra il proprio - fatto di militanza radicale, verde e frammenti di cristiano-democrazia - e quello del nuovo segretario - ex Pci, ex Ds. Bersani è vicino a D'Alema, personaggio di peso del partito, e dalle parole del presidente del Copasir si capisce quanto Rutelli tema un Pd "sbilanciato". Per l'ex segretario della Margherita, quindi, «occorre tracciare un tragitto differente unendo persone diverse che hanno culture diverse e che hanno bisogno di mettersi al servizio operosamente per un'Italia operosa e non per l'Italia del rancore». Ma non era il Pd - almeno secondo le intenzioni dei costituenti - quel tragitto diverso che univa persone diverse con coluture diverse? Sì, era questa la natura moderna che il Pd vantava fino a poco fa. Adesso bisogna capire come si muoverà Rutelli: se confluirà nell'Udc oppure no. In questa seconda ipotesi, se dovesse nascere un altro, nuovo, partito, il Pd perderebbe una sostanziale ragione del proprio essere. Proprio adesso che sembrava aver scelto dove andare...

Monday, 26 October 2009

Mad in Italy, rubrica pseudo-politica da ridere. (vol.11, l'irap funesta)

Spazio dedicato a cosa succede in Italia. Chi fa che cosa, dove, come e soprattutto perchè. Protagonisti e comparsate nel paese dove tutto (purtroppo!) è davvero possibile.

di Emiliano Biaggio - Cantami o diva l'irap funesta che infine addusse... Berlusconi. «Taglio graduale dell’Irap». Il premier annuncia quello che è l'ultimo provvedimento «allo studio» nel governo. Tremonti prima sviene, quindi rischia un collasso. Poi si riprende e chiede chiarimenti, e già corre voce che voglia lasciare. «Ormai nel governo ci sono due linee, quella europea del rigore e quella della spesa pubblica sostenuta da Fini. Berlusconi mi dica qual è la linea del governo: se è quella della spesa pubblica io non ci sto». Nel Pdl sale la tensione, serve un chiarimento e serve subito, visto che il Cavaliere e il suo ministro dell'Economia evidentemente hanno maniere diverse di intendere la strategia economica-finanziaria della Repubblica: nella Finanziaria 'leggera' 2010 varata da poco, infatti, Tremonti ha tenuto a sottolineare che «non stiamo facendo la Finanziaria vecchio stile, le agevolazioni saranno fatte quando avremo il quadro complessivo». Insomma, si tratta di «un documento importante perché stabilizza i conti pubblici per tre anni». Tradotto: una Finanziaria di programmazione fatta per evitare di Finanziaria ogni sei mesi. Berlusconi, che conosce il significato dell'italiano, ovviamente sa che "ogni dieci giorni" non significa lo stesso di "ogni sei mesi", e quindi rivoluziona il disegno tremontiano. Peccato che il ministro non sia stato informato. Non solo: la stampa spiona di sinistra, organizzata sotto il nome di Notapolitica.it, arrivano a parlare di resa dei conti interna al Pdl: addirittura esisterebbe un documento di 10 punti per stoppare il protagonismo del superministro dell'Economia, con cui «alcuni tra gli uomini più in vista del centrodestra nazionale- Denis Verdini, Fabrizio Cicchitto, Claudio Scajola, Stefania Prestigiacomo e Raffaele Fitto- per ragioni diverse, chiederebbero a Berlusconi una nuova 'rotta' per la politica economica del governo». Richieste che arrivano, è bene sottolineato da tre ministri della Repubblica. La cosa non sfugge (e come potrebbe?) agli ambiente vaticani: nel Pdl, sostiene Avvenire, si è «aperto un confronto non privo di tensioni su come affrontare la crisi, un dibattito che, se non sviscerato nella sua sede propria, quella di una sede di partito, rischia di rendere patologico il contenzioso». Crisi di governo alle porte? Eventuali fuoriuscite di un ministro come quello dell'Economia potrebbere essere fatale, ma Tremonti fuga ogni dubbio: «Non mi dimetto». Ecche so' scemo? Nel Pdl si tirano sospiri di sollievo: «Per fortuna non c'è nessun caso Tremonti», si appresta a dichiarare alla stampa e agli elettori il ministro Sacconi. Che spiega: «C'è una qualche dialettica interna che è fisiologica». 'Num sem chi per laurà', dialetticano quelli della Lega, tra cui Bossi. Il senatùr conferma di essere in sintonia col collega Sacconi: mica c'è un caso Tremonti, «vogliono farlo fuori». Tutto qui. Scajola, eroe del G8 di Genova e responsabile dello Sviluppo economico della Repubblica, precisa per evitare che si fraintenda: «Il governo è unito ma c'è chi gioca a destabilizzarlo». Nel senso che «il presidente del Consiglio ha inserito nel programma la riduzione graduale delle tasse sui cittadini e sulle imprese entro la fine della legislatura, e Non mi pare ci sia nulla di nuovo rispetto a quello che è stato detto». Berlusconi, in Russia dal suo amico Putin, capisce che dopo i chiarimenti dei suoi è il caso che chiarisca lui, e lui- non c'è che dire- è molto chiaro: «I ministri devono parlare meno, tutti. A guidare la maggioranza e il governo ci penso io e il mio auspicio sull’Irap è preso pari-pari dal programma di governo dove c’è anche il taglio dell’Irpef». Ma anche Tremonti chiarisce: «Non c’è altra politica economica da seguire se non quella in atto. Se qualcuno pensa si possa fare altro, si accomodi al mio posto. Ci penseranno i mercati a fargli cambiare idea. Se invece vuoi che resti al mio posto devi darmi un ruolo da vicepremier». In soccorso del Cavaliere arriva Brunetta, altro ministro: del vicepremierato Tremonti «non ne ha bisogno», taglia corto. «Secondo me sì», replica Bossi. Insomma, la dialettica di governo c'è eccome, ma non sembra proprio tanto fisiologica. Tanto che Fini avverte: «Se [Berlusconi] concedesse a Tremonti la vicepresidenza del Consiglio le conseguenze sarebbero disastrose». 'Buoni, che ghe pensi mi', dice Bossi. Tremonti «lo proteggo io», assicura venendo in soccorso del suo governo e dei suoi interessi, visto che il leader del Carroccio attraverso Tremonti vorrebbe ottenere i candidati governatori di Veneto e Piemonte. Tra questi Zaia, ministro delle Politiche agricole, che potrebbe lasciare libera la poltrona per nuove ulteriori dialettiche interne. Ma tant'è: il cavaliere ragiona con il suo ministro dell'Economia. A Tremonti chiede «maggiore collegialità, perché insieme si possono trovare delle soluzioni». «...di spesa», replica il ministro. Ma cribbio!, ma «come faccio ad andare avanti in questo modo?», sbotta il premier. 'Per una volta che non ci si mettono, i comunisti, i terroristi, gli interisti, i giornalisti, la stampa estera, le toghe rosse, Avvenire e istituzioni di sinistra, vi ci mettete voi? Adesso che non c'è nemmeno l'opposizione del Pd?'. Ma qui il cavaliere si sbaglia, perchè il centro-sinistra, dopo aver mostrato di non avere nè capo e nè coda, adesso ha un capo. Il Pd ha infatti eletto il suo segretario: è Bersani. Il cavaliere adesso ha un nuovo avversario.

Bombe e morti a Baghdad, in Iraq è sempre caos

di Emanuele Bonini 

Due esplosioni a Baghdad, più di 150 morti e 500 feriti, con un bilancio, quindi, ancora provvisorio e destinato a crescere. L'Iraq continua a essere investito dalla violenza settaria, e non è un buon segnale per il debole governo nazionale e per le forze di coalizione. Entro il 2011 le truppe statunitensi dovrebbero completare il ritiro, alle soglie del 2010 insorti lanciano un messaggio chiaro: il paese è lontano dall'essere stabile, e la situazione è tutt'altro che sotto controllo. Adesso bisognerà vedere come Obama intenderà comportarsi: ha promesso un disimpegno, ma appare evidente che senza un adeguato supporto la classe politica irachena che verrà rischia seriamente di non avere potere o autorità. Intanto Nuri al-Maliki continua nel conteggio dei morti: solo questo mese sono 332 le vittime civili, più di 3.000 da inizio anno, portando il numero dei morti per attentati e scontri a fuoco a una cifra che oscilla tra i 93 mila e i 102 mila da quando, nel 2003, le truppe statunitensi hanno messo piede nel paese. Il bilancio del 2009 sembra comunque avviarsi verso il numero più basso di vittime civile di questi sette anni, ma questo - come dimostrato dagli ultimi attentati - non significa affatto aver rimosso le condizioni di instabilità. I prossimi mesi saranno quindi decisivi per cercare di rendere più un Paese in una zona - il Medio Oriente - sempre più instabile.

Friday, 23 October 2009

La Spagna riscopre Garcia Lorca. E riapre ferite mai rimarginate.

C'è l'ok all'esumazione dei resti del poeta andaluso, ucciso dai franchisti e gettato in una fossa comune. Un'altra storia di un passato mai passato.

di Emiliano Biaggio

Alla fine, questa battaglia, è stata vinta. La fossa comune di Alfacar, non lontano da Granada, in Spagna, è pronta ad essere aperta. Là, durante la guerra civile spagnola, fu gettato il corpo del poeta spagnolo Federico Garcia Lorca, ucciso dai franchisti. E non solo lui. Tanto che insieme ai suoi resti verranno esumati anche quelli di altre quattro persone, gettate nella fossa comune la notte del 19 agosto 1936. Il disseppellimento è previsto per la prossima settimana, e si deve alle richieste dei familiari delle altre quattro vittime del franchismo. Ma questa dell'apertura di uno dei luoghi simbolo delle violenze della guerra civil, è un risultato soprattutto per Baltasar Garzon, giudice spagnolo che si è dichiarato competente nella causa sulla repressione franchista e sui desaparecidos causati dalla dittatura di Francisco Franco e che, proprio per questo, ha ordinato la riapertura di 19 fosse comuni, fra cui quella di Alfacar. Una decisione, quella del giudice, non senza conseguenze: in molti hanno contestato l'operato di Garzon, che ha voluto scoperchiare un vaso di Pandora carico di tensioni. Perchè la guerra civil e il regime instaurato dal caudillo, a distanza di settant'anni dalla fine del conflitto e a 24 anni dalla morte di Franco, restano ancora ferite aperte. E non potrebbe essere altrimenti: a oggi ancora non è stato stabilito con esatezza quanti spagnoli morirono nel conflitto - le stime variano dal mezzo milione al milione di morti - e i rancori bruciano ancora sotto la brace. Garzon ha deciso di fare chiarezza e di riaprire il caso che ancora oggi divide la Spagna: il giudice vuole una lista il più possibile completa delle vittime in tutto il Paese, tra l'opposizione dei simpatizzanti del caudillo e della Conferenza episcopale spagnola. Per ora c'è un primo registro digitalizzato, contenente 114.266 nomi di desaparecidos.
La Fiscalia, l'ufficio generale che in Spagna controlla i pubblici ministeri, aveva dato parere contrario all'apertura dell'inchiesta, perché sosteneva che la Ley de Amnistia del 1977 mettesse fine a quei fatti passati. Invece no, una riconciliazione nazionale non è possibile, perchè per Garzon - che ha redatto un documento per la riapertura dell'inchiesta - non si può parlare di prescrizione dei reati di quel periodo (1936-1939 la guerra civile, dal 1939 al 1975 il franchismo), perché si tratta di crimini contro l'umanità. Quindi imprescrittibili. Ma la Spagna, ancora oggi, resta divisa tra chi non vuole ricordare e chi, invece, non vuole dimenticare. Neanche Garcia Lorca unisce gli spagnoli, anzi: il poeta, in fin dei conti, fu un sostenitore della Repubblica: difficile, per nostalgici di Franco e uomini di Chiesa, non farne una questione politica.

Tuesday, 20 October 2009

Banche e imprese puntano sul lavoro, il governo anche. Ma pensando alla famiglia

Da una parte chieste più flessibilità e più anzianità contributiva, dall'altra l'esecutivo frena. Perchè come spiega il titolare del Tesoro, «il posto fisso è la base su cui organizzare il proprio progetto di vita».

di Emiliano Biaggio

Il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, spinge per «l'aumento dell'età pensionabile» perchè - a suo dire - «può servire». Dall'altra parte il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, fa sapere con tono chiaro e inequivocabile che a viale dell'Astronomia «riteniamo la cultura del posto fisso un ritorno al passato non possibile, che in questo Paese ha creato problemi». Messaggi al governo per riforme al mercato del lavoro da chi, ironia della sorte, sia pur con ruoli e responsabilità diversi si trova al centro della crisi economica mondiale: banche e imprese. Dire che gli istituti di credito e settore industriale non c'entrino nulla in questo terremoto economico-finanziario è forse osare troppo, ma potrebbe essere troppo anche chiedere al cittadino di pagare gli effetti di un modello di sviluppo che proprio affidabile - risultati alla mano - non è. Per di più se queste richieste arrivano da banche e imprese, forse si potrebbe essere oltre. Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, replica a Draghi, e fa sapere che di rimettere mano alle pensioni «non ce ne è bisogno». Allo stato attuale, aggiunge, «bastano le riforme già fatte». Nel governo capiscono che non è il caso di stringere ulteriormente la cinghia, visto anche che - complici prezzi al consumo elevati, redditi bassi, crisi e disoccupazione - nel nostro Paese, secondo il rapporto annuale Istat, è a rischio povertà una persona su cinque e il 25% delle famiglie (una su quattro), già alle prese con la propria "crisi di identità". Genitori con lavori flessibili o part-time, stipendi non certo "da favola" e alle prese con la crisi. Coniugi e conviventi molto spesso entrambi al lavoro, e figli - di conseguenza - troppo spesso soli. Se tutto va bene, affidati alle cure e alle attenzioni dei nonni, ma quando questi non ci sono i piccoli sono affidati a sè stessi, forse, chissà, anche con il dubbio di non essere voluti da mamma e papà. Così, se davvero si intende aumentare l'età pensionabile (oggi c'è lo stop, domani chissà...) addio alle future generazioni di nonni. Peccato non avere ancora la Dc, perchè quello della famiglia (come quello dell'istruzione, ma l'elenco potrebbe proseguire) era un temo molto caro alla vecchia classe dirigente del paese. Oggi, invece, ancora non si capisce che il tessuto sociale è prossimo alla rottura, che la famiglia è sempre più disgregata e che il lavoro - per quanto ne dica la Costituzione - è sempre più un lusso. Qualcosa, di certo, non va. Ma sembra quanto meno risibile sostenere che dipende dal fatto che si lavora poco. Il ministro dell'Economia, soprende tutti: «Io non credo che la mobilità sia di per sè un valore», dice Giulio Tremonti. «Credo che per una struttura sociale come la nostra- aggiunge- il posto fisso sia la base su cui ognuno organizzi il proprio progetto di vita, crei la propria famiglia. Per me l'obiettivo fondamentale è ancora, se possibile, la stabilità del lavoro, base della stabilità sociale... La possibilità di tirare su la famiglia, comprare la casa...». Conversione sulla via di Damasco o necessità elettorali? Perchè le famiglie sono sempre qui, mentre le amministrative sono alle porte...

Sunday, 18 October 2009

Magari bella, ma comunque incompiuta: è la democrazia

Dall'Iran al Sudan tanti gli esempi dell'inefficacia dell'esempio di forma di governo dei paesi occidentali. Incapaci anche di vincere le sfide russa e birmana. E non solo.

di Emiliano Biaggio

Se un merito c'è stato, nell'aver combattuto la seconda guerra mondiale, è quello di aver spazzato via regimi autoritari e dittatoriali. Certo, in Paesi come Spagna o Unione Sovietica questi sarebbero scomparsi solo molto dopo la fine delle ostilità, eppure il risultato di quel conflitto fu una visione mondiale nuova, diversa: un visione democratica. Si stabilì che la democrazia dovesse essere l'imperativo del nuovo corso, perchè gli stati forti e autoritari avevano prodotto morti, miseria e distruzione. Eppure, prim'ancora della seconda ricostruzione,la democrazia - con l'esperienza fallita di Weimar - aveva già fatto sfoggio di sè. E Churchill non ci mise molto per descrivere la democrazia per quello che valeva realmente: «È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora». Insomma, vale per quello che vale. Quindi, non meravigliamoci se ancora oggi le dittature infestano il mondo e si mostrano in tutta la loro ferocia: il modello occidentale ha prodotto disuguaglianze e poco benessere; disoccupazione e false libertà; e un sistma di giustiza sempre pronto a non rispondere alla legge. Attenzione, perchè il terzo reich nacque da un sistema colpevole di non funzionare e portare all'esasperazione la popolazione, E anche oggi, democrazie e organismi internazionali - Nazioni Unite su tutte - stanno dimostrando tutti i propi limiti: e di questo si fanno forza quanti la democrazia non la vogliono nemmeno sperimentare. I regimi di oggi esibiscono i propri muscoli come segno di forza e di invulnerabilità. E di sfida. Ovunque. Al termine di un processo-farsa, la giunta militare birmana condanna a un anno e mezzo di arresti domiciliari San Suu Kyi e punisce con sette anni di lavori forzati l'americano che aveva osato incontrare il premio Nobel. In Cecenia, vengono ritrovati nella periferia di Grozny i cadaveri di due attivisti impegnati nella difesa dei diritti civili: le ultime vittime, dopo Anna Politkovskaya e Nataliya Estemirova, della catena di omicidi che ha colpito chiunque abbia denunciato gli orrori della repressione russa in Cecenia. In Iran i guardiani del presidente Ahmadinejad allestiscono via tv lo spettacolo raccapricciante di tribunali di regime in cui gli imputati, dopo essere stati torturati, sono costretti a confessare crimini mai commessi. Copia conforme dei processi staliniani degli anni Trenta, solo che allora il blocco orientale veniva contrastato, oggi invece si levano solo timidi balbettii di protesta delle cancellerie occidentali. Attenti, perchè Hitler approfittò di questa assenza di reazione. E proprio come lui, i dittatori moderni continuano nel loro gioco, perchè sanno di muoversi senza rischiare un' azione di contrasto, sanno che le sanzioni saranno rituali, dominate dall' impotenza, magniloquenti ma inutili. Sanno che un tribunale internazionale che spicca un mandato di cattura per il presidente sudanese Omar Hassan el Bashir, per poi vedere beffardamente disattese le sue indicazioni, diventa un monumento di ipocrisia, e un lasciapassare per tutti i dittatori che vogliono esibire i loro lugubri trofei contando su una certa impunità. In questo clima il venezuelano Chávez può minacciare l' introduzione del «reato mediatico» nel suo ordinamento. La Cina può incrementare il ritmo delle sue esecuzioni capitali a dispetto dell'attenzione del mondo. E, come accade in questi giorni, lo Yemen può emulare l' esempio degli amici iraniani, soffocando nel sangue di decine di vittime le ultime proteste. La comunità internazionale, dopo aver criticato per anni l'unilateralismo americano e la sua retorica dell' «esportazione della democrazia», si scopre adesso impotente e priva di un'alternativa credibile. Anche perchè Iraq e Afghanistan dimostrano come l'esportazione della democrazia non sia riuscita. Colpa forse del mercato?

Friday, 16 October 2009

Numeri

Più di 120 post, ma soprattutto più di 1.000 visite. Questo spazio dopo pochi mesi ha già dei numeri. Numeri che avrebbero potuto essere di altra grandezza se avessi pubblicizzato di più e meglio l'esistenza e l'attività di queste pagine. Ma il fatto è che Emiliano Biaggio nasce per caso, proprio come il suo creatore e gestore. Gli intenti iniziali erano ben diversi, tutti orientati al "passatempo". Poi però ci si fa prendere la mano, e si inizia a scrivere di cose serie - anche in modo ironico, talvolta - e non si riesce a smettere. Per fortuna. O almeno si spera. Finora le persone attente a quello che compare su questo angolo multimediale non sono molte, solo quattro (a proposito: grazie per l'attenzione e l'interessamento), ma perchè - ripeto - ancora non si sta pubblicizzando troppo Emiliano Biaggio. Questo il prossimo passo da compiere, tra un post e l'altro.
Si riparte da questi primi numeri, si continua sempre sulla stessa strada. Quale?
Emiliano Biaggio ha già preso una certa fisionomia, e quella punta a mantenere. Anche se saranno solo i prossimi post a mostrare e dire quali messaggi si vogliono dare a chi legge. Buona lettura.

Wednesday, 14 October 2009

Sulla libertà





Un semplice video per fermarsi a riflettere. La libertà deve essere conquistata? La realtà ci dice di sì. Sì, dobbiamo lottare per i nostri diritti. Ma, un momento: non siamo forse in democrazia? Non dovrebbe la democrazia garantire i nostri diritti e salvaguardare la nostra libertà? Evidentemente, se dobbiamo conquistarcela, qualcosa non funziona; forse democrazia e società occidentali non hanno raggiunto gli obiettivi che si erano dati. E' quindi tempo di pensare e riflettere. E lottare?.

Freedom has to be conquered? Reality says us it's true. Yes, we've to fight for our rights. But, wait a minure: aren't we in democracy? Shouldn't democracy guarantee our rights and preserve our freedom? Obviously, if we've forced to fight to get it, there's something wrong; maybe both democracy and western societies have missed purposes gave to themselves. I guess it should be time to think and reflect. Maybe fight?. (video: Bruno Bozzetto)

Monday, 12 October 2009

Cosa si nasconde dietro la guerra in Afghanistan?

Le miniere d'uranio? Il gasdotto trans-afgano? Il posizionamento geostrategico? O forse il controllo del narcotraffico?

di Enrico Piovesana (da Peacereporter).

Perché, esattamente otto anni fa, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno invaso e occupato l'Afghanistan? Quali interessi si celano dietro le spiegazioni ufficiali di questa guerra? Le ipotesi avanzate in questi anni sono molteplici, ma nessuna abbastanza convincente. Tranne una, che però è alquanto difficile da dimostrare. Secondo un rapporto pubblicato nel dicembre del 2000 sul sito Internet dell'Eia, l'agenzia di statistica del dipartimento per l'Energia degli Stati Uniti (e poi rimosso), l'Afghanistan viene presentato come un paese con scarse risorse energetiche (mai sfruttate) che, secondo i dati risalenti ancora al tempo dell'occupazione sovietica, consistono in riserve petrolifere per 95 milioni di barili (concentrati nella zona di Herat), giacimenti di gas naturale per 5 trilioni di piedi cubi (nell'area di Shebergan) più 400 milioni di tonnellate di carbone (tra Herat e il Badakshan). Risorse troppo esigue per giustificare un'invasione militare costata finora, ai soli Stati Uniti, quasi 230 miliardi di dollari.
Molti in Afghanistan parlano di giacimenti di uranio nel deserto della provincia meridionale di Helmand, il cui controllo e sfruttamento sarebbe al centro di un'aspra contesa tra forze britanniche e statunitensi. Ma per ora questa storia non avuto alcuna conferma. (Leggi tutto)

Sunday, 11 October 2009

Sulla legalità

A proposito del Lodo Alfano... E non solo





(tratto da: Cantando dietro i paraventi, di Ermanno Olmi, 2003)

Nobel per la pace a Obama. Sorpresa? Non tanto

di Emiliano Biaggio

Barack Obama premio Nobel per la pace per «i suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione dei popoli» e per «gli impegni che ha assunto nei confronti della riduzione degli armamenti». Insomma, premiato l'effetto Obama. La decisione di conferire il riconoscimento al presidente degli Stati Uniti - presa all'unanimità - ha colto di sopresa l'intero mondo, compresa la Casa Bianca, con uno sbigottito Robert Gibbs a commentare con uno «Wow» una notizia che nessuno attendeva a Washington. Come non la attendevano da nessun'altra parte. Perchè, sia chiaro, è vero che Obama ha dato chiari e netti segni di discontinuità - in politica interna come in politica internazionale - con la politica del suo predecessore George W. Bush, ma è anche vero che ad oggi risultati concreti il presidente Usa ne può contare pochi. In Medio Oriente ha dato prova di voler andare findo in fondo, ma anche Israele, che vuole continuare con la costruzione di colonie; l'Iran non sembra intenzionato a rinunciare al proprio programma nucleare; e in Afghanistan non intende andare via in tempi brevi, Come se non bastasse adesso si pone la questioone dei brogli, che potrebbe generare ulteriori disordini nel Paese enlla regione. L'unico gesto concreto è la rinuncia alla realizzazione de3llo scudo antimissile, cosa che ha pernesso una distensione con la Russia, Cosa di non poco conto, certo. Ma di risultati concreti su ltavolo ce ne sono pochi. Questo va detto, perchè qualcuno fa notare come non il Nobel non lo diedero a Gandhi, e quindi darlo a Obama? E allora perchè premiare Marti Athissari, l'inviato Onu incaricato di trovare una definizione della questione del Kosovo, risoltasi con l'indipendenza unilaterale dell'ex regione serba e la sconfitta della politica delle Nazioni Unite? Il punto è che - e la storia ce lo insegna - i cambiamenti non avvengono dall'oggi al domani, ma richiedono anni. E il rivoluzionario non è colui che porta a termine un processo di rinnovamento, ma colui che lo inizia. E Obama in tal senso ha iniziato a tracciare una rotta, a indicare una direzione: quella del dialogo, della mediazione, della politica del compromesso. Che poi, a ben guardare, è quella propria delle democrazia. In politica estera come - soprattutto - in quella interna Obama ha optato per scelte coraggiose, operando un avvio di un nuovo corso a tutto campo, per un nuovo modo di vedere e intendere il mondo. Il presidente degli Stati Uniti, lo ha detto più volte: intende tendere una mano al mondo. Adesso sta al mondo decidere se stringere questa mano. Sì, si premiano le intenzioni dell'uomo: e in tal senso il Nobel assume una certa rilevanza, perchè insignire Obama per «gli impegni che ha assunto nei confronti della riduzione degli armamenti» significa dire a Teheran che la rinuncia all'atomica e alle armi premia. Nessuno si aspettava il Nobel a Obama, ma forse nessuno si aspettava che Obama realmente si spendesse sin da subito in prima persona su più fronti. Lui, primo afro-americano nella storia degli Stati Uniti a ottenere la presidenza, quarto presidente Usa a ricevere il Nobel, il terzo in carica (Jimmy Carter lo ricevette quando aveva già terminato il mandato), vuole raggiungere altri importanti traguardi, dalla riforma del sistema sanitario alla pace in Medio Oriente. Lui ha dato prova di volerci provare. E allora, good luck, mister president!. And congratulations.

Saturday, 10 October 2009

Cisl e Siulp in piazza contro razzismo e governo

Bonanni: «integrazione e diritto di accoglienza», Romano: «governo promette e basta».

di Emiliano Biaggio.

Bandiere a strisce bianche e verdi - i colori della Cisl - insieme a bandiere con cerchi e stelle a circondare l'Italia - il simbolo del Siulp: Roma "colorata" da quanti hanno partecipato alla manifestazione che le due sigle sindacali hanno organizzato per promuovere sicurezza, legalità e integrazione. Metà piazza Navona - dalla fontana dei quattro fiumi del Bernini fino all'imbocco di via Agonale - "occupata" da lavoratori, immigrati, poliziotti, tutti insieme per «chiedere più sicurezza ma nel rispetto dell'integrazione e dei diritti di accoglienza», come spiega Raffaele Bonanni nel suo discorso ai presenti in piazza. Il leader della Cisl parla da un palco rivolto verso la chiesa di Sant'Agata, per guardare la folla assiepata sulla piazza certo, ma che si sporge appena verso la facciata di palazzo Madama, a cui dà le spalle. Quasi a voler dire "noi guardiamo altrove", perchè «loro dicono che gli immigrati provocano insicurezza: questo è un assioma falso e sbagliato che noi rifiutiamo. Il nostro slogan è 'pari impegni pari diritti'». Ma se dal palco il leader della Cisl critica, quello della Siulp, Felice Romano, attacca: «Dicevano che non avevamo benzina per far camminare le macchine, adesso ci hanno tolto anche le macchine». Sulla piazza si condividono gli stessi malumori, e tra le tante bandiere spuntano striscioni anti-governo: "L'integrazione non si fa con le ronde ma con le tavole rotonde", recita una scritta sospesa a mezz'aria da giovani di colore.
Nel frattempo i fischietti suonati dalla folla in piazza coprono il rumore del traffico, mentre il sole vince il maltempo e torna a splendere sulla Capitale. Tempo per fare due passi, clima per una passeggiata tra la folla. E allora ecco Dario Franceschini, segretario del Pd, che verso la fine della manifestazione arriva in Piazza Navona per stringere mani, parlare con giornalisti, leader sindacali (Bonanni e Romano) e intrattenersi con alcuni dei manifestanti: due ragazzi immigrati raccontano al leader del Pd la loro condizione lavorativa di precarietà, lui li ascolta e li rassicura. «Ha detto che ci pensa lui?», chiede un terzo immigrato ai compagni una volta che Franceschini ha finito di ascoltarli. Certo è che «bisogna lavorare per integrare chi vive da noi, paga le tasse, e arricchisce il nostro Paese», sottolinea il segretario del Pd. Che prima di andarsene trova il tempo di ammonire Berlusconi: «Credo che gli attacchi del capo del governo alle altre autorita' dello Stato debbano finire, e finire in fretta». Quindi Franceschini va via, Bonanni l'ha già preceduto, e anche i manifestanti sono sfilati via. Piazza Navona si è spogliata dei colori e delle bandiere, e la città è stata riconsegnata al brusio delle macchine. Si attarda solo Sergio D'Antoni, che riprende là dove Franceschini aveva terminato il suo intervento: le critiche al governo. L'esecutivo non c'è, sostiene D'Antoni. Lo dice pure la Siulp.

«Ci hanno tolto anche le macchine»

Il segretario generale del sindacato della Polizia attacca il governo: dall'esecutivo solo chiacchiere

di Emiliano Biaggio

«Siamo qui per lanciare un grido di allarme contro il governo, che a fronte di promesse mai mantenute ci offre solo nemici che non esistono e tagli indiscriminati a chi può combattere il crimine in questo Paese». È duro l'attacco di Felice Romano, segretario generale del Siulp, sindacato della Polizia. Dal palco di Piazza Navona, in occasione della manifestazione per la sicurezza, legalità e integrazione organizzata dalla Cisl, critica l'operato dell'esecutivo: «In campagna elettorale- ricorda- dicevano che le nostre macchine non potevano andare perchè non c'era la benzina. Adesso ci hanno tolto anche le macchine. Abbiamo chiesto strumenti per combattere la mafia e la risposta è stata il taglio delle intercettazioni».
Romano critica ancora la politica del governo in tema di sicurezza: «Abbiamo chiesto più strumenti e ci hanno dato le ronde. Una vergogna per questo Paese». Come se non bastasse, accusa Romano, «ci vogliono anche infangare finanziandoci con i soldi che rientrano con lo scudo fiscale, cioè proventi illeciti». Di fronte a tutto questo «noi diciamo no alle ronde e si alle forze di Polizia». Ma, conclude il segretario generale del Siulp bisogna dare sostegno alle forze dell'ordine perchè «ormai stiamo al collasso e il governo continua a fare promesse e nient'altro che promesse».

Sunday, 4 October 2009

Centosettant'anni fa, il treno

Il 3 ottobre 1839 veniva inaugurata la prima linea ferroviaria in Italia
di Emiliano Biaggio

Un tratto ferroviario breve, di appena 7,25 chilometri, ma estremamente importante perche' segna l'inizio dell'Italia su rotaie: e' la Napoli-Portici, prima linea ferroviaria del nostro paese, che ha compiuto 170 anni. Per l'occasione Ferrovie dello Stato ha allestito una mostra al Museo nazionale Ferroviario di Pietrarsa, a Napoli, che ripropone il passato e gli albori delle ferrovie italiane attraverso documenti, divise e materiale dell'epoca. Inaugurata oggi, la mostra accogliera' curiosi e visitatori fino al 31 dicembre, tutti i giorni dal lunedi' al venerdi' dalla 8.30 alle 13.30. Un modo per conoscere e riscoprire la prima linea ferroviaria d'Italia, anche se Italia non era. Il 3 ottobre 1839 infatti, quando la linea venne inaugurata, a Napoli c'erano ancora i Borboni, e fu proprio la casa regnante nel Regno delle Sicilie a volerne la realizzazione. Nulla di strano, in fin dei conti nel nostro Paese le ferrovie sono state 'importate' e sviluppate da altri, basta pensare che a dotare Roma di linee ferroviarie fu lo Stato pontificio, che prima fece realizzare la Roma-Frascati (1856) e poi la Roma-Velletri (1863). Ma certo con la Napoli-Portici la penisola di dotava di un mezzo di trasporto per i tempi innovativo e rivoluzionario, che poneva - allora - il Mezzogiorno all'avanguardia: la prima linea ferrovia del mondo fu infatti realizzata nel 1825 per unire Stockton a DarlinĄgton, in una Gran Bretagna che godeva del vantaggio di aver vissuto una rivoluzione industriale che l'Europa continentale ancora non aveva conosciuto.
La linea ferroviaria che uni', e tuttora unisce, Napoli e Portici e' dunque forse la prima grande opera che il sud Italia abbia avuto, oltre che il primo tassello di una rete nazionale che da li' in poi si sarebbe sviluppata sempre piu', insieme all'industria del settore, che inizia la sua produzione proprio a Portici. Qui nel 1842 Ferdinando II di Borbone ordina la conversione di uno stabilimento di produzione di cannoni, che inizia a costruire locomotive e ad assemblare materiale rotabile. Da allora l'Italia, quella 'da fare' e poi quella 'fatta', non si e' piu' fermata, e oggi celebra i suoi 170 anni di ferrovia.

Thursday, 1 October 2009

«L'Unione europea è molto debole»

Clini: vive una situazione di contraddizione interna, e anche le strategie sul clima lo dimostrano

di Emiliano Biaggio

«L'Europa ha una posizione che appare molto debole», e questo perchè l'Ue vive una «contraddizione in termini, sia politici che economici». Parola di Corrado Clini, segretario generale del ministero dell'Ambiente, secondo cui l'Europa dei 27 si trova di fronte ad «un nodo da sciogliere», ma che viceversa «non sta affrontando». Tutto questo non va a beneficio dell'Unione europea, che perde di credibilità ed incisività a livello internazionale e in sede decisionale. Un banco di prova, in tal senso, sarà rappresentato dai prossimi negoziati sul clima di Copenhagen, che a detta di Clini «difficilmente porteranno a risultati concreti». Questo perchè neanche sui temi climatici l'Europa riesce a parlare in modo univoco, vero è che «l'Unione europea punta sulle fonti rinnovabili e su un modello nuovo, mentre gli stati membri vogliono la continuità del sistema attuale». E questo è solo uno dei tanti esempi di debolezza dell'Ue.