Arsenico nel sangue, e tumori in aumeto. Accade in Sicilia, tra mare e i fumi dell'Eni.
di Emiliano Biaggio
Gela, provincia di Caltanissetta: nota per il golfo su cui si affaccia, e 'famosa' per il complesso petrolchimico dell'Eni che ospita. Senza non pochi problemi. L'area e' infatti ritenuta tra le piu' inquinate del mondo: un dato, questo, che oggi trova una conferma ulteriore da uno studio dell'Oms condotto sulla base di ricerche del Cnr, il consiglionazionale delle ricerche. Il risultato e' di quelli che lascia senza parole: "Nelle vene degli abitanti scorre arsenico". Nelle loro urine sono stati trovati livelli di arsenico "superiori del 1.600% al tasso limite". Non solo: oltre all'arsenico ci sono tracce di rame, piombo, cadmio e mercurio. Il biomonitoraggio effettuato dal Cnr non lascia spazio aequivoci: "Il sangue del 20% del campione, composto in tutto da 262 persone, e' pieno di veleno". E non si tratta, sottolinea lo studio, di operai esposti sul lavoro, ma di casalinghe, impiegati, giovani sotto i 44 anni, tutti residente a Gela, Niscemi e Butera. Facendo due conti, si calcola che a rischio avvelenamento potrebbero trovarsi piu' di 20.000 persone. "Nell'area in studio- si legge nel rapporto pubblicato su 'Epidemiologia&Prevenzione'- si osserva una mortalita' generale per tutti i tumori significativamente piu' elevata, sia negli uomini sia nelle donne". Aumentano i casi di cancro alla pleura, ai bronchi e ai polmoni, con eccessi di patologie per lo stomaco,la laringe, il colon e il retto: un vero e proprio "disastro sanitario". Insomma, a Gela "l'impatto ambientale e' indubitabile", sostiene Fabrizio Bianchi, epidemiologo del Cnr ecoordinatore della ricerca. "In mare, nelle acque, sulla terra ci sono concentrazione di metalli superiori fino a un milione di volte i livelli accettabili", denuncia. L'arsenico, accusa, "non era gia' presente in forme naturali, come dice qualcuno, ma e'stato immesso dall'uomo". Gia', ma da chi, precisamente? "Diciamo che abbiamo trovato i proiettili, ora dobbiamo capire chi ha sparato". La procura indaga, ma il compito dei pm non e' facile. Oggi a Gela e' attiva la grande raffineria dell'Eni, ma nell'area per decenni hanno fabbricato clorosoda, acido cloridico e altri prodotti chimici. Le bonifiche gia' partite sono poche, la stragrande maggioranza dei veleni resta a terra. "Siamo ancora alle conferenze istruttorie", lamenta Bianchi, secondo cui "bisognerebbe accelerare l'iter, anche perche' l'arsenico e' un composto che non rimane a lungo nel corpo. E Le grandi quantita'che abbiamo trovato- conclude- dimostrano che l'esposizione e' tutt'ora in corso". (fonte foto: peacelink)
Friday, 31 July 2009
Thursday, 30 July 2009
Cina e India in gara per gli oceani
Con il nuovo sommergibile Arihant, «distruttore di nemici», gli indiani vogliono trasformare le proprie ingenti forze di difesa in forze di attacco. Intanto gli affari, nonostante le tensioni militari e strategiche, continuano: nel 2008 i due colossi asiatici hanno incrementato gli scambi commerciali del 37%. E se Pechino accerchia il rivale fino al golfo Persico, New Delhi rompe l' assedio con un sottomarino.
di Salom Paolo (Il Corriere della Sera, 29 luglio 2009)
Una partita di scacchi cinesi. O, per parafrasare il generale-filosofo Sun Tzu (544-496 a. C.), «l' arte della guerra senza fare la guerra». Per ora, almeno. Tra India e Cina la crescente rivalità si gioca infatti da anni sul filo della provocazione, della disputa territoriale pronta (sull' Himalaya) a trasformarsi in scontro aperto, della costruzione di alleanze che scompaginano equilibri secolari, se non millenari: il Pakistan che è il miglior amico di Pechino e allo stesso tempo un cliente degli Stati Uniti, questi ultimi i nuovi «consulenti» di New Delhi in campo nucleare; lo Sri Lanka, goccia che cade dal Subcontinente in un Oceano Indiano sempre più caldo, che accetta l' «aiuto» di Pechino e si fa costruire una base, a Hambantota; la Birmania, da vero servitore di due padroni (è strettissima alleata di Pechino), che cede un porto all' India mentre il confinante Bangladesh apre Chittagong alla Cina. Chi ha nostalgia del Grande Gioco, sappia che l' Asia del XXI secolo sa essere molto più complessa dell' incastro di rivalità tra le Potenze di ottocentesca memoria. Inoltre, particolare non da poco, i nuovi imperi in formazione posseggono l' arma e la tecnologia nucleare. Non parliamo soltanto di missili e di testate atomiche, comunque un dato che trasforma ogni «litigio» in un brivido per i vicini. Ma di strumenti in grado di trasformare la natura stessa dei Paesi che li costruiscono, quantomeno di come si percepiscono e di come sono percepiti nella regione. Come il sottomarino nucleare appena varato dall' India davanti a un primo ministro Manmohan Singh visibilmente soddisfatto: «Il mare sta diventando un elemento di estrema importanza - ha detto il capo del Governo di New Delhi - nel contesto della sicurezza del Paese ed è per questo che l' India deve stabilire la sua preparazione militare tenendo presente i cambiamenti in corso». Cosa questo significhi è presto detto: un sommergibile nucleare è in grado di navigare per mesi, se non anni, senza mai far ritorno. In caso di guerra, anche dopo l' eventuale devastazione della madrepatria, può da solo infliggere colpi terribili al nemico. E l' India, che da vent' anni perseguiva l' obiettivo di riuscire a progettare e costruire con le proprie forze un simile strumento di guerra, in programma ha una flotta di dieci sottomarini nucleari. Il primo l' hanno chiamato Arihant, ovvero «distruttore di nemici», tanto per non lasciare nulla di sottinteso. E infatti, il Pakistan ha subito recepito il messaggio. Il varo del sottomarino nucleare indiano, avvenuto sabato scorso, «è un passo verso la destabilizzazione della regione», sostiene un comunicato emesso dalla marina militare di Islamabad che aggiunge: «Il sottomarino metterà a repentaglio la pace e l' equilibrio di tutti i Paesi che si affacciano sull' Oceano Indiano». E una postilla: possiamo costruirne uno anche noi. Perché New Delhi si sarebbe spinta così avanti? È chiaro che, anche se il premier Singh ha detto e ripetuto che il vascello risponde a «esigenze difensive», possedere un simile sottomarino significa trasformare le proprie forze di difesa in forze d' attacco. Una ragione c' è. Ed questa: l' India si sente sotto assedio. Il gigantesco Paese, un miliardo di abitanti e una crescita economica vivace nonostante la crisi mondiale, negli ultimi anni ha osservato stringersi attorno al proprio territorio una «collana di perle» (string of pearls) costituita dai porti e dalle basi che i cinesi hanno costruito lungo le rotte dell' approvvigionamento di petrolio, dallo Stretto di Malacca al Golfo Persico, passando per l' Oceano Indiano. A queste basi, dalle quali Pechino, in caso di conflitto, potrebbe agevolmente colpire l' India, si aggiungono le strade e gli oleodotti di terra che attraversano, a nord, il Kashmir sotto controllo del Pakistan e, a sud-est, la Birmania. Confronto economico o confronto militare? L' India ricorda ancora con senso di umiliazione il breve, ma sanguinoso conflitto imposto dalla Cina di Mao a Nehru nel 1962. Due Paesi allora tecnicamente alleati - entrambi aderivano al movimento dei non allineati - e in via di sviluppo, arrivarono a farsi la guerra ufficialmente per questioni di frontiera. In realtà perché si temevano e desideravano «contenere» l' espansionismo del rivale. Oggi, la Cina è un Paese che ha abbandonato l' ideologia per la prassi del mercato. Si è arricchita e ha allargato la sfera di interessi ben oltre le proprie frontiere: le sue aziende mettono radici in Africa e in Sudamerica, da dove riforniscono il territorio metropolitano di materie prime indispensabili a nutrire il motore dell' economia. L' India, ugualmente, anche se per strade differenti, ha imboccato la strada della modernizzazione. La più grande democrazia del mondo comincia ad avere le stesse esigenze del potente vicino e interessi sempre maggiori al di là dei propri confini. Ovvio che la «collana di perle» sia vista come un cappio pronto a stringersi. Il paradosso è che India e Cina continuano a fare affari tra di loro. L' interscambio commerciale, nel 2008, ha superato i 51 miliardi di dollari, con un incremento del 37 per cento sul 2007. Non manca la cooperazione nel settore strategico, le esercitazioni comuni antiterrorismo (dicembre 2008). Eppure, come nota Yang Dali, docente di Scienze politiche all' Università di Chicago, «si può essere amici e allo stesso tempo farsi la guerra». Paolo Salom Scheda Armata rossa La Cina ha le forze armate più numerose del mondo: circa due milioni e 250 mila soldati Esercito indiano L' India è al terzo posto con 1 milione e 410 mila uomini (al secondo posto gli Usa). Nella foto, il nuovo sottomarino «Arihant» I giganti del Bric Cina e India sono i due più popolosi Paesi del gruppo Bric (Brasile, Russia, India e Cina). La Cina è la terza economia del mondo (dopo Stati Uniti e Giappone), India undicesima Previsioni Entro il 2050 la Cina dovrebbe salire al primo posto e l' India al terzo (al secondo posto gli Stati Uniti).
di Salom Paolo (Il Corriere della Sera, 29 luglio 2009)
Una partita di scacchi cinesi. O, per parafrasare il generale-filosofo Sun Tzu (544-496 a. C.), «l' arte della guerra senza fare la guerra». Per ora, almeno. Tra India e Cina la crescente rivalità si gioca infatti da anni sul filo della provocazione, della disputa territoriale pronta (sull' Himalaya) a trasformarsi in scontro aperto, della costruzione di alleanze che scompaginano equilibri secolari, se non millenari: il Pakistan che è il miglior amico di Pechino e allo stesso tempo un cliente degli Stati Uniti, questi ultimi i nuovi «consulenti» di New Delhi in campo nucleare; lo Sri Lanka, goccia che cade dal Subcontinente in un Oceano Indiano sempre più caldo, che accetta l' «aiuto» di Pechino e si fa costruire una base, a Hambantota; la Birmania, da vero servitore di due padroni (è strettissima alleata di Pechino), che cede un porto all' India mentre il confinante Bangladesh apre Chittagong alla Cina. Chi ha nostalgia del Grande Gioco, sappia che l' Asia del XXI secolo sa essere molto più complessa dell' incastro di rivalità tra le Potenze di ottocentesca memoria. Inoltre, particolare non da poco, i nuovi imperi in formazione posseggono l' arma e la tecnologia nucleare. Non parliamo soltanto di missili e di testate atomiche, comunque un dato che trasforma ogni «litigio» in un brivido per i vicini. Ma di strumenti in grado di trasformare la natura stessa dei Paesi che li costruiscono, quantomeno di come si percepiscono e di come sono percepiti nella regione. Come il sottomarino nucleare appena varato dall' India davanti a un primo ministro Manmohan Singh visibilmente soddisfatto: «Il mare sta diventando un elemento di estrema importanza - ha detto il capo del Governo di New Delhi - nel contesto della sicurezza del Paese ed è per questo che l' India deve stabilire la sua preparazione militare tenendo presente i cambiamenti in corso». Cosa questo significhi è presto detto: un sommergibile nucleare è in grado di navigare per mesi, se non anni, senza mai far ritorno. In caso di guerra, anche dopo l' eventuale devastazione della madrepatria, può da solo infliggere colpi terribili al nemico. E l' India, che da vent' anni perseguiva l' obiettivo di riuscire a progettare e costruire con le proprie forze un simile strumento di guerra, in programma ha una flotta di dieci sottomarini nucleari. Il primo l' hanno chiamato Arihant, ovvero «distruttore di nemici», tanto per non lasciare nulla di sottinteso. E infatti, il Pakistan ha subito recepito il messaggio. Il varo del sottomarino nucleare indiano, avvenuto sabato scorso, «è un passo verso la destabilizzazione della regione», sostiene un comunicato emesso dalla marina militare di Islamabad che aggiunge: «Il sottomarino metterà a repentaglio la pace e l' equilibrio di tutti i Paesi che si affacciano sull' Oceano Indiano». E una postilla: possiamo costruirne uno anche noi. Perché New Delhi si sarebbe spinta così avanti? È chiaro che, anche se il premier Singh ha detto e ripetuto che il vascello risponde a «esigenze difensive», possedere un simile sottomarino significa trasformare le proprie forze di difesa in forze d' attacco. Una ragione c' è. Ed questa: l' India si sente sotto assedio. Il gigantesco Paese, un miliardo di abitanti e una crescita economica vivace nonostante la crisi mondiale, negli ultimi anni ha osservato stringersi attorno al proprio territorio una «collana di perle» (string of pearls) costituita dai porti e dalle basi che i cinesi hanno costruito lungo le rotte dell' approvvigionamento di petrolio, dallo Stretto di Malacca al Golfo Persico, passando per l' Oceano Indiano. A queste basi, dalle quali Pechino, in caso di conflitto, potrebbe agevolmente colpire l' India, si aggiungono le strade e gli oleodotti di terra che attraversano, a nord, il Kashmir sotto controllo del Pakistan e, a sud-est, la Birmania. Confronto economico o confronto militare? L' India ricorda ancora con senso di umiliazione il breve, ma sanguinoso conflitto imposto dalla Cina di Mao a Nehru nel 1962. Due Paesi allora tecnicamente alleati - entrambi aderivano al movimento dei non allineati - e in via di sviluppo, arrivarono a farsi la guerra ufficialmente per questioni di frontiera. In realtà perché si temevano e desideravano «contenere» l' espansionismo del rivale. Oggi, la Cina è un Paese che ha abbandonato l' ideologia per la prassi del mercato. Si è arricchita e ha allargato la sfera di interessi ben oltre le proprie frontiere: le sue aziende mettono radici in Africa e in Sudamerica, da dove riforniscono il territorio metropolitano di materie prime indispensabili a nutrire il motore dell' economia. L' India, ugualmente, anche se per strade differenti, ha imboccato la strada della modernizzazione. La più grande democrazia del mondo comincia ad avere le stesse esigenze del potente vicino e interessi sempre maggiori al di là dei propri confini. Ovvio che la «collana di perle» sia vista come un cappio pronto a stringersi. Il paradosso è che India e Cina continuano a fare affari tra di loro. L' interscambio commerciale, nel 2008, ha superato i 51 miliardi di dollari, con un incremento del 37 per cento sul 2007. Non manca la cooperazione nel settore strategico, le esercitazioni comuni antiterrorismo (dicembre 2008). Eppure, come nota Yang Dali, docente di Scienze politiche all' Università di Chicago, «si può essere amici e allo stesso tempo farsi la guerra». Paolo Salom Scheda Armata rossa La Cina ha le forze armate più numerose del mondo: circa due milioni e 250 mila soldati Esercito indiano L' India è al terzo posto con 1 milione e 410 mila uomini (al secondo posto gli Usa). Nella foto, il nuovo sottomarino «Arihant» I giganti del Bric Cina e India sono i due più popolosi Paesi del gruppo Bric (Brasile, Russia, India e Cina). La Cina è la terza economia del mondo (dopo Stati Uniti e Giappone), India undicesima Previsioni Entro il 2050 la Cina dovrebbe salire al primo posto e l' India al terzo (al secondo posto gli Stati Uniti).
Marche addio, Valmarecchia in provincia di Rimini
Il senato dice sì ai comuni secessionisti, che passano a far parte dell'Emilia Romagna.
di Emiliano Biaggio
Si ridisegnano i confini d'Italia. O almeno, di una parte di essa. Sì, perchè alla fine i comuni della Valmarecchia ce l'hanno fatta, e dalle Marche sono passati a far parte dell'Emilia Romagna. Il senato ha detto 'si' alla richiesta di distacco dalle Marche dei comuni di Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, San Leo, Sant’Agata Feltria, e Talamello, che adesso finiranno nella provincia di Rimini costringendo i cartografi a ridefinire le frontiere locali. La provincia di Pesaro-Urbino perde terreno, la regione territorio. Per la gioia dei comuni 'secessionisti' e di chi questa secessione l'ha sponsorizzata: la Lega nord. «Abbiamo scritto un pezzo di storia», commenta il parlamentare romagnolo del Carroccio, Gianluca Pini, tra i presentatori della legge per il passaggio dei sette comuni dell'Alta Val Marecchia in Romagna. «Abbiamo mantenuto la promessa fatta meno di un anno fa». Non e’ la prima volta che comuni optano per il trasferimento da una regione all’altra. Ma finora si e’ trattato di aggregazioni verso Regioni a statuto speciale, con tutto quanto ne consegue soprattutto con riferimento a regimi agevolati: Noasca e Carema dal Piemonte alla Valle d’Aosta, Magasa e Valvestino dalla Lombardia al Trenino; Asiago e i Comuni limitrofi dal Veneto al Trentino, cosi’ come Cortina d’Ampezzo; Sappada dal Veneto al Friuli. Adesso invece la lotta è stata tra due regioni 'normali', con la vittoria targata Lega. Alla fine, quelli del Carroccio potranno dire di averla fatta davvero la secessione.
di Emiliano Biaggio
Si ridisegnano i confini d'Italia. O almeno, di una parte di essa. Sì, perchè alla fine i comuni della Valmarecchia ce l'hanno fatta, e dalle Marche sono passati a far parte dell'Emilia Romagna. Il senato ha detto 'si' alla richiesta di distacco dalle Marche dei comuni di Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, San Leo, Sant’Agata Feltria, e Talamello, che adesso finiranno nella provincia di Rimini costringendo i cartografi a ridefinire le frontiere locali. La provincia di Pesaro-Urbino perde terreno, la regione territorio. Per la gioia dei comuni 'secessionisti' e di chi questa secessione l'ha sponsorizzata: la Lega nord. «Abbiamo scritto un pezzo di storia», commenta il parlamentare romagnolo del Carroccio, Gianluca Pini, tra i presentatori della legge per il passaggio dei sette comuni dell'Alta Val Marecchia in Romagna. «Abbiamo mantenuto la promessa fatta meno di un anno fa». Non e’ la prima volta che comuni optano per il trasferimento da una regione all’altra. Ma finora si e’ trattato di aggregazioni verso Regioni a statuto speciale, con tutto quanto ne consegue soprattutto con riferimento a regimi agevolati: Noasca e Carema dal Piemonte alla Valle d’Aosta, Magasa e Valvestino dalla Lombardia al Trenino; Asiago e i Comuni limitrofi dal Veneto al Trentino, cosi’ come Cortina d’Ampezzo; Sappada dal Veneto al Friuli. Adesso invece la lotta è stata tra due regioni 'normali', con la vittoria targata Lega. Alla fine, quelli del Carroccio potranno dire di averla fatta davvero la secessione.
Monday, 27 July 2009
Tranquilli, ci sono le ronde
Erano nate per garantire la sicurezza per le strade, almeno secondo i progetti del governo. E invece le ronde hanno finito col produrre l'effetto contrario: lancio di oggetti, scontri, e feriti. E anche blocco ferroviario, con alcuni dei rondisti che hanno occupato la Genova-Pisa. Protagonisti del tutto, gli stessi rondisti: una ronda italiana che si scontra con un'altra ronda italiana. Meno male che ci sono i nostri connazionali a difenderci dai malintenzionati. Una dimostrazione di come, forse, questo provvedimento voluto dalla maggioranza è stato concepito e votato con estrema leggerezza e troppa frettolosità. Ma anche una sana dimostrazione di italianità: si fanno le cose e si adottano provvedimenti per uno scopo, per poi raggiungere il risultato contrario. Abbiamo perso un'altra occasione per non dare al mondo il mondo di ridere di noi. (fonte foto: gianfalco.it)
Saturday, 25 July 2009
Nel mondo c'è un sesto continente. Di spazzatura.
E' grande quanto il Canada, ed è composto da 100.000 tonnellate di plastica. Storia di uno dei più grandi disastri ambientali del mondo.
di Emiliano Biaggio
La più grande discarica a cielo aperto di cui si è mai avuto notizia, per quello che è uno degli episodi di inquinamento piè eclatanti mai prodotti dall'uomo: due isole di immondizia che, insieme, raggiungono i 2.500 chilometri di diametro. Per intenderci, 100.000 tonnellate di rifiuti che occupano, in mezzo all'oceano, una superficie grande quanto quella dell'intero Canada. Non a caso, tutta questa immondizia è stata ribattezzata "il sesto continente" del mondo. Questo "sesto continente" marino, la "nuova Atlantide" sepolta sotto i mari, è diviso in due grandi masse: una orientale, a sud-ovest del Giappone, e una occidentale, a nord-ovest delle Hawaii. E’ attorno a quest’ultima che si è concentrato il viaggio di sei settimane di Charles Moore, magnate-ambientalista partito lo scorso 10 giugno per analizzare questo nuovo Canada di scarti a capire che impatto avrà sulla salute del pianeta. Ma in cantiere sono già pronte altre spedizioni, per andare a studiare la seconda massa e cercare di studiare il movimento di questa singolare "tettonica delle placche" di immondizia, di cui qualcosa già si sa. E’ stato infatti appurato che la massa dei vari rifiuti- per lo più materiali plastici- è soggetta ad un continuo mescolamento dovuto al vortice dell’area del Nord Pacifico “the Gyre”, una delle più potenti correnti circolari oceaniche (gyre in inglese ‘giro’, ‘movimento circolare’, corrente circolare, appunto) dotata di un particolare movimento a spirale orario che permette alle particelle di rifiuti di aggregarsi fra di loro. Quello che invece non si sa, è quali effetti producano questi scarti nei pesci una volta che vengono mangiati e, quindi, che rischi ci sono per l’uomo. Perché “the Gyre” produce una miscela di plancton e composti di plastica di cui si nutrono i molluschi: questo fa sì che ciò che l’uomo produce e poi scarta venga immesso direttamente nella catena alimentare in un percorso che dal mare arriva sulla terra ferma. L’uomo smaltisce il rifiuto in mare, il mare lo fa mangiare al mollusco del quale si nutrono i pesci. Pesci che, poi, finiscono sulle nostre tavole.
Charles Moore è l’uomo che ha scoperto l’Atlantide di immondizia: miliardario, figlio di petrolieri con la passione per il mare, nel 1997 si imbatte per puro caso in una delle due isole di rifiuti, quella occidentale. «Durante una regata, di ritorno dalle Hawaii, decido di navigare in una zona poco battuta del Pacifico», ricorda Moore. E’ lì che scopre la montagna galleggiante di rifiuti, ed è lì che nasce il suo impegno ambientalista. Oggi, con la sua fondazione Algalita Marine Research, si batte perché tutti sappiano della discarica a cielo aperto più grande del mondo composta da sacchetti di plastica, bicchieri, bottiglie e soprattutto tappi. «Nel 2005, solo sulla spiaggia californiana di Long Beach, ne ho raccolti più di mille», denuncia Moore, che quello stesso anno ha sollevato il problema direttamente al governatore dello Stato, Arnold Schwarzenegger. La missione che si è posto il ricco magnate statunitense è infatti portare alla conoscenza del vasto pubblico il disastro ambientale rappresentato dal continente di immondizia. «Una volta un mio professore mi ha detto che meno del 5% di tutta la plastica che produciamo viene riciclata: oltretutto la plastica non è biodegradabile, e una larga parte di questo materiale- denuncia ancora Moore- finisce nei fiumi e da lì al mare». Con quale risultato? Campioni di acqua prelevata da Moore e il suo equipaggio durante le ricognizioni effettuate al largo delle Hawaii con una concentrazione di polietilene (il composto più comune tra le materie plastiche) e altre sostanze inquinanti «superiore di un milione di volte rispetto al livello delle altre acque marine circostanti», sottolinea il petroliere-ambientalista. Ma come detto la plastica non si limita a finire in acqua: finisce infatti nei pesci e in tutti quegli animali che vivono a contatto con il mare. «Nello stomaco di pesci comuni che popolano questi mari sono stati ritrovati fino a 84 pezzi» di queste sostanze chimiche e inquinanti, fa sapere Moore. E questo ha provocato una reazione a catena: «Albatros sono morti per sostanze tossiche ingerite, e centinaia di migliaia di anatre stanno morendo per via di materiali plastici e altra spazzatura», avverte. Adesso l’imbarcazione rientra in porto, a Long Beach, proprio dove Moore ha iniziato a toccare con mano gli effetti dell’inquinamento prodotto dall’uomo ‘collezionando’ i tappi delle bottigliette. Poi, a settembre, riprenderà il mare. Per raccogliere informazioni su questo continente mobile che rappresenta un’incognita e un rischio per il futuro. Perchè si rischia di consegnare all'avvenire un mare di immondizia, riconosce Charles Moore, e «non vogliamo che questa sia l’eredità che verrà lasciata ai nostri figli e, soprattutto, alla prossime generazioni».
di Emiliano Biaggio
La più grande discarica a cielo aperto di cui si è mai avuto notizia, per quello che è uno degli episodi di inquinamento piè eclatanti mai prodotti dall'uomo: due isole di immondizia che, insieme, raggiungono i 2.500 chilometri di diametro. Per intenderci, 100.000 tonnellate di rifiuti che occupano, in mezzo all'oceano, una superficie grande quanto quella dell'intero Canada. Non a caso, tutta questa immondizia è stata ribattezzata "il sesto continente" del mondo. Questo "sesto continente" marino, la "nuova Atlantide" sepolta sotto i mari, è diviso in due grandi masse: una orientale, a sud-ovest del Giappone, e una occidentale, a nord-ovest delle Hawaii. E’ attorno a quest’ultima che si è concentrato il viaggio di sei settimane di Charles Moore, magnate-ambientalista partito lo scorso 10 giugno per analizzare questo nuovo Canada di scarti a capire che impatto avrà sulla salute del pianeta. Ma in cantiere sono già pronte altre spedizioni, per andare a studiare la seconda massa e cercare di studiare il movimento di questa singolare "tettonica delle placche" di immondizia, di cui qualcosa già si sa. E’ stato infatti appurato che la massa dei vari rifiuti- per lo più materiali plastici- è soggetta ad un continuo mescolamento dovuto al vortice dell’area del Nord Pacifico “the Gyre”, una delle più potenti correnti circolari oceaniche (gyre in inglese ‘giro’, ‘movimento circolare’, corrente circolare, appunto) dotata di un particolare movimento a spirale orario che permette alle particelle di rifiuti di aggregarsi fra di loro. Quello che invece non si sa, è quali effetti producano questi scarti nei pesci una volta che vengono mangiati e, quindi, che rischi ci sono per l’uomo. Perché “the Gyre” produce una miscela di plancton e composti di plastica di cui si nutrono i molluschi: questo fa sì che ciò che l’uomo produce e poi scarta venga immesso direttamente nella catena alimentare in un percorso che dal mare arriva sulla terra ferma. L’uomo smaltisce il rifiuto in mare, il mare lo fa mangiare al mollusco del quale si nutrono i pesci. Pesci che, poi, finiscono sulle nostre tavole.
Charles Moore è l’uomo che ha scoperto l’Atlantide di immondizia: miliardario, figlio di petrolieri con la passione per il mare, nel 1997 si imbatte per puro caso in una delle due isole di rifiuti, quella occidentale. «Durante una regata, di ritorno dalle Hawaii, decido di navigare in una zona poco battuta del Pacifico», ricorda Moore. E’ lì che scopre la montagna galleggiante di rifiuti, ed è lì che nasce il suo impegno ambientalista. Oggi, con la sua fondazione Algalita Marine Research, si batte perché tutti sappiano della discarica a cielo aperto più grande del mondo composta da sacchetti di plastica, bicchieri, bottiglie e soprattutto tappi. «Nel 2005, solo sulla spiaggia californiana di Long Beach, ne ho raccolti più di mille», denuncia Moore, che quello stesso anno ha sollevato il problema direttamente al governatore dello Stato, Arnold Schwarzenegger. La missione che si è posto il ricco magnate statunitense è infatti portare alla conoscenza del vasto pubblico il disastro ambientale rappresentato dal continente di immondizia. «Una volta un mio professore mi ha detto che meno del 5% di tutta la plastica che produciamo viene riciclata: oltretutto la plastica non è biodegradabile, e una larga parte di questo materiale- denuncia ancora Moore- finisce nei fiumi e da lì al mare». Con quale risultato? Campioni di acqua prelevata da Moore e il suo equipaggio durante le ricognizioni effettuate al largo delle Hawaii con una concentrazione di polietilene (il composto più comune tra le materie plastiche) e altre sostanze inquinanti «superiore di un milione di volte rispetto al livello delle altre acque marine circostanti», sottolinea il petroliere-ambientalista. Ma come detto la plastica non si limita a finire in acqua: finisce infatti nei pesci e in tutti quegli animali che vivono a contatto con il mare. «Nello stomaco di pesci comuni che popolano questi mari sono stati ritrovati fino a 84 pezzi» di queste sostanze chimiche e inquinanti, fa sapere Moore. E questo ha provocato una reazione a catena: «Albatros sono morti per sostanze tossiche ingerite, e centinaia di migliaia di anatre stanno morendo per via di materiali plastici e altra spazzatura», avverte. Adesso l’imbarcazione rientra in porto, a Long Beach, proprio dove Moore ha iniziato a toccare con mano gli effetti dell’inquinamento prodotto dall’uomo ‘collezionando’ i tappi delle bottigliette. Poi, a settembre, riprenderà il mare. Per raccogliere informazioni su questo continente mobile che rappresenta un’incognita e un rischio per il futuro. Perchè si rischia di consegnare all'avvenire un mare di immondizia, riconosce Charles Moore, e «non vogliamo che questa sia l’eredità che verrà lasciata ai nostri figli e, soprattutto, alla prossime generazioni».
Thursday, 23 July 2009
Xinjiang, un conflitto non casuale
Indipendente nel 1940, riconquistato da Mao solo 9 anni più tardi. Ecco cosa c'è sotto le rivolte in Turkestan, miniera d'oro nero nella morsa del dragone.
di Emiliano Biaggio
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Dopo gli scontri e i 184 morti Urumqui, capoluogo della provincia autonoma dello Xinjang, resta chiusa e inaccessibile al mondo esterno. La condotta delle autorità di Pechino, non è nuova, al contrario è ben collaudata. Come nella regione autonoma tibetana dello Xizang, si reprime e si 'colonizza' in silenzio. Spostamento forzato della popolazione, controllo del territorio e rigidi controlli in entrata e in uscita dalla provincia- per scongiurare fughe di notizie- sono i tratti salienti della politica cinese nello Xinjang. Nella regione nord-occidentale del paese le tensioni tra uiguri musulmani di etnia turcomanna e i cinesi dell'etnia dominante Han ha origini antiche, secondo alcuni risale addirittura alla conquista dello Xinjiang da parte della dinastia manciura dei Qing nel 1700. Quel che è certo è che nel 1940 una parte dello Xinjiang- ricca di risorse minerarie- divenne indipendente col nome di Turkestan occidentale ma fu poi 'riconquistata' nove anni più tardi dalle truppe rosse di Mao Tze Tung e ridotta a provincia cinese. Una provincia formalmente e nominalmente autonoma, ma nei fatti guidata dal dirigismo del potere centrale e controllata rigidimente dagli esponenti del partito comunista. Nello Xinjang il potere è nelle mani di Wang Lequan, il segretario generale di partito della provincia, un cinese di etnia Han. Ma perchè questa stretta sul territorio? Per due ragioni: la prima è che non possono cedere nè concedere, altrimenti altre minoranze all'interno della Cina- specie quello tibetana dello Xizang- inizierebbero a creare altre ulteriori spinte disgregative intestine; la seconda è di natura economica: la regione, infatti, oltre agli uighuri 'ospita' vasti giacimenti di minerali, gas e petrolio. Nelle prefetture di Aksu e Karamay l'industria petrolifera è in piena espansione, e nel 2005 le autorità cinesi hanno inaugurato un oleodotto che collega la Cina con il Kazakhstan passando proprio attraverso lo Xinjiang; la pipeline, adesso, porta gas e petrolio liquido a Shanghai, città simbolo della crescita a ritmi vertiginosi del Paese del dragone. Gli interessi economici nella regione sono quindi forti, e sono dettati anche dalle crescenti esigenze energetiche del Paese. Paese, la Cina, che gestisce il potere economico della provincia e lascia che a detenerlo siano solo gli Han. La prosperità conosciuta dallo Xinjiang negli ultimi anni non è stata infatti redistribuita alla popolazione locale: come in Tibet, i benefici della crescita economica non sono andati a vantaggio degli uighuri, ma a una nuova generazione di coloni Han trapiantati da Pechino nel corso degli ultimi 20-30 anni. Sempre agli Han vanno i migliori posti di lavoro pubblici e privati, con gli uighuri tenuti fuori i centri di potere (politico ed economico) e costretti ai margini della società: il trasferimento di cinesi Han nella provincia ha infatti ridisegnato gli assetti etnici nel territorio. Secondo le stime dell'università di Yale, il 42% della popolazione dello Xinjiang è uighura, il 40 % han e il resto di altre etnie. Ma va sottolineato che gli han erano il 5% nel 1949.
Monday, 20 July 2009
Cina e Russia, le chiavi iraniane per forzare lo scacchiere internazionale
Nioc firma accordi per sfruttamento di gas con i cinesi di Cnpc, e resta un «importante partner» di Mosca. E l'occidente resta a guardare.
di Emiliano Biaggio
L'Iran ha firmato un contratto da 4,7 miliardi di dollari con la China national petroleum corporation (Cnpc) per sviluppare una parte dei lavori di sfruttamento del Pars Sud, il più grande giacimento mondiale di gas, la cui gestione è condivisa dalla stessa Repubblica islamica e il Qatar. L'accordo con la Cnpc è stato siglato a Pechino da Seifollah Jashnsaz, il direttore della Nioc, la compagnia petrolifera nazionale dell'Iran. Un accordo non indifferente, quello raggiunto tra Pechino e Teheran, soprattutto per quest'ultima. L'Iran in questo modo si scrolla di dosso le pressioni internazionali, creando una partnership economico-energetica strategica per le libertà di manovra della Repubblica islamica. Da una parte, infatti, la Nioc assesta un duro colpo ai francesi della Total, in lizza per lo sfruttamento dei giacimenti di gas aperti invece alla Cina. La compagnia nazionale iraniana ha chiuso le porte in faccia alla Francia per «ritardi», liquidando le trattative e prendendo accordi con i cinesi, i quali adesso hanno un motivo in più per dire 'no', in sede Onu, a sanzioni nei confronti delle autorità di Teheran. Con un'abile mossa l'iran si libera quindi dalla morsa di Europa e Stati Uniti, e può quindi proseguire nel proprio programma per il nucleare civile senza dover temere ritorsioni economiche troppo alte. A Pechino gli ayatollah offrono forniture di greggio con prezzo scontato del 5%, otto anni di esenzioni fiscali e la possibilità per gli investitori stranieri di trasferire all’estero il ricavato degli investimenti. Un piatto ricco per le necessità economiche ed energetiche della Cina, che da adesso in poi trova nell'Iran un interlocutore con cui mantenere rapporti privilegiati. Rapporti privilegiati che intercorrono però anche lungo un altro asse, quello Teheran-Mosca: «L’Iran è un nostro importante partner» ha fatto sapere il presidente russo Dmitri Medvedev prima del suo incontro con il presidente Usa. Messaggio chiaro, quello fatto recapitare alla Casa Bianca, a cui Medvedev ha voluto anche tenere a precisare che per quanto riguarda i disordini post-elezioni «credo che gli iraniani debbano risolvere da soli i loro problemi interni». Insomma, l'Iran si è costruito un fronte amico con cui contrastare quello 'nemico' dell'occidente. Con accordi energetici e due paesi con diritto di veto in seno al consiglio di sicurezza dell'Onu dalla propria parte, Teheran ridisegna a proprio favore le dinamiche geopolitiche internazionali.
di Emiliano Biaggio
L'Iran ha firmato un contratto da 4,7 miliardi di dollari con la China national petroleum corporation (Cnpc) per sviluppare una parte dei lavori di sfruttamento del Pars Sud, il più grande giacimento mondiale di gas, la cui gestione è condivisa dalla stessa Repubblica islamica e il Qatar. L'accordo con la Cnpc è stato siglato a Pechino da Seifollah Jashnsaz, il direttore della Nioc, la compagnia petrolifera nazionale dell'Iran. Un accordo non indifferente, quello raggiunto tra Pechino e Teheran, soprattutto per quest'ultima. L'Iran in questo modo si scrolla di dosso le pressioni internazionali, creando una partnership economico-energetica strategica per le libertà di manovra della Repubblica islamica. Da una parte, infatti, la Nioc assesta un duro colpo ai francesi della Total, in lizza per lo sfruttamento dei giacimenti di gas aperti invece alla Cina. La compagnia nazionale iraniana ha chiuso le porte in faccia alla Francia per «ritardi», liquidando le trattative e prendendo accordi con i cinesi, i quali adesso hanno un motivo in più per dire 'no', in sede Onu, a sanzioni nei confronti delle autorità di Teheran. Con un'abile mossa l'iran si libera quindi dalla morsa di Europa e Stati Uniti, e può quindi proseguire nel proprio programma per il nucleare civile senza dover temere ritorsioni economiche troppo alte. A Pechino gli ayatollah offrono forniture di greggio con prezzo scontato del 5%, otto anni di esenzioni fiscali e la possibilità per gli investitori stranieri di trasferire all’estero il ricavato degli investimenti. Un piatto ricco per le necessità economiche ed energetiche della Cina, che da adesso in poi trova nell'Iran un interlocutore con cui mantenere rapporti privilegiati. Rapporti privilegiati che intercorrono però anche lungo un altro asse, quello Teheran-Mosca: «L’Iran è un nostro importante partner» ha fatto sapere il presidente russo Dmitri Medvedev prima del suo incontro con il presidente Usa. Messaggio chiaro, quello fatto recapitare alla Casa Bianca, a cui Medvedev ha voluto anche tenere a precisare che per quanto riguarda i disordini post-elezioni «credo che gli iraniani debbano risolvere da soli i loro problemi interni». Insomma, l'Iran si è costruito un fronte amico con cui contrastare quello 'nemico' dell'occidente. Con accordi energetici e due paesi con diritto di veto in seno al consiglio di sicurezza dell'Onu dalla propria parte, Teheran ridisegna a proprio favore le dinamiche geopolitiche internazionali.
Friday, 17 July 2009
Aumentano gli attacchi, l'Afghanistan torna instabile
Esplosioni più che raddoppiate rispetto a due anni fa, 46 i soldati Usa morti dall'inizio del 2009. Londra e Washington vogliono sempre più un'exit strategy.
di Emanuele Bonini
Il militare della Folgore ucciso e, ancora prima, il premier britannico Gordon Brown costretto a lasciare il G8 per catapultarsi letteralmene a Northwood- dove ha sede il comando generale delle operazioni militari britanniche in Afghanistan- per soldati morti sotto i colpi della guerriglia afghana: sono gli ultimi segni concreti del deteriorarsi della situazione nel paese asiatico, da dove adesso tutti iniziano a guardare con preoccupazione. E non potrebbere essere altrimenti: gli attacchi con congegni esplosivi improvvisati (gli Ied, improvised explosive devices) sferrati contro le truppe della coalizione sono notevolmente aumentati. Basti pensare nel maggio scorso sono stati 465, più del doppio di quelli compiuti nello stesso mese di due anni fa. Ancora, dall'inizio del 2009 a causa degli Ied sono morti almeno 46 soldati statunitensi, e le previsioni non lasciano intravedere nulla di buono, anzi: le esplosioni di questi ordigni contro le forze di sicurezza afgane potrebbero raggiungere quota 6.000 entro la fine dell'anno. La situazione sembra sfuggita di mano, se è vero che uno degli ultimi attentati è avvenuto nel sud dell’Afghanistan in una zona che i rapporti definivano quasi normalizzata. L'Italia cerca di minimizzare, con il ministro della Difesa Ignazio La Russa che si limita a constatare che i recenti attentanti confermano come «non esiste la sicurezza al 100 per cento». A Londra, invece, la situazione preoccupa e ci si inizia a interrrogare: da una parte le sfere militari spingono per un maggiore coinvolgimento di uomini e di mezzi, mentre dall’altra parte dei laburisti valutano e appoggiano l’ipotesi di un parziale disimpegno. Un'ipotesi su cui si ragiona anche alla Casa Bianca: «Tutti noi- ammette Barack Obama- vogliamo vedere un'efficace exit strategy in cui l'esercito afghano, la polizia afghana, i tribunali afghani, il governo afghano si assumano sempre più responsabilità per la propria sicurezza». (fonte foto: La Stampa)
di Emanuele Bonini
Il militare della Folgore ucciso e, ancora prima, il premier britannico Gordon Brown costretto a lasciare il G8 per catapultarsi letteralmene a Northwood- dove ha sede il comando generale delle operazioni militari britanniche in Afghanistan- per soldati morti sotto i colpi della guerriglia afghana: sono gli ultimi segni concreti del deteriorarsi della situazione nel paese asiatico, da dove adesso tutti iniziano a guardare con preoccupazione. E non potrebbere essere altrimenti: gli attacchi con congegni esplosivi improvvisati (gli Ied, improvised explosive devices) sferrati contro le truppe della coalizione sono notevolmente aumentati. Basti pensare nel maggio scorso sono stati 465, più del doppio di quelli compiuti nello stesso mese di due anni fa. Ancora, dall'inizio del 2009 a causa degli Ied sono morti almeno 46 soldati statunitensi, e le previsioni non lasciano intravedere nulla di buono, anzi: le esplosioni di questi ordigni contro le forze di sicurezza afgane potrebbero raggiungere quota 6.000 entro la fine dell'anno. La situazione sembra sfuggita di mano, se è vero che uno degli ultimi attentati è avvenuto nel sud dell’Afghanistan in una zona che i rapporti definivano quasi normalizzata. L'Italia cerca di minimizzare, con il ministro della Difesa Ignazio La Russa che si limita a constatare che i recenti attentanti confermano come «non esiste la sicurezza al 100 per cento». A Londra, invece, la situazione preoccupa e ci si inizia a interrrogare: da una parte le sfere militari spingono per un maggiore coinvolgimento di uomini e di mezzi, mentre dall’altra parte dei laburisti valutano e appoggiano l’ipotesi di un parziale disimpegno. Un'ipotesi su cui si ragiona anche alla Casa Bianca: «Tutti noi- ammette Barack Obama- vogliamo vedere un'efficace exit strategy in cui l'esercito afghano, la polizia afghana, i tribunali afghani, il governo afghano si assumano sempre più responsabilità per la propria sicurezza». (fonte foto: La Stampa)
Thursday, 16 July 2009
«Sparate senza pensare ai civili»
Rivelazioni schock di soldati israeliani.
fonte: Il Messaggero del 16/7/2009.
Sparare senza preoccuparsi della sorte dei civili palestinesi: questa era la prassi seguita dall'esercito israeliano a Gaza durante l'operazione piombo fuso, che dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio scorso ha provocato circa 1.300 morti, secondo le testimonianze di una trentina di soldati, che hanno partecipato alle operazioni di guerra, raccolte da Breaking the silence, un'organizzazione composta da ex militari che si batte per il rispetto dei diritti umani. Il rapporto, secondo quanto riferito dal Financial Times è composto da 112 pagine e raccoglie le testimonianze anche video di uomini «coinvolti nelle operazioni a ogni livello». «Le critiche rivolte alle forze di sicurezza israeliane da questo o quel gruppo sono inappropriate- ha commentato il ministro della Difesa Ehud Barak- le forze di sicurezza israeliane sono uno degli eserciti che meglio rispettano l'etica al mondo e agiscono nel rispetto di alti valori morali. Ogni critica alle operazioni delle forze di sicurezza dovrebbe essere rivolta a me, in quanto ministro della Difesa israeliano». Secondo uno dei testimoni citati dal rapporto, «l'obiettivo era terminare la missione con il minor numero possibile di perdite per l'Esercito senza chiedersi quale sarebbe stato il prezzo pagato dagli altri». «Meglio colpire un innocente che esitare a sparare a un nemico», era l'ordine impartito dai gradi superiori dell'Esercito israeliano, secondo un'altra confessione pubblicata nel dossier.
fonte: Il Messaggero del 16/7/2009.
Sparare senza preoccuparsi della sorte dei civili palestinesi: questa era la prassi seguita dall'esercito israeliano a Gaza durante l'operazione piombo fuso, che dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio scorso ha provocato circa 1.300 morti, secondo le testimonianze di una trentina di soldati, che hanno partecipato alle operazioni di guerra, raccolte da Breaking the silence, un'organizzazione composta da ex militari che si batte per il rispetto dei diritti umani. Il rapporto, secondo quanto riferito dal Financial Times è composto da 112 pagine e raccoglie le testimonianze anche video di uomini «coinvolti nelle operazioni a ogni livello». «Le critiche rivolte alle forze di sicurezza israeliane da questo o quel gruppo sono inappropriate- ha commentato il ministro della Difesa Ehud Barak- le forze di sicurezza israeliane sono uno degli eserciti che meglio rispettano l'etica al mondo e agiscono nel rispetto di alti valori morali. Ogni critica alle operazioni delle forze di sicurezza dovrebbe essere rivolta a me, in quanto ministro della Difesa israeliano». Secondo uno dei testimoni citati dal rapporto, «l'obiettivo era terminare la missione con il minor numero possibile di perdite per l'Esercito senza chiedersi quale sarebbe stato il prezzo pagato dagli altri». «Meglio colpire un innocente che esitare a sparare a un nemico», era l'ordine impartito dai gradi superiori dell'Esercito israeliano, secondo un'altra confessione pubblicata nel dossier.
Thursday, 9 July 2009
«In Italia pesca illegale con ferrettare».
Oceana ci denuncia alla Commissione europea, e chiede a Bruxelles di «prendere provvedimenti».
di Emiliano Biaggio
Oceana denuncia l'Italia per pesca con strumenti illegali. L'associazione internazionale per la conservazione marina, con una lettera e una denuncia formale, si rivolge alla Commissione europea affinche' l'organismo di Bruxelles «prenda provvedimenti contro l'uso illegale delle ferrettare in Italia». In particolare, fa sapere la stessa associazione, Oceana si e' rivolta ai commissari europei per l'Ambiente e per la Pesca, rispettivamente Stavros Dimas e Joe Borg, per chiedere di «porre fine all'uso illegale delle retiderivanti italiane». Le reti derivanti sono attrezzi da pesca vietati dall'Unione europea dal 2002, ricorda l'associazione, perche' costituiscono una minaccia per la conservazione di cetacei, tartarughe e squali. Gia' una settimana fa (l'1 luglio) Oceana aveva denunciato che l'Italia esporta «in diverse localita' dei paesi baschi tonni alalunga di origine italiana che riportano segni che dimostrano che sono stati catturati con reti derivanti illegali». Adesso, con la lettera inviata a Bruxelles, l'organizzazione fornisce «delle prove sulla pesca illegale di specie marine migratorie altamente vulnerabili, come il tonno rosso, messa in atto da imbarcazioni attualmente autorizzate a fare uso delle ferrettare», e per questo motivo l'associazione internazionale per la conservazione marina chiede provvedimenti contro il nostro Paese. Oceana lamenta che «nonostante il fatto che la legislazione dell'Ue proibisca l'uso di tutti i tipi di reti derivanti per la pesca di un elenco molto lungo di specie marine altamente migratorie, le ferrettare continuano ad essere illegalmente autorizzate in Italia». L'Italia, sostiene l'organizzazione internazionale, «non e' stata ancora capace di applicare correttamente la legislazione Ue sulle reti derivanti, nonostante il fatto che essa proibisca sia le reti derivanti di lunghezza superiore a 2,5 chilometri che la pesca di specie altamente migratorie». Le ferrettare, denuncia Xavier Pastor, direttore esecutivo di Oceana in Europa, «sono un noto esempio di come la proibizione delle reti derivanti dell'Ue sia stata compromessa e Oceana si rivolge alla Commissione europea affinche' prenda gli opportuni provvedimenti per fare in modo che l'Italia adempia alleesistenti norme dell'Ue».
di Emiliano Biaggio
Oceana denuncia l'Italia per pesca con strumenti illegali. L'associazione internazionale per la conservazione marina, con una lettera e una denuncia formale, si rivolge alla Commissione europea affinche' l'organismo di Bruxelles «prenda provvedimenti contro l'uso illegale delle ferrettare in Italia». In particolare, fa sapere la stessa associazione, Oceana si e' rivolta ai commissari europei per l'Ambiente e per la Pesca, rispettivamente Stavros Dimas e Joe Borg, per chiedere di «porre fine all'uso illegale delle retiderivanti italiane». Le reti derivanti sono attrezzi da pesca vietati dall'Unione europea dal 2002, ricorda l'associazione, perche' costituiscono una minaccia per la conservazione di cetacei, tartarughe e squali. Gia' una settimana fa (l'1 luglio) Oceana aveva denunciato che l'Italia esporta «in diverse localita' dei paesi baschi tonni alalunga di origine italiana che riportano segni che dimostrano che sono stati catturati con reti derivanti illegali». Adesso, con la lettera inviata a Bruxelles, l'organizzazione fornisce «delle prove sulla pesca illegale di specie marine migratorie altamente vulnerabili, come il tonno rosso, messa in atto da imbarcazioni attualmente autorizzate a fare uso delle ferrettare», e per questo motivo l'associazione internazionale per la conservazione marina chiede provvedimenti contro il nostro Paese. Oceana lamenta che «nonostante il fatto che la legislazione dell'Ue proibisca l'uso di tutti i tipi di reti derivanti per la pesca di un elenco molto lungo di specie marine altamente migratorie, le ferrettare continuano ad essere illegalmente autorizzate in Italia». L'Italia, sostiene l'organizzazione internazionale, «non e' stata ancora capace di applicare correttamente la legislazione Ue sulle reti derivanti, nonostante il fatto che essa proibisca sia le reti derivanti di lunghezza superiore a 2,5 chilometri che la pesca di specie altamente migratorie». Le ferrettare, denuncia Xavier Pastor, direttore esecutivo di Oceana in Europa, «sono un noto esempio di come la proibizione delle reti derivanti dell'Ue sia stata compromessa e Oceana si rivolge alla Commissione europea affinche' prenda gli opportuni provvedimenti per fare in modo che l'Italia adempia alleesistenti norme dell'Ue».
Tuesday, 7 July 2009
Uighuri, "l'altra" questione della Cina
Scontri nel capoluogo dello Xinjiang, con centinaia di morti nella regione che non ha nulla da invidiare ai confinanti tibetani.
di Emiliano Biaggio
La miccia era accesa, e bruciava lentamente. Adesso la bomba è esplosa: scontri e feriti a Urumqi, nel nord-ovest della Cina. E soprattutto morti, tra i 140 e i 156. Tutti uighuri, tutti nello Xinjiang, la regiona autonoma dove vivono 8,3 milioni di persone appartenenti ad etnia turcofona da tempo desiderosi di indipendenza dalla Cina. Una Cina che, come da copione, reprime. Già, come da copione. Tra le varie regioni con cui confina lo Xinjiag, a sud c'è lo Xizang, conosciuto anche come regione autonoma del Tibet (Tar). Altro territorio caldo, al centro delle politiche di dominio e repressioni di Pechino, dove la polizia è sempre pronta a soffocare forme di protesta e stroncare il movimento secessionista. Proprio come nello Xizang, il governo centrale sta adottando nello Xinjian- da sempre- le stesse strategie: autonomia formale e controllo del potere politico-economico sottratto agli uighuri, rigido controllo e sradicazione del dissenso. E poi colonizzazione, con trasferimento di popolazione cinese Han così da rendere quella uighura una maggioranza etnica relativa. Urgen Tenzin, direttore esecutivo del Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia, non ha dubbi: «La politica cinese nei confronti degli uighuri è molto simile a quella che applica sui tibetani», colpiti perchè non cinesi. E quella etnico-culturale è la ragione che ha fatto precipitare una situazione già instabile dello Xinjian: sembra che cinesi Han abbiano assaltato un dormitorio di operai uighuri uccidendone due. I responsabili non sarebbero stati puniti, e questo ha generato le proteste e la sollevazione della popolazione. Sollevazione 'a orologeria', come una bomba appunto. L'esplosione uighura è infatti avvenuta proprio mentre il presidente cinese Hu Jintao, in visita in Italia, veniva pressato dal capo dello Stato Giorgio Napolitano sulla questione dei diritti umani. E a proposito di diritti umani: «La frustrazione dei tibetani sta crescendo», avverte Tenzin. Nello Xizang «si è sempre più stanchi dell'ipocrisia cinese nella ricerca di una soluzione alla questione tibetana». A Pechino quindi stiano in campana, perchè la situazione rischia di precipitare ulteriormente...
di Emiliano Biaggio
La miccia era accesa, e bruciava lentamente. Adesso la bomba è esplosa: scontri e feriti a Urumqi, nel nord-ovest della Cina. E soprattutto morti, tra i 140 e i 156. Tutti uighuri, tutti nello Xinjiang, la regiona autonoma dove vivono 8,3 milioni di persone appartenenti ad etnia turcofona da tempo desiderosi di indipendenza dalla Cina. Una Cina che, come da copione, reprime. Già, come da copione. Tra le varie regioni con cui confina lo Xinjiag, a sud c'è lo Xizang, conosciuto anche come regione autonoma del Tibet (Tar). Altro territorio caldo, al centro delle politiche di dominio e repressioni di Pechino, dove la polizia è sempre pronta a soffocare forme di protesta e stroncare il movimento secessionista. Proprio come nello Xizang, il governo centrale sta adottando nello Xinjian- da sempre- le stesse strategie: autonomia formale e controllo del potere politico-economico sottratto agli uighuri, rigido controllo e sradicazione del dissenso. E poi colonizzazione, con trasferimento di popolazione cinese Han così da rendere quella uighura una maggioranza etnica relativa. Urgen Tenzin, direttore esecutivo del Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia, non ha dubbi: «La politica cinese nei confronti degli uighuri è molto simile a quella che applica sui tibetani», colpiti perchè non cinesi. E quella etnico-culturale è la ragione che ha fatto precipitare una situazione già instabile dello Xinjian: sembra che cinesi Han abbiano assaltato un dormitorio di operai uighuri uccidendone due. I responsabili non sarebbero stati puniti, e questo ha generato le proteste e la sollevazione della popolazione. Sollevazione 'a orologeria', come una bomba appunto. L'esplosione uighura è infatti avvenuta proprio mentre il presidente cinese Hu Jintao, in visita in Italia, veniva pressato dal capo dello Stato Giorgio Napolitano sulla questione dei diritti umani. E a proposito di diritti umani: «La frustrazione dei tibetani sta crescendo», avverte Tenzin. Nello Xizang «si è sempre più stanchi dell'ipocrisia cinese nella ricerca di una soluzione alla questione tibetana». A Pechino quindi stiano in campana, perchè la situazione rischia di precipitare ulteriormente...
Monday, 6 July 2009
Regione addio, la secessione silenziosa marchigiana.
Espressa la volontà di passare a far parte di una diversa entità territoriale.
di Emiliano Biaggio
“Guerra” tra Marche e Emilia Romagna. Oggetto del contendere: 7 Comuni dell’alta Valmarecchia che hanno optato per il trasferimento dalle terrre marchigiane a quelle emiliane,. Con il “no” deciso delle Marche e il “si’” netto dell’Emilia. Con un referendum, i Comuni di Casteldelci, Maiolo, Novafeltra, Pennabilli, San Leo, Sant’Agata Feltria, e Talamello hanno deciso a stragrande maggioranza (una percentuale tra l’80 e l’86% dei consensi) la “secessione” dalle Marche alla vicina Emilia Romagna: e i deputati Sergio Pizzolande (Pdl) e Gianluca Pini (Lega) hanno presentato due disegni di legge, analoghji nella sostanza, per il distacco di questi Comuni dalla provincia di Pesaro-Urbino e la loro aggregazione alla provincia di Rimini. A sostegndo della trasmigrazione vengono indicate motivazioni storiche: quelle zone gia’ nel 1300 furono assoggettate a Rimini, e dopo una breve parentesi sotto i Montefeltro, tornarono a Rimini con i Malatesta: Vengono poi ricordate anche due espressioni della volontà popolare per un ricongiungimento: quella del 1827di Sant’Agata Feltria e quella di Pennabilli nel 1861. I due disegni di legge sono al vaglio della commissione Affari costituzionali della Camera, che li ha unificati in un unico testo base. E nelle scorse settimane ha preceduto alle audizioni di costituzionalisti e delle autonomie locali. Il ricorso allo strumento legislativo e’ previsto dalle procedure delineate dall’art. 132 della Costituzione.
Ovviamente le due Regioni coinvolte non stanno a guardare e le loro posizioni sono agli antipodi. Il consiglio regionale delle Marche, con delibera del marzo dello scorso anno, ha espresso parere negativo al distacco; al contrario, l’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna ha dato parere favorevole all’aggregazione. In ballo, più che questioni storiche, ci sono motivi politici se solo si pensa alle elezioni ammnistrative (ad esempio, al ridisegno delle circoscrizioni elettorali delle province di Pesaro-Urbino e di Rimini) ed economici .
Non e’ la prima volta che Comuni optano per il trasferimento da una regione all’altra. Ma finora si e’ trattato di aggregazioni verso Regioni a statuto speciale, con tutto quanto ne consegue soprattutto con riferimento a regimi agevolati: Noasca e Carema dal Piemonte alla Valle d’Aosta, Magasa e Valvestino dalla Lombardia al Trenino; Asiago e i Comuni limitrofi dal Veneto al Trentino, cosi’ come Cortina d’Ampezzo; Sappada dal Veneto al Friuli. In questo caso, invece, il conflitto coinvolge due regioni “normali”. Al Parlamento l’ultima parola.
di Emiliano Biaggio
“Guerra” tra Marche e Emilia Romagna. Oggetto del contendere: 7 Comuni dell’alta Valmarecchia che hanno optato per il trasferimento dalle terrre marchigiane a quelle emiliane,. Con il “no” deciso delle Marche e il “si’” netto dell’Emilia. Con un referendum, i Comuni di Casteldelci, Maiolo, Novafeltra, Pennabilli, San Leo, Sant’Agata Feltria, e Talamello hanno deciso a stragrande maggioranza (una percentuale tra l’80 e l’86% dei consensi) la “secessione” dalle Marche alla vicina Emilia Romagna: e i deputati Sergio Pizzolande (Pdl) e Gianluca Pini (Lega) hanno presentato due disegni di legge, analoghji nella sostanza, per il distacco di questi Comuni dalla provincia di Pesaro-Urbino e la loro aggregazione alla provincia di Rimini. A sostegndo della trasmigrazione vengono indicate motivazioni storiche: quelle zone gia’ nel 1300 furono assoggettate a Rimini, e dopo una breve parentesi sotto i Montefeltro, tornarono a Rimini con i Malatesta: Vengono poi ricordate anche due espressioni della volontà popolare per un ricongiungimento: quella del 1827di Sant’Agata Feltria e quella di Pennabilli nel 1861. I due disegni di legge sono al vaglio della commissione Affari costituzionali della Camera, che li ha unificati in un unico testo base. E nelle scorse settimane ha preceduto alle audizioni di costituzionalisti e delle autonomie locali. Il ricorso allo strumento legislativo e’ previsto dalle procedure delineate dall’art. 132 della Costituzione.
Ovviamente le due Regioni coinvolte non stanno a guardare e le loro posizioni sono agli antipodi. Il consiglio regionale delle Marche, con delibera del marzo dello scorso anno, ha espresso parere negativo al distacco; al contrario, l’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna ha dato parere favorevole all’aggregazione. In ballo, più che questioni storiche, ci sono motivi politici se solo si pensa alle elezioni ammnistrative (ad esempio, al ridisegno delle circoscrizioni elettorali delle province di Pesaro-Urbino e di Rimini) ed economici .
Non e’ la prima volta che Comuni optano per il trasferimento da una regione all’altra. Ma finora si e’ trattato di aggregazioni verso Regioni a statuto speciale, con tutto quanto ne consegue soprattutto con riferimento a regimi agevolati: Noasca e Carema dal Piemonte alla Valle d’Aosta, Magasa e Valvestino dalla Lombardia al Trenino; Asiago e i Comuni limitrofi dal Veneto al Trentino, cosi’ come Cortina d’Ampezzo; Sappada dal Veneto al Friuli. In questo caso, invece, il conflitto coinvolge due regioni “normali”. Al Parlamento l’ultima parola.
Saturday, 4 July 2009
Il ciclista perde i punti sulla patente. Un film di Charlot
di Beppe Severgnini (dal Corriere della sera del 4 luglio 2009)
Per gravi infrazioni in bicicletta — pedalare ubriachi e causare un incidente, per esempio — d’ora in poi si perderanno punti della patente dell’automobile. Se esistesse una logica, in questa norma illogica, per infrazioni in automobile si dovrebbe perdere la bicicletta. Divieto di sosta? Sequestro della Bianchi da corsa. Non ce l’avete? Sequestro del triciclo del figlio. Il pianto del piccolo sarà la vostra punizione. Tutto nasce dal nuovo Ddl Sicurezza, dentro il quale c’è il Comma della Stranezza. Recita la legge: «Se il conducente è persona munita...(...) di patente di guida, nell’ipotesi in cui, ai sensi del presente codice, sono stabilite le sanzioni amministrative accessorie del ritiro, della sospensione o della revoca della patente di guida, le stesse sanzioni amministrative accessorie si applicano anche quando le violazioni sono commesse alla guida di un veicolo per il quale non è richiesta la patente di guida». La nuova norma è doppiamente surreale. Prima di tutto, il numero di incidenti causati da ciclisti in stato di ebbrezza non sembra tra i principali problemi nazionali. A meno che il legislatore, nella sua imperscrutabile saggezza, veda lontano. Usare la bicicletta in una città come Milano richiede enorme coraggio — piste ciclabili risibili, automobilisti scatenati, motociclisti spesso inadeguati — e qualche ciclista potrebbe cercarlo nell’alcol, come i soldati al fronte prima di uscire dalla trincea. Ma l’aspetto più grottesco della vicenda è un altro. Non si controllano a sufficienza gli automobilisti, in Italia, figuriamoci se due agenti di polizia avranno voglia di inseguire un ciclista, come in un film di Charlot. Ormai non viene fermato più nemmeno chi guida col cellulare incollato all’orecchio, come dimostra la serena protervia dei colpevoli: eppure la norma che lo vieta esiste. L’etilometro per ciclisti, con conseguente perdita di punti sulla patente (dell’auto), andrà ad aggiungersi ai molti nostri RITI (Regole Italiane Tranquillamente Ignorate). Si accettano scommesse. (foto: Ciclista, di Joaquim Falcò, smalto su tela, 2008)
Per gravi infrazioni in bicicletta — pedalare ubriachi e causare un incidente, per esempio — d’ora in poi si perderanno punti della patente dell’automobile. Se esistesse una logica, in questa norma illogica, per infrazioni in automobile si dovrebbe perdere la bicicletta. Divieto di sosta? Sequestro della Bianchi da corsa. Non ce l’avete? Sequestro del triciclo del figlio. Il pianto del piccolo sarà la vostra punizione. Tutto nasce dal nuovo Ddl Sicurezza, dentro il quale c’è il Comma della Stranezza. Recita la legge: «Se il conducente è persona munita...(...) di patente di guida, nell’ipotesi in cui, ai sensi del presente codice, sono stabilite le sanzioni amministrative accessorie del ritiro, della sospensione o della revoca della patente di guida, le stesse sanzioni amministrative accessorie si applicano anche quando le violazioni sono commesse alla guida di un veicolo per il quale non è richiesta la patente di guida». La nuova norma è doppiamente surreale. Prima di tutto, il numero di incidenti causati da ciclisti in stato di ebbrezza non sembra tra i principali problemi nazionali. A meno che il legislatore, nella sua imperscrutabile saggezza, veda lontano. Usare la bicicletta in una città come Milano richiede enorme coraggio — piste ciclabili risibili, automobilisti scatenati, motociclisti spesso inadeguati — e qualche ciclista potrebbe cercarlo nell’alcol, come i soldati al fronte prima di uscire dalla trincea. Ma l’aspetto più grottesco della vicenda è un altro. Non si controllano a sufficienza gli automobilisti, in Italia, figuriamoci se due agenti di polizia avranno voglia di inseguire un ciclista, come in un film di Charlot. Ormai non viene fermato più nemmeno chi guida col cellulare incollato all’orecchio, come dimostra la serena protervia dei colpevoli: eppure la norma che lo vieta esiste. L’etilometro per ciclisti, con conseguente perdita di punti sulla patente (dell’auto), andrà ad aggiungersi ai molti nostri RITI (Regole Italiane Tranquillamente Ignorate). Si accettano scommesse. (foto: Ciclista, di Joaquim Falcò, smalto su tela, 2008)
Friday, 3 July 2009
In Italia infrastrutture inadeguate
Rapporto di Italiadecide: siamo in ritardo rispetto agli altri paesi.
di Emiliano Biaggio
Tanta manutenzione straordinaria e poche opere nuove, la rete autostradale piu' intasata d'Europa e un sistema ferroviario cresciuto di solo il 4% in oltre trent'anni: l'Italia registra un "ritardo infrastrutturale" e deve fare i conti con una "inadeguatezza" delle opere pubbliche esistenti. Una serie di "problemi" che per l'Italia costituisce "uno dei piu' gravi handicap competitivi". Questo lo stato di salute delle rete infrastrutturale del nostro Paese, tracciato nel 'rapporto sulle politiche pubbliche per le infrastrutture di interesse nazionale' elaborato dall'associazione 'Italiadecide'. A determinare il quadro che emerge dallo studio, sottolinea il presidente dell'associazione Luciano Violante, "il groviglio normativo" e il fatto che l'Italia ancora "non ragiona nei tempi medi". E poi ancora c'e' la questione della "frammentazione delle imprese operanti nel settore", denuncia Violante. Nel nostro paese, sottolinea, abbiamo "imprese troppo piccole non in gradodi sostenere il carico di lavoro e costrette a subappaltare, o strutture grandi che non hanno il know-how e che per questo si devono affidare ad altri". Tutto questo si ripercuote sui tempi e sui costi realizzativi. Un esempio di cio' lo fornisce il rapporto di Italiadecide: lo studio denuncia infatti che mentre in Spagna un costo sostenuto per chilometro di autostrada e' pari a 14,6 milioni di euro, "per le nostre opere autostradali il costo medio per la realizzazione di un chilometro di autostrada ammonterebbe a circa 32 milioni di euro". Mentre la Tav "ha comportato i costi per chilometro piu' alti d'Europa (dai 20,3 ai 96,4 milioni a chilometro a seconda delle tratte, contro i 10,2 e i 9,8 di Francia e Spagna)". Il nodo da sciogliere, in Italia, e' dunque quello delle disfunzioni nei processi realizzativi perche' le risorse, in questi ultimi anni, sono state garantite. Dal 2005 al 2008, evidenzia il rapporto, si sono spesi in Italia circa 169 miliardi di euro in opere del genio civile, poco meno della Francia (circa 179 miliardi) e della Germania (circa 189 miliardi). Come mai allora l'Italia e' in ritardo nonostante investa grosso modo quanto gli altri paesi europei? Perche' "investiamo molto in manutenzione straordinaria, anziche' in nuove opere", dice il rapporto di Italiadecide. Infatti solo il 46% degli investimenti in opere del genio civile del 2006 e'andato per opere di nuova realizzazione. Risultato: in Italia "insistono su ogni chilometro di autostrada oltre 53 mila vetture contro le 37 mila della media europea", evidenzia il rapporto di Italiadecidere, e nel 2007 l'Italia disponeva di 16.667 km di rete ferroviaria, solo il 4% in piu' di quelli presenti nel 1970, mentre, nello stesso periodo, il numero dei passeggeri e' aumentato piu' del 50%. Di fronte a questi dati serve allora "imparare a pensare nel medio termine", sostiene Violante. Ma serve anche uno "svecchiamento della sfera giuridica, perche' in Italia si guarda molto alle procedure e poco al risultato". E poi, conclude il presidente di Italiadecide, va delineato "un piano strategico", per "individuare le priorita'" e "poter affrontare le situazioni di emergenza". (fonte foto: La Repubblica)
di Emiliano Biaggio
Tanta manutenzione straordinaria e poche opere nuove, la rete autostradale piu' intasata d'Europa e un sistema ferroviario cresciuto di solo il 4% in oltre trent'anni: l'Italia registra un "ritardo infrastrutturale" e deve fare i conti con una "inadeguatezza" delle opere pubbliche esistenti. Una serie di "problemi" che per l'Italia costituisce "uno dei piu' gravi handicap competitivi". Questo lo stato di salute delle rete infrastrutturale del nostro Paese, tracciato nel 'rapporto sulle politiche pubbliche per le infrastrutture di interesse nazionale' elaborato dall'associazione 'Italiadecide'. A determinare il quadro che emerge dallo studio, sottolinea il presidente dell'associazione Luciano Violante, "il groviglio normativo" e il fatto che l'Italia ancora "non ragiona nei tempi medi". E poi ancora c'e' la questione della "frammentazione delle imprese operanti nel settore", denuncia Violante. Nel nostro paese, sottolinea, abbiamo "imprese troppo piccole non in gradodi sostenere il carico di lavoro e costrette a subappaltare, o strutture grandi che non hanno il know-how e che per questo si devono affidare ad altri". Tutto questo si ripercuote sui tempi e sui costi realizzativi. Un esempio di cio' lo fornisce il rapporto di Italiadecide: lo studio denuncia infatti che mentre in Spagna un costo sostenuto per chilometro di autostrada e' pari a 14,6 milioni di euro, "per le nostre opere autostradali il costo medio per la realizzazione di un chilometro di autostrada ammonterebbe a circa 32 milioni di euro". Mentre la Tav "ha comportato i costi per chilometro piu' alti d'Europa (dai 20,3 ai 96,4 milioni a chilometro a seconda delle tratte, contro i 10,2 e i 9,8 di Francia e Spagna)". Il nodo da sciogliere, in Italia, e' dunque quello delle disfunzioni nei processi realizzativi perche' le risorse, in questi ultimi anni, sono state garantite. Dal 2005 al 2008, evidenzia il rapporto, si sono spesi in Italia circa 169 miliardi di euro in opere del genio civile, poco meno della Francia (circa 179 miliardi) e della Germania (circa 189 miliardi). Come mai allora l'Italia e' in ritardo nonostante investa grosso modo quanto gli altri paesi europei? Perche' "investiamo molto in manutenzione straordinaria, anziche' in nuove opere", dice il rapporto di Italiadecide. Infatti solo il 46% degli investimenti in opere del genio civile del 2006 e'andato per opere di nuova realizzazione. Risultato: in Italia "insistono su ogni chilometro di autostrada oltre 53 mila vetture contro le 37 mila della media europea", evidenzia il rapporto di Italiadecidere, e nel 2007 l'Italia disponeva di 16.667 km di rete ferroviaria, solo il 4% in piu' di quelli presenti nel 1970, mentre, nello stesso periodo, il numero dei passeggeri e' aumentato piu' del 50%. Di fronte a questi dati serve allora "imparare a pensare nel medio termine", sostiene Violante. Ma serve anche uno "svecchiamento della sfera giuridica, perche' in Italia si guarda molto alle procedure e poco al risultato". E poi, conclude il presidente di Italiadecide, va delineato "un piano strategico", per "individuare le priorita'" e "poter affrontare le situazioni di emergenza". (fonte foto: La Repubblica)
Wednesday, 1 July 2009
The (oil) truth is coming out in Iraq
National wells trade just started on the ground
by Emanuele Bonini
Auctions will be held at last. Six oil mines and two gas mines, for a total of eight, are now for sale in Iraq. It could be useless to say, but these mines are now available for foreign companies. This finally reveals the true reasons behind the Iraqi government choices and military actions in the country once led by Saddam Hussein. The government in Baghdad just of the former rais. The government has already given British BP and Chinese CNPC the green light to the exploitation of the Rumaila oil fields. To the auction took part Italian Eni and Edison, too. The group lead by Paolo Scaroni is still waiting for an answer about the oil field in Nasiriyah (where the Italian military contingent is operating. A case?). Scaroni's offering seems to have been judged as excellent, but the outcome still has to be made public. However the final result appears ad obvious. Anyway it is just question of what company - and so what Country - will be able to grab the Iraqi oil. In Iraq about 110 billion barrels of oil reserves are at stake.
source: Asianews |
Auctions will be held at last. Six oil mines and two gas mines, for a total of eight, are now for sale in Iraq. It could be useless to say, but these mines are now available for foreign companies. This finally reveals the true reasons behind the Iraqi government choices and military actions in the country once led by Saddam Hussein. The government in Baghdad just of the former rais. The government has already given British BP and Chinese CNPC the green light to the exploitation of the Rumaila oil fields. To the auction took part Italian Eni and Edison, too. The group lead by Paolo Scaroni is still waiting for an answer about the oil field in Nasiriyah (where the Italian military contingent is operating. A case?). Scaroni's offering seems to have been judged as excellent, but the outcome still has to be made public. However the final result appears ad obvious. Anyway it is just question of what company - and so what Country - will be able to grab the Iraqi oil. In Iraq about 110 billion barrels of oil reserves are at stake.
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