Monday, 31 August 2009

Benvenuti a Freetown

E' la capitale della Sierra Leone, e della povertà mondiale. Prodotto emblematico del passato coloniale, la città è soprattutto lo specchio di un intero continente.

di Vicente Fernandez (traduzione di Emiliano Biaggio)

In Africa, tutti i giorni sono giorni da uragano: lì si propaga la malattia, la fame, il dolore, la miseria umana. Il grande continente, occupato, diviso e devastato dal potere europeo, oggi ancora non si è risollevato. In Africa milioni di poveri vivono la disperazione dell'abbandono, morendo come mosce senza che nessuna nave appaia all'orizzonte per trarli in salvo. E quandunque arrivasse, sarebbe solo per portare ulteriori disgrazie. La "grande speranza bianca" - sempre di natura umanitaria secondo quanto ci fa vedere puntualmente Hollywood - è in realtà predatoria e selvaggia. In Africa i forti uccidono i deboli in nome dei diamanti, dei minerali e dell'avorio. La vita di chi è povero non vale niente. La vita vive di ostinazione, e così è in tutto il pianeta. Basta entrare in una qualsiasi libreria e prendere il libro del fotografo Sebastian Salgado dal titolo Exodus": in essso viene descritta, attraverso immagine crude, la vita dei poveri, dei migranti, di quanti hanno il bisogno di girare per il mondo alla ricerca di un pezzo di pane. Di quelli che sono abbandonati, di quelli che hanno paura, di quanti hanno perso la propria umanità. Eppure, nemmeno davanti a tanto dolore il mondo borghese si compatisce. In Europa si dà fuoco alla case dove vivono neri africani scappati per la fame. A Parigi, bruciano gli algerini che cercano solo un posto dove poter vivere in pace. Danno fuoco agli indios a Brasilia, così, tanto per "giocare" con chi è "diverso". La vita di chi è povero è niente. Qui, come in India, in Alaska, in Senegal. O in qualsiasi altro posto. Perciò, la nostra sfida è proprio questa: stare dalla parte di chi è stanco, stare insieme a lui, ridare nuova linfa alla vita di chi è perduto. Non per compassione, perchè il povero non ha bisogno della pena di nessuno. Ciò di cui ha bisogno chi è povero è dell'impegno e della visione: impegno di chi - anche povero - ancora ha ciò che serve per vivere; e visione di sè stesso. Nell'altro chi non ha nulla può trovare l'opportunità e il modo di riemergere. Ma ciò che conta di più è la visione: poter vedere che, uniti, sono di più e per questo in grado di resistere ad ogni sofferenza.
Il lato triste dell'Africa, che non sfugge alle altre regione del pianeta, è l'insieme dei profondi contrasti e delle disuguaglianze, rese ancor più marcate dai conflitti sociali che sembrano non finire mai. Un esempio dei risultato di questi conflitto lo offre Freetown, la capitale del Paese più povero del mondo: la Sierra Leone. Freetown è più di una città: è un porto e polo commerciale che potrebbe affermarsi come l'area più ricca di un Paese dove la povertà fa strage, ma che invece - alla stessa stregua dei conflitti sociali - sopravvive per lo scambio e l'esportazione delle merci. Freetown nacque come un città fondata dagli schiavi inglesi che tornavano in Africa da uomini liberi; diventato poi avamposto britannico, fu il punto di partenza di molte avventure colonialiste europee del XIX secolo. La storia della città è quindi una successione quasi permanente di lotte di potere. Il risultato di un processo così conflittuale si materializza in una struttura urbana che fino al proprio centro mostra marcate carenze di infrastrutture. Situata nella penisola della Sierra Leone, sull'Atlantico, Freetown è oggi un centro di produzione del tabacco - soprattutto di sigarette - ha un'attività industriale poco sviluppata, che ricopre un'importanza quasi marginale nell'economia locale. La città si affida ad attività quali il taglio dei diamanti, l'agricoltura e il commercio. La città, tra i suoi problemi e i suoi conflitti, fa dei suoi centri di interesse il museo nazionale, i palazzi, le chiese storiche come quella di San Giovanni, le cattedrali, la moschea e le piazze come quelle intitolate a Hamilton, Luley e Lakka. A Freetown ci sono indubbiamente monumenti di importanza storica, come un'enorme pianta di cotone, un tesoro naturale della città situato sulla strada i vecchi schiavi fondarono la città che ancora oggi si incontra. Una città oggi dove regna la delinquenza, cresciuta a partire dal 2002 e che si è diffusa per le strade, soprattutto nelle zone più povere del centro urbano. Per arrivare a Freetown basta prendere l'aereo e atterrare all'aerporto internazionale di Lungi, quartiere che si trova sulla riva opposta di Freetown, con cui è collegata da traghetti. Freetown è la capitale più povera di un continente al contrario magnificio per le sue bellezze naturali e il suo patrimonio, anche se non si accompagna con quella pace e quella stabilità necessarie per uno sviluppo sostenibile.

Saturday, 29 August 2009

Petrolio avanti tutta

Solo una terza parte di tutto quello che c'è è stata estratta e utilizzata fino a oggi. Cosa vuol dire? Che il greggio ci accompagnerà ancora per molto tempo.

di Emiliano Biaggio

«Il petrolio è e continuerà a rimanere per molti anni la fonte principale di energia del mondo». Lo prevede l'Agenzia internazionale dell'energia (Iea), nel World energy outlook del 2008, documento nel quale l'organismo di Parigi delinea gli scenari futuri della risorsa energetica. La Iea sottolinea che le risorse recuperabili totali di petrolio convenzionale (quello liquido puro, che fuoriesce dal sottosuolo), che includono riserve iniziali accertate e quelle probabili dei giacimenti scoperti, aumento delle riserve e petrolio non ancora scoperti, «sono stimate in 3.500 miliardi di barili». E ad oggi, evidenzia il rapporto, «solo un terzo di questa cifra (1.100 miliardi di barili) è stato prodotto».
Inoltre, si stima che le risorse non ancora scoperte contano per circa un terzo del petrolio restante recuperabile, concentrato tra Medio Oriente, Russia, e regione del Caspio (Turchia, Iran, stati caucasici e Afghanistan, ma soprattutto le ex repubbliche sovietiche, dove scorre il 30% del fabbisogno mondiale di gas e petrolio). Abbondanti, poi, anche le risorse di petrolio non convenzionale (quello "non puro", mischiato ad altre sostanze in e quindi da dover recuperare con metodi di lavorazione lunghi e costosi), comprese tra 1.500 e 2.000 miliardi di barili. Tirando le somme, le risorse di greggio complessive potenzialmente recuperabili nel lungo periodo sono stimate a circa 6.500 miliardi di barili. Se poi si aggiungono le tecnologie di liquefazione di carbone e gas, questo potenziale arriva a circa 9.000 miliardi. Per l'Agenzia internazionale dell'energia, dunque, a fronte di un simile scenario non c'è dubbio che «nel 2030 i combustibili fossili conteranno per l'80% del mix energetico primario mondiale», con il petrolio che «continuerà a rimanere il combustibile preponderante». A dimostrare il ruolo che il greggio è destinato a giocare ancora per gli anni a venire, il trend della domanda, che a detta della Iea «passerà dagli 85 milioni di barili al giorno attuali ai 106 milioni di barili giornalieri nel 2030».
Com'è lecito aspettarsi «Cina e India sono responsabili per poco più della metà dell'aumento della domanda». Ad incrementare la produzione soprattutto i paesi Opec, la cui quota mondiale passera' dal 44% al 51% nel 2030. Solo l'Arabia Saudita aumenterà di oltre il 50% la propria produzione giornaliera (dagli attuali 10,2 milioni di barili a 15,6 milioni nel 2030). La crescita della richiesta del petrolio porterà ad un conseguente aumento dei prezzi, con le quotazioni che oscilleranno attorno ai 100 dollari al barile nel periodo 2008-2015, per poi salire a 120 per il periodo successivo (2016-2030).

Friday, 28 August 2009

Petrolio, è dappertutto ma non è proprio per tutti

Metà del greggio prodotto a livello mondiale finisce in meno di dieci Paesi. Tra i più affamati di energia Stati Uniti e Russia, oltre alle emergenti Cina e India.

di Emiliano Biaggio

Otto paesi al mondo, da soli, consumano la metà del petrolio prodotto ogni anno, e quindi, ogni giorno. Il BP Statistical Review of World Energy 2009 parla chiaro: nel 2008 la domanda e l'offerta del greggio si sono incontrate (3.928 i milioni di tonnellate prodotti e 3.927 quelli consumati), ma il 50% dei barili immessi sul mercato sono andati a sostenere le economie di Stati Uniti, Cina, Giappone, India, Russia, Germania, Brasile e Arabia Saudita, gli otto "divoratori" di petrolio e i primi otto nella "top ten" dei maggiori consumatori mondiali.
Complice la crescita a ritmi forsennati delle economie emergenti di Cina, India e Brasile, e la recessione invece che colpisce le principali economie mondiali, frenano richieste e consumi in metà dei Paesi del G8 e quindi - contrariamente a quanto sarebbe stato lecito pensare - gli otto paesi più industrializzati del mondo non sono i primi otto ad andare sul mercato del greggio. Ma il rapporto British Petroleum conferma una volta di più il divario tra nord e sud del mondo: l'Africa consuma all'anno un settimo di quanto serve alla sola Europa per il soddisfacimento della domanda di energia (135,2 milioni di tonnellate di petrolio l'anno contro i 955,6 milioni dell'Europa. Da notare, poi, il deficit di Stati Uniti e Cina: nonostante entrambi i Paesi siano tra i primi dieci produttori mondiali, tutti e due gli stati consumano piu' di quello che producono (rispettivamente 884,5 milioni di tonnellate consumate contro le 305,1 prodotte e 375,3 milioni di tonnellate contro le 189,7 di propria fattura).
Ecco, secondo le stime del BP Statistical Review of World Energy 2009, la lista dei 10 principali consumatori di petrolio per milioni di tonnellate annue:

1) Stati Uniti (884,5);
2) Cina (375,7);
3) Giappone (221,8);
4) India (135,0);
5) Russia (130,4);
6) Germania (118,3);
7) Brasile (105,3);
8) Arabia Saudita (104,2);
9) Corea del sud (103,3);
10) Canada (102,2).

Quanto all'Italia, il nostro Paese - 14esimo al mondo per domanda di petrolio - nel 2008 ha consumato 80,9 milioni di tonnellate di greggio, il 3,9% in meno rispetto al 2007. Negli ultimi dieci anni la domanda del bene e' diminuita in modo graduale ma sistematico. Nel 1998 l'Italia consumava 94,7 milioni di tonnellate di petrolio e da allora i consumi sono sempre calati. (fonte foto: Rainews24)

Petrolio, oro nero nella 'gioielleria' del mondo

Si trova in tutti i continenti, ma un terzo della produzione mondiale arriva solo dal Medio Oriente
di Emiliano Biaggio

Il petrolio è prodotto in ogni continente: si trova in Europa, Africa, Asia e Americhe, e viene dunque prodotto e lavorato in tutto il mondo. Il BP Statistical Review of World Energy 2009 calcola che nel 2008 in tutto il mondo sono stati prodotti 81 milioni di barili di petrolio al giorno, e che in un anno sono stati estratti e chiusi nei fusti 3.928 milioni di tonnellate di liquido nero. Un terzo dell'intera produzione mondiale avviene in Medio Oriente, da dove sono usciti 26,2 milioni di barili al giorno e 1.257 milioni di tonnellate di greggio nell'intero 2008. Seconda al Medio Oriente, l'America, ma solo se presa nel suo complesso. Stando ai dati della relazione della British Petroleum, Nord e Sud America insieme, infatti, nel 2008 hanno prodotto 954,8 milioni di tonnellate di greggio (619,2 dal nord, 335,6 dal centro-sud del continente), 19,8 milioni di barili al giorno (rispettivamente 13,1 e 6,7 milioni). Al terzo posto l'area euro-asiatica, comprendente Danimarca, Norvegia, Gran Bretagna, Italia, Russia e repubbliche ex-sovietiche: da qui sono usciti 17,5 milioni di barili ogni 24 ore, e, complessivamente, 851 milioni di tonnellate di petrolio nell'intero 2008. A livello mondiale, però, quasi la metà della produzione - 1.758 milioni di tonnellate all'anno - arriva dai paesi Opec (Algeria, Angola, Ecuador, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Venezuela). Ma nella classifica per Paesi, sul podio dei maggiori produttori salgono Arabia Saudita (10,8 milioni di barili al giorno e 515 milioni di tonnellate annue), Russia (9,8 milioni di barili e 488,5 milioni di tonnellate annue) e Stati Uniti (6,7 milioni di barili al giorno e 305 milioni di tonnellate all'anno).
Ecco, secondo le stime del BP Statistical Review of World Energy 2009, la lista dei 10 maggiori produttori di petrolio per barili giornalieri:

1) Arabia Saudita (10,8 milioni);
2) Russia (9,8 milioni);
3) Stati Uniti (6,7 milioni);
4) Iran (4,3 milioni);
5) Cina (3,8 milioni);
6) Canada (3,2 milioni);
7) Messico (3,1 milioni);
8) Emirati Arabi Uniti (2,9 milioni);
9) Kuwait (2,7 milioni);
10) Venezuela (2,5 milioni).

I tre paesi africani dell'Opec si attestano tutti sotto la produzione giornaliera di 2 milioni di barili: l'Algeria ne produce 1,9 milioni, l'Angola e la Libia 1,8. Unico Paese africano sopra i due milioni di fusti di greggio al giorno la Nigeria, che con 2,1 milioni risulta primo produttore del continente.

Thursday, 27 August 2009

Oh, well! Centocinquant'anni fa, il petrolio

Ricorre quest'anno l'anniversario della prima trivellazione di quello che un secolo e mezzo fa era già considerato, da un giovane avvocato del New Hampshire, oro.

di Emiliano Biaggio

Ci fa viaggiare, ci fa spostare in città, fa muovere le nostre automobili e, grazie ai suoi usi industriali, sviluppare i nostri Paesi. E' il petrolio, che da un secolo e mezzo accompagna la vita di miliardi di persone. Perchè il 27 agosto di 150 anni fa il mondo assistette ad un evento che sarebbe stato destinato a cambiare il mondo: la prima trivellazione petrolifera. A condurla William A. Smith, "Uncle Billy" come lo chiamavano, capo di una squadra di trivellatori coordinata dal "colonnello" Edwin Drake, chiamato ad estrarre da terreni di Titusville, in Pennsylvania, quello che la Pennsylvania Rock Oil Company - società petrolifera del giovane avvocato del New Hampshire, George H. Bissel - aveva già riconosciuto come miniera d'oro. Oro nero, appunto.
Nel 1859 il petrolio era già piuttosto noto all'uomo, che già dal XVI secolo aveva iniziato a far uso del combustibile fossile: a Mosca già nel 1597 veniva venduto come olio da lampada. Nell'Ottocento, quindi, l'elemento nuovo legato al petrolio fu l'idea, del tutto visionaria per l'epoca ma di lì a poco rivoluzionaria, del giovane petroliere Bissel: cercare di accedere direttamente al petrolio andandolo a prendere in profondità. Come? Con la trivellazione, la stessa tecnica usata a quel periodo nei pozzi di sale. Probabilmente nè il vecchio "zio Billy" nè chi gli aveva dato ordine di trivellare il terreno sapevano cosa avrebbe prodotto con quell'azione: ciò che il presidente della Pennsylvania Rock Oil Company voleva era solo trovare fonti di petrolio che fossero migliori di quelle allora disponibili, che fossero piu' affidabili e, soprattutto, più abbondanti di materia prima.
Il lavoro del capotrivellatore William A. Smith permise di realizzare i sogni del giovane petroliere: grazie a quella trivellazione la Pennsylvania Rock Oil Company iniziò a produrre 25 barili di petrolio al giorno. Il 60-65% del contenuto di ogni fusto diventava olio per lampade o kerosene, il 10% benzina (che all'inizio si buttava via, non essendoci ancora il motore a scoppio), il 5-10% nafta. Da allora in poi fu subito corsa all'oro nero, con torrette per l'estrazione che iniziarono a sorgere per ogni angolo di Titusville. L'industria locale si sviluppò a tal punto che vicino a Titusville nel 1860 viene fondata la cittadina di Oil City (la Città del petrolio) e l'anno successivo quella Petroleum Center (centro del petrolio), dando vita alla Oil Region (Regione del petrolio) nota ancora oggi. E da qui gli Stati Uniti iniziarono ad insegnare al mondo come andare a prendere il petrolio alla fonte. Titusville, Pennsylvania, è quindi quella che oggi gli storici considerano il luogo dove è nato il petrolio industriale moderno, grazie alle intuizioni di Bissel, l'azione dello "Zio Billy", William A. Smith, e la supervisione di Drake. Proprio a quest'ultimo e' dedicato il Drake well museum (Museo del pozzo di Drake), nella contea di Venango, poco distante da Titusville. Adiacente al museo, l'Oil Creek State Park ricordare la prima trivellazione della storia, attraverso la ricostruzione della torre in legno con cui venne generato il primo spruzzo di petrolio che si ricordi.

Wednesday, 26 August 2009

Protagonisti nelle lotta ai cambiamenti climatici. Però...

La Cina discute una bozza con cui rendere ufficiale il proprio impegno in campo ambientale. Ma intima ai paesi stranieri che possano essere adottate misure «adeguate alle condizioni interne».

di Emiliano Biaggio

La Cina medita di prendere una posizione più netta a favore del clima e assumere un ruolo più attivo e incisivo. E sta pensando di farlo mettendo il proprio impegno nero su bianco: la Commissione permanente del Congresso nazionale del popolo, l'organo legislativo della Repubblica popolare cinese, è chiamata infatti a pronunciarsi su una bozza di risoluzione che impegna il paese - almeno nella forma - a fare della green economy un punto fondamentale della propria agenda politica, all'interno come in sede internazionale. «Con uno spirito di forte responsabilità per la sopravvivenza e lo sviluppo a lungo periodo dell'uomo, la Cina- si legge nella bozza- continuerà a partecipare in maniera costruttiva nelle conferenze internazionali e in sede di negoziazioni sui cambiamenti climatici». In questo impegno, il Paese «si adopererà per un adempimento effettivo e di vasta portata del proprio protocollo e delle convenzioni internazionali». Un passo importante quanto significativo, quello che ha intenzione di compiere il gigante asiatico. La bozza, fa il vicepresidente della commissione per i Cambiamenti climatici, He Jiankun, «mostra come la Cina voglia mettersi al lavoro per contrastare le emissioni dei gas a effetto serra e, quindi, il global warming». Pechino rivendica quindi un ruolo da protagonista nella lotta ai cambiamenti climati, ma soprattutto vuole evitare di essere additata come responsabile di quello che avverrà, o che potrebbe accadere. Xie Zhenhua, viceministro delle Riforme e lo sviluppo nazionale, critica i Paesi sviluppati, che in materia ambientale fino a oggi «hanno parlato tanto e fatto molto poco». Le economie più forti, inoltre, si limitano a «sottolineare le responsabilità comuni ma non le diverse responsabilità», quando invece dovrebbero capire che i Paesi in via di sviluppo dovrebbero adottare politiche e misure «adeguate alle condizioni interne». Tradotto: se stretta a un modello di crescita insostenibile deve essere, lo sia prima per gli altri - Stati Uniti su tutti- e poi sulla Cina, ancora in fase di crescita. Il paese del dragone mira quindi ad un maggior ruolo a livello negoziale e internazionale per difendere i propri interessi ed evitare che, qualora a Copenhagen il prossimo dicembre la rinegoziazione del protocollo di Kyoto dovesse fallire o produrre poco e niente, possa essere accusato di non aver fatto nulla per ottenere risultati soddisfacenti. L'impegno quindi, appare virtuale e del tutto strumentale. La bozza, quindi, rischia di rimanere solo sulla carta. (fonte foto: il sole 24 ore)

Tuesday, 25 August 2009

Al lume di candela... Il benzene

Cene romantiche, perchè no? Ma occhio a non farne un'abitudine, perchè a giocare col fuoco c'è il rischio di rimanere bruciati. O intossicati.

di Emiliano Biaggio

Attenti a quando accendete un candela, perchè potreste finire col respirare sostanze tossiche e nocive per l'organismo. Un'equipe di ricercatori dell'università della South Carolina ha infatti scoperto che le candele di uso comune, quelle realizzate con la paraffina, rilasciano in atmosfera toluene e benzene. Idrocarburi, insomma. Per cui «accendere con un certa frequenza candele in luoghi non ventilati potrebbe portare a problemi» per la salute dell'uomo, avvertono i ricercatori statunitensi. La conclusione arriva dopo un periodo di studio che ha messo a confronto candele a base di paraffina con "colleghe" ottenute con sostanze vegetali: lasciate bruciare per sei ore all'interno di piccoli contenitori, queste hanno sprigionato nelle scatole fumi, vapori e sostanze di varia natura, ma solo le candele alla paraffina hanno lasciato tracce di idrocarburi. Da qui l'avvertenza: attenzione all'uso che fate di queste candele. Cene a lume di candele addio, allora? Beh, no. Un uso "una tantum" di queste candele «non comporta alcuna minaccia per la salute», ma, avvertono i ricercatori, «un uso frequente in luoghi poco areati puo' portare peggioramento di asma, allergie e irritazioni ai tratti respiratori». L'esperimento però divide il mondo scientifico e sanitario: per George Thurston, professore associato di medicina ambientale alla New York University school of medicine, la ricerca «è controversa». Thurston ironizza: «Solo per accendere il fiammifero con cui dar fuoco alla candela si genera un inquinamento di zolfo dell'aria domestica». Quindi, «tanto vale accenderla con l'accendino», aggiunge. Diversa, invece, la posizione al riguardo di David Rosenstreich, direttore della divisione di Immunologia al New York Montefiore medical center, secondo cui «la candele sono solo una delle potenziali fonti di inquinamento dell'aria domestica». Infatti, sostiene Rosenstreich, «sono molti i prodotti tenuti in casa che emettono sostanze organiche volatili». Comunque, nel dubbio, «è sempre bene areare la propria abitazione come più e meglio si può».

Monday, 24 August 2009

Esercito israeliano "rapisce" palestinesi per prelevarne gli organi

Denuncia del quotidiano svedese Aftonbladet, e si scatena un terremoto diplomatico.

fonte: Peacereporter

L'articolo del principale giornale svedese, Aftonbladet, che accusa i soldati israeliani di rapire palestinesi per prelevarne gli organi, sta causando un terremoto diplomatico tra i due Paesi. L'ambasciata di Israele a Stoccolma prenderà 'provvedimenti' in queste ore, mentre è prevista la convocazione dell'ambasciatore svedese al ministero degli Esteri israeliano. Aftonbladet è uscito la settimana scorsa con una serie di racconti di palestinesi che denunciano come nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania giovani feriti o uccisi vengano 'prelevati' dalle Forze armate israeliane (Idf) e riconsegnati alle famiglie senza alcuni organi. (leggi tutto).

Saturday, 22 August 2009

L'infanzia rubata. E rivenduta su un mercato di esseri umani che fattura 32 miliardi l'anno

Bambini e ragazzi che arrivano dall'Europa dell'est e dal nord-Africa, per finire all'inferno. Un inferno fatto di sfruttamento, violenze, prostituzione, accattonaggio e lavori forzati. E che si chiama (anche) Italia.

di Emiliano Biaggio

Minori che giungono in maggioranza dall’est Europa- soprattutto Romania- e da paesi africani (fra cui Nigeria, Egitto, Marocco, Tunisia, Algeria, Senegal), che finiscono col perdere la propria infanzia e la propria dignità umana. E' la “La tratta dei bambini in Italia”, messa in evidenza da un dossier di Save the Children che ricostruisce i contorni di un fenomeno e di una realtà da brivido: si stima che siano 2,5 milioni le vittime della tratta di esseri umani nel mondo, l'80% delle quali donne e bambine. In questo sporco commercio ci sono 1,2 milioni di minori, la metà del totale degli esseri umani venduti e rivenduti come mera merce. E questa merce è immessa su un mercato che genera un business- gestito da reti criminali transnazionali- pari a circa 32 miliardi di dollari l’anno. Un fatturato pari a quello del traffico di armi o di stupefacenti. E il nostro Paese è uno dei punti di arrivo di questa tratta di esseri umani. Questo l'inferno che qui li attende, secondo il ritratto di Save the Children:
Sfruttamento sessuale - Sono per lo più ragazze, in gran parte di nazionalità nigeriana e rumena e di età compresa tra i 15 e i 18 anni le vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale in Italia. Per quanto riguarda le giovani provenienti dalla Nigeria, molte giungono via mare e sbarcano in Sicilia per poi essere smistate sull'intero territorio nazionale, ad esempio a Torino, Milano, Napoli, sulla costa adriatica. Sono sempre più giovani e con back-ground socio culturali poverissimi. Spesso hanno già subito gravi forme di sfruttamento, soprattutto sessuale, nel corso del loro viaggio dalla Nigeria attraverso la Libia dove molte di esse sono state trattenute. Una volta in Sicilia generalmente soggiornano per un breve periodo presso le comunità di accoglienza per minori dell’isola, da cui può accadere che prendano contatto con l’esterno per poi fuggire nella speranza di trovare migliori opportunità nelle città del nord Italia. Le giovani ragazze rumene o di altri paesi dell'est Europa quali la Moldova e la Bulgaria risultano meno presenti in strada rispetto al passato ma ciò è dovuto, come rilevano gli operatori, ad uno spostamento verso la prostituzione indoor, cioè al chiuso, soprattutto per quanto riguarda le minorenni, più vulnerabili e meno controllabili in strada. Attirate da pseudo-fidanzati o conoscenti loro coetanei o coetanee, agganciati a micro reti di sfruttamento sessuale, una volta arrivate in Italia vengono spinte verso la prostituzione. Si tratta di modalità di sfruttamento subdole, giocate sul legame sentimentale o affettivo, che le ragazze non percepiscono completamente.
Sfruttamento in agricoltura- Coinvolge molti minori maschi che arrivano via mare dalla Libia e sbarcano in Sicilia. Accolti nelle comunità per minori ma privi di risorse economiche, possono finire con lo scappare dalle comunità ed essere reclutati nel circuito della manodopera irregolare, con un alto rischio di sfruttamento, prevalentemente nel settore agricolo. Si tratta di lavori saltuari, maggiormente disponibili durante il periodo della raccolta di pomodori e uva. I ragazzi vengono pagati da 15 a 40 euro per 8 ore di lavoro e lavorano fino a 6 giorni la settimana sia in campi aperti che in serra.
Accatonaggio- Per quanto riguarda lo sfruttamento in attività di accattonaggio, riguarda soprattutto ragazzi e ragazze tra 14 e 17 anni, ma anche più giovani, in prevalenza rumeni provenienti da famiglie estremamente povere, costretti a raggiungere un guadagno giornaliero ingente che li obbliga a lavorare per molte ore e talvolta a prostituirsi.
Smuggling- E’ un fenomeno emergente che riguarda in prevalenza minorenni maschi provenienti dall’Egitto. Un gruppo in forte aumento: nel 2008, dei 2.646 minori sbarcati a Lampedusa, il 25% è costituito da egiziani. Giungono sulle coste siciliane e hanno già in mente mete precise: Roma, Milano o Torino, dove li attendono familiari o conoscenti di nazionalità egiziana ai quali i genitori li affidano nella speranza di garantire loro una vita migliore. Per questo fuggono molto presto dalle comunità di accoglienza dell’isola e si dirigono al Nord. Le famiglie di origine contraggono un debito o vendono un terreno per poter pagare i trafficanti (smugglers) che li conducono in Italia. A seguito di ciò questi adolescenti sono costretti a lavorare duramente per inviare il denaro necessario a ripagare il debito. Ad oggi tuttavia non sono ancora emersi elementi che permettano di riconoscere lo sfruttamento e conseguentemente qualificare più propriamente questa pratica come tratta, mentre è appurato che si tratti di smuggling.

Thursday, 20 August 2009

Afghanistan, gli scenari del dopo voto

di Andrea Nicastro (dal Corriere della Sera del 19 agosto 2009)

Che cosa accade in Afghanistan? Vincono i talebani ob­bligando la gente a non votare? Rivince (e convince) Karzai? E se invece qualcu­no gridasse ai brogli? C’è la possibilità che Kabul si infiammi in un tutti contro tutti visto tante volte? E se, contro i pro­nostici, Karzai perdesse? Uno dei pochi ad avere la competenza per leggere nella sfera di cristallo dell'Afghanistan è Anto­nio Giustozzi, un «cervello» italiano fug­gito all’estero. Ricercatore alla London School of Economics, 42 anni, Giustozzi è tra i più ascoltati esperti di cose afghane. I suoi saggi sono regolarmente saccheg­giati dai think tank governativi per dare a politici e diplomatici le coordinate del mare afghano.
Vincono i talebani. «La leadership talebana - sostiene Giustozzi - non è direttamente entrata in gara. Le dichiarazioni, le minacce, gli attentati sono il minimo che potessero fa­re. Di fatto, però, hanno lasciato ampio spazio di manovra ai singoli comandanti. Questo senz’altro per un problema inter­no di frammentazione: ci sono i talebani vicini ad Al Qaeda ideologicamente con­trari al voto e ce ne sono di più pragmati­ci.Ma se il gruppo di comando centrale avesse voluto chiudere i seggi nelle vaste aree sotto il suo controllo, avrebbe potuto farlo facilmente. Invece ha permesso che alcuni leader trattassero con la famiglia Karzai una tre­gua ben remunerata per il giorno delle elezioni. Ad altri è stato permesso di ven­dere pacchetti di voti. Ci sono addirittura comandanti talebani che fanno campa­gna per Ashraf Ghani - il candidato più filo-americano, ndr -. Per questo la bas­sa affluenza non dovrà essere letta come vittoria talebana. Se pochi andranno a vo­tare sarà soprattutto per la delusione nei confronti del governo e della ricostruzio­ne post-talebana. Non per le minacce».
Perde Karzai. «È lo scenario meno probabile. Possibi­le che sia costretto al ballottaggio con il tajiko Abdullah. Ma a quel punto il presi­dente vincerà di sicuro. Non tanto e non solo per una questione di consensi, ma perché ha in mano le leve necessarie a compiere brogli anche clamorosi. Tutti i responsabili delle commissioni elettorali sono sotto il suo controllo. Ci sono sul mercato una grande quantità di certificati elettorali, vuol dire che c’è qual­cuno che li compra. In un’elezione presi­denziale non ha senso accaparrarsi un centinaio di voti, bisogna manovrarne centinaia di migliaia. E Karzai ha i mezzi necessari. Già nelle presidenziali del 2004 gli os­servatori neutrali avevano segnalato che in aree dove era stata registrata una parte­cipazione femminile del 40%, ai seggi non si era vista neppure l’ombra di una donna. Questa volta i voti femminili spo­stati dal capo tribù o dall’anziano di tur­no in cambio di denaro o favori saranno ancora più numerosi. Nelle campagne c’è stata una vera caccia alla registrazione di donne e giovani per poter disporre dei lo­ro certificati elettorali. Non dovesse ba­stare tutto ciò, ci penseranno comunque i responsabili della macchina governati­va truccando i numeri fino a garantire la rielezione del presidente».
Vince Karzai. «Il voto si sta polarizzando su base et­nica in modo ancora più determinante che nel 2004. Per i pashtun, che sono et­nia maggioritaria, Karzai è comunque il meno peggio. Per i tajiki invece questo voto è l’ultima spiaggia e si sono schiera­ti compatti dietro al candidato Abdullah per tentare di mantenere un certo potere. Hanno ormai sperimentato la 'strate­gia del salame' di Karzai che taglia a fette il loro schieramento comprando o elimi­nando una fetta dopo l’altra. Ora è tocca­to al maresciallo Fahim. Poi toccherà ad altri e alle prossime elezioni non esiste­ranno più come gruppo. Per questo davanti a brogli evidenti o a una vittoria risicata di Karzai potrebbe­ro reagire. Il presidente a quel punto po­trebbe rinviare di un anno o due il rime­scolamento dei quadri al ministero della Difesa o dell’Interno dove i tajiki sono do­minanti. Rinviare, non rinunciare. Per­ché anche Karzai sa che la presenza inter­nazionale è diventata una questione di anni, non è più eterna e ha bisogno di un esercito che sia obbediente a lui e non ai tajiki eredi del comandante Massud».

Tutto è perduto

Lavoro che non c'è, analfabetizzazione dilagante, e soldi che servono a malapena a tirare avanti: l'Afghanistan che arriva alle elezioni non cerca solo un nuovo presidente, ma soprattutto un nuovo paese.

di Emanuele Bonini

Ci siamo: l'Afghanistan va al voto. Il paese è chiamato ad eleggere il nuovo presidente, anche se- qualora dovessero essere confermate le previsioni- proprio nuovo potrebbe non esserlo. Sempre lui, ancora lui, Hamid Karzai, sembra essere destinato a restare signore e padrone (e presidente) del paese. Ma il rinnovato Karzai, come del resto l'eventuale vincitore "a sorpresa", se ci sarà, è chiamato a dare un volto e un corso nuovo alla nazione e ai 30 milioni di cittadini che qui vivono. Perchè gli afghani magari non lo chiedono, ma ne hanno bisogno. Il 40% di loro non ha lavoro, e solo nella capitale Kabul due milioni di abitanti (nel 2009 l'Agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti ne ha censiti due milioni e mezzo nell'area urbana, quasi cinque nell'area metropolitana) vivono senza fognatura. Per la città macerie, rottami, carcasse d'automobili e strade dissestate, anche se i palazzi mutilati dalla guerra civile stanno diminuendo. Ma questo non deve trarre in inganno: la situazione rimane critica, e la strada per la normalità è erta e tortuosa. Perchè ricostruire il Paese costa più di quello che l'Afghanistan riceve: dal 2001 a oggi i fondi per la ricostruzione hanno oscillato, mediamente, intorno ai due miliardi l'anno, ma solo per tenere in piedi il Paese ne occorrono 1,3: tanto assorbono le 'voci' stipendi e spesa pubblica. Ce n'è solo di che stare in piedi, insomma, peraltro in modo instabile e precario. Ma per il futuro c'è da ricostruire anche un intero popolo: in tutto il Paese le scuole sono solo il 40% di quelle che servirebbero, e l'analfabetismo dilaga. Anzi, galoppa. Quelli che non sanno leggere e scrivere sono il 35% dei bambini, ma le femmine raggiungono addirittura il 60%. E poi, c'è l'aspettativa di vita: bassissima. Qui, tra bombe, kamikaze, mancanza dimedicinali e carenza di strutture sanitarie, la vita media non supera i 43 anni. E quando non si muore per scontri a fuoco, esplosioni o 'solo' di fame, si muore di parto: in questo angolo di mondo la mortalità per parto è 160 volte più alta che in Italia. Il Paese, quindi, ha bisogno di molto di più di un nuovo presidente: all'Afghanistan serve un nuovo Afghanistan. E il problema è che inizia a esserci: inziano a vedersi le banche, che servono per i proventi dell'oppio- che fattura due miliardi l'anno- e centri commerciali, dove poter riciclare i soldi sporchi della droga. Banche e centri commerciali: capitalismo e consumismo. L'Afghanistan che verrà comincia da qui. Auguri.

Monday, 17 August 2009

Baghdad va (forse) alla conta. Dei superstiti iracheni.

E' stato rinviato, ma era pronto il censimento della popolazione. La stessa che muore ogni giorno

foto: Rainews24
di Emiliano Biaggio

Censimento in Iraq. Volendo essere cinici, verrebbe da dire: «dei morti?» Sulla morte non si ride e non si deve scherzare, ma certo suona ironica la volontà del governo iracheno- peraltro stoppata- di contare i vivi quando non riesce a conteggiare i morti che ogni giorno si piangono nel paese. Forse si voleva dare un senso di normalità ad un Paese che ancora fatica a ritrovare un proprio equilibrio interno, anche se- ammettiamolo- non ha senso contare i vivi quando il numero cambia di giorno in giorno. Bisognerebbe fermare i kamikaze e gli insorti, e tutte quelle vittime civili che dal 2003, anno dell'invasione statunitense, non hanno mai smesso di esserci. Sono 92.841 solo quelli accertati, ma secondo l'Iraq Body Count potrebbero arrivare a 101.326. In questa prima parte di 2009 sono già stati oltre 2.200 i morti, mai scesi sotto i 275 al mese. Di questi, in media, ogni giorno ne sono morti 7 per attentati e attacchi suicidi, 4 per esecuzioni e scontri a fuoco. Sarà forse macabro andare a censire chi muore, ma forse un pò più comprensibile- in questa situazione di morti quotidiane- del conteggio di chi sopravvive. O forse no, perchè a ben vedere alla fine della guerra si contano vittime e superstiti. Peccato che la guerra- quella civile- non sia ancora conclusa.

Kirkuk, il petrolio ferma il censimento

Baghdad premeva per un nuovo conteggio della popolazione dopo 22 anni, ma prima c'è da definire la questione del territorio

di Emanuele Bonini

Rinviato «a data da destinarsi» il censimento generale dell'Iraq che era stato programmato per il prossimo ottobre. Per il ministro per la Pianificazione, Ali Baban, l'Iraq era «tecnicamente pronto» per il censimento «ma nel sentire le preoccupazioni e i timori di gruppi politici di Kirkuk e Ninive, abbiamo deciso di rinviarlo». Il censimento avrebbe dovuto servire per contare le persone sul territorio, e proprio questo è il nodo della questione: i curdi rivendicano Kirkuk come città appartenente alla regione autonoma del Kusdistan iracheno, tra la ferma contrarietà degli arabi della confinante provincia di Ninive. Oggetto del contendere, anche quello che giace nel sottosuole del territorio: il petrolio. Kirkuk è città ricca di giacimenti e pozzi, risorse naturali e fonte di ricchezza economica che entrambi i contendenti hanno interesse a controllare e gestire. In modo diverso. I curdi vorrebbero una Kirkuk curda e indipendente, Ninive invece araba e irachena. Qui allora si incontrano e si scontrano interessi forti e diversi, che rischiano di rimettere in discussione tutte le politiche di Baghdad- che sul censimento puntava molto- e creare non pochi problemi, in termini di stabilità, per il futuro. E in un paese dove ritornano prepotentemente i camion bomba, al momento aprire nuovi fronti di tensione interna non è certo la cosa migliore. A 22 anni dall'ultimo censimento, l'Iraq dovrà quindi continuare ad attendere un nuovo conteggio della popolazione e risolvere la "nuova", ennesima, disputa territoriale.

Friday, 14 August 2009

Italia, è il governo a dettare la legge. Contro la legge.

In aperta violazione della Costituzione il Parlamento, cui spetterebbe l'iniziativa legislativa, si limita ad approvare le proposte dell'esecutivo. Il cui capo, mentre si scaglia contro la stampa, vuole una riforma della giustizia. Da Montecitorio i dati ufficiali di una pericolosa deriva democratica.

di Emiliano Biaggio

Il governo fa le leggi, il Parlamento le approva. E' ufficiale, in quanto emerge dai dati ufficiali forniti dalla Camera dei deputati sull'attività parlamentare dell'Assemblea di Montecitorio relativi ai primi 15 mesi di legislatura. I numeri, parlano chiaro: dal 29 aprile 2008 all'1 agosto 2009 «sono stati deliberati dall'Assemblea 96 progetti di legge, di cui 36 disegni di legge di conversione di decreti legge e 54 altri disegni di legge di iniziativa governativa». L'Assemblea, si sottolinea nel consuntivo, «ha deliberato su sei proposte di legge di iniziativa parlamentare». Non solo: l'esecutivo "firma"oltre 8 provvedimenti su 10 (85%). Infatti, recita il bilancio fornito da Montecitorio, «delle 100 leggi approvate, 13 sono di iniziativa parlamentare, 85 di iniziativa governativa, 2 di iniziativa mista». Non c'è dubbio, quindi, che la Camera abbia lavorato "a testa bassa" per dare il via libera ai progetti di governo. I dati evidenziano infatti una seduta dell'Assemblea ogni due giorni, per un totale di oltre 1.000 ore di lavori parlamentari; ben 4.290 votazionielettroniche in 450 giorni, in media 9,5 al giorno, che hanno permesso di dare il via libera a 96 progetti di legge, oltre sei al mese, piu' di uno a settimana. Mancano i dati dell'altro ramo del Parlamento, il Senato, ma c'è da scommettere che anche a palazzo Madama il trend non sia molto diverso. I dati ufficiali, comunque sorprendono fino a un certo punto: già lo scorso maggio il presidente della Camera, Gianfranco Fini, aveva ammonito il governo a non svilire il ruolo del Parlamento che, ha ricordato, «non può essere definita né inutile nè controproducente». Eppure, stando ai dati ufficiali di Montecitorio, appare evidente che il governo non abbia accolto l'invito del presidente della Camera, che non a caso lo scorso 4 agosto ha denunciato che «l'Assemblea si vede di fatto esautorata del diritto-dovere di discutere e intervenire e, se vuole, di emendare», e quindi, ha aggiunto Fini, «nessuno da parte del governo può pensare di non doversi confrontare con il Parlamento, perché questo prevede la nostra Costituzione, e quindi nessuno può pensare di esautorare il Parlamento dal diritto-dovere che ha di controllare, di emendare se lo ritiene, di approvare o respingere un provvedimento del governo». Insomma, Berlusconi e il suo staff non tengono conto della Costituzione, dimenticando che il potere di fare le leggi spetta al Parlamento. Semplice dimenticanza? Difficile crederlo: le democrazie fanno della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giurisdizionale) il principio cardine. Berlusconi depotenzia il Parlamento accentrando un potere- riconosciuto per delega dalla nostra carta costituzionale- nelle sue mani, e lavora ad una riforma della giustizia, il terzo potere. E si scaglia contro i giornali. Dalla Camera, quindi, nessuna sorpresa. Solo segni che confermano l'esistenza di un pericoloso disegno... (fonte foto: insertosatirico.com)

Thursday, 13 August 2009

La società moderna dello spettacolo. Desolante.

di Emiliano Biaggio

Lo eliminano dal Grande Fratello e lui si taglia le vene. Accade in Gran Bretagna, accade ad un ragazzo di 25 anni. Semplicemente, accade. Perchè? Sociologi, antropologi, psicologi, dottori, professori ed esperti di ogni scienza e materia potrebbero rispondere con trattati e trattati. La società- e chi è chiamato a regolarla- invece come potrebbero rispondere? Responso scontato: "Show must go on". E non potrebbe essere diversamente, nell'era dello spettacolo e del reality. Quindi, in questo avvenimento da paradosso, va anche meglio: il Grande Fratello ne otterrà benefici in termini di pubblicità e, soprattutto, di audience. C'è chi è disposto a morire per prendere parte al programma e, perchè no?, arrivare fino in fondo e vincerlo. Questo il messaggio- pericoloso- che esce dagli schermi dei televisori e dalle pagine dei quotidiani, questo il risultato della società di oggi. Conta davvero così tanto il giudizio degli altri? Davvero conta così tanto diventare celebrità in un mondo che non sa più riconoscere ciò che conta davvero? La vita non vale un reality e- almeno per quanto mi riguarda- un reality non può e non deve valere una vita. Eppure ciò è quanto appare e traspare dallo schermo. Vuol dire che nella società dei nostri giorni, per quanti provinanti si possano presentare e per quanti concorrenti possano entrare in gara, alla fine abbiamo solo perdenti. Non vince nessuno in questo gioco, semmai perdono tutti: logica, buonsenso, valori, uomini. Attenti, "Big brother is watching you". E non è un bel vedere.

Wednesday, 12 August 2009

La misteriosa morte del caporalmaggiore Porru

Un soldato morto di tumore in circostanze ancora da chiarire, un militare in pensione vittima dello stesso male. Entrambi hanno prestato servizio nella brigata Sassari, ed entrambi hanno usato mezzi militari. Con componentistica radioattiva.

di Emiliano Biaggio

Capire cos'è successo, e avere risposte su quello che a oggi e' un vero e proprio mistero. Perchè del caporalmaggiore Stefano Porru, militare in servizio presso la brigata Sassari, una delle più utilizzate per le missioni di pace, non si sa nulla. Si sa solo che è morto in Italia, di tumore, ma «non si conosce quando esattamente, nè in quali circostanze», denunciano il deputato radicale del Pd, Maurizio Turco, e Luca Marco Comellini, segretario del partito per la tutela dei diritti dei militari (Pdm), che in merito hanno presentato un'interrogazione al ministro della Difesa, Ignazio La Russa. La storia, almeno nella sua versione "breve", è semplice: il militare presta servizio, va all'estero in missione e poi torna in Italia. Qui muore, ma non si sa quando. Luglio dell'anno scorso, luglio di quest'anno. Non si sa. Per questo «vogliamo la piu' assoluta chiarezza su questa vicenda», scrivono nel testo dell'interrogazione Turco e Comellini, che aprono scenari inquietanti. «A quanto ci risulta- denunciano- 50 dei 60 Vcc e Vfc (i veicoli corazzati da combattimento e da trasporto) in dotazione alla brigata sono fermi perchè contaminati da radiazioni». Radiazioni e morte "misteriosa" di tumore: nessuno sostiene, ma l'ipotesi sembra prendere corpo. Malattia causata dovuta all'esposizione prolungata a queste radiazioni. Ma che tipo di radiazioni? «Non si tratta di uranio impoverito», precisano subito Turco e Comellini. Le radiazioni provengono da componenti interni ai mezzi militari. Questi infatti sono concepiti per operare anche di notte quanto la visibilità interna ed esterna è pressochè nulla. Le apparecchiature sono rese visibili da sostanze luminiscenti simili a quelle delle lancette degli orologi. Nei cronografi, sottolinea Luca Marco Comellini, le lancette sono fosforescenti grazie a una sostanza che emette radiazioni alfa, «nocive se l'esposizione è a brevissima distanza» dalla fonte. Nei mezzi della brigata Sassari succede lo stesso, e non si esclude che ci sia un'esposizione prolungata a sostanze dannose per l'organismo. Una tesi, questa, che potrebbe essere avvalorata da altri due elementi: il maresciallo Giampaolo Ledda è morto da pensionato sempre per tumore. «Era meccanico presso la brigata», sottolinea Comellini. Quindi «toccava con mano i pezzi» incriminati. E a proposito di pezzi, ecco il secondo elemento denunciato dal segretario del Pdm e dall'esponente radicale del Pd: «Alcuni componenti dei mezzi Vcc e Vct sono stati smontati e sigillati in contenitori di piombo-cemento» da smaltire nell'area militare Cisam di San Pietro a Grado (Pisa). Lo smaltimento, però, «ancora non è avvenuto». Per questo, concludono Turco e Comellini, «vogliamo sapere cos'è successo al caporal maggiore Porru» e «vogliamo sapere quanti militari hanno avuto conseguenze legate a questi componenti radiattivi. Attendiamo risposte».