Monday, 30 November 2009
A proposito di immigrati
Si, sono tra noi. Ma anche se noi li vediamo come extra-terrestri, gli extra-comunitari sono proprio come noi. Due mani, due gambe, due occhi, un sangue rosso che scorre nelle vene. E talvolta anche più sfruttati di noi. Lavorano in nero, proprio come noi. E quelli in regola, versano i contributi all'Inps. Proprio come noi. E allora, in cosa sono diversi? E se fossimo noi quelli strani? (clicca sull'immagine)
Saturday, 28 November 2009
Dalla finanziaria scricchiolii di democrazia
L'e-dittoreale
Immigrati sì, immigrati no. La finanziaria ripropone ancora una volta uno dei tormentoni di questi tempi, ovver ocome comèportarsi nei confronti degli stranieri. Anche quelli in regola. La manovra infatti prevedeva un emendamento - presentato dalla Lega - che poneva un limite temporale di sei mesi per gli ammortizzatori sociali agli extracomunitari. Solo a loro. Un principio in contrasto con i principi di eguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione, ma in contrasto anche con l'idea stessa di democrazia. E in contrasto anche con quelle radici, quei valori e quei principi cristiani che tanto l'Italia sbandiera ogni qul volta sono messi in discussione. Per cui a fronte delle proteste dell'opposizione (emendamento «incivile» secondo la deputata Pd Giovanna Melandri), delle critiche del governo stesso (il ministro del Welfare Maurizio Sacconi per l'occasione ricorda che «gli ammortizzatori sociali ordinari corrispondono a diritti soggettivi dei lavoratori») e il monito della Chiesa («anche Gesù era un migrante», ricorda il pontefice), Maurizio Fugatti, deputato del Carroccio e "padre" dell'emendamento della discordia, si vede costretto a fare marcia indietro. «Resto convinto delle idee espresse riguardo all'emendamento sulla cassa integrazione agli extracomunitari», tiene a precisare il leghista. Che aggiunge: «Vista però la contrarietà del ministro del Welfare Sacconi, non è mia intenzione creare problemi alla maggiranza e quindi l'emendamento in questione sarà ritirato». Allarme rientrato quindi. Anzi, no. Perchè per sua stessa ammissione Fugatti riconosce di non essere pentito e di non essere nel torto: questo è il problema. Si fa un gran parlare delle "generazioni Balotelli"- e queste generazioni, come insegna lo stesso Balotelli, si trovano anche nel nord padano - ma poi si tende a discriminarle. Perchè di questo si tratta, di discriminazione. Come altro definire l'emendamento presentato in Finanziaria e per di più approvato? In questi ultimi anni in molti hanno gradito - più o meno legittimamente - al regime. Certo è che se si rimettono in discussione principi come uguaglianza - e quindi parità di diritti - si rimette in discussione anche il concetto stesso di democrazia. Lo sa bene il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che vede nei continui strappi Parlamento-Governo-Magistratura motivi di preoccupazione in quanto su questi poteri - separati - la democrazia si basa. Per cui, afferma il capo dello Stato, «è indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione». Inoltre, continua Napolitano, «spetta al Parlamento esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia». Un messaggio dovuto, visti gli scontri e le voglie di rivedere il sistema giustizia, uno dei tre poteri. Non che le rifrome non debbano essere fatte, ma come tutte le cose bisognerebbe capire le modalità. Il rischio è che la magistratura possa essere indebolita - nella misura in cui non possa operare - con uno squilibrio di poteri. Del resto se si inizia a sdoganare, non si sa più dove si può arrivare. E l'Italia si è già spinta troppo oltre. La Costituzione attuale è il documento che sancisce la natura antifascista dell'Italia, la dimostrazione di un paese che ha ripudiato modelli autoritari, liberticidi e iniqui per ideali di democrazia, libertà, uguaglianza e parità di diritti. Siamo allora sotto un nuovo regime? Certamente ci sono derive anti-democratiche che devono suonare come campanelli d'allarme. Oggi la Lega fa dietro front, ma domani?
Immigrati sì, immigrati no. La finanziaria ripropone ancora una volta uno dei tormentoni di questi tempi, ovver ocome comèportarsi nei confronti degli stranieri. Anche quelli in regola. La manovra infatti prevedeva un emendamento - presentato dalla Lega - che poneva un limite temporale di sei mesi per gli ammortizzatori sociali agli extracomunitari. Solo a loro. Un principio in contrasto con i principi di eguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione, ma in contrasto anche con l'idea stessa di democrazia. E in contrasto anche con quelle radici, quei valori e quei principi cristiani che tanto l'Italia sbandiera ogni qul volta sono messi in discussione. Per cui a fronte delle proteste dell'opposizione (emendamento «incivile» secondo la deputata Pd Giovanna Melandri), delle critiche del governo stesso (il ministro del Welfare Maurizio Sacconi per l'occasione ricorda che «gli ammortizzatori sociali ordinari corrispondono a diritti soggettivi dei lavoratori») e il monito della Chiesa («anche Gesù era un migrante», ricorda il pontefice), Maurizio Fugatti, deputato del Carroccio e "padre" dell'emendamento della discordia, si vede costretto a fare marcia indietro. «Resto convinto delle idee espresse riguardo all'emendamento sulla cassa integrazione agli extracomunitari», tiene a precisare il leghista. Che aggiunge: «Vista però la contrarietà del ministro del Welfare Sacconi, non è mia intenzione creare problemi alla maggiranza e quindi l'emendamento in questione sarà ritirato». Allarme rientrato quindi. Anzi, no. Perchè per sua stessa ammissione Fugatti riconosce di non essere pentito e di non essere nel torto: questo è il problema. Si fa un gran parlare delle "generazioni Balotelli"- e queste generazioni, come insegna lo stesso Balotelli, si trovano anche nel nord padano - ma poi si tende a discriminarle. Perchè di questo si tratta, di discriminazione. Come altro definire l'emendamento presentato in Finanziaria e per di più approvato? In questi ultimi anni in molti hanno gradito - più o meno legittimamente - al regime. Certo è che se si rimettono in discussione principi come uguaglianza - e quindi parità di diritti - si rimette in discussione anche il concetto stesso di democrazia. Lo sa bene il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che vede nei continui strappi Parlamento-Governo-Magistratura motivi di preoccupazione in quanto su questi poteri - separati - la democrazia si basa. Per cui, afferma il capo dello Stato, «è indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione». Inoltre, continua Napolitano, «spetta al Parlamento esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia». Un messaggio dovuto, visti gli scontri e le voglie di rivedere il sistema giustizia, uno dei tre poteri. Non che le rifrome non debbano essere fatte, ma come tutte le cose bisognerebbe capire le modalità. Il rischio è che la magistratura possa essere indebolita - nella misura in cui non possa operare - con uno squilibrio di poteri. Del resto se si inizia a sdoganare, non si sa più dove si può arrivare. E l'Italia si è già spinta troppo oltre. La Costituzione attuale è il documento che sancisce la natura antifascista dell'Italia, la dimostrazione di un paese che ha ripudiato modelli autoritari, liberticidi e iniqui per ideali di democrazia, libertà, uguaglianza e parità di diritti. Siamo allora sotto un nuovo regime? Certamente ci sono derive anti-democratiche che devono suonare come campanelli d'allarme. Oggi la Lega fa dietro front, ma domani?
Friday, 27 November 2009
Crisi, Tremonti vede vie d'uscita, Fiat ed Eutelia lo smentiscono
A rischio quasi 4.000 posti di lavoro. E Marchionne pensa ad una delocalizzazione in Polonia.
di Emiliano Biaggio*
«Può essere che chiudiamo il 2010 con un segno positivo del Pil». Parola di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia di un governo secondo cui - a sentire il titolare degli Esteri Franco Frattini - «siamo il paese che guida la ripresa economica in Europa». Ma l'esecutivo è costretto a fare bene i propri calcoli, perchè c'è ripresa solo se c'è un sistema produttivo funzionante, mentre in Italia sembra invece esserci un sistema in seria difficoltà, se non addirittura in crisi. Lo dimostra l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, che svela il piano della casa automobilistica torinese: chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e produzione delocalizzata in Polonia. Una scelta che fa insorgere i sindacati e che viene definita «folle» dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Immediata la replica di Marchionne: «Prima di usare un linguaggio pesante come "follia", uno dovrebbe capire i dati», sostiene l'ad di Fiat. «Siamo pronti a discutere- dice- ma non si può pensare di tenere tutti gli stabilimenti aperti». Un discorso che vale anche per Eutelia: il quarto operatore di telecomunicazioni in Italia minaccia di chiudere i battenti causa crisi aziendale. Nulla a che vedere con la congiuntura economica internazionale, ma poco importa, perchè se anche la chiusura di Eutelia fosse dettata dalla crisi economico-finanziaria globale, il destino dei circa duemila dipendenti non sarebbe certo diverso. Dopo Termini Imerese, ecco allora un'altra situazione spinosa per il governo, che si vede privato di forza lavoro proprio mentre vaticina riprese economiche. Dati alla mano, i dipendenti a rischio licenziamento a Termini Imerese sono 1.370, ai quali si aggiungono gli altri 800 lavoratori dell'indotto. Nel 2010 l'Italia rischia quindi di trovarsi con almeno quattromila disoccupati in più. Numeri da crisi, ma del resto Tremonti è stato chiaro: «Può essere che chiudiamo il 2010 con un segno positivo del Pil». Può essere.
* Editoriale per la trasmissione radiofonica E' la stampa bellezza del 27 novembre 2009
di Emiliano Biaggio*
«Può essere che chiudiamo il 2010 con un segno positivo del Pil». Parola di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia di un governo secondo cui - a sentire il titolare degli Esteri Franco Frattini - «siamo il paese che guida la ripresa economica in Europa». Ma l'esecutivo è costretto a fare bene i propri calcoli, perchè c'è ripresa solo se c'è un sistema produttivo funzionante, mentre in Italia sembra invece esserci un sistema in seria difficoltà, se non addirittura in crisi. Lo dimostra l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, che svela il piano della casa automobilistica torinese: chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e produzione delocalizzata in Polonia. Una scelta che fa insorgere i sindacati e che viene definita «folle» dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Immediata la replica di Marchionne: «Prima di usare un linguaggio pesante come "follia", uno dovrebbe capire i dati», sostiene l'ad di Fiat. «Siamo pronti a discutere- dice- ma non si può pensare di tenere tutti gli stabilimenti aperti». Un discorso che vale anche per Eutelia: il quarto operatore di telecomunicazioni in Italia minaccia di chiudere i battenti causa crisi aziendale. Nulla a che vedere con la congiuntura economica internazionale, ma poco importa, perchè se anche la chiusura di Eutelia fosse dettata dalla crisi economico-finanziaria globale, il destino dei circa duemila dipendenti non sarebbe certo diverso. Dopo Termini Imerese, ecco allora un'altra situazione spinosa per il governo, che si vede privato di forza lavoro proprio mentre vaticina riprese economiche. Dati alla mano, i dipendenti a rischio licenziamento a Termini Imerese sono 1.370, ai quali si aggiungono gli altri 800 lavoratori dell'indotto. Nel 2010 l'Italia rischia quindi di trovarsi con almeno quattromila disoccupati in più. Numeri da crisi, ma del resto Tremonti è stato chiaro: «Può essere che chiudiamo il 2010 con un segno positivo del Pil». Può essere.
* Editoriale per la trasmissione radiofonica E' la stampa bellezza del 27 novembre 2009
Saturday, 21 November 2009
Gestione delle risorse idriche ai privati, in Italia scoppia la guerra dell'acqua
Via libera di Montecitorio al decreto che sottrae "l'oro blu" alla sfera pubblica. Ronchi: «Critiche strumentali, non c'è privatizzazione». L'Idv: «Pronti al referendum»
di Emiliano Biaggio
Con 320 voti favorevoli e 270 contrari la Camera dei deputati vota la fiducia al decreto 'salva-infrazioni', anche detto 'decreto Ronchi', che tra le altre cose affida ai privati la gestione delle risorse idriche. Il ministro per le Politiche europee Andrea Ronchi, che dà il nome al provvedimento, sostiene che parlare di privatizzazione dell'acqua è «una semplificazione strumentale», e assicura che «l'acqua era, resta e sarà un bene pubblico non privatizzabile». I principi contenuti nell'articolo 15 del decreto, aggiunge Ronchi, «ribadiscono e rafforzano questo concetto». Il ministro fa riferimento ad un emendamento presentato dal Pd - e approvato dall'aula - che sancisce la natura pubblica delle risorse idriche. Una dichiarazione, in sostanza, di principio, che resta povera di significati di fronte alla realtà. E la realtà è che l'approvvigionamento alla fonte, il trasporto e la commercializzazione dell'acqua finisce nelle mani dei privati. Per chi ha dato nome al decreto, dunque nessun problema, solo polemiche sterili e «strumentali». Peccato però che nel testo non è prevista l'istituzione di alcuna Autorità garante. Cosa significa questo? Che sono in ballo «garanzia degli interessi dei cittadini e una corretta regolazione del settore», avverte Filippo Bubbico, capogruppo Pd in commissione Industria del Senato. L'ulteriore rischio, sottolinea il senatore Pd Roberto Della Seta, «è che ai privati vadano i profitti della gestione dell'acqua e allo Stato rimangano gli oneri della manutenzione delle reti, che come è noto sono un colabrodo e perdono circa un terzo dell'acqua». Immediate le repliche del Pdl, con l'europarlamentare Giovanni Collino, responsabile enti locali del Popolo della libertà, secondo cui «sul decreto Ronchi la sinistra, sapendo di mentire, sta agitando il rischio privatizzazione dell'acqua perchè in realtà non ha una controproposta seria da offrire al dibattito». Ma le polemiche non si placano, e nel dibattito intervienene anche il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che giudica «gravissime» disposizioni e conseguenze del decreto. Il Forum dei movimenti per l'acqua insorge: il provvedimento del governo «non tiene conto dell'orientamento popolare che si è già espresso con oltre 400.000 firme raccolte sulla legge di iniziativa popolare». Insieme all'opposizione (Pd e soprattutto Idv) e alla sinistra extraparlamentare (Prc, Sinistra e libertà, e Verdi) «si valuterà la questione del Referendum abrogativo della norma», fa sapere l'organizzazione. E qualcuno la valutazione l'ha già fatta. «Il gruppo Italia dei Valori ha stabilito come unica possibilità rimasta quella di organizzare un referendum abrogativo», fa sapere il deputato dell'Idv Domenico Scilipoti. Insomma, in Italia la guerra dell'acqua è iniziata.
(Seconda parte dell'editoriale della puntata del 20 novembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
Con 320 voti favorevoli e 270 contrari la Camera dei deputati vota la fiducia al decreto 'salva-infrazioni', anche detto 'decreto Ronchi', che tra le altre cose affida ai privati la gestione delle risorse idriche. Il ministro per le Politiche europee Andrea Ronchi, che dà il nome al provvedimento, sostiene che parlare di privatizzazione dell'acqua è «una semplificazione strumentale», e assicura che «l'acqua era, resta e sarà un bene pubblico non privatizzabile». I principi contenuti nell'articolo 15 del decreto, aggiunge Ronchi, «ribadiscono e rafforzano questo concetto». Il ministro fa riferimento ad un emendamento presentato dal Pd - e approvato dall'aula - che sancisce la natura pubblica delle risorse idriche. Una dichiarazione, in sostanza, di principio, che resta povera di significati di fronte alla realtà. E la realtà è che l'approvvigionamento alla fonte, il trasporto e la commercializzazione dell'acqua finisce nelle mani dei privati. Per chi ha dato nome al decreto, dunque nessun problema, solo polemiche sterili e «strumentali». Peccato però che nel testo non è prevista l'istituzione di alcuna Autorità garante. Cosa significa questo? Che sono in ballo «garanzia degli interessi dei cittadini e una corretta regolazione del settore», avverte Filippo Bubbico, capogruppo Pd in commissione Industria del Senato. L'ulteriore rischio, sottolinea il senatore Pd Roberto Della Seta, «è che ai privati vadano i profitti della gestione dell'acqua e allo Stato rimangano gli oneri della manutenzione delle reti, che come è noto sono un colabrodo e perdono circa un terzo dell'acqua». Immediate le repliche del Pdl, con l'europarlamentare Giovanni Collino, responsabile enti locali del Popolo della libertà, secondo cui «sul decreto Ronchi la sinistra, sapendo di mentire, sta agitando il rischio privatizzazione dell'acqua perchè in realtà non ha una controproposta seria da offrire al dibattito». Ma le polemiche non si placano, e nel dibattito intervienene anche il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che giudica «gravissime» disposizioni e conseguenze del decreto. Il Forum dei movimenti per l'acqua insorge: il provvedimento del governo «non tiene conto dell'orientamento popolare che si è già espresso con oltre 400.000 firme raccolte sulla legge di iniziativa popolare». Insieme all'opposizione (Pd e soprattutto Idv) e alla sinistra extraparlamentare (Prc, Sinistra e libertà, e Verdi) «si valuterà la questione del Referendum abrogativo della norma», fa sapere l'organizzazione. E qualcuno la valutazione l'ha già fatta. «Il gruppo Italia dei Valori ha stabilito come unica possibilità rimasta quella di organizzare un referendum abrogativo», fa sapere il deputato dell'Idv Domenico Scilipoti. Insomma, in Italia la guerra dell'acqua è iniziata.
(Seconda parte dell'editoriale della puntata del 20 novembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
Friday, 20 November 2009
Wednesday, 18 November 2009
Condannati a morte
Il mondo volta pagina, o meglio, si volta dall'altra parte. L'impegno alla riduzione del numero degli affamati si ferma, e i sottonutriti sono sempre di più.
di Emiliano Biaggio
Nel 2000, quando si decise di arrivare a dimezzare il numero degli affamati, la fame nel mondo colpiva 800 milioni di persone. Oggi ne colpisce un miliardo. Dopo nove anni, dunque, nulla è stato fatto. Non solo: nel 2000 si indicò il 2025 il termine ultimo entro cui sconfiggere la fame. Adesso il documento finale del vertice di Roma si limita a dire che bisogna cancellare la fame «il prima possibile». Il mondo si ferma, e inizia a voltarsi dall'altra parte. Fino a pochi anni fa, almeno c'erano impegni, seppur sulla carta. Adesso non ci sono più nemmeno quelli. E ciò nonostante «oggi nel mondo muoiono 17.000 bambini al giorno, sei milioni all'anno, uno ogni cinque secondi», denuncia il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon. Una vergogna. «Il cibo è un diritto di tutti», afferma Benedetto XVI, che giudica «inaccettabili opulenza e spreco». Ma il Pontefice, alla fine, "si dimentica" di parlare di impegni finanziari per contrastare la povertà, ed evita ai paesi più ricchi e avanzati di mettersi in gioco. Nel documento finale solo principi vaghi e generali, e di risorse nemmeno l'ombra: restano solo i 20 miliardi in tre anni promessi nel G8 dell'Aquila. Soldi ancora non visti, ma comunque ben poca cosa rispetto ai 44 miliardi di dollari all'anno a sostegno dell'agricoltura locale chiesti dal presidente della Fao, Jacques Diouf. Il vertice sulla sicurezza alimentare è stato un flop, certificato dall'assenza dei "grandi otto" del pianeta. Anche se, a ben vedere, non erano solo loro a mancare. Perde tutta la comunità internazionale, che alla Fao assiste anche all'intervento di Robert Mugabe, quel leader controverso e molto discusso, considerato da buona parte del mondo un dittatore sanguinario. Sarà per questo che i grandi del pianeta hanno disertatato? Per isolare Mugabe? No. Sulla piaga mondiale della fame, il messaggio silenzioso lanciato è: "Potremmo, ma non vogliamo". Di fronte a tutto questo resta un'amara considerazione: per le spese militari (vogliamo chiamarle "missioni di pace"?) i governi rifinanziano e continuano a rifinanziare. La direzione è chiara e - ammesso che sia umanitaria - non è però umana.
(Prima parte dell'editoriale della puntata del 20 novembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
Nel 2000, quando si decise di arrivare a dimezzare il numero degli affamati, la fame nel mondo colpiva 800 milioni di persone. Oggi ne colpisce un miliardo. Dopo nove anni, dunque, nulla è stato fatto. Non solo: nel 2000 si indicò il 2025 il termine ultimo entro cui sconfiggere la fame. Adesso il documento finale del vertice di Roma si limita a dire che bisogna cancellare la fame «il prima possibile». Il mondo si ferma, e inizia a voltarsi dall'altra parte. Fino a pochi anni fa, almeno c'erano impegni, seppur sulla carta. Adesso non ci sono più nemmeno quelli. E ciò nonostante «oggi nel mondo muoiono 17.000 bambini al giorno, sei milioni all'anno, uno ogni cinque secondi», denuncia il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon. Una vergogna. «Il cibo è un diritto di tutti», afferma Benedetto XVI, che giudica «inaccettabili opulenza e spreco». Ma il Pontefice, alla fine, "si dimentica" di parlare di impegni finanziari per contrastare la povertà, ed evita ai paesi più ricchi e avanzati di mettersi in gioco. Nel documento finale solo principi vaghi e generali, e di risorse nemmeno l'ombra: restano solo i 20 miliardi in tre anni promessi nel G8 dell'Aquila. Soldi ancora non visti, ma comunque ben poca cosa rispetto ai 44 miliardi di dollari all'anno a sostegno dell'agricoltura locale chiesti dal presidente della Fao, Jacques Diouf. Il vertice sulla sicurezza alimentare è stato un flop, certificato dall'assenza dei "grandi otto" del pianeta. Anche se, a ben vedere, non erano solo loro a mancare. Perde tutta la comunità internazionale, che alla Fao assiste anche all'intervento di Robert Mugabe, quel leader controverso e molto discusso, considerato da buona parte del mondo un dittatore sanguinario. Sarà per questo che i grandi del pianeta hanno disertatato? Per isolare Mugabe? No. Sulla piaga mondiale della fame, il messaggio silenzioso lanciato è: "Potremmo, ma non vogliamo". Di fronte a tutto questo resta un'amara considerazione: per le spese militari (vogliamo chiamarle "missioni di pace"?) i governi rifinanziano e continuano a rifinanziare. La direzione è chiara e - ammesso che sia umanitaria - non è però umana.
(Prima parte dell'editoriale della puntata del 20 novembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
Monday, 16 November 2009
«Recuperare le aree dismesse». Ecco la rivoluzione "verde" della Lega
Mentre il governo lavora al piano casa, il Carroccio ha in cantiere una legge sull'edilizia sostenibile. Che Angelo Alessandri, presidente commissione Ambiente alla Camera, vuole in vigore molto presto.
di Emiliano Biaggio
Risparmio energetico, energie prodotte da fonti rinnovabili e strutture realizzate con materiali a basso impatto ambientale. In Italia i progetti per edifici "verdi" e un'edilizia sostenibile ci sono, e «ce ne sono molti», ma restano tutti sulla carta. O meglio, chiusi in qualche cassetto o "dimenticati" in qualche ufficio. Già, perchè «la burocrazia impedisce a questi progetti di di partire e di essere realizzati». Che si tratti di «progetti estemporanei» o di piani ben definiti, non fa differenza: «la burocrazia frena» le aspirazioni "verdi" del nostro paese nell'eco-edilizia. Questa l'Italia che "dipinge" il presidente della commissione Ambiente della Camera, Angelo Alessandri, che della sostenibilità dei nostri edifici ha fatto una sua battaglia. Una battaglia "suggerita", verrebbe da dire. «Sono stato in Svezia, e lì, ad Hammarby (zona di Stoccolma, ndr), è stato realizzato un quartiere intero esclusivamente con criteri di sostenibilità ambientale. Addirittura- aggiunge- hanno un sistema di posta pneumatica sotterranea che evita il passaggio del postino». E questo quartiere, evidenzia il deputato della Lega, attraverso «il recupero di aree dismesse e capannoni abbandonati». E in Italia? Tutto fermo, almeno per ora. Perchè il gruppo della Lega alla Camera - Alessandri in testa - ha concepito una proposta di legge, il 'Sistema casa-qualità', che vuole «dare impulso» ai progetti italiani fermi, sul modello dell'esperienza svedese. La proposta di legge, che «ha terminato la fase istruttoria» e che adesso «si spera di renderla legge a breve», si basa su un principio fondamentale: «il recupero degli impianti dismessi e delle case abbandonate», spiega il deputato leghista. La logica della bozza, evidenzia, è questa: «E' meglio intervenire qui che costruire nuovi edifici».
I vantaggi sono diversi: evitare nuove colate di cemento permette di non aggravare il problema del dissesto idrogeologico, e dall'altra «bonificare questi siti permette di risanare un'area le falde o il territorio, che altrimenti non verrebbe mai recuperato». E poi c'è l'altro aspetto ambientale: dati ancora non se ne hanno, ma un recupero di queste aree con criteri di sostenibilità permetterà «un notevole abbattimento di CO2», addirittura anche a «emissioni quasi zero», assicura Alessandri.
Il progetto, però, costa, e «soldi pubblici da investire al momento non ci sono». Per portare avanti il 'Sistema casa-qualità', allora, spazio ai privati. «Con il project financing si possono trovare le risorse per finanziare i progetti», assicura. Del resto ad Hammarby, l'eco-quartiere di Stoccolma, «dei 4,5 miliardi spesi per "creare" il quartiere, solo 200 milioni erano fondi pubblici». Per ingolosire i privati e coinvolgerli nel progetto, sono previsti «incentivi finanziari e premi», ma quello che occorre è «semplificazione» procedurale. Insomma, l'edilizia "verde", almeno sulla carta può partire. Le idee fino a oggi accantonate verranno realizzate? «Noi siamo fiduciosi. Contiamo di avere la legge dopo la Finanziaria, e il prossimo anno vedremo i primi grandi progetti«, conclude Alessandri.
di Emiliano Biaggio
Risparmio energetico, energie prodotte da fonti rinnovabili e strutture realizzate con materiali a basso impatto ambientale. In Italia i progetti per edifici "verdi" e un'edilizia sostenibile ci sono, e «ce ne sono molti», ma restano tutti sulla carta. O meglio, chiusi in qualche cassetto o "dimenticati" in qualche ufficio. Già, perchè «la burocrazia impedisce a questi progetti di di partire e di essere realizzati». Che si tratti di «progetti estemporanei» o di piani ben definiti, non fa differenza: «la burocrazia frena» le aspirazioni "verdi" del nostro paese nell'eco-edilizia. Questa l'Italia che "dipinge" il presidente della commissione Ambiente della Camera, Angelo Alessandri, che della sostenibilità dei nostri edifici ha fatto una sua battaglia. Una battaglia "suggerita", verrebbe da dire. «Sono stato in Svezia, e lì, ad Hammarby (zona di Stoccolma, ndr), è stato realizzato un quartiere intero esclusivamente con criteri di sostenibilità ambientale. Addirittura- aggiunge- hanno un sistema di posta pneumatica sotterranea che evita il passaggio del postino». E questo quartiere, evidenzia il deputato della Lega, attraverso «il recupero di aree dismesse e capannoni abbandonati». E in Italia? Tutto fermo, almeno per ora. Perchè il gruppo della Lega alla Camera - Alessandri in testa - ha concepito una proposta di legge, il 'Sistema casa-qualità', che vuole «dare impulso» ai progetti italiani fermi, sul modello dell'esperienza svedese. La proposta di legge, che «ha terminato la fase istruttoria» e che adesso «si spera di renderla legge a breve», si basa su un principio fondamentale: «il recupero degli impianti dismessi e delle case abbandonate», spiega il deputato leghista. La logica della bozza, evidenzia, è questa: «E' meglio intervenire qui che costruire nuovi edifici».
I vantaggi sono diversi: evitare nuove colate di cemento permette di non aggravare il problema del dissesto idrogeologico, e dall'altra «bonificare questi siti permette di risanare un'area le falde o il territorio, che altrimenti non verrebbe mai recuperato». E poi c'è l'altro aspetto ambientale: dati ancora non se ne hanno, ma un recupero di queste aree con criteri di sostenibilità permetterà «un notevole abbattimento di CO2», addirittura anche a «emissioni quasi zero», assicura Alessandri.
Il progetto, però, costa, e «soldi pubblici da investire al momento non ci sono». Per portare avanti il 'Sistema casa-qualità', allora, spazio ai privati. «Con il project financing si possono trovare le risorse per finanziare i progetti», assicura. Del resto ad Hammarby, l'eco-quartiere di Stoccolma, «dei 4,5 miliardi spesi per "creare" il quartiere, solo 200 milioni erano fondi pubblici». Per ingolosire i privati e coinvolgerli nel progetto, sono previsti «incentivi finanziari e premi», ma quello che occorre è «semplificazione» procedurale. Insomma, l'edilizia "verde", almeno sulla carta può partire. Le idee fino a oggi accantonate verranno realizzate? «Noi siamo fiduciosi. Contiamo di avere la legge dopo la Finanziaria, e il prossimo anno vedremo i primi grandi progetti«, conclude Alessandri.
Sunday, 15 November 2009
Preghiera al dio vino
Padre nostro che sei in cantina,
sia lodata la tua medicina;
venga a noi il tuo buon vino
purché sia siano e genuino.
Sia fatta la sua volontà,
nel goderne in quantità.
Dacci oggi la nostra dose quotidiana
e riempi i nostri bicchieri
come noi li riempiamo ai nostri bevitori;
e non ci indurre all'astemia,
ma liberaci dall'acqua e così sia.
(culto abruzzese, composta dai devoti di Cese dei Marsi)
sia lodata la tua medicina;
venga a noi il tuo buon vino
purché sia siano e genuino.
Sia fatta la sua volontà,
nel goderne in quantità.
Dacci oggi la nostra dose quotidiana
e riempi i nostri bicchieri
come noi li riempiamo ai nostri bevitori;
e non ci indurre all'astemia,
ma liberaci dall'acqua e così sia.
(culto abruzzese, composta dai devoti di Cese dei Marsi)
Saturday, 14 November 2009
«Io, famoso per caso»
Ha "creato" il commissario Montalbano, e ha vinto la sua scommessa. A colloquio con uno dei maggiori scrittori dei nostri giorni.
di Emiliano Biaggio
«No che non mi aspettavo di avere tutto questo successo». Sentirselo dire dal "padre" del commissario Montalbano, fa un certo effetto. Ma Andrea Camilleri è davvero sincero, non ha falsa modestia da mostrare. E si vede da come si ferma a conversare, da come si lascia intervistare e dal modo - cordiale e disponibile - con cui sta "al gioco" delle domande e risposte. L'incontro è del tutto fortuito e imprevisto, un pò come il successo che - a sentire lo scrittore siciliano - ha riscontrato lo stesso Camilleri. «Pensa che questa popolarità e tutta questa pubblicità è arrivata grazie al passaparola...», dice quasi a voler sottolineare che, almeno per lui, le case editrici hanno ricoperto un ruolo minore nella pubblicizzazione e nel lancio dello scrittore. «Ma del resto non esiste una formula per fare successo», ricorda Camilleri. E questo, alla fine, è un bene, perchè «se esistessero formule magiche saremmo tutti scrittori di successo». Come dire, se ci fosse una ricetta per confezionare libri che poi vendono milioni di copie, il talento e la capacità personali non avrebbero più modo di esistere. E poi, a ben vedere, «servono gli scrittori, ma servono soprattutto i lettori», evidenzia Camilleri. «Per il successo di una qualsiasi opera serve l'apprezzamento del pubblico, nel caso dei libri del lettore», spiega.
Nella vita, per lavoro, ha scritto gialli. Storie complesse fatte di intrighi e casi intricati da risolvere. Ma il creatore di Montalbano, via via che parla, dimostra di essere persona semplice. Lo conferma quando punta i suoi occhi pieni di vitalità su una confezione di prodotti sott'olio, esposta sul ripiano alle nostre spalle: parla, forse riflettendo tra sè o forse rivolgendosi a chi gli sta di fronte: «Quando vai a mangiare fuori ti rendi conto che le cose hanno un sapore diverso», esclama lo scrittore. «Oggi serve un ritorno ai cibi veri». Il pensiero di Camilleri va alla terra, alla "sua" terra: la Sicilia. «In trent'anni ho visto scomparire distese di ulivi saraceni, ed è un vero peccato. Lo sviluppo edilizio è necessario, ma non a danno dell'ambiente». Un ambiente, che sulla sua isola, risulta fin troppo trascurato. «In Sicilia ci sono troppe terre abbandonate, c'è poca attenzione». Avremmo potuto parlare di tanto, ma Camilleri vuole che, almeno per un attimo, si parli della Sicilia, la sua Sicilia. Che poi è la Sicilia di Montalbano. Chissà quanta fatica per concepire tutte quelle storie... «Nessuna fatica», assicura lo scrittore. Certo, «ogni giorno mi sveglio alle 6 del mattino, mi rado, mi faccio la doccia, faccio colazione, e poi scrivo fino all'ora di pranzo. E poi dopo pranzo fino a sera». Insomma, nessun sacrificio, solo tanta voglia di creare e stupire. E passione per il proprio lavoro. «Certo. E penso che Brunetta dovrebbe darmi una medaglia per questo...».
di Emiliano Biaggio
«No che non mi aspettavo di avere tutto questo successo». Sentirselo dire dal "padre" del commissario Montalbano, fa un certo effetto. Ma Andrea Camilleri è davvero sincero, non ha falsa modestia da mostrare. E si vede da come si ferma a conversare, da come si lascia intervistare e dal modo - cordiale e disponibile - con cui sta "al gioco" delle domande e risposte. L'incontro è del tutto fortuito e imprevisto, un pò come il successo che - a sentire lo scrittore siciliano - ha riscontrato lo stesso Camilleri. «Pensa che questa popolarità e tutta questa pubblicità è arrivata grazie al passaparola...», dice quasi a voler sottolineare che, almeno per lui, le case editrici hanno ricoperto un ruolo minore nella pubblicizzazione e nel lancio dello scrittore. «Ma del resto non esiste una formula per fare successo», ricorda Camilleri. E questo, alla fine, è un bene, perchè «se esistessero formule magiche saremmo tutti scrittori di successo». Come dire, se ci fosse una ricetta per confezionare libri che poi vendono milioni di copie, il talento e la capacità personali non avrebbero più modo di esistere. E poi, a ben vedere, «servono gli scrittori, ma servono soprattutto i lettori», evidenzia Camilleri. «Per il successo di una qualsiasi opera serve l'apprezzamento del pubblico, nel caso dei libri del lettore», spiega.
Nella vita, per lavoro, ha scritto gialli. Storie complesse fatte di intrighi e casi intricati da risolvere. Ma il creatore di Montalbano, via via che parla, dimostra di essere persona semplice. Lo conferma quando punta i suoi occhi pieni di vitalità su una confezione di prodotti sott'olio, esposta sul ripiano alle nostre spalle: parla, forse riflettendo tra sè o forse rivolgendosi a chi gli sta di fronte: «Quando vai a mangiare fuori ti rendi conto che le cose hanno un sapore diverso», esclama lo scrittore. «Oggi serve un ritorno ai cibi veri». Il pensiero di Camilleri va alla terra, alla "sua" terra: la Sicilia. «In trent'anni ho visto scomparire distese di ulivi saraceni, ed è un vero peccato. Lo sviluppo edilizio è necessario, ma non a danno dell'ambiente». Un ambiente, che sulla sua isola, risulta fin troppo trascurato. «In Sicilia ci sono troppe terre abbandonate, c'è poca attenzione». Avremmo potuto parlare di tanto, ma Camilleri vuole che, almeno per un attimo, si parli della Sicilia, la sua Sicilia. Che poi è la Sicilia di Montalbano. Chissà quanta fatica per concepire tutte quelle storie... «Nessuna fatica», assicura lo scrittore. Certo, «ogni giorno mi sveglio alle 6 del mattino, mi rado, mi faccio la doccia, faccio colazione, e poi scrivo fino all'ora di pranzo. E poi dopo pranzo fino a sera». Insomma, nessun sacrificio, solo tanta voglia di creare e stupire. E passione per il proprio lavoro. «Certo. E penso che Brunetta dovrebbe darmi una medaglia per questo...».
Wednesday, 11 November 2009
Tuesday, 10 November 2009
Il muro e il sogno di un’era liberale che ancora non è cominciata
Cosa è successo nei vent'anni successivi alla riunificazione della Germania
di Ian Buruma (dal Corriere della sera del 10 novembre 2009)
Vent’anni fa, quando il Muro di Berlino veniva fatto a pezzi e l’impero sovietico traballava sull’orlo del precipizio, solo i più accaniti sostenitori dell’utopia sinceramente affranti. Certo, c’era ancora chi restava aggrappato alla possibilità di quello che un tempo veniva definito il «socialismo reale». Altri criticavano il trionfalismo del «nuovo ordine internazionale» promesso da George Bush padre. E il modo in cui la Germania dell’Ovest si precipitò a impossessarsi di quel relitto che era il suo vicino dell’Est parve quasi un gesto di crudeltà. Eppure, il 1989 fu un anno fantastico (tranne che in Cina, dove le aspirazioni democratiche venivano soffocate nel sangue). Molti di noi già intuivano gli albori di una nuova era liberale che avrebbe visto diffondersi libertà e giustizia in tutto il mondo, come una cascata di fiori. Vent’anni dopo, sappiamo che le cose non sono andate così. Un populismo xenofobo assedia oggi le democrazie europee. I partiti socialdemocratici battono in ritirata, mentre a destra i demagoghi promettono di salvaguardare i «valori occidentali» dalle orde islamiche. I disastri economici degli ultimi anni sembrano confermare il monito che Mikhail Gorbaciov ha lanciato nel ventesimo anniversario del 1989: «Anche il capitalismo occidentale, ormai privato del vecchio nemico e immaginandosi vincitore indiscusso e incarnazione del progresso globale, rischia di condurre la società occidentale verso l’ennesimo vicolo cieco della storia». Dalla prospettiva odierna, si direbbe che i liberali, nel senso americano e «progressista» del termine, potrebbero risultare i perdenti del 1989. Se tra socialdemocratici e comunisti il disprezzo era reciproco, ciò non toglie che molti principi socialdemocratici, radicati negli ideali marxisti di giustizia ed eguaglianza sociale, sono stati purtroppo gettati via, come il proverbiale bambino, assieme all’acqua sporca del comunismo. Tutto aveva preso avvio con l’esaltazione del libero mercato nell’era Thatcher-Reagan.
La società, nella celebre dichiarazione di Margaret Thatcher, non esiste. Solo gli individui contano, e le famiglie. Era il concetto di ciascuno per sé. Per molti, il proclama prometteva la liberazione, tanto dai mercati soffocati da un’infinità di normative, quanto dalla prepotenza dei sindacati e dai privilegi di classe. Per questo era stato l’ispirazione del neo-liberismo. Ma l’esasperazione del libero mercato ha scalzato il ruolo dello Stato nella costruzione di una società migliore, più giusta e più equa. Mentre i neo-liberali avanzavano baldanzosi sfrondando e abbattendo le vecchie strutture dei socialdemocratici, la sinistra sprecava le sue energie discettando di politiche culturali, di «identità» e di multiculturalismo ideologico. L’idealismo democratico era un tempo dominio della sinistra, e abbracciava sia i socialdemocratici che i liberali. Negli Stati Uniti, erano i democratici, come John Kennedy, a sostenere la causa della libertà nel mondo. Ma sul finire del ventesimo secolo è parso ben più importante alla sinistra salvare la cultura del «Terzo Mondo» dal «neocolonialismo» — per quanto fuori luogo — anziché promuovere uguaglianza e democrazia. Gli esponenti della sinistra erano pronti a difendere dittature brutali (Castro, Mao, Pol Pot, Khomeini e altri ancora) semplicemente perché antagonisti dell’«imperialismo occidentale». Risultato: tutta la politica scaturita dal marxismo — anche quella di lontana ispirazione — ha perso ogni credibilità e si è spenta definitivamente nel 1989. Ovviamente, è stato un disastro per comunisti e socialisti, ma anche per i socialdemocratici, perché questi hanno visto venir meno la base ideologica del loro idealismo. E senza ideali, la politica si riduce a una forma di burocrazia, una gestione di interessi puramente materiali. Eppure, la retorica dell’idealismo non è svanita del tutto. Si è semplicemente spostata da sinistra a destra. Anche questo movimento ha preso le sue mosse da Reagan e dalla Thatcher, che adottarono lo slancio kennediano della diffusione della democrazia nel mondo intero. E una volta che il linguaggio dell’internazionalismo — rivoluzione democratica, liberazione nazionale e via dicendo — è stato abbandonato dalla sinistra, i neo-conservatori sono prontamente accorsi a raccoglierlo. Il loro sostegno alla forza militare americana come testa d’ariete della democrazia sarà stato un tentativo maldestro, rozzo, arrogante, ignorante, ingenuo e profondamente pericoloso, ma nessuno può negare che non sia nato da una spinta idealistica. Il fascino dello slancio rivoluzionario ha attirato alcuni vecchi esponenti della sinistra sul versante neo-conservatore. La maggior parte dei liberali, tuttavia, si è allarmata davanti ai neocon, senza però trovare una risposta coerente. Perso ogni entusiasmo per l’internazionalismo, la reazione comune dei liberali al radicalismo dei neocon è stata quella di lanciare un appello al «realismo», alla non ingerenza negli affari altrui, al ritiro dal mondo. In molti casi, questa si è rivelata davvero la rotta più saggia da seguire, ancorché assai poco stimolante. Non sorprende pertanto che un internazionalista di sinistra, come il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, abbia trovato rifugio per il suo idealismo nel governo conservatore di Nicolas Sarkozy.
Per la prima volta dall’epoca di Kennedy, gli Stati Uniti sono una delle poche democrazie liberali al mondo guidate da un governo di centrosinistra. Sarà in grado il presidente Obama di spianare la strada verso una nuova era di idealismo sociale e politico? Ne dubito. Obama non è un socialista, né un semplice burocrate. Possiede ideali modesti, ma nonostante tutto potrebbe rivelarsi un presidente eccellente. Ciò che serve alla rinascita dell’idealismo liberale, tuttavia, è un insieme di nuovi ideali su come promuovere giustizia, uguaglianza e libertà nel mondo. Reagan, Thatcher e Gorbaciov hanno assistito al tramonto di un’ideologia che in passato aveva dato speranza e ispirato reali progressi, ma che sfortunatamente aveva provocato anche schiavitù e massacri. E noi restiamo in attesa di una nuova visione per guidarci sulla strada del progresso, che finalmente sia — ci auguriamo — libero da ogni tirannia.
di Ian Buruma (dal Corriere della sera del 10 novembre 2009)
Vent’anni fa, quando il Muro di Berlino veniva fatto a pezzi e l’impero sovietico traballava sull’orlo del precipizio, solo i più accaniti sostenitori dell’utopia sinceramente affranti. Certo, c’era ancora chi restava aggrappato alla possibilità di quello che un tempo veniva definito il «socialismo reale». Altri criticavano il trionfalismo del «nuovo ordine internazionale» promesso da George Bush padre. E il modo in cui la Germania dell’Ovest si precipitò a impossessarsi di quel relitto che era il suo vicino dell’Est parve quasi un gesto di crudeltà. Eppure, il 1989 fu un anno fantastico (tranne che in Cina, dove le aspirazioni democratiche venivano soffocate nel sangue). Molti di noi già intuivano gli albori di una nuova era liberale che avrebbe visto diffondersi libertà e giustizia in tutto il mondo, come una cascata di fiori. Vent’anni dopo, sappiamo che le cose non sono andate così. Un populismo xenofobo assedia oggi le democrazie europee. I partiti socialdemocratici battono in ritirata, mentre a destra i demagoghi promettono di salvaguardare i «valori occidentali» dalle orde islamiche. I disastri economici degli ultimi anni sembrano confermare il monito che Mikhail Gorbaciov ha lanciato nel ventesimo anniversario del 1989: «Anche il capitalismo occidentale, ormai privato del vecchio nemico e immaginandosi vincitore indiscusso e incarnazione del progresso globale, rischia di condurre la società occidentale verso l’ennesimo vicolo cieco della storia». Dalla prospettiva odierna, si direbbe che i liberali, nel senso americano e «progressista» del termine, potrebbero risultare i perdenti del 1989. Se tra socialdemocratici e comunisti il disprezzo era reciproco, ciò non toglie che molti principi socialdemocratici, radicati negli ideali marxisti di giustizia ed eguaglianza sociale, sono stati purtroppo gettati via, come il proverbiale bambino, assieme all’acqua sporca del comunismo. Tutto aveva preso avvio con l’esaltazione del libero mercato nell’era Thatcher-Reagan.
La società, nella celebre dichiarazione di Margaret Thatcher, non esiste. Solo gli individui contano, e le famiglie. Era il concetto di ciascuno per sé. Per molti, il proclama prometteva la liberazione, tanto dai mercati soffocati da un’infinità di normative, quanto dalla prepotenza dei sindacati e dai privilegi di classe. Per questo era stato l’ispirazione del neo-liberismo. Ma l’esasperazione del libero mercato ha scalzato il ruolo dello Stato nella costruzione di una società migliore, più giusta e più equa. Mentre i neo-liberali avanzavano baldanzosi sfrondando e abbattendo le vecchie strutture dei socialdemocratici, la sinistra sprecava le sue energie discettando di politiche culturali, di «identità» e di multiculturalismo ideologico. L’idealismo democratico era un tempo dominio della sinistra, e abbracciava sia i socialdemocratici che i liberali. Negli Stati Uniti, erano i democratici, come John Kennedy, a sostenere la causa della libertà nel mondo. Ma sul finire del ventesimo secolo è parso ben più importante alla sinistra salvare la cultura del «Terzo Mondo» dal «neocolonialismo» — per quanto fuori luogo — anziché promuovere uguaglianza e democrazia. Gli esponenti della sinistra erano pronti a difendere dittature brutali (Castro, Mao, Pol Pot, Khomeini e altri ancora) semplicemente perché antagonisti dell’«imperialismo occidentale». Risultato: tutta la politica scaturita dal marxismo — anche quella di lontana ispirazione — ha perso ogni credibilità e si è spenta definitivamente nel 1989. Ovviamente, è stato un disastro per comunisti e socialisti, ma anche per i socialdemocratici, perché questi hanno visto venir meno la base ideologica del loro idealismo. E senza ideali, la politica si riduce a una forma di burocrazia, una gestione di interessi puramente materiali. Eppure, la retorica dell’idealismo non è svanita del tutto. Si è semplicemente spostata da sinistra a destra. Anche questo movimento ha preso le sue mosse da Reagan e dalla Thatcher, che adottarono lo slancio kennediano della diffusione della democrazia nel mondo intero. E una volta che il linguaggio dell’internazionalismo — rivoluzione democratica, liberazione nazionale e via dicendo — è stato abbandonato dalla sinistra, i neo-conservatori sono prontamente accorsi a raccoglierlo. Il loro sostegno alla forza militare americana come testa d’ariete della democrazia sarà stato un tentativo maldestro, rozzo, arrogante, ignorante, ingenuo e profondamente pericoloso, ma nessuno può negare che non sia nato da una spinta idealistica. Il fascino dello slancio rivoluzionario ha attirato alcuni vecchi esponenti della sinistra sul versante neo-conservatore. La maggior parte dei liberali, tuttavia, si è allarmata davanti ai neocon, senza però trovare una risposta coerente. Perso ogni entusiasmo per l’internazionalismo, la reazione comune dei liberali al radicalismo dei neocon è stata quella di lanciare un appello al «realismo», alla non ingerenza negli affari altrui, al ritiro dal mondo. In molti casi, questa si è rivelata davvero la rotta più saggia da seguire, ancorché assai poco stimolante. Non sorprende pertanto che un internazionalista di sinistra, come il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, abbia trovato rifugio per il suo idealismo nel governo conservatore di Nicolas Sarkozy.
Per la prima volta dall’epoca di Kennedy, gli Stati Uniti sono una delle poche democrazie liberali al mondo guidate da un governo di centrosinistra. Sarà in grado il presidente Obama di spianare la strada verso una nuova era di idealismo sociale e politico? Ne dubito. Obama non è un socialista, né un semplice burocrate. Possiede ideali modesti, ma nonostante tutto potrebbe rivelarsi un presidente eccellente. Ciò che serve alla rinascita dell’idealismo liberale, tuttavia, è un insieme di nuovi ideali su come promuovere giustizia, uguaglianza e libertà nel mondo. Reagan, Thatcher e Gorbaciov hanno assistito al tramonto di un’ideologia che in passato aveva dato speranza e ispirato reali progressi, ma che sfortunatamente aveva provocato anche schiavitù e massacri. E noi restiamo in attesa di una nuova visione per guidarci sulla strada del progresso, che finalmente sia — ci auguriamo — libero da ogni tirannia.
Monday, 9 November 2009
«La riunificazione non c'è stata»
A vent'anni dalla caduta del muro parla Ingo Schuze, scrittore tedesco vissuto all'est e passato a Berlino. Ovest.
Testi raccolti da Nicola Sessa. Riadattamento di Emiliano Biaggio
«Fino a dieci anni fa bisognava risolvere solo la questione geografica. Adesso c'è anche un altro muro da tirare giù: quello tra ricchi e poveri». Ingo Schulze, da sempre scrive e racconta. E adesso descrive e narra il modo in cui la Germania celebra il ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Un muro - dal 1961 in poi - più volte definito "della vergogna", ma che una volta rimosso non ha saputo aprire la strada all'unificazione nazionale. «Sono in molti, quelli dell'est,a credere che non si possa parlare di Wiedervereinigung, di riunificazione», sostiene Schulze. «Che cosa vuol dire riunificazione? Mescolanza, scambio tra le due parti». Ma dopo il crollo del muro, lamenta, «non c'è stato nulla di tutto questo, anzi. Le differenze si sono rimarcate». Chi meglio di lui - nato e cresciuto nell'allora Germania est per poi trasferirsi, nel 1990, a Berlino - può cogliere gli spetti di una Germania ancora divisa - forse anche più di prima - in due? «Prima della caduta del muro, tedeschi eravamo noi e tedeschi erano anche quelli della Germania federale». Ma poi «si è cominciata a fare una distinzione tra i due popoli, quando noi ci siamo accorti di essere diversi e abbiamo iniziato a riferirci a noi stessi come Ossi, tedeschi dell'est». Un ovest ricco e industrializzato, che non saputo investire in un est più arretrato che oggi deve fare i conti con la disoccupazione e migrazioni coatte dei tedeschi orientali, soprattutto giovani. A distanza di vent'anni da quel 9 novembre 1989, esistono ancora due Germanie. Ma non sono più quelle del socialismo e del capitalismo, sono quelle del benessere e del malessere. Nuove divisioni da rimuovere «E' una sfida molto difficile da vincere, perchè la distanza rischia di diventare incolmabile», avverte lo scrittore tedesco. Ingo Schulze non può non mettere in risalto la differenza tra passato e presente, e i paragoni diventano automatici e inevitabili. «Il sistema socialista aveva molti pregi: il sistema sanitario, l'educazione, i trasporti - che per il 70% si sviluppavano su rotaia. E il diritto al lavoro era qualcosa di concreto, ew non un'astrazioner come lo è oggi nel sistema occidentale». Sistema occidentale che, paradossalemte, «dopo il 1990 ha subito un brusco arresto nello sviluppo, e in nome della competitività le politiche sociali sono state sacrficate sull'altare del capitale. Non fraintendentemi. Non sto dicendo che la Ddr fosse il sistema perfetto. Quel sistema si basava su una dittaura liberticida e nessuno vuole tornare indietro». Insomma, «non ritengo una grave perdita lo sgretolamento del blocco orientale, ma è quanto meno criticabile la scelta dell'Occidente di voler cancellare tutto quello che fosse della Ddr, anche le cose buone». E' chiaro che le attese del pluripremiato scrittore tedesco sono state disattese, come quelle di milioni di Ossi, forse contenti solo in parte di essersi ricongiunti con il resto del Paese. «Non esiste uguaglianza se non c'è giustizia sociale, e non c'è dignità per un uomo che non sia posto nelle condizioni di lavorare» dice Schulze. «Sai a quanto ammonta il sussidio che il governo passa ai disoccupati? Quattro euro e venticinque centesimi al giorno. Possiamo dire che queste sono persone libere?»
Testi raccolti da Nicola Sessa. Riadattamento di Emiliano Biaggio
«Fino a dieci anni fa bisognava risolvere solo la questione geografica. Adesso c'è anche un altro muro da tirare giù: quello tra ricchi e poveri». Ingo Schulze, da sempre scrive e racconta. E adesso descrive e narra il modo in cui la Germania celebra il ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Un muro - dal 1961 in poi - più volte definito "della vergogna", ma che una volta rimosso non ha saputo aprire la strada all'unificazione nazionale. «Sono in molti, quelli dell'est,a credere che non si possa parlare di Wiedervereinigung, di riunificazione», sostiene Schulze. «Che cosa vuol dire riunificazione? Mescolanza, scambio tra le due parti». Ma dopo il crollo del muro, lamenta, «non c'è stato nulla di tutto questo, anzi. Le differenze si sono rimarcate». Chi meglio di lui - nato e cresciuto nell'allora Germania est per poi trasferirsi, nel 1990, a Berlino - può cogliere gli spetti di una Germania ancora divisa - forse anche più di prima - in due? «Prima della caduta del muro, tedeschi eravamo noi e tedeschi erano anche quelli della Germania federale». Ma poi «si è cominciata a fare una distinzione tra i due popoli, quando noi ci siamo accorti di essere diversi e abbiamo iniziato a riferirci a noi stessi come Ossi, tedeschi dell'est». Un ovest ricco e industrializzato, che non saputo investire in un est più arretrato che oggi deve fare i conti con la disoccupazione e migrazioni coatte dei tedeschi orientali, soprattutto giovani. A distanza di vent'anni da quel 9 novembre 1989, esistono ancora due Germanie. Ma non sono più quelle del socialismo e del capitalismo, sono quelle del benessere e del malessere. Nuove divisioni da rimuovere «E' una sfida molto difficile da vincere, perchè la distanza rischia di diventare incolmabile», avverte lo scrittore tedesco. Ingo Schulze non può non mettere in risalto la differenza tra passato e presente, e i paragoni diventano automatici e inevitabili. «Il sistema socialista aveva molti pregi: il sistema sanitario, l'educazione, i trasporti - che per il 70% si sviluppavano su rotaia. E il diritto al lavoro era qualcosa di concreto, ew non un'astrazioner come lo è oggi nel sistema occidentale». Sistema occidentale che, paradossalemte, «dopo il 1990 ha subito un brusco arresto nello sviluppo, e in nome della competitività le politiche sociali sono state sacrficate sull'altare del capitale. Non fraintendentemi. Non sto dicendo che la Ddr fosse il sistema perfetto. Quel sistema si basava su una dittaura liberticida e nessuno vuole tornare indietro». Insomma, «non ritengo una grave perdita lo sgretolamento del blocco orientale, ma è quanto meno criticabile la scelta dell'Occidente di voler cancellare tutto quello che fosse della Ddr, anche le cose buone». E' chiaro che le attese del pluripremiato scrittore tedesco sono state disattese, come quelle di milioni di Ossi, forse contenti solo in parte di essersi ricongiunti con il resto del Paese. «Non esiste uguaglianza se non c'è giustizia sociale, e non c'è dignità per un uomo che non sia posto nelle condizioni di lavorare» dice Schulze. «Sai a quanto ammonta il sussidio che il governo passa ai disoccupati? Quattro euro e venticinque centesimi al giorno. Possiamo dire che queste sono persone libere?»
A est delle illusioni
Una città divisa in due da un muro, un popolo in festa per l'unità ritrovata. Ma vent'anni dopo resta una Germania dell'est, e anche più diversa di allora.
di Emiliano Biaggio
9 novembre 1989: gente festante saluta il muro che divide in due Berlino, abbatte quello che ancora oggi rappresenta il lato più bieco di un socialismo reale irreale. Oggi, la Germania e il mondo celebrano il ventennale di un episodio storico che ha riscritto la storia. E aperto un nuovo capitolo, fatto di libertà e di democrazia. E capitalismo. Ma che ne è dell'est di Berlino e dell'oriente tedesco a distanza di 20 anni? Una città e un paese dai volti nuovi, senza dubbio. Con un accenno di preoccupazione per un presente non facile e un futuro incerto frutto del nuovo corso, mescolato a un pizzico di nostalgia per un passato dal quale ancora non ci si è liberati. Ironia della sorte, i tedeschi dell'est hanno lasciato un'illusione per sposarne una nuova. La vecchia Ddr di democratico aveva solo la dicitura, mentre i vicini della Germania federale invece erano realmente ciò che dicevano di essere. Oggi ai lander occidentali si sono aggiunti quelli orientali, più poveri e svuotati di popolazione, per via di un esodo dall'est all'ovest che dopo la caduta del muro ha ripreso in tutto il suo vigore. La Ddr ha cancellato il proprio stile e il proprio passato, ha smantellato un sistema politico e produttivo, senza avere nulla in cambio. Il risultato è disoccupazione, giovani che vanno all'ovest in cerca di fortuna, una parte del Paese che ancora oggi stenta a mettersi alla pari del resto di una Nazione che - complice anche la crisi - mugugna sempre di più. L'est della Germania è stata e ancora è un costo per tutti gli altri tedeschi, che adesso, dopo la festa, si trovano a dover sistemare e ripulire. Dall'altra parte dell'illusione, gli ex tedeschi della Germania est, che iniziano a confrontare il loro passato e il loro presente: la nostalgia c'è, nonostante tutto. Alla fine tutti, per motivi diversi, hanno almeno un motivo per avvertare un pizzico di insoddisfazione: i tedeschi occidentali, che devono continuare ad accollarsi un est comunque "diverso" e che ancora non riesce a "diventare" tedesco; i tedeschi orientali, che hanno pagato a caro prezzo la loro libertà e la riunificazione, con arretratezza, disoccupazione e la consapevolezza di non essere riusciti ad integrarsi con i fratelli dell'ovest. Solo dieci anni fa, quando la Germania unita festeggiava i dieci anni dalla caduta del muro, in molti sostenevano che a distanza di un decennio la Germania era lontana almeno 40 anni dalla piena riunificazione. Oggi, dopo altri dieci anni, le differenze e le distanze si ampliano, nonostante non ci sia più alcuna parete divisoria. 9 novembre 2009: una Germania diversamente festante e tedeschi diversamente felici celebrano il ventennale di un episodio storico che ha riscritto la storia. Consegnata a una nuova illusione e nuove delusioni.
di Emiliano Biaggio
9 novembre 1989: gente festante saluta il muro che divide in due Berlino, abbatte quello che ancora oggi rappresenta il lato più bieco di un socialismo reale irreale. Oggi, la Germania e il mondo celebrano il ventennale di un episodio storico che ha riscritto la storia. E aperto un nuovo capitolo, fatto di libertà e di democrazia. E capitalismo. Ma che ne è dell'est di Berlino e dell'oriente tedesco a distanza di 20 anni? Una città e un paese dai volti nuovi, senza dubbio. Con un accenno di preoccupazione per un presente non facile e un futuro incerto frutto del nuovo corso, mescolato a un pizzico di nostalgia per un passato dal quale ancora non ci si è liberati. Ironia della sorte, i tedeschi dell'est hanno lasciato un'illusione per sposarne una nuova. La vecchia Ddr di democratico aveva solo la dicitura, mentre i vicini della Germania federale invece erano realmente ciò che dicevano di essere. Oggi ai lander occidentali si sono aggiunti quelli orientali, più poveri e svuotati di popolazione, per via di un esodo dall'est all'ovest che dopo la caduta del muro ha ripreso in tutto il suo vigore. La Ddr ha cancellato il proprio stile e il proprio passato, ha smantellato un sistema politico e produttivo, senza avere nulla in cambio. Il risultato è disoccupazione, giovani che vanno all'ovest in cerca di fortuna, una parte del Paese che ancora oggi stenta a mettersi alla pari del resto di una Nazione che - complice anche la crisi - mugugna sempre di più. L'est della Germania è stata e ancora è un costo per tutti gli altri tedeschi, che adesso, dopo la festa, si trovano a dover sistemare e ripulire. Dall'altra parte dell'illusione, gli ex tedeschi della Germania est, che iniziano a confrontare il loro passato e il loro presente: la nostalgia c'è, nonostante tutto. Alla fine tutti, per motivi diversi, hanno almeno un motivo per avvertare un pizzico di insoddisfazione: i tedeschi occidentali, che devono continuare ad accollarsi un est comunque "diverso" e che ancora non riesce a "diventare" tedesco; i tedeschi orientali, che hanno pagato a caro prezzo la loro libertà e la riunificazione, con arretratezza, disoccupazione e la consapevolezza di non essere riusciti ad integrarsi con i fratelli dell'ovest. Solo dieci anni fa, quando la Germania unita festeggiava i dieci anni dalla caduta del muro, in molti sostenevano che a distanza di un decennio la Germania era lontana almeno 40 anni dalla piena riunificazione. Oggi, dopo altri dieci anni, le differenze e le distanze si ampliano, nonostante non ci sia più alcuna parete divisoria. 9 novembre 2009: una Germania diversamente festante e tedeschi diversamente felici celebrano il ventennale di un episodio storico che ha riscritto la storia. Consegnata a una nuova illusione e nuove delusioni.
Saturday, 7 November 2009
Libertà, Strasburgo ci mette una croce sopra
L'e-dittoreale
La Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo dice "no" ai crocefissi nelle aule delle scuole, perchè costituisce «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e una violazione alla «libertà di religione degli alunni». Una pronuncia che ha scatenato reazioni e polemiche. Il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelimini, ha richiamato le radici cristiane del nostro Paese, la Chiesa (e ci mancherebbe) si è espressa contro questa sentenza. Sia il ministro che la Chiesa hanno ragione a far sentire la propria voce: il Cristianesimo - e con esso i suoi simboli, crocifisso compreso - ci appartiene. Ci piaccia o no. Tuttavia l'Italia, pur nella sua storia e nella tradizione cristiana, almento sulla carta è e resta uno stato laico. Questo lascia intendere che crocifissi nei luoghi pubblici non dovrebbero esserci. Ma la Corte di Strasburgo non dice questo, dice che c'è una violazione di libertà. Niente di più sbagliato. Essere liberi significa sapere andare oltre le diversità: si può rimanere tranquillamente non cristiano davanti a una chiesa e davanti a un crocifisso. La Corte europea dei diritti dell'uomo non tutela diritti, viceversa con la sua sentenza alimenta l'intolleranza, nemica dell'integrazione. Perchè se un crocifisso lede la libertà di religione, allora un bandiera afghana sventolante in Italia può finire per offendere la libertà di non essere islamici e di non essere orientali. Allo stesso modo, un emigrato di colore può finire per offendere chi di colore non è. Ancora, allo stadio magliette e sciarpe diverse da quelle dei tifosi della squadra di casa può finire per ledere la libertà di tifare per chi tifa la squdra di casa. La violenza negli stadi, in Italia, la conosciamo bene: per essere liberi di incitare la propria squadra si è arrivati a chiudere le porte in faccia ai tifosi della squadra avversaria. Ma questa, o è autoghettizzazione o è discriminazione. Di certo non è nè essere liberi nè rendere liberi.
L'organismo di Strasburgo rischia quindi di far passare un principio pericoloso, quando invece dovrebbe dire un'altra cosa: le libertà si violano quando si mettono in discussione i tratti caratterizzanti di un popolo e di una cultura, qualunque sia. Per integrazione e rispetto reciproco, occorre che da una parte ci sia il riconoscimento della minoranza, dall'altra che la minoranza non tenti di imporsi. Per cui se un non cristiano si trova in Italia noi dobbiamo aspettarci- e accettare- che questi non vada in Chiesa, mentre l'altro dovrebbe sapere- e a sua volta accettare- che per quanto laico l'Italia resta un Paese di crocifissi. Il mondo globale impone una dialettica e una politica dell'incontro, non dello scontro. Strasburgo alimenta invece odi che non fanno bene a nessuno, e che rischiano di far nascere un fanatismo cattolico di cui non abbiamo bisogno. Perchè il fanatismo religioso plasma talebani e pasdaran, che noi fortunatamente non abbiamo. La nostra storia già deve fare i conti con crociati e inquisitori (per ogni reclamo rivolgersi alla Santa Sede!), mentre il nostro presente deve fare i conti con omofobia e una legge sull'immigrazione dal retrogusto (e forse anche dal gusto) discriminatorio (per non dire razzista). La corte europea, dunque, sbaglia. Sbaglia per le motivazioni con cui spiega la propria decisione: se si proibiscono i simboli di un popolo per timore nei confronti delle reazioni dell'altro, non si sancisce un vittoria di diritti, ma una vittoria della paura e la sconfitta della libertà stessa. Si ci si offende per come non si è rispetto agli altri, o peggio, per come gli altri non sanno essere come noi, vuol dire che siamo prossimi a uno scontro frontale. Lunedì ricorre l'anniversario della caduta del muro di Berlino: l'alternativa al modello socialista dovrebbe non solo celebrare la fine di un regime liberticida, dovrebbe anche dimostrare di aver costruito un'alternativa migliore e più credibile. Ma il 'villaggio globale', di globale rischio solo un grande fallimento.
La Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo dice "no" ai crocefissi nelle aule delle scuole, perchè costituisce «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e una violazione alla «libertà di religione degli alunni». Una pronuncia che ha scatenato reazioni e polemiche. Il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelimini, ha richiamato le radici cristiane del nostro Paese, la Chiesa (e ci mancherebbe) si è espressa contro questa sentenza. Sia il ministro che la Chiesa hanno ragione a far sentire la propria voce: il Cristianesimo - e con esso i suoi simboli, crocifisso compreso - ci appartiene. Ci piaccia o no. Tuttavia l'Italia, pur nella sua storia e nella tradizione cristiana, almento sulla carta è e resta uno stato laico. Questo lascia intendere che crocifissi nei luoghi pubblici non dovrebbero esserci. Ma la Corte di Strasburgo non dice questo, dice che c'è una violazione di libertà. Niente di più sbagliato. Essere liberi significa sapere andare oltre le diversità: si può rimanere tranquillamente non cristiano davanti a una chiesa e davanti a un crocifisso. La Corte europea dei diritti dell'uomo non tutela diritti, viceversa con la sua sentenza alimenta l'intolleranza, nemica dell'integrazione. Perchè se un crocifisso lede la libertà di religione, allora un bandiera afghana sventolante in Italia può finire per offendere la libertà di non essere islamici e di non essere orientali. Allo stesso modo, un emigrato di colore può finire per offendere chi di colore non è. Ancora, allo stadio magliette e sciarpe diverse da quelle dei tifosi della squadra di casa può finire per ledere la libertà di tifare per chi tifa la squdra di casa. La violenza negli stadi, in Italia, la conosciamo bene: per essere liberi di incitare la propria squadra si è arrivati a chiudere le porte in faccia ai tifosi della squadra avversaria. Ma questa, o è autoghettizzazione o è discriminazione. Di certo non è nè essere liberi nè rendere liberi.
L'organismo di Strasburgo rischia quindi di far passare un principio pericoloso, quando invece dovrebbe dire un'altra cosa: le libertà si violano quando si mettono in discussione i tratti caratterizzanti di un popolo e di una cultura, qualunque sia. Per integrazione e rispetto reciproco, occorre che da una parte ci sia il riconoscimento della minoranza, dall'altra che la minoranza non tenti di imporsi. Per cui se un non cristiano si trova in Italia noi dobbiamo aspettarci- e accettare- che questi non vada in Chiesa, mentre l'altro dovrebbe sapere- e a sua volta accettare- che per quanto laico l'Italia resta un Paese di crocifissi. Il mondo globale impone una dialettica e una politica dell'incontro, non dello scontro. Strasburgo alimenta invece odi che non fanno bene a nessuno, e che rischiano di far nascere un fanatismo cattolico di cui non abbiamo bisogno. Perchè il fanatismo religioso plasma talebani e pasdaran, che noi fortunatamente non abbiamo. La nostra storia già deve fare i conti con crociati e inquisitori (per ogni reclamo rivolgersi alla Santa Sede!), mentre il nostro presente deve fare i conti con omofobia e una legge sull'immigrazione dal retrogusto (e forse anche dal gusto) discriminatorio (per non dire razzista). La corte europea, dunque, sbaglia. Sbaglia per le motivazioni con cui spiega la propria decisione: se si proibiscono i simboli di un popolo per timore nei confronti delle reazioni dell'altro, non si sancisce un vittoria di diritti, ma una vittoria della paura e la sconfitta della libertà stessa. Si ci si offende per come non si è rispetto agli altri, o peggio, per come gli altri non sanno essere come noi, vuol dire che siamo prossimi a uno scontro frontale. Lunedì ricorre l'anniversario della caduta del muro di Berlino: l'alternativa al modello socialista dovrebbe non solo celebrare la fine di un regime liberticida, dovrebbe anche dimostrare di aver costruito un'alternativa migliore e più credibile. Ma il 'villaggio globale', di globale rischio solo un grande fallimento.
Friday, 6 November 2009
___________ Signore e signori ___________
La Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo dice "no" ai crocefissi nelle aule delle scuole, perchè costituisce «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e una violazione alla «libertà di religione degli alunni». Ci sono signori e signori, insomma. E allora via il Signore, ecco il signore degli anelli. Noi mettiamo questo, sperando che non offenda gli antisportivi.
Thursday, 5 November 2009
Europa, il Trattato dei burocrati
Sì al Trattato di Lisbona. Il documento - illeggibile e monumentale - disegnerà la nuova Europa, un super-Stato senza mandato di rappresentanza che cambierà il nostro futuro.
di Luca Galassi (da Peacereporter)
Il trattato di Lisbona, non è che la riproposizione di una "Costituzione europea" che, al momento della sua elaborazione, rivelò l'impossibilità di conciliare le esigenze di tutti i Paesi che avrebbero in futuro dovuto ratificarla. Così, nel 2007, una gruppo di lavoro capeggiato da Giuliano Amato, si mise al lavoro per proporre una versione 'emendata' della Costituzione in perfetto stile gattopardesco. Il Trattato è oggi l'integrazione di altri trattati dell'Unione, un monstrum di regole e leggi incomprensibile ai cittadini europei, se non ai suoi stessi estensori. Il documento ha la finalità di assicurare, su questioni chiave, maggiore controllo agli organi dell'Unione Europea a scapito di quelli degli Stati nazionali. Garantirà enormi poteri a istituzioni che nessun cittadino elegge direttamente (il Consiglio Europeo, che assumerà il ruolo di presidenza, la Commissione Europea e il Consiglio dei ministri, che sarà l'esecutivo, la Corte europea di giustizia, che sarà il sistema giudiziario). Sancirà con forza i principi del libero mercato e la necessità di una difesa comune europea, con la conseguente erosione dei diritti dei lavoratori e del social welfare e la progressiva militarizzazione del continente. Spesso i poteri del super-Stato europeo, estesi a 68 nuovi settori dove la possibilità di veto di singoli Stati verrà perduta, saranno superiori a quelli dei Paesi membri. I parlamenti nazionali saranno spesso subordinati, dovendo "obbedire," anche se in linea di principio, a prescrizioni come quella contenuta, ad esempio, nell'articolo 8c: «I Parlamenti nazionali dovranno contribuire attivamente al buon funzionamento dell'Unione». Implicitamente, ciò significa privilegiare gli interessi della nuova Unione rispetto a quelli dei singoli Stati. I detrattori del Trattato sostengono, forse non a torto, che l'Unione europea diventerà uno Stato. Ciò che non è oggi. L'Ue non ha personalità giuridica, essendo il termine "Unione" solo un concetto, che abbraccia le relazioni tra i 27 Stati membri. Relazioni, che, secondo quanto riporta uno dei maggiori esperti (e oppositori) al Trattato, l'irlandese Anthony Coughlan (docente di politiche sociali al Trinity College di Dublino), coprono la Comunità europea, area dove sono attive leggi sovranazionali, e le aree "intergovernative" di giustizia, politica estera, interni, dove le leggi europee non hanno potere. Il Trattato cercherà di fondere le due aree, assorbendo sempre di più le competenze nazionali, come stanno dimostrando le sempre più manifeste tensioni verso una politica estera e di sicurezza comune e una difesa militare comune. «Se ci deve essere una federazione europea democratica e accettabile - argomenta Coughlan - il requisito costituzionale minimo dovrebbe prescrivere che le leggi siano proposte e approvate dai rappresentanti direttamente eletti, o nei parlamenti nazionali, o in quello europeo. Sfortunatamente, non è così». Molti lamentano soprattutto l'incomprensibilità e la lunghezza del Trattato. Come un blogger del sito OpenEurope, che ben sintetizza l'insofferenza di molti cittadini europei: «Volete fare come gli Stati Uniti d'America? La loro Costituzione era comprensibile a tutti. Fate allora di dieci pagine massimo, questo trattato. Poi fatelo votare agli elettori nazionali. Solo così, con una Costituzione che contenga le disposizioni essenziali si potrà creare un'entità capace di sopravvivere alla prossima crisi, e soprattutto otterrà il benestare dei cittadini. Tutti i governi si reggono sul consenso, tacito o esplicito, dei governati. E rinunciare a tale consenso nella creazione dell'Unione Europea vuol dire andare in cerca di grane». Come dargli torto?
di Luca Galassi (da Peacereporter)
Il trattato di Lisbona, non è che la riproposizione di una "Costituzione europea" che, al momento della sua elaborazione, rivelò l'impossibilità di conciliare le esigenze di tutti i Paesi che avrebbero in futuro dovuto ratificarla. Così, nel 2007, una gruppo di lavoro capeggiato da Giuliano Amato, si mise al lavoro per proporre una versione 'emendata' della Costituzione in perfetto stile gattopardesco. Il Trattato è oggi l'integrazione di altri trattati dell'Unione, un monstrum di regole e leggi incomprensibile ai cittadini europei, se non ai suoi stessi estensori. Il documento ha la finalità di assicurare, su questioni chiave, maggiore controllo agli organi dell'Unione Europea a scapito di quelli degli Stati nazionali. Garantirà enormi poteri a istituzioni che nessun cittadino elegge direttamente (il Consiglio Europeo, che assumerà il ruolo di presidenza, la Commissione Europea e il Consiglio dei ministri, che sarà l'esecutivo, la Corte europea di giustizia, che sarà il sistema giudiziario). Sancirà con forza i principi del libero mercato e la necessità di una difesa comune europea, con la conseguente erosione dei diritti dei lavoratori e del social welfare e la progressiva militarizzazione del continente. Spesso i poteri del super-Stato europeo, estesi a 68 nuovi settori dove la possibilità di veto di singoli Stati verrà perduta, saranno superiori a quelli dei Paesi membri. I parlamenti nazionali saranno spesso subordinati, dovendo "obbedire," anche se in linea di principio, a prescrizioni come quella contenuta, ad esempio, nell'articolo 8c: «I Parlamenti nazionali dovranno contribuire attivamente al buon funzionamento dell'Unione». Implicitamente, ciò significa privilegiare gli interessi della nuova Unione rispetto a quelli dei singoli Stati. I detrattori del Trattato sostengono, forse non a torto, che l'Unione europea diventerà uno Stato. Ciò che non è oggi. L'Ue non ha personalità giuridica, essendo il termine "Unione" solo un concetto, che abbraccia le relazioni tra i 27 Stati membri. Relazioni, che, secondo quanto riporta uno dei maggiori esperti (e oppositori) al Trattato, l'irlandese Anthony Coughlan (docente di politiche sociali al Trinity College di Dublino), coprono la Comunità europea, area dove sono attive leggi sovranazionali, e le aree "intergovernative" di giustizia, politica estera, interni, dove le leggi europee non hanno potere. Il Trattato cercherà di fondere le due aree, assorbendo sempre di più le competenze nazionali, come stanno dimostrando le sempre più manifeste tensioni verso una politica estera e di sicurezza comune e una difesa militare comune. «Se ci deve essere una federazione europea democratica e accettabile - argomenta Coughlan - il requisito costituzionale minimo dovrebbe prescrivere che le leggi siano proposte e approvate dai rappresentanti direttamente eletti, o nei parlamenti nazionali, o in quello europeo. Sfortunatamente, non è così». Molti lamentano soprattutto l'incomprensibilità e la lunghezza del Trattato. Come un blogger del sito OpenEurope, che ben sintetizza l'insofferenza di molti cittadini europei: «Volete fare come gli Stati Uniti d'America? La loro Costituzione era comprensibile a tutti. Fate allora di dieci pagine massimo, questo trattato. Poi fatelo votare agli elettori nazionali. Solo così, con una Costituzione che contenga le disposizioni essenziali si potrà creare un'entità capace di sopravvivere alla prossima crisi, e soprattutto otterrà il benestare dei cittadini. Tutti i governi si reggono sul consenso, tacito o esplicito, dei governati. E rinunciare a tale consenso nella creazione dell'Unione Europea vuol dire andare in cerca di grane». Come dargli torto?
Wednesday, 4 November 2009
Sì al trattato di Lisbona, l'Ue adotta la sua Costituzione
Un percorso iniziato nel 2001, e che adesso diventa realtà. Sulla Carta. Quella europea ha l'occasione di diventare una Unione finalmente politica. Ora, ancora una volta, tocca agli Stati.
di Emiliano Biaggio
La costituzione europea "arriva" dalla Repubblica Ceca: il presidente della repubblica, Vaclav Klaus, ha firmato il trattato di Lisbona. Il documento, dopo otto anni di gestazione e un tentativo fallito di adozione (la bocciatura referendaria di Francia e Paesi Bassi del 2005), adesso sarà in vigore nell'Europa dei 27, che si dota finalmente della propria Carta. Il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, fa sapere che il testo potrebbe entrare in vigore già a dicembre, e comunque non più tardi di gennaio. Ora la nuova Europa, almeno sulla carta, può partire e spiccare il volo. E prepararsi a nuove adesioni, in primo luogo quelle della Croazia e Islanda, i due Paesi in cima alla lista d'attesa per entrare a far parte dell'Ue. Insomma, l'Europa ha una propria Costituzione, ma questo non significa che il cerchio si sia chiuso, anzi. Adesso bisognerà vedere come i paesi membri recepiranno, interpreteranno e tradurranno in pratica quanto contenuto dal trattato appena adottato.
Secondo quanto stabilito nel documento, le riforme introdotte dovrebbero rafforzare l'Ue da un punto di vista politico e istituzionale. Il trattato di Lisbona prevede, infatti, un maggior peso e un maggior ruolo del Parlamento europeo e di quelli nazionali nel processo decisionale dell'Unione, e la riduzione del potere di veto dei singoli Paesi in seno al Consiglio. Ma con Lisbona l'Ue si dà anche un'altra possibilità finora negata: chi volesse uscire dall'Unione potrà farlo in base a condizioni che dovranno essere negoziate e concordate con gli altri partner. Senza cioè impedire a chi lo vorrà di progredire sulla strada dell'integrazione. Diverse le novità introdotte: intanto un presidente del Consiglio europeo che resterà in carica per due anni e mezzo e sostituirà il sistema corrente di alternanza semestrale; l'istituzione di un "alto rappresentante", che comprende pieni poteri di diplomazia. Viene di fatto costituito u nministro degli esteri che combina le attribuzione riconosciute attualmente al responsabile della diplomazia, Javier Solana, e la commissaria. Prevista, dal 2014, una commissione europea con meno componenti; sempre dal 2014 prevista una ridistribuzione del peso del voto dei diversi Stati membri (voto a a maggioranza qualificata basata sulla "maggioranza doppia" del 55% degli stati membri e del 65% della popolazione dell'Ue); previsti nuovi poteri per gli organismi comunitari (Commissione, Parlamento e Corte di giustizia); prevista la rimozione del veto in tutta una serie di temi (quali ambiente e clima, sicurezza energetica e aiuti umanitari). TESTO DEL TRATTATO DI LISBONA (PDF)
di Emiliano Biaggio
La costituzione europea "arriva" dalla Repubblica Ceca: il presidente della repubblica, Vaclav Klaus, ha firmato il trattato di Lisbona. Il documento, dopo otto anni di gestazione e un tentativo fallito di adozione (la bocciatura referendaria di Francia e Paesi Bassi del 2005), adesso sarà in vigore nell'Europa dei 27, che si dota finalmente della propria Carta. Il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, fa sapere che il testo potrebbe entrare in vigore già a dicembre, e comunque non più tardi di gennaio. Ora la nuova Europa, almeno sulla carta, può partire e spiccare il volo. E prepararsi a nuove adesioni, in primo luogo quelle della Croazia e Islanda, i due Paesi in cima alla lista d'attesa per entrare a far parte dell'Ue. Insomma, l'Europa ha una propria Costituzione, ma questo non significa che il cerchio si sia chiuso, anzi. Adesso bisognerà vedere come i paesi membri recepiranno, interpreteranno e tradurranno in pratica quanto contenuto dal trattato appena adottato.
Secondo quanto stabilito nel documento, le riforme introdotte dovrebbero rafforzare l'Ue da un punto di vista politico e istituzionale. Il trattato di Lisbona prevede, infatti, un maggior peso e un maggior ruolo del Parlamento europeo e di quelli nazionali nel processo decisionale dell'Unione, e la riduzione del potere di veto dei singoli Paesi in seno al Consiglio. Ma con Lisbona l'Ue si dà anche un'altra possibilità finora negata: chi volesse uscire dall'Unione potrà farlo in base a condizioni che dovranno essere negoziate e concordate con gli altri partner. Senza cioè impedire a chi lo vorrà di progredire sulla strada dell'integrazione. Diverse le novità introdotte: intanto un presidente del Consiglio europeo che resterà in carica per due anni e mezzo e sostituirà il sistema corrente di alternanza semestrale; l'istituzione di un "alto rappresentante", che comprende pieni poteri di diplomazia. Viene di fatto costituito u nministro degli esteri che combina le attribuzione riconosciute attualmente al responsabile della diplomazia, Javier Solana, e la commissaria. Prevista, dal 2014, una commissione europea con meno componenti; sempre dal 2014 prevista una ridistribuzione del peso del voto dei diversi Stati membri (voto a a maggioranza qualificata basata sulla "maggioranza doppia" del 55% degli stati membri e del 65% della popolazione dell'Ue); previsti nuovi poteri per gli organismi comunitari (Commissione, Parlamento e Corte di giustizia); prevista la rimozione del veto in tutta una serie di temi (quali ambiente e clima, sicurezza energetica e aiuti umanitari). TESTO DEL TRATTATO DI LISBONA (PDF)
Forze armate, un regalo da 23,5 miliardi
'Il caro armato' di Francesco Vignarca e Massimo Paolicelli fa i conti in tasca alla Difesa
di Luca Galassi (da Peacereporter)
Le Forze Armate italiane hanno di che festeggiare, nel giorno della festa nazionale a loro dedicata. Le spese militari per il 2010 schizzeranno infatti a 23 miliardi e mezzo di euro. Un esborso le cui modalità - e i cui sprechi - sono documentati nell'ultimo libro di Francesco Vignarca e Massimo Paolicelli, 'Il caro armato', uscito pochi giorni fa con Altraeconomia Edizioni. Spese, affari e sprechi delle Forze Armate italiane sono ricostruiti attraverso una puntigliosa ricognizione che analizza come l'ottavo Paese al mondo per spese militari distribuisca il proprio bilancio per la Difesa. Spesso per sistemi d'arma costosissimi (come i 131 caccia per 13 miliardi di euro), altre volte in sprechi colossali (un esercito professionale di 190 mila uomini, dove il numero dei comandanti - 600 generali e ammiragli, 2.660 colonnelli e decine di migliaia di altri ufficiali - quasi supera quello dei 'comandati'). (leggi tutto)
di Luca Galassi (da Peacereporter)
Le Forze Armate italiane hanno di che festeggiare, nel giorno della festa nazionale a loro dedicata. Le spese militari per il 2010 schizzeranno infatti a 23 miliardi e mezzo di euro. Un esborso le cui modalità - e i cui sprechi - sono documentati nell'ultimo libro di Francesco Vignarca e Massimo Paolicelli, 'Il caro armato', uscito pochi giorni fa con Altraeconomia Edizioni. Spese, affari e sprechi delle Forze Armate italiane sono ricostruiti attraverso una puntigliosa ricognizione che analizza come l'ottavo Paese al mondo per spese militari distribuisca il proprio bilancio per la Difesa. Spesso per sistemi d'arma costosissimi (come i 131 caccia per 13 miliardi di euro), altre volte in sprechi colossali (un esercito professionale di 190 mila uomini, dove il numero dei comandanti - 600 generali e ammiragli, 2.660 colonnelli e decine di migliaia di altri ufficiali - quasi supera quello dei 'comandati'). (leggi tutto)
Monday, 2 November 2009
Cronache di un fallimento annunciato
Scarsa affluenza alle urne nel primo turno, denunce di brogli e ritiro del principale sfidante del presidente uscente: dopo anni di guerra, in Afghanistan nessuna importazione di democrazia
di Emanuele Bonini
Modello democratico che in Afghanistan non ha debuttato nel migliore dei modi: certo, nella lotta al regime dei talebani condotta proprio "in nome della democrazia", forze di coalizione e l'instabile esecutivo di Karzai sono riusciti a portare la popolazione alle urne per eleggere il nuovo presidente. Ma dalle urne ne sono usciti tutti sconfitti. Subito dopo le elezioni dello scorso agosto, infatti, sono piovute denunce di voto truccato. Innanzitutto dallo sfidante di Karzai, il tagiko Abdullah Abdullah, che ha parlato di «brogli massicci» e di «irregolarità del voto organizzate dagli uomini del presidente [Karzai]». Il principale sfidante del presidente uscente ha denunciato in particolare «decine e decine di brogli anche clamorosi» e «percentuali di affluenza nel Sud totalmente truccate, in maniera da far risultare più voti a Karzai». Che i voti non siano stati tanti, è un dato di fatto: alle urne si sono recati circa sei milioni e mezzo di afghani, su una popolazione di quasi 32 milioni di individui. Le elezioni democratiche, quindi, prim'ancora che essere "truccate" sono state boicottate dagli stessi afghani, e questo è un segnale. Poi sono iniziate le guerre di cifre: prima un 70% a Karzai, poi un 56,6% e infine un 49,7%. Un dibattito che certo non ha aiutato a sconfiggere il muro di "diffidenza" afghana verso un modello voluto dagli altri (le forze straniere) e per molti visto come imposto. E adesso visto come inefficace. Alla fine Karzai ha accettato di andare al ballottaggio: un modo, questo, per evitare critiche, scongiurare un clima di ulteriore tensione interna, e per garantirsi le simpatie degli occidentali. Ma Abdullah, a una settimana dal secondo e decisivo turno, annuncia il suo ritiro. «Un'elezione trasparente non è possibile», accusa e denuncia l'ex ministro degli esteri, che parla di «una decisione difficile» da prendere ma per la quale ha optato per «protestare contro il cattivo comportamento del governo e della Commissione elettorale indipendente». Ballottaggio inutile a questo punto, con un Karzai che si vede regalare una vittoria ma soprattutto recapitare una bella patata bollente. La mossa di Abdullah non aiuta a creare le condizioni per una riconciliazione nazionale, e c'è da scommettere che sarà motivo di ulteriori tensioni interne. Di certo getta nuove ombre su quel modello che tanto volevano importare le forze internazionali - Stati Uniti in testa - nel paese asiatico. Insomma, dall'Afghanistan arrivano sonore lezioni. Di democrazia. All'Onu, esperti in materia di fallimenti diplomatici, se ne sono accorti. «L'Afghanistan- ha commentato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon- deve ora affrontare una sfida significativa, e il nuovo presidente deve procedere velocemente a formare un governo che sia in grado di sostenere sia gli afghani che la comunità internazionale». Il sospetto è che gli afghani non vogliano essere sostenuti da questo governo. Ma del resto è comprensibile: non è facile accettare un sistema che non funziona... (fonte fote: blogosfere)
di Emanuele Bonini
Modello democratico che in Afghanistan non ha debuttato nel migliore dei modi: certo, nella lotta al regime dei talebani condotta proprio "in nome della democrazia", forze di coalizione e l'instabile esecutivo di Karzai sono riusciti a portare la popolazione alle urne per eleggere il nuovo presidente. Ma dalle urne ne sono usciti tutti sconfitti. Subito dopo le elezioni dello scorso agosto, infatti, sono piovute denunce di voto truccato. Innanzitutto dallo sfidante di Karzai, il tagiko Abdullah Abdullah, che ha parlato di «brogli massicci» e di «irregolarità del voto organizzate dagli uomini del presidente [Karzai]». Il principale sfidante del presidente uscente ha denunciato in particolare «decine e decine di brogli anche clamorosi» e «percentuali di affluenza nel Sud totalmente truccate, in maniera da far risultare più voti a Karzai». Che i voti non siano stati tanti, è un dato di fatto: alle urne si sono recati circa sei milioni e mezzo di afghani, su una popolazione di quasi 32 milioni di individui. Le elezioni democratiche, quindi, prim'ancora che essere "truccate" sono state boicottate dagli stessi afghani, e questo è un segnale. Poi sono iniziate le guerre di cifre: prima un 70% a Karzai, poi un 56,6% e infine un 49,7%. Un dibattito che certo non ha aiutato a sconfiggere il muro di "diffidenza" afghana verso un modello voluto dagli altri (le forze straniere) e per molti visto come imposto. E adesso visto come inefficace. Alla fine Karzai ha accettato di andare al ballottaggio: un modo, questo, per evitare critiche, scongiurare un clima di ulteriore tensione interna, e per garantirsi le simpatie degli occidentali. Ma Abdullah, a una settimana dal secondo e decisivo turno, annuncia il suo ritiro. «Un'elezione trasparente non è possibile», accusa e denuncia l'ex ministro degli esteri, che parla di «una decisione difficile» da prendere ma per la quale ha optato per «protestare contro il cattivo comportamento del governo e della Commissione elettorale indipendente». Ballottaggio inutile a questo punto, con un Karzai che si vede regalare una vittoria ma soprattutto recapitare una bella patata bollente. La mossa di Abdullah non aiuta a creare le condizioni per una riconciliazione nazionale, e c'è da scommettere che sarà motivo di ulteriori tensioni interne. Di certo getta nuove ombre su quel modello che tanto volevano importare le forze internazionali - Stati Uniti in testa - nel paese asiatico. Insomma, dall'Afghanistan arrivano sonore lezioni. Di democrazia. All'Onu, esperti in materia di fallimenti diplomatici, se ne sono accorti. «L'Afghanistan- ha commentato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon- deve ora affrontare una sfida significativa, e il nuovo presidente deve procedere velocemente a formare un governo che sia in grado di sostenere sia gli afghani che la comunità internazionale». Il sospetto è che gli afghani non vogliano essere sostenuti da questo governo. Ma del resto è comprensibile: non è facile accettare un sistema che non funziona... (fonte fote: blogosfere)
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