Vince il centrodestra, ma sia Pd che Pdl perdono consensi. Mentre chi non resta a casa premia egoismo, campanilismo e contestazione pura. A scapito dell'Italia.
l'e-dittoreale
Il centrodestra vince, il centrosinistra incassa una sonora sconfitta. Nonostante quello che sostiene il segretario del Pd Pier Luigi Bersani («Non canto vittoria ma non parlo di sconfitta» e «E' falso che il Pd al Nord sia andato male»), il Partito democratico viene di fatto bocciato in tutta Italia. Se n'è accorto Beppe Fioroni, secondo cui i risultati elettorali «richiedono una riflessione». Ciò a destra come a sinistra, perchè dalla amministrative esce sconfitto anche il Pdl. Perde consensi il partito voluto da Silvio Berlusconi (-9% rispetto alle europee del 2009 e -10% rispetto alle politiche del 2008). Insieme al Pd (fermo al 26,5%, con una differenza dello 0,5% rispetto alle europee del 2009 ma con un -7% rispetto alle politiche del 2008), è chiaro che il disegno bipartitico è fallito. E questo lo dimostrano anche i successi della Lega (adesso a livello nazionale al 12,2%, con un +2,3% sulle Politiche e un +1% delle Europee), delle liste "5 stelle" di Grillo (quasi il 2% su scala nazionale) e della tenuta dell'Idv (7,3%). Ma a guardare bene i voti viene da dire che escono sconfitte Italia, politica e democrazia. Innanzitutto per l'elevato astensionismo, che ha toccato il 36%. E poi perchè gli unici che hanno conquistato voti sono un partito senza alcun senso della repubblica e delle sue istituzioni - la Lega - e un movimento che fa dell'antipolitica il proprio cavallo di battaglia - i grillini. Altri aspetti su cui riflettere, per il bene di un democrazia quanto mai provata e di una società quanto mai distante dalla gente. A partire proprio dai due maggiori schieramenti: il Pdl di Berlusconi continua con provvedimenti e leggi che poco hanno a che fare con l'interesse generale e il bene dell'Italia; nel Pd, invece, c'è «un gruppo dirigente che opera senza ascoltare il Paese», come riconosce Ignazio Marino. E poi c'è l'Udc, partito che in una regione sostiene il centrodestra e nell'altra il centrosinistra: operazioni politiche che disorientano l'elettore, sempre più incapace di individuare una linea chiara. Comprensibile, dunque, che a essere premiati siano gli altri, quelli che sanno essere alternativi semplicemente perchè diversi, perchè - semplicemente - si rivolgono alla comunità. Sia pur con toni e argomenti diversi, Lega, Idv e Movimento 5 stelle si rivolgono infatti al cittadino, schierandosi con esso e dimostrando di essere presenti lì dove gli altri latitano. Ma attenzione: laddove i partiti maggiori non hanno saputo trasmettere idee e valori, gli altri ne hanno veicolati di altri che non lasciano intravedere nulla di buono: la Lega è il partito dell'intolleranza e degli egoismi, del campanilismo sfrenato e fanatico; il movimento di Beppe Grillo è quello della contestazione e della critica, dei "Vaffa... day" per nulla costruttivi e assai volgari già dalla loro formulazione; Di Pietro è l'anima dell'antiberlusconismo, che non può essere un valore nè tanto meno un programma di governo. Su questo gli italiani sono chiamati a riflettere, mentre su questa emorrargia di voti (-1 milioni per il Pdl, -2 milioni per il Pd) i maggiori partiti del paese devono - in virtù delle responsabilità che conseguono all'essere principali partiti - riflettere e lavorare, per evitare derive che non fanno bene al Paese. Adesso ci sono tre anni senza elezioni, Berlusconi ha i numeri per governare e riformare, ma anche una Lega sempre più forte che già presenta il conto (pretende Milano) e i finiani con cui chiarire molti aspetti; il Pd ha tutto il tempo per riorganizzarsi e costruire quell'alternativa che pretende di essere. Ognuno, insomma, ha i propri nodi da sciogliere. Nodi che devono essere sciolti, perchè si rischia di non approdare a nulla da una parte, e di giungere a nuove sconfitte dall'altra. Il tutto a scapito di un'Italia spaesata e smarrita che si rinchiude sempre più in sè stessa, guardando con rassegnato distacco la classe politica e dirigente.
Wednesday, 31 March 2010
Tuesday, 30 March 2010
La lunga mano del boia
Condanne a morte e sentenze capitali eseguite, il mondo ancora non ci rinuncia.
di Emiliano Biaggio
Nel 2009 sono state messe a morte almeno 714 persone in 18 Paesi e condannate a morte almeno 2.001 persone in 56 stati. Lo dice Amnesty International, nel Rapporto sulla pena di morte 2009. I paesi con il più alto numero di esecuzioni sono l'Iran (388), l'Iraq (120), e l'Arabia Saudita (69), con gli Stati Uniti (52) subito dopo il podio. Ma è polemica sulla Cina, paese che si ritiene abbia il numero più elevato di sentenze di pena capitale eseguite ma che non ha permesso l'accesso ai dati. Il governo di Pechino ha fatto sapere le esecuzioni all'interno dello stato sono «in diminuzione», ma «le stime basate sulle informazioni disponibili forniscono un quadro fortemente sottodimensionato», fa sapere Amnesty. Il rapporto, comunque, evidenzia come nel 2009 il ricorso alla pena di morte sia stato dettato «diffusamente» per inviare messaggi politici, ridurre al silenzio oppositori o promuovere agende politiche, specie in Cina, Iran e Sudan. Il rapporto di Amnesty International descrive anche «il modo discriminatorio» con cui la pena di morte è stata applicata lo scorso anno, «spesso al termine di processi gravemente irregolari», e utilizzata «in modo sproporzionato» soprattutto contro le minoranze e gli appartenenti a comunità etniche e religiose. Attualmente in Europa solo la Bielorussia mantiene la pena capitale, ma nell'anno considerato il paese di Alexandr Lukashenko non ha eseguito condanne. A livello di continenti, in tutta l'America gli Stati Uniti sono stati l'unico paese ad aver eseguito condanne a morte nel 2009. In Asia, invece, oltre alla Cina, esecuzioni si sono registrate in Bangladesh, Corea del Nord, Giappone, Malaysia, Singapore, Thailandia e Vietnam. Da sottolineare come il 2009 sia stata un anno senza esecuzioni in Afghanistan, Indonesia, Mongolia e Pakistan. In Africa, infine, condanne a morte sono state eseguite in Botswana, Egitto, Libia e Sudan. Ma a livello di macro-aree spicca il dato di Medio-Oriente e Africa del nord: qui sono state registrate almeno 624 esecuzioni, suddivise tra sette paesi (Arabia Saudita, Egitto, Iran, Iraq, Libia, Siria e Yemen). La buona notizia, spiega Claudio Cordone, segretario generale ad interim di Amnesty International, è che «sempre meno Paesi fanno ricorso alle esecuzioni. Come in passato con la schiavitù e l'apartheid, il mondo sta respingendo questo affronto all'umanità». Attualmente, infatti, i paesi che hanno completamente abolito la pena capitale sono saliti a 95, grazie al Burundi e al Togo, ultimi nell'ordine ad averla cancellata.
di Emiliano Biaggio
Nel 2009 sono state messe a morte almeno 714 persone in 18 Paesi e condannate a morte almeno 2.001 persone in 56 stati. Lo dice Amnesty International, nel Rapporto sulla pena di morte 2009. I paesi con il più alto numero di esecuzioni sono l'Iran (388), l'Iraq (120), e l'Arabia Saudita (69), con gli Stati Uniti (52) subito dopo il podio. Ma è polemica sulla Cina, paese che si ritiene abbia il numero più elevato di sentenze di pena capitale eseguite ma che non ha permesso l'accesso ai dati. Il governo di Pechino ha fatto sapere le esecuzioni all'interno dello stato sono «in diminuzione», ma «le stime basate sulle informazioni disponibili forniscono un quadro fortemente sottodimensionato», fa sapere Amnesty. Il rapporto, comunque, evidenzia come nel 2009 il ricorso alla pena di morte sia stato dettato «diffusamente» per inviare messaggi politici, ridurre al silenzio oppositori o promuovere agende politiche, specie in Cina, Iran e Sudan. Il rapporto di Amnesty International descrive anche «il modo discriminatorio» con cui la pena di morte è stata applicata lo scorso anno, «spesso al termine di processi gravemente irregolari», e utilizzata «in modo sproporzionato» soprattutto contro le minoranze e gli appartenenti a comunità etniche e religiose. Attualmente in Europa solo la Bielorussia mantiene la pena capitale, ma nell'anno considerato il paese di Alexandr Lukashenko non ha eseguito condanne. A livello di continenti, in tutta l'America gli Stati Uniti sono stati l'unico paese ad aver eseguito condanne a morte nel 2009. In Asia, invece, oltre alla Cina, esecuzioni si sono registrate in Bangladesh, Corea del Nord, Giappone, Malaysia, Singapore, Thailandia e Vietnam. Da sottolineare come il 2009 sia stata un anno senza esecuzioni in Afghanistan, Indonesia, Mongolia e Pakistan. In Africa, infine, condanne a morte sono state eseguite in Botswana, Egitto, Libia e Sudan. Ma a livello di macro-aree spicca il dato di Medio-Oriente e Africa del nord: qui sono state registrate almeno 624 esecuzioni, suddivise tra sette paesi (Arabia Saudita, Egitto, Iran, Iraq, Libia, Siria e Yemen). La buona notizia, spiega Claudio Cordone, segretario generale ad interim di Amnesty International, è che «sempre meno Paesi fanno ricorso alle esecuzioni. Come in passato con la schiavitù e l'apartheid, il mondo sta respingendo questo affronto all'umanità». Attualmente, infatti, i paesi che hanno completamente abolito la pena capitale sono saliti a 95, grazie al Burundi e al Togo, ultimi nell'ordine ad averla cancellata.
Monday, 29 March 2010
Iraq, vince l'instabilità
Prevale Allawi per soli due seggi, con lo sconfitto al-Maliki che non riconosce gli esiti elettorali
di Emanuele Bonini
L'Iraq sceglie il suo nuovo presidente: è Iyad Allawi, sciita. Un risultato che preoccupa per gli equilibri interni, dato un paese a maggioranza sunnita e con una repubblica islamica quale l'Iran - sciita come il nuovo premier iracheno - lì a due passi, ma soprattutto lì lungo lintero confine orientale. Ma a destare preoccupazioni sono altri due aspetti: il primo è il risultato "di misura" con cui Allawi ha vinto sull'avversario, il premier uscente Nouri Al-Maliki (91 seggi contro 89, che vuol dire ingovernabilità); il secondo è il mancato riconoscimento di sconfitta da parte di al-Maliki e del suo partito (Alleanza per lo stato di diritto). «I risultati non sono definitivi e suscitano dubbi», sostiene al-Maliki, che accusa l'Onu per «non aver impedito le frodi» alle elezioni del 7 marzo. Il premier uscente, inoltre, non collaborerà con Iraqiya - il partito di Allawi - e con il nuovo capo di governo: «Siamo sempre impegnati a nominare Nouri al-Maliki come unico candidato alla guida del prossimo governo», fa sapere il portavoce della lista Stato di Diritto, Hajim al Hosni. Un vero e propro problema per chi ha una maggioranza esigua come Allawi: nel nuovo parlamento, infatti, oltre ai 91 seggi di Iraqiya e gli 89 della coalizione di Maliki, ci saranno i 70 seggi dell’Ina (l’alleanza sciita), ci saranno i kurdi della Kurdistan Alliance, con 43 seggi, e poi (poche) altre formazioni politiche: in totale 325 seggi, 8 dei quali riservati alle minoranze (cristiani, yazidi, sabei-mandei, e shabak). La maggioranza – per la fiducia al governo - è di 163 seggi, dunque saranno necessarie alleanze. In un senso o nell'altro. Dalle urne irachene esce dunque un assetto che condanna il Paese all'instabilità politica e all'ingovernabilità, a tutto vantaggio delle forze disgreganti del paese - insorti e forze filo-iraniane. La democrazia, fragile prima e ancor più debole adesso, inizia tra mille difficoltà e nuove delicate sfide la nuova legislatura. L'impressione è che nonostante tutto, la democrazia ancora non sia stata esportata con successo, e che il lavoro da compiere sia ancora molto.
di Emanuele Bonini
L'Iraq sceglie il suo nuovo presidente: è Iyad Allawi, sciita. Un risultato che preoccupa per gli equilibri interni, dato un paese a maggioranza sunnita e con una repubblica islamica quale l'Iran - sciita come il nuovo premier iracheno - lì a due passi, ma soprattutto lì lungo lintero confine orientale. Ma a destare preoccupazioni sono altri due aspetti: il primo è il risultato "di misura" con cui Allawi ha vinto sull'avversario, il premier uscente Nouri Al-Maliki (91 seggi contro 89, che vuol dire ingovernabilità); il secondo è il mancato riconoscimento di sconfitta da parte di al-Maliki e del suo partito (Alleanza per lo stato di diritto). «I risultati non sono definitivi e suscitano dubbi», sostiene al-Maliki, che accusa l'Onu per «non aver impedito le frodi» alle elezioni del 7 marzo. Il premier uscente, inoltre, non collaborerà con Iraqiya - il partito di Allawi - e con il nuovo capo di governo: «Siamo sempre impegnati a nominare Nouri al-Maliki come unico candidato alla guida del prossimo governo», fa sapere il portavoce della lista Stato di Diritto, Hajim al Hosni. Un vero e propro problema per chi ha una maggioranza esigua come Allawi: nel nuovo parlamento, infatti, oltre ai 91 seggi di Iraqiya e gli 89 della coalizione di Maliki, ci saranno i 70 seggi dell’Ina (l’alleanza sciita), ci saranno i kurdi della Kurdistan Alliance, con 43 seggi, e poi (poche) altre formazioni politiche: in totale 325 seggi, 8 dei quali riservati alle minoranze (cristiani, yazidi, sabei-mandei, e shabak). La maggioranza – per la fiducia al governo - è di 163 seggi, dunque saranno necessarie alleanze. In un senso o nell'altro. Dalle urne irachene esce dunque un assetto che condanna il Paese all'instabilità politica e all'ingovernabilità, a tutto vantaggio delle forze disgreganti del paese - insorti e forze filo-iraniane. La democrazia, fragile prima e ancor più debole adesso, inizia tra mille difficoltà e nuove delicate sfide la nuova legislatura. L'impressione è che nonostante tutto, la democrazia ancora non sia stata esportata con successo, e che il lavoro da compiere sia ancora molto.
Sunday, 28 March 2010
Nuove colonie, è gelo tra Israele e Stati Uniti
A Gerusalemme est nuove costruzioni tra l'ira della Casa Bianca. Netanyahu: «Nessuno stop». E Obama lo abbandona per andare a cena.
di Emiliano Biaggio
Israele costruisce nuovi insediamenti a Gerusalemme est, provocando le immediate critiche dell’Autorità nazionale palestinese e – soprattutto - degli Stati Uniti, che considerano l’iniziativa una minaccia per i negoziati di pace in Medio Oriente. Lo stop alla realizzazione di nuove colonie a Gerusalemme est è infatti una delle condizioni che vengono poste a Israele dalla road map, e il segretario di Stato americano Hillary Clinton ha disapprovato le nuove costruzioni e il mancato intervento delle autorità israeliane. Critiche per il governo di Benjamin Netanyahu anche da parte del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: l’inquilino della Casa Bianca – pur ribadendo che Stati Uniti e Israele sono legati da una forte e grande amicizia – ha fatto sapere all’esecutivo di Tel Aviv di non aver gradito la notizia, intimando uno stop definitivo della costruzione delle colonie.
Gerusalemme est è da sempre contesa tra arabi e israeliani, tra Israele e Anp, con il primo che ne ha fatto la propria capitale (Tel Aviv è la città dove ha sede il governo) e che la vede come territorio irrinunciabile per il proprio stato, e la seconda che la rivendica per la comunità palestinese e ne vuole libero accesso per via delle moschee che qui sorgono e che gli arabi considerano importanti luoghi di culto. I negoziati di pace – che dovrebbero portare da Israele e territori palestinesi a Israele e stato palestinese – impongono a Israele, come detto, il divieto a realizzare qualsiasi nuovo insediamento nel territorio in questione: da parte israeliana, dunque, una violazione degli impegni assunti che ha fatto riaccendere gli scontri tra la parti in causa. Sullo Stato ebraico, infatti, sono stati lanciati missili in numero e continuità come non si vedeva da prima dell’operazione “Piombo fuso”, la campagna militare con cui Israele rispose alla continua caduta su suolo israeliano di razzi sparati dai miliziani di Hamas. A Washington c’è quindi il timore che la situazione possa nuovamente precipitare, vanificando così tutti gli sforzi della diplomazia e assestando un duro colpo ai negoziati di pace. E se ciò dovesse accadere sarebbe un duro smacco per Barack Obama, che ha fatto della risoluzione della questione del Medio Oriente una delle priorità della propria agenda di politica estera, già durante la campagna elettorale. I nuovi insediamenti irritano dunque anche gli Stati Uniti, gli “amici di sempre” di Israele, forse mai così in crisi con lo storico alleato.
Il premier israeliano ha smentito che tra i due paesi ci siano dissapori e crisi, ma è certo che l’attuale governo dello stato ebraico risenta del peso, sia all’intero dello stesso governo che nella Knesset (il parlamento israeliano, ndr) , della destra di Avigdor Lieberman, forte e convinto sostenitore della costruzione degli insediamenti. Insediamenti – 1.600 nuovi alloggi - che non si fermeranno, ha avuto modo di dichiarare Netanyahu ad un contrariato Obama che, a un certo punto del faccia a faccia avuto alla Casa bianca nei giorni scorsi organizzato per discutere della questione, ha abbandonato il premier israeliano stufo per le continue chiusure e le mancate concessioni di Israele. «Ora me ne ne vado negli appartamenti privati per cenare con Michelle e le bambine. Fammi sapere se ci sono novità», ha detto un Obama contrariato e stizzito. Mai prima d’ora era stato riservato un trattamento simile a un capo di governo israeliano, segno del solco aperto tra Stati Uniti e Israele, e di un caso a questo punto ancor più diplomatico. Intanto il presidente Usa dà un vero e proprio schiaffo a Netanyahu, «umiliato» secondo i media israeliani. Agli occhi dell’opinione pubblica internazionale vince Obama e perde Netanyahu: chissà se questo servirà per un’inversione di rotta di Israele, oggi ancora più isolato.
di Emiliano Biaggio
Israele costruisce nuovi insediamenti a Gerusalemme est, provocando le immediate critiche dell’Autorità nazionale palestinese e – soprattutto - degli Stati Uniti, che considerano l’iniziativa una minaccia per i negoziati di pace in Medio Oriente. Lo stop alla realizzazione di nuove colonie a Gerusalemme est è infatti una delle condizioni che vengono poste a Israele dalla road map, e il segretario di Stato americano Hillary Clinton ha disapprovato le nuove costruzioni e il mancato intervento delle autorità israeliane. Critiche per il governo di Benjamin Netanyahu anche da parte del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: l’inquilino della Casa Bianca – pur ribadendo che Stati Uniti e Israele sono legati da una forte e grande amicizia – ha fatto sapere all’esecutivo di Tel Aviv di non aver gradito la notizia, intimando uno stop definitivo della costruzione delle colonie.
Gerusalemme est è da sempre contesa tra arabi e israeliani, tra Israele e Anp, con il primo che ne ha fatto la propria capitale (Tel Aviv è la città dove ha sede il governo) e che la vede come territorio irrinunciabile per il proprio stato, e la seconda che la rivendica per la comunità palestinese e ne vuole libero accesso per via delle moschee che qui sorgono e che gli arabi considerano importanti luoghi di culto. I negoziati di pace – che dovrebbero portare da Israele e territori palestinesi a Israele e stato palestinese – impongono a Israele, come detto, il divieto a realizzare qualsiasi nuovo insediamento nel territorio in questione: da parte israeliana, dunque, una violazione degli impegni assunti che ha fatto riaccendere gli scontri tra la parti in causa. Sullo Stato ebraico, infatti, sono stati lanciati missili in numero e continuità come non si vedeva da prima dell’operazione “Piombo fuso”, la campagna militare con cui Israele rispose alla continua caduta su suolo israeliano di razzi sparati dai miliziani di Hamas. A Washington c’è quindi il timore che la situazione possa nuovamente precipitare, vanificando così tutti gli sforzi della diplomazia e assestando un duro colpo ai negoziati di pace. E se ciò dovesse accadere sarebbe un duro smacco per Barack Obama, che ha fatto della risoluzione della questione del Medio Oriente una delle priorità della propria agenda di politica estera, già durante la campagna elettorale. I nuovi insediamenti irritano dunque anche gli Stati Uniti, gli “amici di sempre” di Israele, forse mai così in crisi con lo storico alleato.
Il premier israeliano ha smentito che tra i due paesi ci siano dissapori e crisi, ma è certo che l’attuale governo dello stato ebraico risenta del peso, sia all’intero dello stesso governo che nella Knesset (il parlamento israeliano, ndr) , della destra di Avigdor Lieberman, forte e convinto sostenitore della costruzione degli insediamenti. Insediamenti – 1.600 nuovi alloggi - che non si fermeranno, ha avuto modo di dichiarare Netanyahu ad un contrariato Obama che, a un certo punto del faccia a faccia avuto alla Casa bianca nei giorni scorsi organizzato per discutere della questione, ha abbandonato il premier israeliano stufo per le continue chiusure e le mancate concessioni di Israele. «Ora me ne ne vado negli appartamenti privati per cenare con Michelle e le bambine. Fammi sapere se ci sono novità», ha detto un Obama contrariato e stizzito. Mai prima d’ora era stato riservato un trattamento simile a un capo di governo israeliano, segno del solco aperto tra Stati Uniti e Israele, e di un caso a questo punto ancor più diplomatico. Intanto il presidente Usa dà un vero e proprio schiaffo a Netanyahu, «umiliato» secondo i media israeliani. Agli occhi dell’opinione pubblica internazionale vince Obama e perde Netanyahu: chissà se questo servirà per un’inversione di rotta di Israele, oggi ancora più isolato.
Saturday, 20 March 2010
C'è un 'Italia che ha sete
E' quella che a Roma dice "no" alla privatizzazione dell'acqua. E alle leggi già approvate che invece la prevedono.
di Emiliano Biaggio
Gli organizzatori contavano di portare nella Capitale «decine di migliaia di persone», ma l'obiettivo «è stato raggiunto e anche superato», tanto che a Roma «ci sono 100 mila persone e continuano ad arrivare pullman». Piazza della Repubblica «è già piena» e «una parte del corteo si è mossa per permettere alla tanta gente di poter defluire, anche se la manifestazione vera e propria non è ancora partita perchè stiamo aspettando quanti stanno ancora arrivando». Insomma, «possiamo già dire che la manifestazione di oggi è un grande successo, un grande successo di partecipazione popolare». E' palpabile la contentezza di Paolo Carsetti, del coordinamento nazionale del Forum italiano dei movimenti per l'acqua, nel giorno della manifestazione contro la privatizzazione delle risorse idriche. "Coloriamo Roma del blu... dell'acqua pubblica": questo lo slogan con cui sindaci, rappresentanti di Enti locali, comitati (tra i quali i No tav e i No Ponte) e partiti (Pd, Idv, Verdi, Sel) si sono ritrovati, assieme ad associazioni ecologiste (Wwf, Legambiente e Forum Ambientalista), movimenti come il Popolo viola e cittadinanza, alla manifestazione contro la gestione ai privati delle risorse idriche e, nello specifico, contro quei provvedimenti - decreto Ronchi e articoli 150 e 154 del decreto ambientale 152 del 2006 - che la prevedono. In tal senso «oggi presenteremo tre quesiti referendari, uno per ogni testo, per abrogare i provvedimenti che privatizzano l'acqua», spiega Carsetti. «Da metà aprile partirà la raccolta delle firme, e fino a metà luglio contiamo di raggiungerne 700 mila», aggiunge. Per i referendum servono 500 mila firme, ma «noi vogliamo raccoglierne di più per dare più forza a questa campagna». A Roma, «siamo venuti per dire "Fuori l'acqua dal mercato" e "Fuori i profitti dall'acqua"». In tal senso, sul palco di piazza Navona - luogo di arrivo del corteo - si alternano i rappresentanti dei Comitati per l'acqua di tutta Italia (da quello di Aprilia a quello di Torino, al Forum toscano dei movimenti per l'acqua, all'Abruzzo social forum, dal Comitato umbro acqua pubblica al Coordinamento pugliese acqua bene comune, dal Coordinamento Molise acqua pubblica fino al Coordinamento campano acqua pubblica, il Coordinamento regionale acqua pubblica Basilicata, il Coordinamento calabrese acqua pubblica "Bruno Arcuri", il Forum siciliano dei movimenti per l'acqua e naturalmente il Coordinamento acqua pubblica Lazio). Tutti a raccontare le proprie esperienze di "resistenza" alla privatizzazione dell'acqua. La campagna del "Popolo dell'acqua pubblica" ha già trovato il sostegno del mondo della politica: «Oggi parte una battaglia di civiltà contro questo Governo che vuole regalare l'acqua ai privati, come sta avvenendo a Roma con Caltagirone», sostiene il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli. Quando si parla di acqua in mano ai privati "non e' azzardato parlare di crimini contro l'umanita'", ha aggiunto Bonelli, secondo cui «la battaglia referendaria a questo punto e' inevitabile: il 29 marzo depositeremo i quesiti in Cassazione e inizierà la campagna di raccolta firme». I promotori della manifestazione avevano incassato il "sì" dell'Idv, con il pieno sostegno dell'eurodeputato Luigi De Magistris alla campagna referendaria. «Va sostenuto il referendum contro la privatizzazione, perchè sia riconsegnata ai cittadini la possibilità legittima di esprimersi sui propri diritti fondamentali», sostiene. Ma il responsabile Green economy del Pd, Ermete Realacci, invita alla cautela: «Qualità dell'acqua e uso razionale delle risorse idriche, insieme a politiche pubbliche di gestione, sono punti centrali per il Partito democratico, ma sul referendum- afferma- ho molti dubbi: rischia di produrre l'effetto contrario». Ciò perchè, «sono 15 anni che i referendum non raggiungono i quorum», per cui «se non cambia la legge sul referendum, questo servirà come campagna di mobilitazione ma non per i risultati». Insomma, «prima va cambiata la legge, poi si ragiona sui referendum». Realacci esclude poi la gratuità dell'acqua, «perchè risorse idriche gratis vuol dire sprechi». Ad ogni modo, «indipendentemente dai numeri, è importante che ci sia tanta gente a Roma, perchè l'acqua è una risorsa preziosa e lo sarà ancor più in futuro».
di Emiliano Biaggio
Gli organizzatori contavano di portare nella Capitale «decine di migliaia di persone», ma l'obiettivo «è stato raggiunto e anche superato», tanto che a Roma «ci sono 100 mila persone e continuano ad arrivare pullman». Piazza della Repubblica «è già piena» e «una parte del corteo si è mossa per permettere alla tanta gente di poter defluire, anche se la manifestazione vera e propria non è ancora partita perchè stiamo aspettando quanti stanno ancora arrivando». Insomma, «possiamo già dire che la manifestazione di oggi è un grande successo, un grande successo di partecipazione popolare». E' palpabile la contentezza di Paolo Carsetti, del coordinamento nazionale del Forum italiano dei movimenti per l'acqua, nel giorno della manifestazione contro la privatizzazione delle risorse idriche. "Coloriamo Roma del blu... dell'acqua pubblica": questo lo slogan con cui sindaci, rappresentanti di Enti locali, comitati (tra i quali i No tav e i No Ponte) e partiti (Pd, Idv, Verdi, Sel) si sono ritrovati, assieme ad associazioni ecologiste (Wwf, Legambiente e Forum Ambientalista), movimenti come il Popolo viola e cittadinanza, alla manifestazione contro la gestione ai privati delle risorse idriche e, nello specifico, contro quei provvedimenti - decreto Ronchi e articoli 150 e 154 del decreto ambientale 152 del 2006 - che la prevedono. In tal senso «oggi presenteremo tre quesiti referendari, uno per ogni testo, per abrogare i provvedimenti che privatizzano l'acqua», spiega Carsetti. «Da metà aprile partirà la raccolta delle firme, e fino a metà luglio contiamo di raggiungerne 700 mila», aggiunge. Per i referendum servono 500 mila firme, ma «noi vogliamo raccoglierne di più per dare più forza a questa campagna». A Roma, «siamo venuti per dire "Fuori l'acqua dal mercato" e "Fuori i profitti dall'acqua"». In tal senso, sul palco di piazza Navona - luogo di arrivo del corteo - si alternano i rappresentanti dei Comitati per l'acqua di tutta Italia (da quello di Aprilia a quello di Torino, al Forum toscano dei movimenti per l'acqua, all'Abruzzo social forum, dal Comitato umbro acqua pubblica al Coordinamento pugliese acqua bene comune, dal Coordinamento Molise acqua pubblica fino al Coordinamento campano acqua pubblica, il Coordinamento regionale acqua pubblica Basilicata, il Coordinamento calabrese acqua pubblica "Bruno Arcuri", il Forum siciliano dei movimenti per l'acqua e naturalmente il Coordinamento acqua pubblica Lazio). Tutti a raccontare le proprie esperienze di "resistenza" alla privatizzazione dell'acqua. La campagna del "Popolo dell'acqua pubblica" ha già trovato il sostegno del mondo della politica: «Oggi parte una battaglia di civiltà contro questo Governo che vuole regalare l'acqua ai privati, come sta avvenendo a Roma con Caltagirone», sostiene il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli. Quando si parla di acqua in mano ai privati "non e' azzardato parlare di crimini contro l'umanita'", ha aggiunto Bonelli, secondo cui «la battaglia referendaria a questo punto e' inevitabile: il 29 marzo depositeremo i quesiti in Cassazione e inizierà la campagna di raccolta firme». I promotori della manifestazione avevano incassato il "sì" dell'Idv, con il pieno sostegno dell'eurodeputato Luigi De Magistris alla campagna referendaria. «Va sostenuto il referendum contro la privatizzazione, perchè sia riconsegnata ai cittadini la possibilità legittima di esprimersi sui propri diritti fondamentali», sostiene. Ma il responsabile Green economy del Pd, Ermete Realacci, invita alla cautela: «Qualità dell'acqua e uso razionale delle risorse idriche, insieme a politiche pubbliche di gestione, sono punti centrali per il Partito democratico, ma sul referendum- afferma- ho molti dubbi: rischia di produrre l'effetto contrario». Ciò perchè, «sono 15 anni che i referendum non raggiungono i quorum», per cui «se non cambia la legge sul referendum, questo servirà come campagna di mobilitazione ma non per i risultati». Insomma, «prima va cambiata la legge, poi si ragiona sui referendum». Realacci esclude poi la gratuità dell'acqua, «perchè risorse idriche gratis vuol dire sprechi». Ad ogni modo, «indipendentemente dai numeri, è importante che ci sia tanta gente a Roma, perchè l'acqua è una risorsa preziosa e lo sarà ancor più in futuro».
Friday, 19 March 2010
Grecia, specchio di un'Europa senz'anima
Dalle autorità elleniche stretta su redditi e pensioni in nome dei conti pubblici, l'Ue di banchieri e finanzieri approva. Mentre una Unione non politica pensa un nuovo istituto di credito fotocopia del Fmi.
di Emiliano Biaggio
La crisi della Grecia mostra il vero volto dell'Unione europea. In un paese in spaventoso dissesto economico e con i conti pubblici fuori controllo, i governo Papandreou vara un pacchetto di «misure aggiuntive» del valore di 4,8 miliardi di euro che colpisce duramente salari e pensioni. Il pacchetto anti-crisi prevede un taglio del 30% e del 60% delle tredicesima e quattordicesima mensilità, una riduzione del 12% delle indennità salariali, un congelamento delle pensioni, aumento dell’Iva al 21%. Ci sono anche l'eliminazione dei bonus ai manager pubblici, l'aumento del 20% delle imposte su alcool e del 65% sulle sigarette, ma a gravare sulla popolazione anche le decisioni di aumentare i prezzi dei carburanti, 8 centesimi di euro in più per benzina e 3 per il gasolio. La crisi, in Grecia, finiscono col pagarla tutti i greci. A caro prezzo e con il beneplacito dell'Europa: è stata infatti Bruxelles a invocare a gran voce misure in grado di rimettere a posto i conti e riportare il paese ellenico in linea con i parametri dall'Unione europea. E nell'Unione europea e in Europa, i provvedimenti del premier George Papandreou sono accolti con «soddisfazione». Bruxelles e Berlino si sono congratulate per prime con il governo ellenico, che ha ricevuto il plauso della Bce e di Moody’s: per tutti il pacchetto fiscale dimostra e rende credibile l’impegno di Atene nel risanamento dei conti pubblici, e poco importa se ne risente il welfare. In fin dei conti l'Ue chiede agli stati membri di tenere a posto i conti e di stare dentro i parametri, non si chiede il benessere della nazione. Si chiede "stare in linea", lasciando al singolo paese il modo di raggiungere l'obiettivo senza entrare nel merito delle decisioni e dei metodi assunti. Tutto va bene, purchè i conti tornino. Ma i conti non tornano affatto, se è vero che il caso Grecia ha spinto paesi europei a ragionare sull'istituzione di un Fondo monetario europeo: l'Eu dimostra di non essere creatura politica, ma una creazione di banchieri e finanzieri, un'Unione europea solo monetaria, una comunità di istituti di credito ed economisti. E l'economia, si sa, non è etica. Le ragioni sociali e umane si sbriciolano davanti alle logiche del mercato e agli interessi economici, nella convinzione errata che la chiave di tutto sia nel denaro. La stabilità economica non è la stabilità di un paese, e le due espressioni non sempre sono sovrapponibili e sinonimiche. Perchè gli scontri per le vie di Atene dimostrano che una stabilità economica troppo onerosa può generare turbolenze sociali forse peggiori. Ma è chiaro che se l'Europa è quella dei mercati monetari e azionari, l'Europa è creatura virtuale privilegio di pochi. E questo tutti lo hanno capito: i popoli prima e i governanti dopo. Quando gli europei sono stati chiamati ad esprimersi sull'Ue, questa è stata bocciata. I "no" di Francia, Paesi Bassi e Irlanda alla Costituzione hanno indotto i governi ad adottarla in seconda battuta senza passare attraverso l'espressione popolare. L'Europa non è degli europei e non è soggetto politico. E' al contrario un apparato burocratico-economico che impone risoluzioni di natura finanziaria e fiscale ai problemi economici. Perchè di questo si occupa. Di affari. A confermarlo anche Amnesty Internation, in un dossier - "Dalle parole ai fatti" - dal titolo emblematico: soltanto sette dei 27 Stati membri dell’Unione europea hanno reso pubbliche le loro autorizzazioni all’esportazione strumenti utilizzati per infliggere tortura, nonostante tutti siano legalmente obbligati a farlo e nonostante la normativa Ue, risalente al 2006 e più volte integrata, stabilisca chiaramente divieti e obblighi di controllo e trasparenza da parte dei governi. Ma il piatto è ricco e il mercato fiorente, e tutto va bene per fare cassa. Ancora una volta, l'Europa ha preferito i conti agli uomini. Logico, quindi che la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo abbia detto "no" ai crocefissi nelle aule delle scuole: ha venduto Cristo per 30 denari. Ma per avere i conti in ordine, questo e altro.
(poi editoriale della puntata del 26 marzo 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)
di Emiliano Biaggio
La crisi della Grecia mostra il vero volto dell'Unione europea. In un paese in spaventoso dissesto economico e con i conti pubblici fuori controllo, i governo Papandreou vara un pacchetto di «misure aggiuntive» del valore di 4,8 miliardi di euro che colpisce duramente salari e pensioni. Il pacchetto anti-crisi prevede un taglio del 30% e del 60% delle tredicesima e quattordicesima mensilità, una riduzione del 12% delle indennità salariali, un congelamento delle pensioni, aumento dell’Iva al 21%. Ci sono anche l'eliminazione dei bonus ai manager pubblici, l'aumento del 20% delle imposte su alcool e del 65% sulle sigarette, ma a gravare sulla popolazione anche le decisioni di aumentare i prezzi dei carburanti, 8 centesimi di euro in più per benzina e 3 per il gasolio. La crisi, in Grecia, finiscono col pagarla tutti i greci. A caro prezzo e con il beneplacito dell'Europa: è stata infatti Bruxelles a invocare a gran voce misure in grado di rimettere a posto i conti e riportare il paese ellenico in linea con i parametri dall'Unione europea. E nell'Unione europea e in Europa, i provvedimenti del premier George Papandreou sono accolti con «soddisfazione». Bruxelles e Berlino si sono congratulate per prime con il governo ellenico, che ha ricevuto il plauso della Bce e di Moody’s: per tutti il pacchetto fiscale dimostra e rende credibile l’impegno di Atene nel risanamento dei conti pubblici, e poco importa se ne risente il welfare. In fin dei conti l'Ue chiede agli stati membri di tenere a posto i conti e di stare dentro i parametri, non si chiede il benessere della nazione. Si chiede "stare in linea", lasciando al singolo paese il modo di raggiungere l'obiettivo senza entrare nel merito delle decisioni e dei metodi assunti. Tutto va bene, purchè i conti tornino. Ma i conti non tornano affatto, se è vero che il caso Grecia ha spinto paesi europei a ragionare sull'istituzione di un Fondo monetario europeo: l'Eu dimostra di non essere creatura politica, ma una creazione di banchieri e finanzieri, un'Unione europea solo monetaria, una comunità di istituti di credito ed economisti. E l'economia, si sa, non è etica. Le ragioni sociali e umane si sbriciolano davanti alle logiche del mercato e agli interessi economici, nella convinzione errata che la chiave di tutto sia nel denaro. La stabilità economica non è la stabilità di un paese, e le due espressioni non sempre sono sovrapponibili e sinonimiche. Perchè gli scontri per le vie di Atene dimostrano che una stabilità economica troppo onerosa può generare turbolenze sociali forse peggiori. Ma è chiaro che se l'Europa è quella dei mercati monetari e azionari, l'Europa è creatura virtuale privilegio di pochi. E questo tutti lo hanno capito: i popoli prima e i governanti dopo. Quando gli europei sono stati chiamati ad esprimersi sull'Ue, questa è stata bocciata. I "no" di Francia, Paesi Bassi e Irlanda alla Costituzione hanno indotto i governi ad adottarla in seconda battuta senza passare attraverso l'espressione popolare. L'Europa non è degli europei e non è soggetto politico. E' al contrario un apparato burocratico-economico che impone risoluzioni di natura finanziaria e fiscale ai problemi economici. Perchè di questo si occupa. Di affari. A confermarlo anche Amnesty Internation, in un dossier - "Dalle parole ai fatti" - dal titolo emblematico: soltanto sette dei 27 Stati membri dell’Unione europea hanno reso pubbliche le loro autorizzazioni all’esportazione strumenti utilizzati per infliggere tortura, nonostante tutti siano legalmente obbligati a farlo e nonostante la normativa Ue, risalente al 2006 e più volte integrata, stabilisca chiaramente divieti e obblighi di controllo e trasparenza da parte dei governi. Ma il piatto è ricco e il mercato fiorente, e tutto va bene per fare cassa. Ancora una volta, l'Europa ha preferito i conti agli uomini. Logico, quindi che la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo abbia detto "no" ai crocefissi nelle aule delle scuole: ha venduto Cristo per 30 denari. Ma per avere i conti in ordine, questo e altro.
(poi editoriale della puntata del 26 marzo 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)
Wednesday, 17 March 2010
Gli Usa spostano lo scudo antimissile in Romania, si riapre lo scontro con la Russia
Il Cremlino pretende spiegazioni, e già studia le contromosse.
di Valentina Pop.
Traduzione di Emiliano Biaggio
La Russia si dice «preoccupata» e si aspetta «adeguate spiegazioni» sul piano statunitense di schierare un sistema di difesa anti-misssile in Romania, anche se da parte delle autorità russe c'è ancora interesse a contribuire ad un «giudizio comune», con Europa e Stati Uniti, su quelle che sono le minacce per la sicurezza. Vladimir Chizhov, l'ambasciatore russo all'Unione europea, esterna i malumori di Mosca per quel progetto di scudo spaziale - installazioni radar e batterie missilistiche - che sembrava abbandonato ma che a Washington non sembra essere stato dimenticato. «Prendiamo nota delle affermazioni del presidente Basescu, che dice di essere d'accordo ad accettare questi elementi. Ciò- sostiene Chizhov- pone un serio problema che analizzeremo quando avremo tutti i dettagli su cosa significhi installare certe installazioni proprio lì». La Russia non digerisce dunque le parole del presidente romeno, che ha fatto sapere di aver accettato la richiesta dell'amministrazione Obama di far ospitare dalla Romania le batterie anti-missile come parte dei piani Usa di difesa dell'Europa dalle minacce iraniane e regionali. Secondo i programmi, i missili saranno schierati dal 2015, in una seconda fase della nuova versione dello scudo anti-missile che combina intercettori per razzi a corto, medio e lungo raggio. L'accordo deve ancora essere negoziato tra i due governi e approvato dai rispettivi parlamenti, ma intanto la Russia risponde e riecheggiano le voci del premier Putin, che ha minacciato di schierare missili nucleari nell'enclave di Kaliningrad qualora gli Stati Uniti realizzassero lo scudo. L'ambasciatore russo presso l'Ue fa sapere che dalla Russia per ora arrivano «reazioni preliminari» in attesa di ulteriori chiarimenti da parte americana. Certo è che «è fonte di preoccupazione per noi», riconosce Chizhov, chiarendo che Mosca vuole sapere «le ragioni dietro la scelta della Romania». Perchè «uno potrebbe sostenere che la Romania sia più vicina all'Iran che alla Polonia, ma in base alle nostre informazioni l'Iran nè ora nè in futuro potrà disporre di una capacità missilistica in grado di raggiungere la Romania». Un'affermazione, quest'ultima, non condivisa però dal Pentagono, che in recenti revisioni delle difese missilistiche degli Stati Uniti ha notato che l'Iran «ha sviluppato e acquisito potenziale balistico in grado di colpire in Medio Oriente e in Europa orientale». Il progetto di scudo Usa, prevede anche installazioni radar che però ancora non si sa dove verranno poste e, dal 2011, intercettori marittimi nel Mediterraneo. Quindi, dal 2015, la seconda fase del piano, quello che riguarda la Romania. Una terza fase del programma, che dovrebbe essere operativa dal 2018, prevede intercettori localizzati in Europa settentrionale, e in merito il portavoce del dipartimento di Stato americano, Philip Crowley, ha confermato che gli Stati Uniti stanno negoziando con la Polonia. Secondo la Nato, la revisione del progetto di scudo missilistico «non è di alcuna sorpresa per la Russia» e gli alleati europei starebbero discutendo su come, eventualmente, integrare la struttura della discordia all'interno della Nato. Dal Cremlino, intanto, osservano, studiano e attendono...
di Valentina Pop.
Traduzione di Emiliano Biaggio
La Russia si dice «preoccupata» e si aspetta «adeguate spiegazioni» sul piano statunitense di schierare un sistema di difesa anti-misssile in Romania, anche se da parte delle autorità russe c'è ancora interesse a contribuire ad un «giudizio comune», con Europa e Stati Uniti, su quelle che sono le minacce per la sicurezza. Vladimir Chizhov, l'ambasciatore russo all'Unione europea, esterna i malumori di Mosca per quel progetto di scudo spaziale - installazioni radar e batterie missilistiche - che sembrava abbandonato ma che a Washington non sembra essere stato dimenticato. «Prendiamo nota delle affermazioni del presidente Basescu, che dice di essere d'accordo ad accettare questi elementi. Ciò- sostiene Chizhov- pone un serio problema che analizzeremo quando avremo tutti i dettagli su cosa significhi installare certe installazioni proprio lì». La Russia non digerisce dunque le parole del presidente romeno, che ha fatto sapere di aver accettato la richiesta dell'amministrazione Obama di far ospitare dalla Romania le batterie anti-missile come parte dei piani Usa di difesa dell'Europa dalle minacce iraniane e regionali. Secondo i programmi, i missili saranno schierati dal 2015, in una seconda fase della nuova versione dello scudo anti-missile che combina intercettori per razzi a corto, medio e lungo raggio. L'accordo deve ancora essere negoziato tra i due governi e approvato dai rispettivi parlamenti, ma intanto la Russia risponde e riecheggiano le voci del premier Putin, che ha minacciato di schierare missili nucleari nell'enclave di Kaliningrad qualora gli Stati Uniti realizzassero lo scudo. L'ambasciatore russo presso l'Ue fa sapere che dalla Russia per ora arrivano «reazioni preliminari» in attesa di ulteriori chiarimenti da parte americana. Certo è che «è fonte di preoccupazione per noi», riconosce Chizhov, chiarendo che Mosca vuole sapere «le ragioni dietro la scelta della Romania». Perchè «uno potrebbe sostenere che la Romania sia più vicina all'Iran che alla Polonia, ma in base alle nostre informazioni l'Iran nè ora nè in futuro potrà disporre di una capacità missilistica in grado di raggiungere la Romania». Un'affermazione, quest'ultima, non condivisa però dal Pentagono, che in recenti revisioni delle difese missilistiche degli Stati Uniti ha notato che l'Iran «ha sviluppato e acquisito potenziale balistico in grado di colpire in Medio Oriente e in Europa orientale». Il progetto di scudo Usa, prevede anche installazioni radar che però ancora non si sa dove verranno poste e, dal 2011, intercettori marittimi nel Mediterraneo. Quindi, dal 2015, la seconda fase del piano, quello che riguarda la Romania. Una terza fase del programma, che dovrebbe essere operativa dal 2018, prevede intercettori localizzati in Europa settentrionale, e in merito il portavoce del dipartimento di Stato americano, Philip Crowley, ha confermato che gli Stati Uniti stanno negoziando con la Polonia. Secondo la Nato, la revisione del progetto di scudo missilistico «non è di alcuna sorpresa per la Russia» e gli alleati europei starebbero discutendo su come, eventualmente, integrare la struttura della discordia all'interno della Nato. Dal Cremlino, intanto, osservano, studiano e attendono...
Tuesday, 16 March 2010
Quattro ruote e sessant'anni di mito
Lo storico Volkswagen raggiunge anche questo fantastico risultato. Che ne fa uno dei prodotti automobilistici più riusciti di sempre
di Emiliano Biaggio
E' molto più di un furgone, ed è riduttivo anche definirlo camper. Ha segnato la vita di famiglie, comitive, gruppi musicali, escursionisti e patiti delle quattro ruote. Poi, è diventato addirittura il punto di riferimento della cultura hippy e dei figli dei fiori. Padre di tutti i van e multivan, precursore delle monovolume, è stato e continua a essere un simbolo, un vero e proprio mito a motore: è il Bully della Volkswagen, che compie sessant'anni. Prodotto felice di una Germania ovest del dopoguerra, ha finito col diventare un fenomeno mondiale e un oggetto richiesto e ricercato ancora oggi. Comparso per la prima volta nel 1950 con il nome di Volkswagen Type 2 - anche cononsciuto ufficialmente come Transporter - "Bully" è anche noto semplicemente come T2, essendo il secondo modello di veicolo prodotto dalla casa automobilistica di Wolsburg (il primo fu un'altra indimenticata e storica automobile: il Maggiolino). Mai uscito di produzione, nel tempo ha saputo ha sempre reinventarsi, passando attraverso ben 5 diverse versioni: T1 (prodotto dal 1950 al 1967 in Europa Stati Uniti e fino al 1975 in Brasile), T2 (in produzione dal 1967 al 1979 in Europa e Stati Uniti, fino al 1986 in Messino, fino al 1991 in Argentina e ancora un produzione in Brasile) T3 (in produzione dal 1979 al 1991 in Europa e Stati Uniti), per poi passare alla generazione "post T2", quella dei moderni furgoni Transporter T4 (prodotti dal 1991 al 2003) e T5 (dal 2003 a oggi). Per tutti, Bully è simbolo dell'industria tedesca, anche se quell'idea i tedeschi "la importarono". Fu infatti Ben Pon, rivenditore di vetture Volkswagen nei Paesi Bassi - il primo a vendere auto tedesche fuori dalla Germania - a disegnare su un foglio quel bozzetto da cui poi gli ingegneri della casa automobilistica dell'allora Repubblica federale tedesca hanno ricavato l'inossidabile Transporter. Nato con un motore boxer a 4 cilindri da 25 cavalli, il primo Bully era raffreddato ad aria, e poteva raggiungere la velocità massima di 80 chilometri orari per quello che poi sarebbe diventato il primo furgone con motore e trazione anteriore. In tutte le prime tre generazioni (T1, T2 e T3), continuò a montare gli stessi motori diesel, poi in tempi più recenti (anni Novanta) il motoro iniziò a subire modifiche per garantire un miglior rappporto consumo/prestazioni e minori emissioni inquinanti.
I numeri parlano per lui: nel 1959 uscì dalla catena di montaggio il camper numero 1.000, mentre all’inizio degli anni Sessanta, la Volkswagen produceva dieci Bully al giorno. Ma il prodotto automobilistico Volkswagen iniziava a diventare mito: Il T2 si affermò negli Stati Uniti dove, fino al 1976, furono venduti 15 mila esemplari della prima generazione. La domanda tuttavia cresceva anche in Germania: se nel 1960 venivano prodotti dieci camper al giorno, nel 1967 erano già 70. Un fascino dovuto anche grazie a Romy Schurhammer, giornalista tedesca ventunenne che nel 1959 compì il primo grande viaggio attorno al mondo alla guida di un Bully: in un anno, partendo dalla Germania, guidò attraverso Jugoslavia, Iran, Afghanistan, India, Thailandia, Vietnam, Laos e Giappone. La nascita del mito del primo e mai dimenticato Transporter si deve anche a ciò, e ancora oggi, a distanza di sessantanni, il Bully continua a solcare le strade di tutto il mondo.
di Emiliano Biaggio
E' molto più di un furgone, ed è riduttivo anche definirlo camper. Ha segnato la vita di famiglie, comitive, gruppi musicali, escursionisti e patiti delle quattro ruote. Poi, è diventato addirittura il punto di riferimento della cultura hippy e dei figli dei fiori. Padre di tutti i van e multivan, precursore delle monovolume, è stato e continua a essere un simbolo, un vero e proprio mito a motore: è il Bully della Volkswagen, che compie sessant'anni. Prodotto felice di una Germania ovest del dopoguerra, ha finito col diventare un fenomeno mondiale e un oggetto richiesto e ricercato ancora oggi. Comparso per la prima volta nel 1950 con il nome di Volkswagen Type 2 - anche cononsciuto ufficialmente come Transporter - "Bully" è anche noto semplicemente come T2, essendo il secondo modello di veicolo prodotto dalla casa automobilistica di Wolsburg (il primo fu un'altra indimenticata e storica automobile: il Maggiolino). Mai uscito di produzione, nel tempo ha saputo ha sempre reinventarsi, passando attraverso ben 5 diverse versioni: T1 (prodotto dal 1950 al 1967 in Europa Stati Uniti e fino al 1975 in Brasile), T2 (in produzione dal 1967 al 1979 in Europa e Stati Uniti, fino al 1986 in Messino, fino al 1991 in Argentina e ancora un produzione in Brasile) T3 (in produzione dal 1979 al 1991 in Europa e Stati Uniti), per poi passare alla generazione "post T2", quella dei moderni furgoni Transporter T4 (prodotti dal 1991 al 2003) e T5 (dal 2003 a oggi). Per tutti, Bully è simbolo dell'industria tedesca, anche se quell'idea i tedeschi "la importarono". Fu infatti Ben Pon, rivenditore di vetture Volkswagen nei Paesi Bassi - il primo a vendere auto tedesche fuori dalla Germania - a disegnare su un foglio quel bozzetto da cui poi gli ingegneri della casa automobilistica dell'allora Repubblica federale tedesca hanno ricavato l'inossidabile Transporter. Nato con un motore boxer a 4 cilindri da 25 cavalli, il primo Bully era raffreddato ad aria, e poteva raggiungere la velocità massima di 80 chilometri orari per quello che poi sarebbe diventato il primo furgone con motore e trazione anteriore. In tutte le prime tre generazioni (T1, T2 e T3), continuò a montare gli stessi motori diesel, poi in tempi più recenti (anni Novanta) il motoro iniziò a subire modifiche per garantire un miglior rappporto consumo/prestazioni e minori emissioni inquinanti.
I numeri parlano per lui: nel 1959 uscì dalla catena di montaggio il camper numero 1.000, mentre all’inizio degli anni Sessanta, la Volkswagen produceva dieci Bully al giorno. Ma il prodotto automobilistico Volkswagen iniziava a diventare mito: Il T2 si affermò negli Stati Uniti dove, fino al 1976, furono venduti 15 mila esemplari della prima generazione. La domanda tuttavia cresceva anche in Germania: se nel 1960 venivano prodotti dieci camper al giorno, nel 1967 erano già 70. Un fascino dovuto anche grazie a Romy Schurhammer, giornalista tedesca ventunenne che nel 1959 compì il primo grande viaggio attorno al mondo alla guida di un Bully: in un anno, partendo dalla Germania, guidò attraverso Jugoslavia, Iran, Afghanistan, India, Thailandia, Vietnam, Laos e Giappone. La nascita del mito del primo e mai dimenticato Transporter si deve anche a ciò, e ancora oggi, a distanza di sessantanni, il Bully continua a solcare le strade di tutto il mondo.
Monday, 15 March 2010
Berlusconi "Putin" e la libertà di fermare programmi tv non graditi
Facendo pressioni - per le quali è indagato - il premier opera censure non degne di uno stato democratico
l'e-dittoreale
Un capo di governo che telefona di persona per chiedere la sospensione di determinati programmi televisivi, quelli a lui poco graditi. Accade in Italia, dove Silvio Berlusconi a quanto pare ha chiesto di fermare Annozero. A chi? A Giancarlo Innocenzi, presidente dell’Agcom, l’Autorità garante nelle comunicazioni. E poi, anche al direttore generale della Rai, Mauro Masi. Il premier è inchiodato da intercettazioni telefoniche rientranti in un inchiesta condotta dalla Procura di Trani, che sta indagando sul premier per concussione. Il presidente del consiglio si dice «scandalizzato» per quelle che ritiene «palesi violazioni» dei giudici. Ditemi chi frequenti e ti dirò chi sei: nessun riferimento alle escort, ma basta pensare a quelli che sono i grandi amici del Cavaliere sullo scacchiere internazionale per capire che tipo è il nostro premier scandalizzato. Putin, Lukashenko e Gheddaffi: questi gli amici del capo del governo. Tutti soggetti non proprio paladini della democrazia e non certo passati agli onori della cronaca per governo illuminato. Ecco allora che Berlusconi impara ad essere oligarca e colonnello, ad attaccare tutto arreca disturbo. E a ricorrere a qualsiasi cosa pur di fare in modo che il re non venga disturbato. Lo ha sempre fatto con magistratura e stampa critica, e non ha perso l'occasione di rifarlo, con l’arroganza che è propria del potere, con i talk-show. In un paese democratico l’opinione pubblica sarebbe indignata e la farebbe pagare come i francesi con Sarkozy, che non hanno perdonato all’inquilino dell’Eliseo di voler piazzare il figlio all’Epad, l’ente pubblico che gestisce la Defense, il quartiere parigino degli affari. Ma in Italia a indignarsi per primi sono loro, quelli che tutto tentano in barba alle regole e che sanno compiacersi in pubblico di averle aggirate o di denunciare chi non ha permesso loro di farlo. In un’ Europa dotata di personalità e spessore politica, saremmo già stati richiamati all’ordine per i continui attacchi a diritti e messe in discussione dell’ordine democratico. Ma si dà il caso che l’Unione europea è soggetto economico-finanziario e che in Italia, come sempre avviene, chi dovrebbe controllare dovrebbe essere controllato. Così l’Agicom finisce con l’essere organo composto da membri scelti dalla politica tra personaggi della politica, in un’ottica in cui l’Authority dovrebbe essere indipendente ma non lo è. Che dire della commissione di vigilanza Rai o del cda della stessa azienda? La lunga mano del regime si estende sull’informazione: ma attenzione, poiché se il regime è di democrazia, allora questa mano saprà essere tesa verso una stretta amichevole; ma se viceversa il regime non è di democrazia o di democrazia alla deriva allora la mano saprà stringere l’informazione in una morsa fino a strangolarla. Questo, giornalisti col senso della professione e con la coscienza a posto, dovrebbero saperlo molto bene e schierarsi di conseguenza dalla parte dell’informazione, che prim’ancora di essere un servizio è diritto per la collettività. Questo dovrebbero fare, piuttosto che avallare con altrettanta arroganza e non minore colpevolezza, certe inaccettabili violazioni di libertà costituzionalmente riconosciute. Bene fa l’opposizione a denunciare l’accaduto, con un Bersani tra il caustico e il sarcastico che si rivolge al diretto interessato: «Suggerirei al capo del governo che se vuole cambiare programma in tv non usi il telefono ma il telecomando». Per il segretario del Pd, «con tutte le questioni aperte e i problemi che abbiamo, non è una bella immagine per il nostro Paese immaginare il presidente del Consiglio che sta sempre al telefono per dei programmi televisivi». Peccato che la realtà a volte, superi l’immaginazione. E la realtà è quella che è sotto gli occhi di tutti e che Berlusconi, tra una sua rilettura e un provvedimento ad hoc cerca di stravolgere.
(Poi editoriale per la puntata del 19 marzo 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)
l'e-dittoreale
Un capo di governo che telefona di persona per chiedere la sospensione di determinati programmi televisivi, quelli a lui poco graditi. Accade in Italia, dove Silvio Berlusconi a quanto pare ha chiesto di fermare Annozero. A chi? A Giancarlo Innocenzi, presidente dell’Agcom, l’Autorità garante nelle comunicazioni. E poi, anche al direttore generale della Rai, Mauro Masi. Il premier è inchiodato da intercettazioni telefoniche rientranti in un inchiesta condotta dalla Procura di Trani, che sta indagando sul premier per concussione. Il presidente del consiglio si dice «scandalizzato» per quelle che ritiene «palesi violazioni» dei giudici. Ditemi chi frequenti e ti dirò chi sei: nessun riferimento alle escort, ma basta pensare a quelli che sono i grandi amici del Cavaliere sullo scacchiere internazionale per capire che tipo è il nostro premier scandalizzato. Putin, Lukashenko e Gheddaffi: questi gli amici del capo del governo. Tutti soggetti non proprio paladini della democrazia e non certo passati agli onori della cronaca per governo illuminato. Ecco allora che Berlusconi impara ad essere oligarca e colonnello, ad attaccare tutto arreca disturbo. E a ricorrere a qualsiasi cosa pur di fare in modo che il re non venga disturbato. Lo ha sempre fatto con magistratura e stampa critica, e non ha perso l'occasione di rifarlo, con l’arroganza che è propria del potere, con i talk-show. In un paese democratico l’opinione pubblica sarebbe indignata e la farebbe pagare come i francesi con Sarkozy, che non hanno perdonato all’inquilino dell’Eliseo di voler piazzare il figlio all’Epad, l’ente pubblico che gestisce la Defense, il quartiere parigino degli affari. Ma in Italia a indignarsi per primi sono loro, quelli che tutto tentano in barba alle regole e che sanno compiacersi in pubblico di averle aggirate o di denunciare chi non ha permesso loro di farlo. In un’ Europa dotata di personalità e spessore politica, saremmo già stati richiamati all’ordine per i continui attacchi a diritti e messe in discussione dell’ordine democratico. Ma si dà il caso che l’Unione europea è soggetto economico-finanziario e che in Italia, come sempre avviene, chi dovrebbe controllare dovrebbe essere controllato. Così l’Agicom finisce con l’essere organo composto da membri scelti dalla politica tra personaggi della politica, in un’ottica in cui l’Authority dovrebbe essere indipendente ma non lo è. Che dire della commissione di vigilanza Rai o del cda della stessa azienda? La lunga mano del regime si estende sull’informazione: ma attenzione, poiché se il regime è di democrazia, allora questa mano saprà essere tesa verso una stretta amichevole; ma se viceversa il regime non è di democrazia o di democrazia alla deriva allora la mano saprà stringere l’informazione in una morsa fino a strangolarla. Questo, giornalisti col senso della professione e con la coscienza a posto, dovrebbero saperlo molto bene e schierarsi di conseguenza dalla parte dell’informazione, che prim’ancora di essere un servizio è diritto per la collettività. Questo dovrebbero fare, piuttosto che avallare con altrettanta arroganza e non minore colpevolezza, certe inaccettabili violazioni di libertà costituzionalmente riconosciute. Bene fa l’opposizione a denunciare l’accaduto, con un Bersani tra il caustico e il sarcastico che si rivolge al diretto interessato: «Suggerirei al capo del governo che se vuole cambiare programma in tv non usi il telefono ma il telecomando». Per il segretario del Pd, «con tutte le questioni aperte e i problemi che abbiamo, non è una bella immagine per il nostro Paese immaginare il presidente del Consiglio che sta sempre al telefono per dei programmi televisivi». Peccato che la realtà a volte, superi l’immaginazione. E la realtà è quella che è sotto gli occhi di tutti e che Berlusconi, tra una sua rilettura e un provvedimento ad hoc cerca di stravolgere.
(Poi editoriale per la puntata del 19 marzo 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)
Thursday, 11 March 2010
Sull'uguaglianza
A proposito del decreto salva elezioni e del legittimo impedimento. E non solo...
(Tratto da Il marchese del Grillo, di Mario Monicelli, 1981)
(Tratto da Il marchese del Grillo, di Mario Monicelli, 1981)
Monday, 8 March 2010
Quel decreto e quella firma, un pasticcio tutto italiano che fa male al Paese
Il Pdl presenta la documentazione per le regionali oltre i limiti consentiti, e le liste sono escluse. Berlusconi "sana" l'errore con un decreto interpretativo "ad hoc". Che Napolitano firma.
l'e-dittoreale
La vicenda delle liste elettorali, per come si è conclusa, fa male al paese. Perchè rimette in discussione uno dei principi fondamentali di uno stato di diritto quale l'Italia, fino a oggi, è stata. Si tratta della legalità, del rispetto delle regole e dell'agire secondo la legge. Questo, nel caso delle liste elettorali del Pdl, non è avvenuto. Anzi, con una forzatura legislativa - qual è quella del decreto interpretativo voluto dal Governo - si apre un pericoloso precedente che di fatto dice che le regole non sono valide sempre e allo stesso modo, che non valgono per tutti ma in alcuni casi solo per qualcuno, che si possono rispettare ma, all'occorrenza, aggirare. Un messaggio di deregulation che va proprio in direzione opposta rispetto a quanto dovrebbe fare chi è chiamato a governare, per una violazione di dettami giuridici compiuta con la complice compartecipazione del presidente della Repubblica. Proprio il capo dello Stato, il cui compito è quello di assicurare il pieno rispetto delle regole, ha dato il proprio benestare ad un provvedimento improprio perchè - ha spiegato lo stesso Napolitano - si doveva «garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici». Per carità, garantire una democratica consultazione elettorale è dovere di ogni democrazia, ci mancherebbe. Nulla da eccepire alle spiegazioni - peraltro fornite per la prima volta nella storia della Repubblica in un modo inusuale quanto la presa di posizione assunta dal Quirinale - fornite dal Colle. Napolitano ha voluto quindi precisare che il testo di decreto che gli è stato sottoposto «non ha presentato evidenti vizi di incostituzionalità». Peccato solo che, per l'articolo 3 della Costituzione, quella stessa Costituzione di cui Napolitano dovrebbe essere garante e difensore, sancisce l'ugualianza di fronte alla legge. Poniamo un esempio pratico: per la partecipazione ad un qualsiasi concorso, ognuno deve far pervenire la corretta documentazione, in genere, "entro e non oltre" un determinato termine, pena l'esclusione. Un caso non diverso a quanto capitato al Pdl per le liste, con la differenza - laddove differenza è l'opposto di uguaglianza - che per il partito di Governo si fanno decreti interpretativi "ad hoc", mentre il privato cittadino viene escluso dalla competizione nel rispetto - giusto - e nell'applicazione - sacrosanta - della legge. Napolitano ha sorvolato su quest'aspetto, ha sorvolato sul principio di uguaglianza previsto dalla nostra Carta costituzionale, decidendo con fretta e leggerezza. E poi non erano presenti vizi «evidenti». Lo stesso capo dello Stato ha riconosciuto che «erano in gioco due interessi o "beni" entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi». Con la firma al decreto è stata presa una decisione più politica che giuridica, quando, ad esempio, un rinvio delle elezioni avrebbe potuto garantire eguale - e migliore - rispetto di entrambi i "beni", per dirla alla Napolitano. Fermo restando che c'è modo e modo di dire le cose, le critiche rivolte al Quirinale non sono affato gratuite. Di Pietro è arrivato a parlare di «impeachment» per Napolitano, forse in un eccesso di rabbia. Chi invece da sempre è abituato ad utilizzare un linguaggio soppesato in ogni parola è la Chiesa, che attraverso il capo degli Affari giuridici della Cei, monsignor Domenico Mogavero, parla ai fedeli dentro e fuori i palazzi istituzionali: «Cambiare le regole del gioco mentre il gioco è già in atto è altamente scorretto, perché- ha criticato il vescovo- si legittima ogni intervento arbitrario con la motivazione che ragioni più o meno intrinseche o pertinenti mettono in gioco il valore della partecipazione». Le regole, ha detto ancora monsignor Mogavero, «sono a garanzia e a tutela di tutti». Con il decreto salva elezioni «a questo punto si legittima ogni intervento arbitrario con la motivazione che ragioni più o meno intrinseche o pertinenti mettono un gioco un valore: il valore della partecipazione oggi, e domani un altro valore». Parole che sanno di monito, di richiamo all'ordine. Di quel richiamo a una retta condotta che è stata abbandonata e che come conseguenza pone il dubbio per cui «forse siamo impreparati a una democrazia sostanziale». Se sorgono certi dubbi, se si verificano episodi come quelli verificatesi, se si rimettono in discussione regole e valori, il sistema - presto o tardi - crolla. Perchè si finisce con il delegittimare qualunque cosa a scapito della coesione sociale e dell'ordinamento statale. E del sistema paese nel suo complesso. Ecco perchè, scontri politici a parte, la vicenda delle liste elettorali fa male al paese.
l'e-dittoreale
La vicenda delle liste elettorali, per come si è conclusa, fa male al paese. Perchè rimette in discussione uno dei principi fondamentali di uno stato di diritto quale l'Italia, fino a oggi, è stata. Si tratta della legalità, del rispetto delle regole e dell'agire secondo la legge. Questo, nel caso delle liste elettorali del Pdl, non è avvenuto. Anzi, con una forzatura legislativa - qual è quella del decreto interpretativo voluto dal Governo - si apre un pericoloso precedente che di fatto dice che le regole non sono valide sempre e allo stesso modo, che non valgono per tutti ma in alcuni casi solo per qualcuno, che si possono rispettare ma, all'occorrenza, aggirare. Un messaggio di deregulation che va proprio in direzione opposta rispetto a quanto dovrebbe fare chi è chiamato a governare, per una violazione di dettami giuridici compiuta con la complice compartecipazione del presidente della Repubblica. Proprio il capo dello Stato, il cui compito è quello di assicurare il pieno rispetto delle regole, ha dato il proprio benestare ad un provvedimento improprio perchè - ha spiegato lo stesso Napolitano - si doveva «garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici». Per carità, garantire una democratica consultazione elettorale è dovere di ogni democrazia, ci mancherebbe. Nulla da eccepire alle spiegazioni - peraltro fornite per la prima volta nella storia della Repubblica in un modo inusuale quanto la presa di posizione assunta dal Quirinale - fornite dal Colle. Napolitano ha voluto quindi precisare che il testo di decreto che gli è stato sottoposto «non ha presentato evidenti vizi di incostituzionalità». Peccato solo che, per l'articolo 3 della Costituzione, quella stessa Costituzione di cui Napolitano dovrebbe essere garante e difensore, sancisce l'ugualianza di fronte alla legge. Poniamo un esempio pratico: per la partecipazione ad un qualsiasi concorso, ognuno deve far pervenire la corretta documentazione, in genere, "entro e non oltre" un determinato termine, pena l'esclusione. Un caso non diverso a quanto capitato al Pdl per le liste, con la differenza - laddove differenza è l'opposto di uguaglianza - che per il partito di Governo si fanno decreti interpretativi "ad hoc", mentre il privato cittadino viene escluso dalla competizione nel rispetto - giusto - e nell'applicazione - sacrosanta - della legge. Napolitano ha sorvolato su quest'aspetto, ha sorvolato sul principio di uguaglianza previsto dalla nostra Carta costituzionale, decidendo con fretta e leggerezza. E poi non erano presenti vizi «evidenti». Lo stesso capo dello Stato ha riconosciuto che «erano in gioco due interessi o "beni" entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi». Con la firma al decreto è stata presa una decisione più politica che giuridica, quando, ad esempio, un rinvio delle elezioni avrebbe potuto garantire eguale - e migliore - rispetto di entrambi i "beni", per dirla alla Napolitano. Fermo restando che c'è modo e modo di dire le cose, le critiche rivolte al Quirinale non sono affato gratuite. Di Pietro è arrivato a parlare di «impeachment» per Napolitano, forse in un eccesso di rabbia. Chi invece da sempre è abituato ad utilizzare un linguaggio soppesato in ogni parola è la Chiesa, che attraverso il capo degli Affari giuridici della Cei, monsignor Domenico Mogavero, parla ai fedeli dentro e fuori i palazzi istituzionali: «Cambiare le regole del gioco mentre il gioco è già in atto è altamente scorretto, perché- ha criticato il vescovo- si legittima ogni intervento arbitrario con la motivazione che ragioni più o meno intrinseche o pertinenti mettono in gioco il valore della partecipazione». Le regole, ha detto ancora monsignor Mogavero, «sono a garanzia e a tutela di tutti». Con il decreto salva elezioni «a questo punto si legittima ogni intervento arbitrario con la motivazione che ragioni più o meno intrinseche o pertinenti mettono un gioco un valore: il valore della partecipazione oggi, e domani un altro valore». Parole che sanno di monito, di richiamo all'ordine. Di quel richiamo a una retta condotta che è stata abbandonata e che come conseguenza pone il dubbio per cui «forse siamo impreparati a una democrazia sostanziale». Se sorgono certi dubbi, se si verificano episodi come quelli verificatesi, se si rimettono in discussione regole e valori, il sistema - presto o tardi - crolla. Perchè si finisce con il delegittimare qualunque cosa a scapito della coesione sociale e dell'ordinamento statale. E del sistema paese nel suo complesso. Ecco perchè, scontri politici a parte, la vicenda delle liste elettorali fa male al paese.
Saturday, 6 March 2010
----------------- V -------------------
di Emiliano Biaggio
E' passato sui grandi schermi quasi in silenzio, senza premiazioni nè elogi della critica, ed è stato poi trasmesso sul piccolo schermo in seconda e in terza serata. V per vendetta, film tratto dall'omonimo graphic novel di Alan Moore e David Lloyd, che hanno curato la sceneggiatura per la trasposizione su cellulosa, è forse uno dei prodotti recenti più interessanti dell'industria cinematografica: una parabola del potere - dalla sua conquista al suo esercizio - per un pellicola politica che tratta i delicati temi della democrazia e del suo lento ma inesorabile rovesciamento per l'instaurazione di un regime autoritario che sopprime libertà e cancella diritti e contro cui si è chiamati a reagire per ripristinare il vecchio, democratico, ordine di cose. Una pellicola degna di nota e, volendo, anche di approfondimenti e analisi. La paura verso il nemico e tutte quelle forme che possono dare vita a instabilità quale base e garanzia del consenso a chi, in nome della pace sociale, finisce con il proibire ogni forma di diversità; la creazione di un sistema che, sulla base del consenso, reprime il dissenso; l'uso e l'abuso del potere; l'instaurazione di un sistema di giustizia attraverso metodi e pratiche contro ogni regola e convenzione; le mille sfaccettature dell'autorità, e i più inumani modi con cui essa si può mostrare, rimettendo in discussione l'autorità stessa. Tanti i temi affrontati, molti gli spunti di riflessione, molteplici gli aspetti comuni al mondo reale racchiusi e narrati da V per vendetta, forse proprio per questo lasciato sotto la luce dei riflettori il minimo indispensabile. Perchè a volersi impegnare, ma neanche così tanto a ben vedere, ci sono tanti parallelismi con l'attualità: riscrittura delle leggi per sè stessi e per pochissimi amici, immense fortune economiche concentrate nella mani di una ristretta elitè, dirigismo imposto dall'alto, obbligo di obbedienza, impossibilità di partecipare al dibattito politico, per voluti impedimenti. E poi, gli attacchi senza pietà a chi la pensa diversamente. Tutti aspetti, questi ben messi in risalto da una storia originale, una sceneggiatura riuscita, e una regia sapiente. Par condicio, conflitti sociali e istituzionali, discriminazioni, leggi concepite e votate per una sola persona: se vedete parallelismi è perchè V per vendetta sa essere molto attuale, come tutte le opere frutto dell'intelligenza e del lavoro ragionato. E questo film lo è: ripropone scenari immaginari ma per nulla fantasiosi attraverso storie, idee e ideali per nulla inediti, ma al contrario ben conosciuti, fino a dare una rappresentazione dell’idea. Prodigi in tecnicolor per una pellicola che si ispira alla realtà - come molto spesso fa il cinema, definito non a caso mondo - per poi darne una propria rilettura in un affresco d'autore. Facile, dunque, riscontrare analogie, somiglianze e raffigurazioni: i governi non producono arte, mentre arte il cinema lo è. Per cui godetevi questo film, anche se potrebbe risultare per palati fini. Un pò perchè la politica può risultare noiosa e non facile da capire, e poi perchè come ha avuto modo di dire Sydney Pollack - uno che di film se ne intende - «fare film politici oggi non è facile come venti o trent'anni fa. Oggi più di allora il cinema è intrattenimento prima che veicolo di messaggi». Un po' come la tv, che passa in seconda o terza serata film impegnati come V per vendetta e non manda in onda - su precise disposizioni - programmi di approfondimento politico.
(Editoriale per la puntata del 5 marzo 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)
E' passato sui grandi schermi quasi in silenzio, senza premiazioni nè elogi della critica, ed è stato poi trasmesso sul piccolo schermo in seconda e in terza serata. V per vendetta, film tratto dall'omonimo graphic novel di Alan Moore e David Lloyd, che hanno curato la sceneggiatura per la trasposizione su cellulosa, è forse uno dei prodotti recenti più interessanti dell'industria cinematografica: una parabola del potere - dalla sua conquista al suo esercizio - per un pellicola politica che tratta i delicati temi della democrazia e del suo lento ma inesorabile rovesciamento per l'instaurazione di un regime autoritario che sopprime libertà e cancella diritti e contro cui si è chiamati a reagire per ripristinare il vecchio, democratico, ordine di cose. Una pellicola degna di nota e, volendo, anche di approfondimenti e analisi. La paura verso il nemico e tutte quelle forme che possono dare vita a instabilità quale base e garanzia del consenso a chi, in nome della pace sociale, finisce con il proibire ogni forma di diversità; la creazione di un sistema che, sulla base del consenso, reprime il dissenso; l'uso e l'abuso del potere; l'instaurazione di un sistema di giustizia attraverso metodi e pratiche contro ogni regola e convenzione; le mille sfaccettature dell'autorità, e i più inumani modi con cui essa si può mostrare, rimettendo in discussione l'autorità stessa. Tanti i temi affrontati, molti gli spunti di riflessione, molteplici gli aspetti comuni al mondo reale racchiusi e narrati da V per vendetta, forse proprio per questo lasciato sotto la luce dei riflettori il minimo indispensabile. Perchè a volersi impegnare, ma neanche così tanto a ben vedere, ci sono tanti parallelismi con l'attualità: riscrittura delle leggi per sè stessi e per pochissimi amici, immense fortune economiche concentrate nella mani di una ristretta elitè, dirigismo imposto dall'alto, obbligo di obbedienza, impossibilità di partecipare al dibattito politico, per voluti impedimenti. E poi, gli attacchi senza pietà a chi la pensa diversamente. Tutti aspetti, questi ben messi in risalto da una storia originale, una sceneggiatura riuscita, e una regia sapiente. Par condicio, conflitti sociali e istituzionali, discriminazioni, leggi concepite e votate per una sola persona: se vedete parallelismi è perchè V per vendetta sa essere molto attuale, come tutte le opere frutto dell'intelligenza e del lavoro ragionato. E questo film lo è: ripropone scenari immaginari ma per nulla fantasiosi attraverso storie, idee e ideali per nulla inediti, ma al contrario ben conosciuti, fino a dare una rappresentazione dell’idea. Prodigi in tecnicolor per una pellicola che si ispira alla realtà - come molto spesso fa il cinema, definito non a caso mondo - per poi darne una propria rilettura in un affresco d'autore. Facile, dunque, riscontrare analogie, somiglianze e raffigurazioni: i governi non producono arte, mentre arte il cinema lo è. Per cui godetevi questo film, anche se potrebbe risultare per palati fini. Un pò perchè la politica può risultare noiosa e non facile da capire, e poi perchè come ha avuto modo di dire Sydney Pollack - uno che di film se ne intende - «fare film politici oggi non è facile come venti o trent'anni fa. Oggi più di allora il cinema è intrattenimento prima che veicolo di messaggi». Un po' come la tv, che passa in seconda o terza serata film impegnati come V per vendetta e non manda in onda - su precise disposizioni - programmi di approfondimento politico.
(Editoriale per la puntata del 5 marzo 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)
Friday, 5 March 2010
La Terra? Ha 15 inferni dell'inquinamento
Da Mother nature network la lista delle mete da evitare. Orbita compresa.
di Alberto Fiorillo
Sono 15 le località del pianeta dov'è altamente sconsigliato trasferirsi. Non è una vera e propria classifica, ma un elenco di emergenze planetarie attorno alle quali vivono in condizioni di sicurezza precarie decine di migliaia di persone. La mappa degli "inferni terrestri" l'ha stilata il sito specializzato Mother nature network, prendendo in considerazione una serie di parametri altamente negativi come inquinamento dell'aria, presenza di scorie radioattive, livelli di deforestazione, accumulo di spazzatura. Ecco, una per una, le 15 mete da perdere:
CITARUM RIVER (INDONESIA): Il Citarum è il fiume più inquinato del mondo. Circa cinque milioni di persone vivono nel bacino del fiume e la maggior parte di loro utilizza il suo
flusso per l'approvvigionamento di acqua;
CHERNOBYL (UCRAINA): Qui nel 1986 c'è stato il peggior incidente nucleare della storia. Conta piu' di 14.000 abitanti, ma la città rimane per lo più disabitata a causa dei rischi di contaminazione radioattiva;
LINFEN (CINA): Ha l'inquinamento atmosferico più alto di qualsiasi altra città del mondo. Al centro della cintura di carbone cinese, smog e fuliggine da inquinanti industriali e
automobili anneriscono l'aria a tutte le ore. Si dice che il bucato steso diventi nero prima di asciugarsi;
THE NORTH PACIFIC GYRE: Un'isola galleggiante di spazzatura grande due volte la dimensione del Texas (grande cinque volte quella dell'Italia) nel bel mezzo dell'oceano Pacifico, creata della corrente Vortice del nord Pacifico;
RONDONIA (BRASILE): E' uno stato nel nord-ovest del Brasile che, insieme con gli stati del Mato Grosso e Parß, è una delle regioni piu' disboscate della foresta pluviale amazzonica.
Migliaia di ettari di foresta sono stati tagliati e bruciati, in gran parte per far posto l'allevamento del bestiame;
YAMUNA RIVER (INDIA): Il maggiore affluente del Gange. Scorre attraverso Delhi e raccoglie, senza nessun filtro, il 58% dei rifiuti della città;
VAPI (INDIA): La città di Vapi è un luogo dove ci sono sostanze chimiche di ogni genere. I livelli di mercurio nelle acque sotterranee sono 96 volte superiori livelli di sicurezza e
metalli pesanti sono presenti in aria e nei prodotti;
LA OROYA (PERU'): Città mineraria delle Ande peruviane. Il 99% per cento dei bambini che vivono qui hanno livelli nel sangue che eccedono i limiti accettabili per avvelenamento da piombo, prodotto da una fonderia di proprieta' americana che inquina la citta' dal 1922;
HAITI: una volta era coperta da boschi per il 60% del territorio. Oggi, solo il 2% del paese ha ancora in piedi degli alberi. Haiti ha eliminato quasi ogni albero fino ai suoi
confini. E con il recente devastante terremoto, la situazione ambientale dell'isola è peggiorata;
KABWE (ZAMBIA): Le colline di Kabwe sono formate dalle scorie prodotte dalle miniere di piombo e cadmio della zona, dove l'aria è 10 volte più contaminata del massimo consentito dal limite di sopravvivenza. I bambini qui hanno concentrazioni di piombo nel sangue da cinque a 10 volte il consentito e la terra e' talmente contaminata che nulla puo' essere coltivato;
APPALACHI (WEST VIRGINIA, STATI UNITI): In questa regione tagliano le cime delle montagne, una delle pratiche più distruttive per l'ambiente, per estrarre carbone. Montagne intere vengono rimosse per arrivare al minerale e questo sistema aumenta l'erosione e il deflusso di sostanze inquinanti verso i terreni limitrofi e i fiumi;
RIACHUELO BASIN (ARGENTINA): Il bacino del Riachuelo è un corso d'acqua il cui nome è sinonimo di inquinamento. Oltre 3.500 fabbriche operano lungo le rive del fiume, un paesaggio che comprende anche 13 baraccopoli, numerose tubazioni di scarico illegale in esecuzione direttamente nel fiume, e 42 discariche aperte;
DZERZHINSK (RUSSIA): Il Guinness dei primati ha nominato Dzerzhinsk la città più inquinata chimicamente sulla Terra, e nel 2003 il tasso di morte ha superato il suo tasso di natalità del 260%;
LAGO KARACHAY (RUSSIA): Secondo un rapporto del Worldwatch Institute sulle scorie nucleari, Karachay è il posto più inquinato della Terra. E' stato utilizzato da parte dell'Unione Sovietica come sito nucleare, e ora il livello di radiazione qui è così alto che è sufficiente avere un'esposizione di appena un'ora per avere conseguenze letali;
L'ORBITA TERRESTRE: Anche lo spazio contiene grandi quantità di inquinamento. Circa 4 milioni di chili di detriti spaziali - dadi, bulloni, metallo e carbonio, anche tutta la sonda - attualmente sono in orbita intorno alla Terra, minacciando i satelliti, la comunicazione e anche le vite dei nostri astronauti.
di Alberto Fiorillo
Sono 15 le località del pianeta dov'è altamente sconsigliato trasferirsi. Non è una vera e propria classifica, ma un elenco di emergenze planetarie attorno alle quali vivono in condizioni di sicurezza precarie decine di migliaia di persone. La mappa degli "inferni terrestri" l'ha stilata il sito specializzato Mother nature network, prendendo in considerazione una serie di parametri altamente negativi come inquinamento dell'aria, presenza di scorie radioattive, livelli di deforestazione, accumulo di spazzatura. Ecco, una per una, le 15 mete da perdere:
CITARUM RIVER (INDONESIA): Il Citarum è il fiume più inquinato del mondo. Circa cinque milioni di persone vivono nel bacino del fiume e la maggior parte di loro utilizza il suo
flusso per l'approvvigionamento di acqua;
CHERNOBYL (UCRAINA): Qui nel 1986 c'è stato il peggior incidente nucleare della storia. Conta piu' di 14.000 abitanti, ma la città rimane per lo più disabitata a causa dei rischi di contaminazione radioattiva;
LINFEN (CINA): Ha l'inquinamento atmosferico più alto di qualsiasi altra città del mondo. Al centro della cintura di carbone cinese, smog e fuliggine da inquinanti industriali e
automobili anneriscono l'aria a tutte le ore. Si dice che il bucato steso diventi nero prima di asciugarsi;
THE NORTH PACIFIC GYRE: Un'isola galleggiante di spazzatura grande due volte la dimensione del Texas (grande cinque volte quella dell'Italia) nel bel mezzo dell'oceano Pacifico, creata della corrente Vortice del nord Pacifico;
RONDONIA (BRASILE): E' uno stato nel nord-ovest del Brasile che, insieme con gli stati del Mato Grosso e Parß, è una delle regioni piu' disboscate della foresta pluviale amazzonica.
Migliaia di ettari di foresta sono stati tagliati e bruciati, in gran parte per far posto l'allevamento del bestiame;
YAMUNA RIVER (INDIA): Il maggiore affluente del Gange. Scorre attraverso Delhi e raccoglie, senza nessun filtro, il 58% dei rifiuti della città;
VAPI (INDIA): La città di Vapi è un luogo dove ci sono sostanze chimiche di ogni genere. I livelli di mercurio nelle acque sotterranee sono 96 volte superiori livelli di sicurezza e
metalli pesanti sono presenti in aria e nei prodotti;
LA OROYA (PERU'): Città mineraria delle Ande peruviane. Il 99% per cento dei bambini che vivono qui hanno livelli nel sangue che eccedono i limiti accettabili per avvelenamento da piombo, prodotto da una fonderia di proprieta' americana che inquina la citta' dal 1922;
HAITI: una volta era coperta da boschi per il 60% del territorio. Oggi, solo il 2% del paese ha ancora in piedi degli alberi. Haiti ha eliminato quasi ogni albero fino ai suoi
confini. E con il recente devastante terremoto, la situazione ambientale dell'isola è peggiorata;
KABWE (ZAMBIA): Le colline di Kabwe sono formate dalle scorie prodotte dalle miniere di piombo e cadmio della zona, dove l'aria è 10 volte più contaminata del massimo consentito dal limite di sopravvivenza. I bambini qui hanno concentrazioni di piombo nel sangue da cinque a 10 volte il consentito e la terra e' talmente contaminata che nulla puo' essere coltivato;
APPALACHI (WEST VIRGINIA, STATI UNITI): In questa regione tagliano le cime delle montagne, una delle pratiche più distruttive per l'ambiente, per estrarre carbone. Montagne intere vengono rimosse per arrivare al minerale e questo sistema aumenta l'erosione e il deflusso di sostanze inquinanti verso i terreni limitrofi e i fiumi;
RIACHUELO BASIN (ARGENTINA): Il bacino del Riachuelo è un corso d'acqua il cui nome è sinonimo di inquinamento. Oltre 3.500 fabbriche operano lungo le rive del fiume, un paesaggio che comprende anche 13 baraccopoli, numerose tubazioni di scarico illegale in esecuzione direttamente nel fiume, e 42 discariche aperte;
DZERZHINSK (RUSSIA): Il Guinness dei primati ha nominato Dzerzhinsk la città più inquinata chimicamente sulla Terra, e nel 2003 il tasso di morte ha superato il suo tasso di natalità del 260%;
LAGO KARACHAY (RUSSIA): Secondo un rapporto del Worldwatch Institute sulle scorie nucleari, Karachay è il posto più inquinato della Terra. E' stato utilizzato da parte dell'Unione Sovietica come sito nucleare, e ora il livello di radiazione qui è così alto che è sufficiente avere un'esposizione di appena un'ora per avere conseguenze letali;
L'ORBITA TERRESTRE: Anche lo spazio contiene grandi quantità di inquinamento. Circa 4 milioni di chili di detriti spaziali - dadi, bulloni, metallo e carbonio, anche tutta la sonda - attualmente sono in orbita intorno alla Terra, minacciando i satelliti, la comunicazione e anche le vite dei nostri astronauti.
Thursday, 4 March 2010
La Sagrada Familia chiama la messa
Il 7 novembre la consacrazione della cattedrale, che per quella data sarà completata al 60%. Ma avrà altare, pavimento e navata centrale.
di Emiliano Biaggio
La Sagrada Familia completata dopo 128 anni di lavori. O quasi. Il monumentale progetto di Antoni Gaudi per donare una nuova cattedrale a Barcellona vede finalmente la luce. Attenzione, vede la luce del termine dei lavori, ma non la sparizione dei cantieri: infatti il prossimo 7 novembre Benedetto XVI la consacrerà, ma per quella data nel luogo di culto catalano sarà ultimato al 60%. Infatti a novembre saranno terminati la navata centrale, il pavimento, le vetrate, l'altare maggiore e il baldacchino. La chiesa potrà accogliere 8.000 persone, su una superficie interna di 4.500 metri quadri. È previsto anche lo spazio per più di 1.100 cantanti del coro, ma i lavori continueranno poi anche dopo la visita del Pontefice: i cantieri resteranno infatti all'esterno, dove si devono ancora costruire dieci torri e una facciata. Insomma, la Sagrada Familia sarà chiesa forse funzionante, ma certamente ancora per un pò resterà "work in progress". Un buona notizia per i turisti e per Barcellona, abituati forse alla particolarità - oltre al design - della chiesa, quella di ospitare i lavori, appunto. Mano al portafogli, quindi, dato che si continuerà a pagare il biglietto d'ingresso (11 euro) col quale si portano avanti i lavori di edificazione dell'immensa struttura. Della realizzazione della cattedrale venne incaricato Gaudì nel 1882, e l'architetto catalano non smise mai di lavorarvi fino al giorno della sua morte, nel 1926. Da allora vari architetti hanno continuato i lavori seguendo la sua idea originale. Il tempio, da più di 128 anni, si costruisce solo grazie alle offerte, e questo spiega la sua lentezza: potrebbe essere ultimato entro il primo terzo del XXI secolo. Lo stesso Gaudì disse che «la Sagrada Familia è un'opera che è nelle mani di Dio e nella volontà del popolo».
di Emiliano Biaggio
La Sagrada Familia completata dopo 128 anni di lavori. O quasi. Il monumentale progetto di Antoni Gaudi per donare una nuova cattedrale a Barcellona vede finalmente la luce. Attenzione, vede la luce del termine dei lavori, ma non la sparizione dei cantieri: infatti il prossimo 7 novembre Benedetto XVI la consacrerà, ma per quella data nel luogo di culto catalano sarà ultimato al 60%. Infatti a novembre saranno terminati la navata centrale, il pavimento, le vetrate, l'altare maggiore e il baldacchino. La chiesa potrà accogliere 8.000 persone, su una superficie interna di 4.500 metri quadri. È previsto anche lo spazio per più di 1.100 cantanti del coro, ma i lavori continueranno poi anche dopo la visita del Pontefice: i cantieri resteranno infatti all'esterno, dove si devono ancora costruire dieci torri e una facciata. Insomma, la Sagrada Familia sarà chiesa forse funzionante, ma certamente ancora per un pò resterà "work in progress". Un buona notizia per i turisti e per Barcellona, abituati forse alla particolarità - oltre al design - della chiesa, quella di ospitare i lavori, appunto. Mano al portafogli, quindi, dato che si continuerà a pagare il biglietto d'ingresso (11 euro) col quale si portano avanti i lavori di edificazione dell'immensa struttura. Della realizzazione della cattedrale venne incaricato Gaudì nel 1882, e l'architetto catalano non smise mai di lavorarvi fino al giorno della sua morte, nel 1926. Da allora vari architetti hanno continuato i lavori seguendo la sua idea originale. Il tempio, da più di 128 anni, si costruisce solo grazie alle offerte, e questo spiega la sua lentezza: potrebbe essere ultimato entro il primo terzo del XXI secolo. Lo stesso Gaudì disse che «la Sagrada Familia è un'opera che è nelle mani di Dio e nella volontà del popolo».
Wednesday, 3 March 2010
Mettiamoci una croce sopra (il muro)
"[...] Il crocifisso in quest'aula è il simbolo di un culto assai diffuso nel nostro Paese. Pur sapendo che molte persone di buon cuore praticano questa fede, non posso non rilevare che in nome delle grandi religioni monoteiste sono stati commessi alcuni tra i più grandi crimini della storia. Inoltre, è costume degli intolleranti chiamare malvagio, infedele e idolatra chiunque non appartenga al loro culto. Questo crocifisso non è la salvezza per tutti gli uomini e le donne della Terra, ma tutt'al più è di conforto a una grande parte di loro. Mentre in ogni Paese e deserto e montagna e isola e bosco altri dèi buoni o malvagi vengono adorati, appesi ai muri, portati processione e in battaglia. Perciò a coloro che vorrebbero togliere questo crocifisso rispondo che mi sembrerebbe un'inutile intolleranza pur essendo (o essendo stati) uno Stato laico [...]". (tratto da La grammatica di Dio di Stefano Benni, Feltrinelli, 2007)
Ieri la Corte europea dei diritti dell'uomo ha accolto la domanda di rinvio dell'Italia davanti alla Grande Camera del caso sull'affissione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Ieri la Corte europea dei diritti dell'uomo ha accolto la domanda di rinvio dell'Italia davanti alla Grande Camera del caso sull'affissione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Tuesday, 2 March 2010
Via all'atomica, ma non alla possibilità di usarla
Il presidente degli Stati Uniti pronto ad un taglio degli arsenali, ma si riserva il diritto del "primo colpo".
di Emiliano Biaggio
Obama si dice «pronto a ridurre le atomiche», ma non a rinunciare al "first strike", la possibilità di poter utilizzare l'arma non convenzionale e soprattutto di potervi far ricorso per primi, anche contro quei paesi non datati di atomica come fu per il Giappone. Dal presidente degli Stati Uniti, quindi, la promessa e l'idea di «spettacolari riduzioni» degli arsenali da una parte, e la conservazione della possibilità dell'opzione dall'altra. Dimostrazione ulteriore di un Nobel per la pace generoso e frettoloso (assegnato anche per assenza di alternative) e di un presidente schiacciato tra le sue voglie di innovazione e gli ideali conservatori dei repubblicani e delle lobby. Obama ha un'idea, e la storia insegna che i cambiamenti nascono prima di tutto da un'intuizione; ma Obama ha anche la pressione di un'opnione pubblica perplessa e un'opposizione congressuale contraria. Il sistema internazionale infatti - con i proclami iraniani sul nucleare e una Corea del Nord indecifrabile - non permette al presidente Usa di rivendicare pienamente le proprie scelte, con i repubblicani che guardano con timore anche al Pakistan, paese con bomba atomica e teatro di scorribande talebane. E poi, con la crisi e la perdita di supremazia a livello mondiale, il deterrente nucleare rappresenta per gli Stati Uniti un argomento se non convincente comunque dissuadente in una politica internazionale, da sempre, frutto dei rapporti di forza. Non da ultimo, la carta del nucleare è stata efficace durante la guerra fredda, ed esercito e anche frange di democratici sposano la teoria del "squadra vincente non si cambia". Quanto è cambiato Obama: a 22 anni, quando ancora frequentava la Columbia University a New York, sul giornale universitario Sundial scriveva che «discutere di possibilità di primo colpo o di secondo colpo nucleare fa comodo soltanto agli interessi militari industriali con i loro miliardi. Non dobbiamo accettare tale logica perversa ma realizzare un mondo migliore». Adesso Obama si piega agli interessi militari ed economici, a scapito del mondo migliore. (fonte foto: SkyTg24)
di Emiliano Biaggio
Obama si dice «pronto a ridurre le atomiche», ma non a rinunciare al "first strike", la possibilità di poter utilizzare l'arma non convenzionale e soprattutto di potervi far ricorso per primi, anche contro quei paesi non datati di atomica come fu per il Giappone. Dal presidente degli Stati Uniti, quindi, la promessa e l'idea di «spettacolari riduzioni» degli arsenali da una parte, e la conservazione della possibilità dell'opzione dall'altra. Dimostrazione ulteriore di un Nobel per la pace generoso e frettoloso (assegnato anche per assenza di alternative) e di un presidente schiacciato tra le sue voglie di innovazione e gli ideali conservatori dei repubblicani e delle lobby. Obama ha un'idea, e la storia insegna che i cambiamenti nascono prima di tutto da un'intuizione; ma Obama ha anche la pressione di un'opnione pubblica perplessa e un'opposizione congressuale contraria. Il sistema internazionale infatti - con i proclami iraniani sul nucleare e una Corea del Nord indecifrabile - non permette al presidente Usa di rivendicare pienamente le proprie scelte, con i repubblicani che guardano con timore anche al Pakistan, paese con bomba atomica e teatro di scorribande talebane. E poi, con la crisi e la perdita di supremazia a livello mondiale, il deterrente nucleare rappresenta per gli Stati Uniti un argomento se non convincente comunque dissuadente in una politica internazionale, da sempre, frutto dei rapporti di forza. Non da ultimo, la carta del nucleare è stata efficace durante la guerra fredda, ed esercito e anche frange di democratici sposano la teoria del "squadra vincente non si cambia". Quanto è cambiato Obama: a 22 anni, quando ancora frequentava la Columbia University a New York, sul giornale universitario Sundial scriveva che «discutere di possibilità di primo colpo o di secondo colpo nucleare fa comodo soltanto agli interessi militari industriali con i loro miliardi. Non dobbiamo accettare tale logica perversa ma realizzare un mondo migliore». Adesso Obama si piega agli interessi militari ed economici, a scapito del mondo migliore. (fonte foto: SkyTg24)
Subscribe to:
Posts (Atom)