Saturday, 29 May 2010

FACT SHEET/ Il nucleare della Corea del Nord

Tre reattori, forse due siti di riprocessamento dell'uranio, un sito di sperimentazione: questo e altro nel programma nucleare della Corea del Nord. Del quale si sa poco, ma quanto basta per essere inquieti. Ecco qui rappresentata

(fonte cartina: Limes)

Corea, manovre di guerra al 38° parallelo

Accuse reciproche, una corvetta affondata con 46 morti. E se Seul minaccia sanzioni al nord, Pyongyang avverte: «pronti alla guerra».

di Emiliano Biaggio

Riservisti richiamati, stato maggiore dell'esercito in stato d'allerta, spostamento di uomimi e mezzi lungo il confine, la labile linea disegnata dal 38° parallelo che da più di messo secolo divide in due la Corea. Una divisione in questi ultimi tempi arrivata laddove mai era arrivata da quando venne firmato, nel lontano ma mai superato 1953, l'arministizio tra il nord comunista e il sud filo-occidentale. Adesso le due parti si fronteggiano, si sfidano, si accusano. Seul imputa al regime di Kim Jong-il l'affondamento della corvetta Cheonan, costato la vita a 46 marinai sudcoreani. Un'inchiesta condotta insieme a rappresentanti di altri paesi, ha rinvenuto resti di un siluro di fabbricazione nordcoreana. Pyongyang smentisce, ma il governo di Seul risponde con sanzioni. Quarantasei morti non sono pochi, soprattutto per chi a breve - il 2 giugno - va al voto: il presidente sudcoreano, il conservatore Lee Myung-Bak, agli elettori promette una «risposta forte» ai responsabili dell'affondamento della Cheonan. I nordcoreani non accettano le sanzioni promesse dal sud, e per tutta risposta rompono le relazioni diplomatiche, interrompono le vie di comunicazione di terra, chiudono lo spazio aereo e le contese acque del mar Giallo. A proposito di mare: da Pyongyang arrivano accuse di decine di sconfinamenti da parte di imbarcazioni del sud, sud che dal canto suo smentisce. Il sud si prepara al peggio, e anche gli Stati Uniti sono in allerta: la Casa Bianca ha detto ai soldati di stanza in Corea del Sud di essere pronti a tutto.
Se Pyongyang minaccia «azioni militari» perchè l’accusa alla Corea del Nord sull’affondamento della corvetta Cheonan «è così grave che una guerra può scoppiare in qualsiasi momento», restano però gli interrogativi per una vicenda che non si capisce bene come sia effettivamente iniziata e che ancora meno si può dire come andrà a finire: dall'impenetrabile cortina che avvolge la Corea del Nord giungono voci che vorrebbero Kim Jong-il alle prese con tentativi di rovesciamento da parte dei militari, che non avrebbero gradito l'investitura del figlio del dittatore quale successore leader del paese. Kim Jong-il starebbe dunque giocando il tutto per tutto nel tentativo di impegnare altrove le frustrazioni delle alte sfere dell'esercito non più fedeli come in passato. Da parte statunitense e sudcoreana monta la paura per il nucleare nordcoreano: per questo si pondera come intervenire. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha invitato alla «pazienza», conscia del fatto che un conflitto armata non gioverebbe a nessuno e potrebbe assumere proporzioni devastanti. A Seul sanno che in caso di attacco vincerebbero in pochi giorni, ma sanno anche che una guerra non conviene. In tutto questo si aggiungono altri due fattori: la maggior parte dei sudcoreani non vuole la riunificazione con nord, troppo diverso e soprattutto, troppo costoso da rimettere in piedi; la Cina non vuole un crollo del regime perchè in caso di apertura delle frontiere avrebbe il problema di milioni di profughi. Insomma, il rompicapo coreano è ancora tutto da risolvere.

Thursday, 27 May 2010

La guerra dei passaporti nell'Ue

Si ripropone la questione della "diaspora ungherese" e della minoranza magiara. E con la vicina Slovacchia è alta tensione.
di Andra Tarquini (da laRepubblica del 27 maggio 2010)

Drammatica escalation della tensione tra Slovacchia e Ungheria. Un confronto ogni giorno più duro tra i due paesi pesa sull´Unione europea e sulla Nato, di cui entrambe le giovani democrazie fanno parte, ed evoca i sinistri ricordi degli odii etnici tra Stati nazionali o multinazionali europei dei due secoli passati. Ieri il Parlamento di Budapest, con 344 voti contro 3 - un´unanimità da emergenza nazionale o che ricorda sistemi politici particolari - ha approvato l´annunciata legge che permette la concessione unilaterale della cittadinanza ungherese ai circa 3,5 milioni di persone di lingua, cultura o discendenza magiara viventi oltre confine. Immediata, e durissima, la reazione della Slovacchia, dove è di origine ungherese il 10 per cento della popolazione: un decreto legge governativo, approvato dai legislatori in seduta straordinaria, ha stabilito che chi chiederà la cittadinanza magiara perderà quella slovacca. Perderà anche il posto di lavoro, se impiegato nella funzione pubblica, o ogni mandato politico, dal Parlamento ai Comuni.
Forse mai prima d´ora, con l´eccezione della crisi che portò alla fine violenta della Jugoslavia, una crisi di tale gravità, e motivata da serie divergenze su nazionalità e cittadinanza, ha opposto dopo il 1989 della fine del comunismo due paesi dell´Europa centrale e centro-orientale. «Questa è una minaccia alla nostra sicurezza nazionale», ha detto il premier socialdemocratico slovacco, Robert Fico. Aggiungendo che se un deputato chiederà la cittadinanza ungherese, oltre alla cittadinanza slovacca perderà anche il mandato. Chiunque scelga l´Ungheria dovrà dichiararlo, pena una multa di oltre 3000 euro.
Reazione pesante, insomma, a pochi giorni dalle elezioni politiche del 12 giugno. Peggio ancora, notano osservatori occidentali, la dura reazione slovacca alla legge ungherese, oltre ad esasperare le tensioni bilaterali, sul piano interno potrebbe finire per rafforzare il Partito nazionale slovacco (Sns), la forza tradizional-nazionalista di Jan Slota.
La crisi slovacco-ungherese si è acutizzata negli ultimi anni. Il nuovo partito di maggioranza relativa a Budapest, la Fidesz (centrodestra con forti toni di orgoglio nazionale) del futuro premier Viktor Orban, aveva promesso di varare in corsa la legge sulla doppia cittadinanza. La definisce conforme con la Convenzione sulle nazionalità del Consiglio d´Europa. Esponenti della maggioranza ungherese l´hanno spesso posta in relazione con la determinazione a «eliminare la vergogna del Trattato del Trianon», quello con cui alla fine della prima guerra mondiale l´Ungheria perse ampia parte del suo territorio. E simili dichiarazioni agitano lo spettro di pericolosi sogni di revisione delle frontiere postbelliche europee.
Bratislava non ci sta. Denuncia il carattere unilaterale e non negoziato, come si fa di solito in ambito europeo su tali temi, della scelta magiara. E dopo la dura reazione preannuncia ricorsi alle organizzazioni internazionali. Il rischio è che la Ue, già alle prese con l´emergenza del debito pubblico e la crisi dell´Euro, debba schierarsi e magari dividersi su una grave tensione in più. I più pessimisti ieri sera nelle due capitali parlavano persino del pericolo che gli slovacchi d´origine ungherese che chiederanno la cittadinanza magiara e perderanno quella slovacca finiscano per sentirsi ghettizzati, discriminati e respinti come accade nell´allora Jugoslavia all´etnia maggioritaria nel Kosovo.

Manovra da 24 miliardi, ma i conti non tornano

Giù le tasse, ma si profila un'impennata delle imposte. E intanto si procede alla riforma delle pensioni fuori legge.

di Emiliano Biaggio

Ipse dixit: «non c'è un aumento della pressione fiscale». Anzi, «voglio sottolineare con forza che non abbiamo aumentato le tasse». Poi a vedere bene, scopri che a Roma e nel Lazio aumentano le accise sull'energia (tradotto: aumentano le bollette), aumenta l'Irap, aumenta l'Ici, è prevista una tassa sul soggiorno turistico. «Colpa della sinistra», Ipse explicavit. La situazione del comune di Roma «si deve a un'amministrazione rovinosa che ha creato una situazione che noi ora abbiamo ereditato». Ma sempre Ipse, dixit: «io non credo che le Regioni debbano aumentare le imposte». Tradotto: il governo non aumenta le tasse, lascia che siano gli enti locali - in caso - a farlo. O meglio, se il governo non aumenta le tasse gli enti locali potranno rivedere le imposte. Distinzione di non poco conto, dato che mentre la tassa colpisce delle categorie di persone e in cambio di servizi erogati dallo Stato, le imposte le pagano tutti indistintamente senza che siano previste contropartite dall'ente esattore. Delle due l'una: o il caso Roma è uno sfortunato caso isolato, oppure Berlusconi racconta favole agli italiani. A sentire Tremonti - uomo di governo, non certo di opposizione - vale la seconda delle due se è vero che, come sembra, il titolare del dicastero dell'Economia abbia rivolto al premier una battuta al vetriolo. In un incontro a porte chiuse per la manovra da 24 miliardi, a un certo punto uno stizzito Berlusconi avrebbe sbottato: «Giulio, perché scrivi quello che dico?». E Tremonti: «Mi segno le barzellette che racconti».
C'è poco da ridere. Anche perchè questa manovra - oltre a essere tutt'altro rispetto a quanto detto da Berlusconi - è un riforma delle pensioni mascherata, approntata non con legge - come si converrebbe - ma con atto amministrativo. Si andrà in pensione un anno più tardi, in alcuni casi un anno e mezzo più tardi. La Cgil se n'è accorta e minaccia lo sciopero generale. Cisl e Uil ancora non hanno capito. E gli italiani, quando apriranno gli occhi?

Wednesday, 26 May 2010

Il bavaglio e quel rischio di un suo effetto boomerang

Finiani critici e leghisti che invitano a gettare la spugna: il ddl intercettazioni adesso inquieta Berlusconi.

di Emiliano Biaggio
Le proteste fuori dal Parlamento Silvio Berlusconi e i suoi se le aspettavano. Ma la levata di scudi all'interno delle camere non l'avevano calcolata. E la questione adesso diventa davvero politica. Perchè il ddl intercettazioni, dopo le proteste del mondo dell'informazione - con l'ampio risalto dato da personaggi di spicco del settore quale Ezio Mauro, niente meno che Rupert Murdoch e financo "il fedele" Vittorio Feltri - già rischia di pagare un prezzo più salato del previsto; se poi si aggiunge la questione interna al Pdl, logico che si pensi di far passare il testo a palazzo Madama per poi farlo volutamente arenare a Montecitorio. Perchè in queste ultime ore le voci che circolano sono proprio queste: quella di un ddl intercettazioni divenuto improvvisamente patata bollente e provvedimento scomodo al premier - che ironia della sorte propria per sua comodità l'aveva sponsorizzato - che adesso lo vorrebbe lasciar stare. Non prima di aver mostrato di non aver ceduto. Perchè se è vero che in minima parte preoccupa l'opinione pubblica - che con la crisi ha forse altro a cui pensare - dall'altra a rendere inquieto il premier è soprattutto il "rompete le righe" interno alla maggioranza. La Lega, attraverso il presidente dei senatori Federico Bricolo, manda un messaggio chiaro: «I cittadini sono stanchi delle continue polemiche sulle intercettazioni. E' ora di dire basta per concentrarsi» su altro. La priorità del Carroccio, si sa, è il federalismo fiscale. La manovra da 24 miliardi toglierà 10 miliardi agli enti locali per i malumori dei leghisti e i conseguenti timori di un Berlusconi che teme ripicche in salsa padana. Ripicche che, a sentire Bricolo, sono già in atto. Dura tegola per un presidente del consiglio già alle prese con la minoranza finiana, la stessa che sul ddl intercettazioni ha già espresso più di qualche riserva e più di qualche critica. Berlusconi sa che il polverono alzato dalla bozza in discussione al Senato ha inciso sull'indice di gradimento dell'esecutivo e vuole evitare che un'eventuale ripercussione per questo provvedimento possa fornire ai finiani l'occasione per dire "l'avevamo detto". Insomma, Berlusconi ha allo studio una strategia che vorrebbe un voto proprio al Senato - per non mostrare segni di ripensamento e quindi di debolezza - per passare la patata bollente alla Camera dove lasciarlo naufragare o riprenderlo in un altro momento. Allarme rientrato? Forse. Del resto i tabù non si infrangono in un giorno solo: prima di infrangerli si discute di una lora rottura. Che è quello che ormai accaduto.

Tuesday, 25 May 2010

«Vogliono zittirci»

Anche Vittorio Feltri contro la legge bavaglio. Il giornalista berlusconiano non ci sta: «la stampa non è il custode della segretezza».

di Emiliano Biaggio
Il ddl intercettazioni è «pericoloso per la democrazia e non solo per la nostra categoria». Lo afferma il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, secondo cui la legge «non ha come scopo di scongiurare gli abusi nella pubblicazione dei testi delle intercettazioni, ma esprime insofferenza per la libertà di stampa che dovrebbe preoccupare tutti». Per de Bortoli se l'obiettivo del ddl ancora in itinere fosse solo quello di tutelare la privacy, «le parti coinvolte nei procedimenti giudiziari potrebbero accordarsi sul non depositare negli atti i passaggi delle intercettazioni non rilevanti ai fini del procedimento». Ma a bocciare il provvedimento della maggioranza non è solo de Bortoli, voce da sempre critica nei confronti di Berlusconi. A dire "no" al ddl intercettazioni anche Vittorio Feltri, giornalista e uomo vicino al premier da sempre ma dal quale prende le distanze adesso, dopo aver letto il contenuto del disegno di legge. Feltri - direttore del Giornale, il quotidiano della famiglia Berlusconi e vicino alle posizioni del governo - denuncia «l’intenzione di metterci nell’angolo e zittirci». In tema di riservatezza, «basterebbe imporre ai pm di trattare solo le intercettazioni con rilevanza penale e distruggere tutto il resto». Inserire negli atti "il superfluo", quanto cioè non serve ai fini d'indagine, «è un invito a nozze per la stampa, che non è il custode della segretezza e a cui non spetta il compito di fare la cernita». Feltri, come suo solito non le manda a dire, ma al contrario lancia messaggi chiari: il primo è che la stampa «non è il custode della segretezza». Tradotto, la stampa è libera. Libera di riportare, per dovere di cronaca e d'informazione, tutto quanto può essere utile ad una più ampia e completa informazione. Secondo messaggio: se determinate frasi vengono riportate è per responsabilità dei magistrati. Qui però Feltri rischia di fornire ulteriori scuse di intervento a chi da sempre attacca - oltre che la stampa - anche la giustizia. Terzo messaggio di Feltri: Berlusconi e la sua squadra intendono zittire i mezzi di informazione. Eccolo il bavaglio, visto e denunciato anche da chi è pagato dalla famiglia Berlusconi. Anche Feltri dice "no" alla legge bavaglio.

Friday, 21 May 2010

(dal Corriere della Sera del 21 maggio 2010)

Tutti contro la legge bavaglio

Editori, frange della maggioranza, esponenti dell'imprenditoria e anche il governo americano contro il ddl intercettazioni.

di Emiliano Biaggio

Dalla maggioranza una timida marcia indietro sul ddl intercettazioni: spariranno le sanzioni salatissime (i 60 giorni di carcere per i giornalisti e le supermulte), ma resteranno quelle salate ("solo" 30 giorni di carcere e multe elevate nell'ordine di migliaia di euro rispetto ai 252 attualmente previsti per legge). Un provvedimento che non basta: non basta all'opposizione, con il leader dell'Idv Antonio Di Pietro secondo cui «è l`ennesimo tentativo di mercanteggiamento del venditore ambulante Silvio Berlusconi che limitandosi soltanto a togliere la pena ai giornalisti, cerca di comprarne il favore. Ciò nel tentativo disperato di evitare che monti la critica e che quindi l`opinione pubblica venga a conoscenza di quello che c`è di illegale e di immorale nel provvedimento». Non basta agli editori: l'Aie (Associazione italiana editori) parla di una «ingiustificata limitazione dela libertà di stampa», mentre la Federazione italiana editori giornali (Fieg) esprime «contrarietà e preoccupazione». Il dietro front Non basta ai giornalisti, che minacciano lo sciopero nazionale. «Questa legge- denuncia il segretario della Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi) Franco Siddi- rende le notizie di cronaca un crimine e punta a nascondere, vietandone ogni notizia, le malefatte dei corrotti e i crimini più odiosi contro le persone. Manda invece in galera i giornalisti, strangola, con le multe, gli editori, chiude in camera blindata le informazioni». «Grande preoccupazione» la nutre pure Sky Italia, secondo cui queste norme «rappresentano un grave attacco alla libertà di stampa e di espressione, ma soprattutto costituirebbero una grande anomalia a livello europeo». Il gruppo di Rupert Murdoch è pronto a rivolgersi a tutte le sedi competenti in Europa, nche alla Corte europea dei diritti dell'uomo. «Condivido» dice Luca Cordero di Montezemolo, più vicino a Fini che a Berlusconi. E i finiani Fabio Granata e Italo Bocchino dicono la propria: per il primo bisogna «salvaguardare il doppio binario sulle indagini di mafia, allargarlo ai reati collegati e non bloccare la possibilità delle intercettazioni ambientali»; per il secondo gli abusi delle intercettazioni vanno puniti, ma il provvedimento «contiene alcuni aspetti su cui forse è bene discutere ancora». In particolare, precisa Bocchino, «ritengo che sia una forzatura vietare di parlare del tutto di un'inchiesta fino alla chiusura dell'indagine preliminare». Per il Pd questo ddl «censura la libera stampa», ed è quindi «inaccetabile». Persino il governo degli Stati Uniti interviene sulla questione: il sottosegretario al Dipartimento penale statunitense, Lanny A. Breuer, definisce «essenziali» le intercettazioni. «Quello che non vorremmo mai è che succeda qualcosa che impedisca ai magistrati italiani di continuare a fare l'ottimo lavoro svolto finora», afferma. Insomma, a quanto pare questo disegno di legge sia accolto con favore - e nell'interesse - di pochissimi. Forse addirittura di uno solo.

Wednesday, 19 May 2010

Divieto di stampa

Multe e carcere per le "pubblicazioni facili": ecco il ddl intercettazioni

l'e-dittoreale
Non si potranno più fare riprese televisive di un processo senza che ci sia il consenso di tutte le parti interessate; chiunque pubblichi intercettazioni di cui sia stata ordinata la distruzione o che risultino estranee alle indagini potrà essere punito con il carcere da 6 mesi a 3 anni; chiunque riveli indebitamente notizie che riguardano atti o documenti del processo coperti da segreto rischia il carcere da 1 a 6 anni; dare immediato avviso al Vaticano se un pubblico ministero intercetta un uomo di chiesa. Questi alcuni dei provvedimenti previsti dal ddl intercettazioni ancora in itinere ma prossima all'approvazione. Passa il cosiddetto "emendamento D'Addario' che vieta la registrazione delle conversazioni e delle riprese se non vi è il consenso delle parti interessate: pena prevista in caso di infrazione, fino a 4 anni di carcere. Ancora, in caso di pubblicazione arbitraria di indagini e intercettazioni prima dell'udienza preliminare, gli editori dovranno pagare una multa dai 64.500 ai 464.700 euro. I giornalisti, invece, rischiano una condanna fino a 2 mesi di carcere o un'ammenda da 2.000 a 10.000 euro per la pubblicazioni degli atti anche per riassunto; una sanzione fino a 2 mesi di carcere e un'ammenda da 4.000 a 20.000 euro per la pubblicazione delle intercettazioni. Inoltre, è prevista la sospensione temporanea dalla professione. I provvedimenti sono stati votati in commissione Ambiente del Senato, e a breve potranno ottenere il via libera dall'Aula di palazzo Madama. Berlusconi aveva promesso di voler stringere, l'ha fatto: ha serrato le fila, corso contro il tempo e ristretto - per non dire stritolato - stampa e libertà di stampa. Deterrente economico agli editori, che pur di evitare di pagare multe salate non esiterebbero a dettare linee editoriali "soft"; pericolo carcere, multe elevate e sospensione dell'attività per i cronisti, in una mossa che in un mercato del lavoro all'insegna della precarietà e in un contesto di crisi metterebbe in seria difficoltà chiunque. Se le intercettazioni erano un problema, adesso non lo saranno più. Per chi ha voluto queste disposizioni. Berlusconi in prima persona, per intenderci: il premier ha voluto uno strumento normativo che lo mettesse al riparo dalla giustizia e dal suo corso, e con sè quanti lo affiancano. Un pensiero va alla questione degli appalti, che ha già investito Scajola e Bertolaso e che sta investendo Matteoli. E poi, quel dover riferire alla Chiesa: certo, si tratta di un altro stato, indipendente e sovrano, ma si tratta di un altro potere forte. L'impressione è che si voglia tutelare il potere, la certezza è che si vuole legare le mani a chi scrive e tappare la bocca a chi può raccontare. I giornalisti minacciano lo sciopero, ma appare difficile credere che una simile azione possa sortire degli effetti utili: per chi vuole il silenzio, giornali non in edicola e tg non in onda non fanno che accrescere il senso di compiacimento e di autocompiacimento. uno sciopero va a tutto vantaggio di chi ha creato le condizioni perchè si verifichi. In tutto questo si prevede il ridimensionamento del valore delle dichiarazioni dei pentiti di mafia: un pensiero va a Spatuzza. O Fonti, che ha svelato alcuni retroscena del fenomeno delle navi dei veleni, dove più governi avrebbero avuto un ruolo attivo. Se il diritto d'informazione esce ridimensionato e più indebolito, il governo appare più delegittimato davanti alla democrazia - ammesso ci sia - e alla Costituzione. Gli italiani invece o non sanno o non si espongono in prima persona. Stiano tranquilli: anche se dovessero dire la propria, tanto non lo riporterebbe alcun mezzo d'informazione.

Tuesday, 18 May 2010

L'Iran non tratta con l'occidente. Che sanziona.

Sul nucleare non basta un'intesa a tre con Turchia e Brasile, i "grandi" prendono nuovi provvedimenti nei confronti della repubblica islamica.

di Emiliano Biaggio

Un piano salutato con soddisfazione da chi l'ha proposto e sottoscritto, un progetto accolto con riserva e scetticismo - e poi con nuove sanzioni - da chi questo piano non ha saputo portarlo al tavolo delle trattative e, soprattutto, non ha avuto il piacere di vederlo firmato. L'accordo sul nucleare iraniano voluto da Brasile e Turchia e accettato dalla repubblica islamica unisce e divide: unisce tre paesi in un'alleanza insolita, che sancisce l'esistenza di un polo politico alternativo ai canali della diplomazia mondiale e al modello internazione. Divide, perchè Unione Europea, Stati Uniti e Onu vengono fatti fuori per una coppia di attori sullo scacchiere internazionale - Turchia e Brasile - non schiacciate sulle logiche di chi questo ordine globale l'ha costruito e finora gestito. L'Iran, di fatto, fa "uno sgarbo" a quanti volevano nuove sanzioni, ma Ahmadinejad lancia un messaggio chiaro: Teheran non tratta con l'occidente. L'intesa sul nucleare (l'Iran invierà 1.200 chili del suo uranio leggermente arricchito per ottenere combustibile per il reattore a fini medici di Teheran), se segna un'affermazione netta di Lula ed Erdogan - il primo che chiede seggi permanenti all'Onu senza ottenerli, il secondo che ha accettato condizioni dure per poi non entrare in Ue - dall'altra segna la sconfitta dell'intera comunità internazionale, alla quale il regione degli ayatollah ha voluto impartire una severa lezione. Peccato, però, che l'Iran non abbia saputo fermarsi e godersi questo smacco: facendo sapere che nonostante l'intesa raggiunta e sottoscritta continuerà lo stesso ad arricchire da sè l'uranio, ha offerto alla comunità internazionale l'occasione per continuare a nutrire dubbi e sospetti: pur riconoscendo la firma dell'accordo come un passo avanti, per Unione europea e Stati Uniti "Non risponde a tutte le inquietudini". Riserve arrivano anche dalla Russia: per il presidente Dmitri Medvedev "Sorge la domanda, se sia sufficiente il livello delle operazioni concordate e se possa soddisfare tutta la Comunità internazionale". Un problema, questo, per l'Iran: non ha il pieno appoggio di un paese chiave nelle relazioni di Teheran e con potere di veto in consiglio di sicurezza dell'Onu: e propria l'Onu ha smorzato gli entusiasmi dei tre paesi sottoscriventi: al palazzo di vetro hanno definito l'accordo "incoraggiante", ma Teheran dovrà ugualmente allinearsi con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza che hanno più volte chiesto all'Iran di sospendere il suo programma di arricchimento dell'uranio. Ecco allora la doccia fredda: il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, annuncia che "abbiamo lavorato strettamente con i nostri partner del Gruppo dei Sei su una bozza di risoluzione per delle nuove sanzioni contro l’Iran, e sono felice di poter dire che abbiamo raggiunto un accordo su una bozza forte, con la cooperazione di Russia e Cina". La comunità internazionale si riprende la rivincita nei confronti dei governi di Brasilia e Ankara - tornando a relegare ai margini i due paesi - e rispedisce al mittente iraniano lo smacco: se Teheran non vuole negoziare con l'occidente, l'Occidente risponde dicendo che si fa a modo loro. Voi l'accettereste? Gli iraniani sicuramenti no. Insomma, si pongono le condizioni per nuovi stalli, dopo che sembravano superate. La diplomazia, alla fine, perde ancora.

Monday, 17 May 2010

I lavori parlamentari? Un'ordine del giorno su due resta lettera morta

Ordini del giorno, mozioni, risoluzioni: che fine fanno, che seguito hanno? In Parlamento ne vengono presentati e votati in quantità notevole, ma troppo spesso questi atti di indirizzo e di controllo, queste sollecitazioni al governo a impegnarsi per trovare una soluzione, per avviare una procedura, per intervenire su questa e quella questione rimangono lettera morta. Già, perchè poi quelle sollecitazioni dovrebbero trovare attuazione, ma non sempre è così, anzi. Dall’inizio della legislatura il dicastero maggiormente adempiente alle attuazioni trasmesse è stato il ministero della Difesa, che ha dato seguito a 63 atti indirizzo su 94 segnalati, con una percentuale del 67%. Seguono il ministero degli Affari esteri con 83 atti attuati su 154 (percentuale di attuazione del 54%), il ministero dell’Interno, con 101 attuati su 200 (con una percentuale del 51%), e il ministero per i Rapporti con le regioni con 24 atti attuati su 48, con una percentuale del 50%. Ma ci sono dicasteri che esibiscono percentuali quasi raso terra: ad esempio la percentuale di attuazione del ministero dei trasporti e delle infrastrutture, dall’inizio della legislatura al 31 marzo di quest’anno, e’ stata di appena il 10% (27 su 273 atti di indirizzo), un po’ meglio il ministero della salute, con il 12% (11 note di attuazione, a fronte di 91 atti di indirizzo). Al di sotto del cinquanta per cento anche i ministeri guidati da Brunetta (41%, 28 note di attuazione, a fronte di 68 atti di indirizzo) e da Sacconi (42%).

Saturday, 15 May 2010

Blog e siti internet, prime limitazioni

Passa al Senato un emendamento al ddl sulle intercettazioni che prevede multe per oltre 10.000 euro, che non tutti i gestori di pagine web sono in grado di sopportare.

di Arturo di Corinto (AdnKronos)

E così siamo arrivati alla museruola per blog e affini. Dopo le proposte legislative volte a impedire la denuncia del racket in maniera anonima sui blog antimafia, dopo quella di trasformare i provider in sceriffi di Internet contro il peer to peer sapendo che la crisi della musica non dipende da quello, dopo le proposte di cancellare il passato scottante che riemerge grazie ai motori di ricerca, invocando per politici e imprenditori il diritto all’oblio, dopo l’intervento sull’inasprimento delle sanzioni per la diffamazione a mezzo Internet, il governo vuole una nuova legge anti-Internet. Nel Ddl intercettazioni in discussione in questi giorni presso la Commissione Giustizia al Senato c’è in infatti una norma che è passata sotto silenzio a causa dell’enormità di tutte le altre – forti limitazioni e sanzioni all’uso delle intercettazioni per la stampa – ed è l’articolo 28 del disegno di legge 1611 che, ripescato dalla legge sulla stampa dell’8 febbraio del 1948, la aggiorna e la applica anche all’informazione amatoriale su Internet. Che cosa dice questa norma? Che “Per i siti informatici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”. E aggiunge con una serie di specifiche in legalese che i contravventori alla norma saranno punti con una multa salatissima.
Molti blogger si sono allarmati per questo articolo e l’hanno fatto sapere manifestando in piazza Navona a Roma il luglio scorso, e ad ottobre con la Fnsi, perché è in gioco la possibilità stessa di fare informazione e comunicazione per il puro piacere di farlo. Ed è in gioco quel stesso pluralismo informativo cui il web 2.0 oggi fortemente contribuisce. Ovviamente la norma non riguarderebbe solo i blog, visto che i termini “siti informatici, telematica e informatica” usati nel dispositivo sono tanto generali da comprendere ogni forma di espressione digitale.
E perché si sono preoccupati? Forse per gli aspetti materiali? Certo. Senza rettifica entro le 48 ore si è passibili di una multa fino a 12.500 euro. E la rettifica è possibile, e facilmente, per il blogger che gestisce in proprio la piattaforma: ma se le 48 ore cadono nel weekend? Se si trova sulla vetta dell”Himalaya, se il provider risulta inaccessibile, se si è ammalati? Gli scenari sono due: o il blogger, gestore di un sito, non pubblica più la notizia che non ha verificato e chiude il sito e la possibilità di animarlo e commentarlo, oppure no, a dispetto del rischio di denuncia perché la notizia è importante e così pure la possibilità per tutti di commentarla, integrarla, approfondirla. Ma se il gestore di un blog o di una piattaforma di open publishing non ha le risorse per pagare la multa e per difendersi a lungo in tribunale, pubblicherà la notizia e lascerà il so blog aperto ai commenti? Il problema qui non è del singolo “blogger di provincia”, uno dei quarantamila attivi in Italia, ma di siti come Wikipedia che sono diventati una fonte alternativa e preziosa d’informazione soprattutto per notizie d’archivio e che come il caso Angelucci (che ha querelato i responsabili) ha dimostrato, sono quelli più a rischio per questo comma.
Il meccanismo che si vuole attivare con questa norma è lo stesso che regola le controversie sui brevetti: anche chi sa di avere ragione, rinuncia ad affermare il proprio diritto e talvolta si accorda fuori della aule di tribunale se può, perché sa che si trova in uno stato di inferiorità rispetto a chi può pagare gli avvocati migliori. Il carattere intimidatorio dell’articolo è evidente. Ma la dimensione più importante di questa norma, è di carattere simbolico e culturale: in definitiva si sta dicendo di voler equiparare un blogger a un giornalista professionista, un sito a una testata registrata, senza però dargli le garanzie di legge e i finanziamenti pubblici che molti giornali e testate hanno. D’ora in avanti chiunque avrà timore di pubblicare un’informazione se non verificata e non dimostrabile nell’immediato, su un camorrista, un politico colluso, una violenza subita. Il vox populi scomparirà e con esso ciascun Pasquino di buona volontà. E’ cosi che si scivola verso il conformismo e l’autocensura. In un paese dove a causa dell’anomalia di un capo del governo che è anche il maggiore editore del paese, sono spesso i comici a spiegare le leggi contorte del governo, i semplici cittadini a difendere la Costituzione, i siti indipendenti a denunciare le illegalità, non ci possiamo proprio permettere di perdere la voce dei senza voce.

Tuesday, 11 May 2010

Giddens: «Alla globalizzazione servono regole»

Il sociologo e politologo britannico denuncia le carenze dell'ordine economico-finanziario mondiale, ed esorta il completamento della costruzione dell'Unione europea.

di Emiliano Biaggio
«La globalizzazione dei mercati non è stata accompagnata dalla globalizzazione delle regole, dei controlli, delle politiche finanziare. Anzi, i singoli Stati tendono a fare da sé». E in tutto questo incide il fatto che «la costruzione europea è in ritardo». Parole di Anthony Giddens - padre di quella "terza via" che si colloca tra socialismo e liberismo - secondo cui è giunto il momento di rivedere tutti i meccanismi del modello occidentale. «La Terza Via- afferma- è un nuovo modo di regolare i rapporti tra mercato, società e Stato». Per cui «se cambia la situazione, cambiano le regole». Un chiaro riferimento al contesto economico-finanziario generale e alla situazione greca in particolare. «La Grecia non è un caso isolato», avverte Giddens. «Tutti i Paesi mediterranei, inclusa l'Italia, sono entrati nell'euro senza fare le riforme strutturali necessarie a rafforzare le loro economie». Il sociologo e politologo britannico torna dunque a "tracciare la via": riforme dei mercati, nuove regole economico-finanziarie e anche nuovi assetti istituzionali. «Il futuro non è certo nel ritorno allo Stato padrone e spendaccione; semmai è nella riforma dello Stato». La ricetta di Giddens non è di quelle semplici, perchè presuppone e richiede cambiamenti radicali di un interno modello le cui disfunzioni sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta, in sostanza, di dover riscrivere l'intero sistema occidentale: ma le poche elitè che si arricchiscono con le crisi e i paesi adesso cresciuti e ancora in crescita - e quindi con forte peso internazionale - accetterebbero un simile cambio di rotta? Difficile. Su tutti, un pensiero va alla Cina: ideologia e assetto socialista, economia di mercato con regole di mercato. Se vogliamo "una terza via", comunque a metà strada tra due modelli mai compatibili e oggi lontani. Quello asiatico è forse il paese che più di tutti ha saputo sovvertire l'ordine economico (e quindi politico) internazionale, e non vi rinuncerà di certo. Gli Stati Uniti fanno fatica ad uscire dalla recessione, ed ecco allora che l'attore che più di tutti potrebbe favorire quel cambiamento auspicato dal Giddens diventa l'Europa. L'Unione europea, critica il politologo è «già di per sé in grave difficoltà», ma «al vertice di Copenagen sul cambiamento climatico è timasta ai margini». Ecco i motivi per cui servono interventi condivisi, e servono subito. Il perchè Giddens lo dice chiaramente: «Il rischio di una catastrofe del sistema finanziario internazionale non è affatto scongiurato».

Saturday, 8 May 2010

Quando l'interesse personale prevale sulla ragion di Stato

Un ministro che si dimette, un sottosegretario che si difende e la certezza che qualcosa di nuovo succederà. "La cricca" degli appalti che scuote il governo e mostra un'Italia corrotta, avida ed egoista.

l'e-dittoreale
Appalti, tangenti, riciclaggio di denaro, regali e favori, forse anche sesso. Quello che sta investendo la classe politica italiana è una vera e propria furia degna di un fiume in piena. E questo fiume in piena ha sfondato i primi argini e provocato le prime pesanti conseguenze di un'inondazione che non si capisce di quale entità potrà essere e quanto potrà essere devastante. L'impressione è che la forza d'urto sarà dirompente: le indagini sugli appalti dei grandi eventi e sul G8 hanno portanto alla luce un vero e proprio "sistema". Anemone e soci - "la cricca", come sono stati ribattezzati - sembra avevano le mani in pasta in tutti quei settori dove l'affare era sicuro. L'Aquila, la Maddalena, Roma. E i clienti - forse soci - tutti esponenti di spicco: Claudio Scajola, Guido Bertolaso, Gianni Letta, Denis Verdini. Tutti nomi altisonanti, tutti soggetti comparsi a più ripresi nell'intero filone di indagini, quello principale e quelli paralleli. In uno di questi è finito - in tutti i sensi - Claudio Scajola, dimessosi da ministro pur - al momento - non essendo incriminato. Una vittima eccellente di una classe politica e di un governo sempre più invischiati in un torbido affare. Ma se le dimissioni di Scajola lasciano col fiato sospeso e con mille interrogativi, non meno strana appare la difesa pubblica e in diretta di Bertolaso. Di fatti gioca d'anticipo: dice chiaramente che l'inchiesta andrà avanti e allora offre quelle spiegazioni mai date finora. Vuole tirarsi fuori da un pantano dove al momento c'è dentro fino al collo (gli inquirenti sospettano abbia ricevuto una mazzetta: «Pare sospettino 50 mila euro», ammette lo stesso Bertolaso). Lui ma non solo: c'è Denis Verdini, coordinatore del Pdl, incriminato in un altro filone collegato alle indagini principali; c'è Scajola, come detto; ma c'è anche Pietro Lunardi, ex ministro delle Infrastrutture, a sottolineare come il "sistema" non è storia di oggi. Ancora, un ruolo centrale sembra averlo Evaldo Biasini, don Evaldo detto "Don bancomat", a sottolineare il ruolo del prelato. A quanto pare a sua disposizione il sacerdote aveva una sorta di tesoretto: Anemone avrebbe ricevuto alcuni appalti dalla Congregazione e, a lavori ultimati, anziché riscuotere il dovuto, lasciava il denaro nelle mani di don Evaldo che, a richiesta, ridistribuiva le somme a vari personaggi. Ancora, compare il nome di monsignor Francesco Camaldo, assistente del Papa. Uno che conta, eccome, negli ambienti vaticani. «Probabilmente non fu lui ad introdurre Balducci in Vaticano», fa sapere la Santa Sede. «Probabilmente». Ancora dubbi per un quadro a tinte fosche che va oltre a Tangentopoli: allora la politica alimentava e finanziava sè stessa, ora sembra che sia diventata il mezzo per permettere a tanti singoli di fare i propri affari personali a scapito di tutti e tutto. E' la fine della ragion di Stato per l'apoteosi dell'interesse personalistico, che in nome dell'utile non esita a creare corsie preferenziali, ad aggirare leggi e sovvertire valori. Diritto ed etica: a soccombere, sotto il peso di una classe dirigente corrotta, sono loro. Il governo, per ora, regge. Qualcuno già si chiede per quanto ancora. Attenzione, però: perchè se è vero che in questo ambiente di politici che fanno delle istituzioni le sedi propri affari c'è Silvio Berlusconi al primo posto, lui imprenditore da sempre, è vero anche che ci sono Luigi Zanda, Raffaele Ranucci, Roberto Della Seta, Emma Bonino, Vannino Chiti, Vincenzo De Luca, Francesco Ferrante, Daniela Mazzucconi, Claudio Molinari, Emanuela Baio. Tutti esponenti del Pd, che in Senato hanno votato un emendamento della maggioranza per cancellare quel passaggio del decreto per la Protezione civile spa dove si legge «Al fine di assicurare risparmi di spesa, compromessi e clausole compromissorie inserite nei contratti stipulati per la realizzazione d'interventi connessi alle dichiarazioni di stato di emergenza sono nulli». Questo per evitare che somme richieste nei progetti degli imprenditori e tagliate dalla Protezione civile venissero in seguito impegnate (e recuperate) in sede di arbitrati. Tradotto: aiuti alle imprese e agli imprenditori, in una conferma ulteriore di connivenze, favori e malcostume diffuso. Che non fa certo l'interesse e il bene del paese.

Friday, 7 May 2010

Bertolaso: «Contro di me accuse infondate»

G8 e grandi eventi, il capo della Protezione si difende. «Anemone non l'ho scelto io, le indagini andranno avanti a lungo»

di Emiliano Biaggio

«Sognavo di poter commentare l'archiviazione o lo stralcio di questa nota vicenda, nell'arco di qualche settimana o qualche mese, ma mi rendo conto che questa indagine è destinata a protarsi nel tempo». Guido Bertolaso dopo due mesi ritorna sulla vicenda degli appalti truccati e dei grandi eventi, filone di indagini che lo vede coinvolto ad altri esponenti della maggioranza. Dopo le dimissioni di Claudio Scajola per un presento riciclaggio di fondi neri riconducibili a Diego Anemone, il capo della Protezione civile convoca la stampa per raccontare la sua verità dei fatti. Bertolaso contesta «i riferimenti fatti continuamente al G8 e alla Protezione civile per una serie di vicende che non hanno nulla a che fare con quello che abbiamo realizzato alla Maddalena». Nel difendere le scelte assunte del Governo su vertice dei "Grandi 8" («giusto spostarlo all'Aquila», dice), Bertolaso sostiene chiaramente che «nessuna delle imprese coinvolte in questa vicenda ha avuto appalti a l'Aquila: Anemone è venuto diverse volte all'Aquila, ma non ha avuto nessuna appalto». Ad ogni modo Anemone «non l'ho scelto io». Quanto a Balducci, «con me è sempre stato un gentiluomo corretto, non ho mai avuto ragione di dubitare di lui. Ogni volta che abbiamo fatto un lavoro insieme lui ha fatto presto e bene». Poi aggiunge: «Confermo la mia totale fiducia nella magistratura». Bertolaso spiega sua conferenza stampa con il suo voler «chiarire, spiegare, commentare, valutare e verificare» l'intera vicenda, che lo riguarda da vicino. Lui spiega, ma non riesce a chiarire, anzi. La sua conferenza stampa suona di difesa, quasi a voler mettere le mani avanti su qualcosa che potrebbe accadere dopo quanto le indagini sugli appalti ha già provocato. E il Partito democratico se ne accorge: «E' del tutto inusuale l'uso privato degli incarichi e degli spazi istituzionali», sottolinea la deputata Sesa Amici. «Bertolaso- aggiunge- dovrebbe sapere che ci sono i tribunali, quella è la sede propria in cui ci si difende». E Bertolaso sembra fare proprio questo: difendersi e prendere le distanze. «Credo di aver dimostrato che tutte le accuse siano frutto di equivoci», dice. Insomma, lui in tutta questa inchiesta non ha niente a che vedere. E lo scandisce a chiare lettere: «Nessuna casa mi è stata affitata o comperata». Il riferimento a Claudio Scajola è limpido: all'ex ministro dello Sviluppo economico viene contestato l'acquisto del suo appartamento a Roma con soldi che proverrebbero da Anemone. Le parole di Bertolaso hanno il sapore di autodifesa e di accusa, accusa ai colleghi di sempre e a compenenti della squadra di quel governo di fa parte in qualità di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Un vice di Berlusconi, per intenderci. Quel Berlusconi che non ha fatto mistero di non aver gradito e di non gradire che giornali e mezzi d'informazioni parlino di questa vicenda. «Ho chiesto questa mattina al presidente del Consiglio di poter fare questa conferenza stampa e sono stato autorizzato», continua ancora Bertolaso. Logico che il premier abbia detto "sì": questa inchiesta ha travolto il suo intero governo, e a sentire Bertolaso sembra che non sia affatto finita. L'impressione è che il governo, traballante per la perdita di un ministro, tremi. Il nervosismo è palpabile: Berlusconi nei giorni scorsi ha parlato di congiura contro l'esecutivo, salvo fare marcia indietro. Nè Fini nè la Lega hanno avallato le posizioni del premier, che ha dovuto correggere. «Mai parlato di congiure», ha detto. Intanto però Bertolaso si difende. A titolo personale e della Protezione civile. Ma anche a titolo di funzionario e componente di Governo.

Bufera sul governo, via Scajola

Il ministro dello Sviluppo economico lascia per l'acquisto della sua casa romana, comprata - sembra - con fondi neri riconducibili ad Anemone.

di Emiliano Biaggio
Claudio Scajola si è dimesso: il ministro per lo Sviluppo economico ha rimesso il proprio mandato dopo lo scandalo che lo vede coinvolto nell'acquisto dell'appartamento con vista Colosseo a Roma. E' accusato di aver pagato di tasca propria solo un terzo della cifra complessiva, mentre il resto lo avrebbe pagato con fondi neri riconducibili ad Angelo Zampolini, l'architetto amico di Diego Anemone già iscritto nel registro degli indagati nel filone d'inchiesta sugli appalti truccati e i grandi eventi. Un filone d'indagine che già aveva visto i nomi di esponenti della maggioranza e del governo, Gianni Letta e Guido Bertolaso. Per Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, «le dimissioni del ministro Scajola erano un'atto dovuto. Il problema- sostiene- è un altro: perchè non si dimette il capo della Protezione civile Guido Bertolaso?». Il Pd invece si limita a commentare le dimissioni di Scajola: «Una scelta giusta», le definisce Pier Luigi Bersani. «Mi pare- aggiunge- che le cose che Scajola ha detto fin qui non sono convincenti per nessuno. Se non ha nient'altro da aggiungere, mi pare inevitabile che Scajola rassegni le dimissioni». Scajola, in tutta questa vicenda, si dice innocente. Cade quasi dalle nuvole, quando gli dicono che quell'appartamento è stato pagato con 80 assegni circolari per un totale di 900.000 versati alle vecchie proprietarie dell'immobile, le sorelle Beatrice e Barbara Papa che il 6 luglio 2004 cedettero la casa proprio a Scajola. «Per l’acquisto della casa- sostiene Scajola- ho versato solo la somma pattuita di 610mila euro. Degli assegni firmati dall’architetto Angelo Zampolini non so nulla. Con lui non ho rapporti personali. Anzi non mi ricordo nemmeno se e quando l’ho conosciuto». E poi, sottolinea ancora Scajola, «nessuno mi accusa di nulla, perché io non sono indagato. Le uniche cose che so sono solo quello che leggo sui giornali». Ma se il ministro dello Sviluppo economico prima si dice estraneo alla vicenda, prima torna in fretta e furia da Tunisi dov'era in missione per conto del governo, quindi convoca una conferenza stampa per annunciare le proprie dimissioni. Modi fare e messaggi che danno la misura della vicenda - a questo punto non più solo personale ma soprattutto politica - e della posizione di Scajola. «Per difendermi- dice annunciando l'uscita dall'esecutivo- non posso continuare a fare il ministro come ho fatto in questi due anni. Mi trovo esposto ogni giorno a ricostruzioni giornalistiche contraddittorie. E in questa situazione che non auguro a nessuno, io mi devo difendere». Difendere da quanti sostengono che faccia parte della spirale politica-imprenditoria, tangenti e appalti truccati. Alla base della sua decisione gli sviluppi dell'inchiesta della procura di Perugia sui grandi eventi e l'acquisto di un attico di 180 metri quadri dichiarato costato 610 mila euro ma che sembra essere costato 900 mila, con soldi arrivati a Scajola dal costruttore Anemone, imprenditore poi beneficiato dalle commesse pubbliche e indagato nell'inchiesta di Perugia. «Le mie dimissioni- sostiene Scajola- permetteranno al governo di andare avanti». Di diverso avviso il segretario del Pd Bersani, secondo cui «la situazione è davvero molto intricata, paludosa e confusa». Questo non solo per le dimissioni un ministro, ma perchè insieme a quello stesso ministro altri esponenti della maggioranza compaiono in indagini su politica e malaffare. Non solo: le dimissioni di Scajola, ricorda Bersani, «avvengono in un momento in cui emerge una conclamata empasse politica della maggioranza». Questo lo sa bene il presidente del consiglio: Silvio Berlusconi se da una parte già pensa a Paolo Romani come nuvo titolare del dicastero di via Veneto mentre lo ricopre ad interim, dall'altra vede aprirsi un'altra nuova falla all'interno del suo Pdl: dopo Fini e i finiani che lanciano i circoli di generazione italia al termine di un faccia a faccia teso con il presidente della Camera, adesso il premier perde un componente del proprio governo. Come se non bastasse il coordinatore del Pdl Denis Verdini finisce indagato sempre per i grandi eventi e la Lega preme per il federalismo. Berlusconi sempre più in difficoltà, dunque, con ripercussione in termini di consensi e immagine. La sintesi di quanto sta accandendo la offre Bersani: «Siamo in presenza di una vera giostra di Stato: appalti secretati, pubblici ufficiali corrotti, soldi trasferiti illegalmente all'estero e poi, a quanto pare, ripuliti con lo scudo fiscale».

(editoriale della puntata del 30 aprile 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti.)

Thursday, 6 May 2010

L'ombra di uno stato sciita sull'Iraq

Il paese va verso la costituzione di un unico blocco confessionale. Che potrebbe fare dell'Iraq un secondo Iran.

di Emanuele Bonini - In Iraq si riconteggiano i voti: dopo delle elezioni contestatissime, a due mesi dalle consultazioni per rinnovare il Parlamento, l’Alta commissione elettorale chiede ulteriori verifiche sulle schede. Il 7 marzo scorso dalla urne era uscito un paese diviso in due, con il partito di Iyad Allawi (Iraqiya) che aveva 91 seggi, e quello di Nuri Al-Maliki (Stato di diritto) che ne aveva racimolati 89. Numeri che di fatto avevano consegnato il paese all'ingovernabilità per l'impossibilità di formare esecutivi autonomi e creare maggioranze parlamentari compatte. Adesso il riconteggio fa sperare l'una e l'altra parte di poter uscire da questa situazione, non congeniale per nessuno. Ma nelle logiche politiche alleanze e coalizioni non sono mai solo idee astratte: ecco allora che Stato di diritto e Alleanza nazionale irachena (Ina- Iraqi National Alliance, che riunisce i partiti sciiti di ispirazione più chiaramente settaria, come il Siic- Supremo Consiglio Islamico Iracheno guidato da Ammar al-Hakim e la corrente di Muqtada al-Sadr, il partito Fadhila) - principali partiti sciiti del paese - si sono accordati per formare un unico blocco parlamentare, aprendo quindi la strada alla formazione di un nuovo governo. Questa Alleanza, se i numeri dovessero essere confermati, permetterebbe ai due partiti di avere, insieme, 159 deputati. Una quota di seggi molto vicina ai quei 163 necessari per avere una maggioranza qualificata per la formazione di un esecutivo. Secondo le leggi irachene 163 è la quota in parlamento per poter considerare vincitore uno schieramento. «Abbiamo superato buona parte delle divergenze e ora ci prepariamo a definire l’alleanza di governo», ha affermato il deputato di Alleanza nazionale irachena, Abdel Razzaq al-Qathimi. Una mossa, quella dei due partiti sciiti, che se concretizzata, permetterebbe di relegare all'opposizione di Iyad Allawi ma soprattutto darebbe vita ad un'amministrazione tutta sciita che renderebbe più appetibili ipotesi di avvicinamenti all'Iran, repubblica islamica e sciita. Forse, vale la pena sottolineare, perchè Nuri al-Maliki è sì sciita ma non particolarmente ben visto a Teheran, per via del suo ruolo ricoperto nella politica irachena a fianco degli Stati Uniti. Insomma, all'Iran un esecutivo sciita potrebbe andar bene (al-Maliki è uno e si può aggirare, e questo a Teheran lo sanno), mentre le forze di coalizione temono per un ipotetico governo confessionale anche se preferibbero "l'alleato" al-Maliki. E' lui, va ricordato, ad aver tentato - nell'interesse delle compagnie petrolifere straniere - di promuovere in ogni modo la legge sul petrolio che poi il suo alleato numero uno nella coalizione Stato di dritto, il ministero del Petrolio Hussein Sharistani, ha implementato privatizzando di fatto i maggiori giacimenti iracheni al di fuori di ogni approvazione parlamentare, e firmando contratti - tra i vari anche con l'italiana Eni - nonostante la ferma opposizione di movimenti e sindacati iracheni. Intanto, mentre a Baghdad proseguono i riconteggi delle schede elettorali e si decide sull'eventuale premier (non è infatti chiaro se Stato di diritto e Alleanza nazionale irachena abbiano raggiunto un accordo anche sul nome del futuro primo ministro), montano le polemiche. Si contesta in particolare l’interpretazione dell’articolo della Costituzione in base al quale «il più grande tra i blocchi parlamentari è incaricato di formare il governo». La coalizione di Allawi definisce «illegittima» la decisione della corte federale irachena secondo cui tale blocco può essere formato anche da alleanze realizzate dopo il voto. Lo scacchiere iracheno, insomma, rimane ancora in bilico. Anche perchè in tutto questo bisognerà vedere cosa intenderanno fare i sadristi. Muqtada al-Sadr, leader del Movimento sadrista, già da tempo risiede in Iran e già da tempo ha sconfessato la figura di Maliki. Tutti avrebbero discusso con al-Sadr in persona per una ripresa dei negoziati fra le due coalizioni, ma al-Sadr non intende lavorare per l'Iraq, o almeno, non questo Iraq. Timori poi tra i curdi, che non si aspettavano una riunificazione delle forze sciite. Al nord dell'Iraq adesso si teme una crescita di influenza degli sciiti che potrebbero andare a ledere quella curda. Alleanza del Kurdistan (il Pdk di Barzani e l'Upk di Talabani) teme altre crisi in arrivo.

Monday, 3 May 2010

La crisi d'Europa passa anche per la Grecia

Non solo euro, nel paese ellenico si incrina la fiducia per l'intera comunità.

di Emiliano Biaggio
Da Unione europea e Fondo monetario 110 miliardi a sostegno della Grecia, che riceve gli aiuti della comunità internazionale per un pacchetto anti-crisi che la crisi finisce con l'ampliarla. In cambio delle risorse messe a disposizione - a ricordare che niente avviene per niente - la Grecia deve portare avanti una politica di riduzione della spesa difficile da accettare per i cittadini. Stipendi congelato fino al 2014, abolizione di tredicesima e quattordicesima per pensionati e dipendenti pubblici che guadagnano più di 3.000 euro al mese, aumento dell'età pensionabile (da 53 a 60 anni), aumento dell'età contributiva (da 37 a 40 entro il 2015), aumento del 2% dell'Iva (dal 21% al 23%) e aumento del 10% delle tasse su carburanti, alcolici e tabacchi. La risposta della Grecia è stata la proclamazione di uno sciopero generale insieme a primi scontri di piazza. Insomma, una serie di misure che soddisfa pochi e piace ad ancora meno. Una manovra che - in nome del rimettere a posto i conti - stritola le famiglie greche. Le stritola e le stritolerà, dato che questi prestiti sono stati concessi ad un tasso di interesse annuo del 5%.
Insomma, la Grecia dal salvataggio promesso rischia di finire dalla padella alla brace: dal baratro a un futuro non certo all'insegna del welfare. A conferma di quanto economia e finanzia non siano sociali e non siano sinonimi di equità. Non solo: le insofferenze del popolo greco - che prima rinfaccia alla Germania di non aver mai pagato i propri debiti di guerra e poi dà avita a scontri di piazza - dimostrano che questa Unione europea così com'è non solo non serve, ma rischia di disgregare. Odi, rancori e accuse di un popolo di uno stato contro un altro paese (il caso Grecia-Germania) sono l'indice di uno scricchiolio a livello comunitario che nulla ha a che fare con l'euro. E questo nessuno l'ha percepito. Un peccato, e al tempo stesso un rischio: non sapere ascoltare i malumori diffusi oggi, potrebbe essere fatale domani.

Resistenza, valore (costituzionale) dell'Italia libera

Alla vigilia dell'anniversario della liberazione c'è chi non riconosce ai partigiani il ruolo che la storia, almeno fino a pochi giorni fa, ha riconosciuto loro.

di Emiliano Biaggio
L’anniversario della liberazione preceduto da un manifesto sul quale si legge che gli italiani sono liberi solo grazie agli americani. Accade a Salerno, dove il presidente della provincia, Edmondo Cirielli, Pdl ed ex-An, affigge il cartellone nel quale sostiene che «senza l’intervento e il consequenziale sacrificio di centinaia di migliaia di giovani americani, l’Italia non sarebbe stata liberata». E poi, a suo giudizio, «la Resistenza era un movimento composito che intruppava anche persone che non combattevano per la libertà». Peccato che la sotria insegni altro, e cioè che prim’ancora che l’antifascismo si armasse, l’opposizione al regime veniva da tutti gli strati sociali e politici del paese. Fu grazie a ciò che in quel momento di guerra, con il paese diviso, l’Italia seppe ritrovare la propria unità attorno a quei valori che poi sarebbo finiti nella Costituzione che ancora oggi abbiamo. Contro il nazi-fascismo lottarono le diverse anime politiche-ideologiche, che seppero formare un unico grande movimento di promozione della democrazia, dei diritti e delle libertà civili. E di unità. Socialisti e liberali, comunisti e cattolici, repubblicani e monarchici, proletari e borghesi contro il fascismo: alla fine furono in grado di far rinascere l’Italia in veste democratica, repubblicana ed europeista, proprio comel’avevano teorizzata i padri del Risorgimento, Mazzini e Garibaldi. Non si trattò di un atto di pochi nè di un’iniziativa estemporanea, ma dia una presa di coscienza generale, civile e nazionale, che portò alla liberazione di una nazione e di un popolo da un regime liberticida e da un modello anti-democratico. Affermare quindi che l’8 settembre del 1943 è morto il concetto di patria – come ebbe modo di dire pochi anni fa un professore di un noto ateneo romano – è errato: quel giorno cessò sì di esistere un certo tipo di Italia e ne nacque una nuova, più moderna, più unitaria, ma quel giorno il concetto di patria si ritrovò. e se è veroche dopo il referendum del ‘46 gli scontri politici non sono mancati, è vero che la democrazia impone il confronto – a volte anche con toni aspri – e una continua ricerca di un compromesso che sappia lasciare insoddisfatto il minor numero possibile di cittadini. Queste sono eredità e sfide che ci hanno lasciato quanti hanno fatto la storia. E questa – e non un’altra – è la storia della nostra Repubblica. Riproporla in altro modo o rileggerla non è solo un mero e bieco atto di revisionismo, ma è un delitto nei confronti della Repubblica stessa, un delitto commesso contro l’Italia libera e gli italiani. Quelli di ieri, di oggi e soprattutto di domani.
(editoriale della puntata del 30 aprile 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti.)