Monday, 31 October 2011
Sunday, 30 October 2011
bLOGBOOK - Antwerpen
Antwerpen
Anversa, la più importante delle città del Belgio di lingua olandese. Snodo commerciale di grande rilevanza, deve larga parte della sua fortuna ai diamanti. Anversa è la città dei diamanti, ed è forse una poche delle città al mondo, se non l’unica, ad avere un museo appositamente dedicato a queste pietre preziose. A portarle qui è stata la seconda guerra mondiale: i bombardamenti hanno dirottato il commercio da Amsterdam ad Anversa, e da allora la città è rimasta un fiorente mercato. L’altra parte della propria fortuna Anversa - o Antwerpen, secondo lingua locale - la deve allo Schelda, fiume che nasce in Francia e si getta nel mar del nord dalle coste olandesi, attraversando e collegando tre paesi. La città è quindi un attivo centro navale e portuale. Qui imbarcazioni commerciali fanno rotta e scalo, rifornimento e manutenzione. Situata a nord del regno, Anversa si affaccia sui Paesi Bassi, di cui si respira l’atmosfera. La prima cosa che colpisce è il cielo, di quel grigio così intenso e spesso che opprime. La seconda cosa che si nota sono le donne, ben diverse da quelle che popolano Bruxelles o la Vallonia: qui sono generalmente alte, bionde, con gli occhi chiari, formose. Tipi decisamente più olandesi che non belga. Quindi risaltano gli edifici in mattoncini e facciata che termina “a scaletta”, tipico dell’architettura olandese. Ma arrivando in treno la prima cosa a colpire è Chinatown, la zona cinese della città. Si vede subito usciti dalla stazione centrale, insieme alla grande piazza antistante e allo zoo cittadino, posto subito sulla destra. In fondo, proprio di fronte al passeggero appena uscito, si erge un’imponente porta in muratura tipicamente asiatica: due colonne che sorreggono una grande pagoda. A fianco della porta, due leoni seduti su un basamento. Chinatown inizia da qui, anche se in realtà è il quartiere che raccoglie il grosso dell’immigrazione asiatica, come suggeriscono le bandiere alle vetrine. Thailandesi, coreani, vietnamiti e cinesi si dividono questo spazio di città. I ristoranti giapponesi, invece, non sono concentrati in uno spazio definito. Sono, al contrario, sparpagliati per la città.
Anversa affonda le origini nel mito, e già il suo nome è frutto di una leggenda. Si narra che ai tempi di Giulio Cesare, nei pressi del fiume vivesse Druon Antigon, gigante che esigeva un elevato pedaggio a tutti coloro che intendevano solcare le acque dello Schelda,e qualora questi si fossero rifiutati, il gigante avrebbe tagliato loro la mano. Finchè un giorno Druon Antigon non si imbattè in una nave da guerra romana, con a bordo il centurione Silvius Brabo. Questi non volle piegarsi alle richieste del gigante, e con lui iniziò un duello epico che si concluse con la vittoria del romano. Brabo mozzò la mano al gigante e la gettò nel fiume. Da allora la città si chiamò Handwerpen (in olandese: gettare la mano, da hand, mano, e werpen, gettare), poi mutata in Antwerpen. Anversa, appunto.
Droun Antigon non è il solo personaggio mitico di questi luoghi: si narra che il gigante Lange Wapper fosse solito girare per le strade per spaventare o provocare gli abitanti, e ancora oggi la memoria di questi racconti è scolpita in modo indelebile nel bronzo della statua che adorna l’ingresso del castello di Het steen (la rocca), fortezza medievale posta sulla sponda dello Schelda, subito dietro Grotemarkt, la piazza principale dove si erge imponente e maestoso il palazzo tardo rinascimentale sede del comune. Questo è il punto nevralgico della città. C’è un’istituzione, e poi ci sono i mille e più locali che circondano la piazza, che ospita la fontana dedicata a Silvius Brabo, per certi aspetti fondatore della città che oggi tutti conoscono. Su questa piazza un signore vestito in abiti di fine ottocento vi proporrà un tour della città in carrozza, e sempre qui i turisti si fermeranno a riposare degustando una delle tante birre che il Belgio può offrire. La cattedrale di Nostra signora (Onze-Lieve-Vrouwekathedraal), capolavoro del gotico brabantino, offre la possibilità di gustare alcune delle tele più importanti di Rubens, pittore fiammingo che ad Anversa morì dopo avervi speso gli ultimi 30 anni di vita. A lui è dedicata la Groenplaats, dove fa ben mostra la statua in bronzo eretta proprio al centro della piazza.
Da Bruxelles si raggiunge in mezz’ora con treno. Anversa è dunque facilmente raggiungibile, e si presta a visite fugaci ma comunque soddisfacenti. Mostra l’altra faccia del Belgio, le diversità di un paese frutto di processi storici che hanno finito col legare popoli e culture tenuti insieme solo dalla religione. Anche per questo merita tornarci: per cogliere meglio appieno analogie e differenza di un paese difficile da capire.
Other cities visited:
Amsterdam / Antwerpen / Berlino / Binche / Braine l'Alleud / Brugge / Budapest / De Haan / Den Haag / Durbuy / Gent / Halle / Knokke / Leuven / Liège / Mechelen / Mons / Namur / New York city / Oostende / Santiago de Compostela / Strasbourg / Tournai / Vilvoorde / Waterloo
Anversa, la più importante delle città del Belgio di lingua olandese. Snodo commerciale di grande rilevanza, deve larga parte della sua fortuna ai diamanti. Anversa è la città dei diamanti, ed è forse una poche delle città al mondo, se non l’unica, ad avere un museo appositamente dedicato a queste pietre preziose. A portarle qui è stata la seconda guerra mondiale: i bombardamenti hanno dirottato il commercio da Amsterdam ad Anversa, e da allora la città è rimasta un fiorente mercato. L’altra parte della propria fortuna Anversa - o Antwerpen, secondo lingua locale - la deve allo Schelda, fiume che nasce in Francia e si getta nel mar del nord dalle coste olandesi, attraversando e collegando tre paesi. La città è quindi un attivo centro navale e portuale. Qui imbarcazioni commerciali fanno rotta e scalo, rifornimento e manutenzione. Situata a nord del regno, Anversa si affaccia sui Paesi Bassi, di cui si respira l’atmosfera. La prima cosa che colpisce è il cielo, di quel grigio così intenso e spesso che opprime. La seconda cosa che si nota sono le donne, ben diverse da quelle che popolano Bruxelles o la Vallonia: qui sono generalmente alte, bionde, con gli occhi chiari, formose. Tipi decisamente più olandesi che non belga. Quindi risaltano gli edifici in mattoncini e facciata che termina “a scaletta”, tipico dell’architettura olandese. Ma arrivando in treno la prima cosa a colpire è Chinatown, la zona cinese della città. Si vede subito usciti dalla stazione centrale, insieme alla grande piazza antistante e allo zoo cittadino, posto subito sulla destra. In fondo, proprio di fronte al passeggero appena uscito, si erge un’imponente porta in muratura tipicamente asiatica: due colonne che sorreggono una grande pagoda. A fianco della porta, due leoni seduti su un basamento. Chinatown inizia da qui, anche se in realtà è il quartiere che raccoglie il grosso dell’immigrazione asiatica, come suggeriscono le bandiere alle vetrine. Thailandesi, coreani, vietnamiti e cinesi si dividono questo spazio di città. I ristoranti giapponesi, invece, non sono concentrati in uno spazio definito. Sono, al contrario, sparpagliati per la città.
Anversa affonda le origini nel mito, e già il suo nome è frutto di una leggenda. Si narra che ai tempi di Giulio Cesare, nei pressi del fiume vivesse Druon Antigon, gigante che esigeva un elevato pedaggio a tutti coloro che intendevano solcare le acque dello Schelda,e qualora questi si fossero rifiutati, il gigante avrebbe tagliato loro la mano. Finchè un giorno Druon Antigon non si imbattè in una nave da guerra romana, con a bordo il centurione Silvius Brabo. Questi non volle piegarsi alle richieste del gigante, e con lui iniziò un duello epico che si concluse con la vittoria del romano. Brabo mozzò la mano al gigante e la gettò nel fiume. Da allora la città si chiamò Handwerpen (in olandese: gettare la mano, da hand, mano, e werpen, gettare), poi mutata in Antwerpen. Anversa, appunto.
Droun Antigon non è il solo personaggio mitico di questi luoghi: si narra che il gigante Lange Wapper fosse solito girare per le strade per spaventare o provocare gli abitanti, e ancora oggi la memoria di questi racconti è scolpita in modo indelebile nel bronzo della statua che adorna l’ingresso del castello di Het steen (la rocca), fortezza medievale posta sulla sponda dello Schelda, subito dietro Grotemarkt, la piazza principale dove si erge imponente e maestoso il palazzo tardo rinascimentale sede del comune. Questo è il punto nevralgico della città. C’è un’istituzione, e poi ci sono i mille e più locali che circondano la piazza, che ospita la fontana dedicata a Silvius Brabo, per certi aspetti fondatore della città che oggi tutti conoscono. Su questa piazza un signore vestito in abiti di fine ottocento vi proporrà un tour della città in carrozza, e sempre qui i turisti si fermeranno a riposare degustando una delle tante birre che il Belgio può offrire. La cattedrale di Nostra signora (Onze-Lieve-Vrouwekathedraal), capolavoro del gotico brabantino, offre la possibilità di gustare alcune delle tele più importanti di Rubens, pittore fiammingo che ad Anversa morì dopo avervi speso gli ultimi 30 anni di vita. A lui è dedicata la Groenplaats, dove fa ben mostra la statua in bronzo eretta proprio al centro della piazza.
Da Bruxelles si raggiunge in mezz’ora con treno. Anversa è dunque facilmente raggiungibile, e si presta a visite fugaci ma comunque soddisfacenti. Mostra l’altra faccia del Belgio, le diversità di un paese frutto di processi storici che hanno finito col legare popoli e culture tenuti insieme solo dalla religione. Anche per questo merita tornarci: per cogliere meglio appieno analogie e differenza di un paese difficile da capire.
Other cities visited:
Amsterdam / Antwerpen / Berlino / Binche / Braine l'Alleud / Brugge / Budapest / De Haan / Den Haag / Durbuy / Gent / Halle / Knokke / Leuven / Liège / Mechelen / Mons / Namur / New York city / Oostende / Santiago de Compostela / Strasbourg / Tournai / Vilvoorde / Waterloo
Friday, 28 October 2011
Italia "banana republic"? No, paese di peraccotai
L'Ue avvia la procedura di infrazione per irregolarità nell'import di banane. Abbiamo sottratto oltre 6 milioni di euro.
di Emiliano Biaggio
L'Italia scivola sulla classica buccia di banana. La Commissione europea ha infatti aperto una procedura d'infrazione nei confronti del nostro paese per irregolarità legate all'importazione di questo tipo do frutto. Proprio così: l'esecutivo comunitario ha chiesto alle autorità italiane di «conformarsi alla normativa relativa ai dazi doganali» e di «versare le somme dovute al bilancio Ue» per l’import di banane fresche. Nessuno scherzo: se entro due mesi non si mette in regola sarà deferita alla Corte di giustizia.
La procedura d'infrazione si riferisce a fatti avvenuti tra il 1998 e il 2004. In questo periodo, ha spiegato la Commissione Ue, uffici doganali italiani hanno accertato dichiarazioni su banane importate con uno stesso peso standard «nonostante i controlli sul peso avessero accertato che era superiore a quello dichiarato». Accertando «sistematicamente» dichiarazioni che, come avrebbero dovuto spare, erano errate, «le autorità italiane hanno causato una perdita di risorse per il bilancio Ue e sono considerate finanziariamente responsabili». La perdita, ha sottolineato l'organismo di Bruxelles, ammonta a 6.742.210,57 euro. Che l'Italia dovrà restituire. La Commissione Ue, infatti, aprendo la procedura d'infrazione ha intimato il nostro paese a «mettere a dispozione l'importo dovuto senza indugio». Italia Repubblica delle banane? Macchè. Non è in grado nemmeno di ricoprire un tale ruolo, ma solo di collezionare brutte figure
di Emiliano Biaggio
L'Italia scivola sulla classica buccia di banana. La Commissione europea ha infatti aperto una procedura d'infrazione nei confronti del nostro paese per irregolarità legate all'importazione di questo tipo do frutto. Proprio così: l'esecutivo comunitario ha chiesto alle autorità italiane di «conformarsi alla normativa relativa ai dazi doganali» e di «versare le somme dovute al bilancio Ue» per l’import di banane fresche. Nessuno scherzo: se entro due mesi non si mette in regola sarà deferita alla Corte di giustizia.
La procedura d'infrazione si riferisce a fatti avvenuti tra il 1998 e il 2004. In questo periodo, ha spiegato la Commissione Ue, uffici doganali italiani hanno accertato dichiarazioni su banane importate con uno stesso peso standard «nonostante i controlli sul peso avessero accertato che era superiore a quello dichiarato». Accertando «sistematicamente» dichiarazioni che, come avrebbero dovuto spare, erano errate, «le autorità italiane hanno causato una perdita di risorse per il bilancio Ue e sono considerate finanziariamente responsabili». La perdita, ha sottolineato l'organismo di Bruxelles, ammonta a 6.742.210,57 euro. Che l'Italia dovrà restituire. La Commissione Ue, infatti, aprendo la procedura d'infrazione ha intimato il nostro paese a «mettere a dispozione l'importo dovuto senza indugio». Italia Repubblica delle banane? Macchè. Non è in grado nemmeno di ricoprire un tale ruolo, ma solo di collezionare brutte figure
Thursday, 27 October 2011
Russia, ingresso nel Wto più vicino
Raggiunta l'intesa con l'Unione europea. Ora resta lo "scoglio" georgiano.
di Emiliano Biaggio
La Russia è sempre più vicina al Wto. C'è infatti un accordo con l'Unione europea per un eventuale accesso del gigante euro-asiatico all'interno dell'organizzazione internazionale per il commercio. «Abbiamo raggiunto un'intesa bilaterale sugli ultimi aspetti, lasciando aperta la porta alla Russia per un suo eventuale ingresso nel Wto», annuncia il commissario eurpeo per il commercio, Karel De Gutch. L'accordo raggiunto tra Ue e Russia riguarda il comparto auto: alle case automilistiche europee che esportano componentistica in Russia sarà garantito un meccanismo di compensazione qualora gli l'export dovesse ridursi per variazine degli investimenti.
Adesso, ricorda De Gutch, «resta poco tempo perchè Russia e Georgia trovino un accordo tra loro». L'Unione europea, fa sapere il commissario europeo, «farà tutto il possibile per aiutare i due paesi al fine di risolvere ogni controversia». Tra Russia e Georgia pesa la crisi delle relazioni diplomatiche dopo la guerra in Ossezia del sud, e l'ultimo passo del Cremlino per accedere nell'organizzazione mondiale del commercio rischia di essere il più difficile da compiere.
di Emiliano Biaggio
La Russia è sempre più vicina al Wto. C'è infatti un accordo con l'Unione europea per un eventuale accesso del gigante euro-asiatico all'interno dell'organizzazione internazionale per il commercio. «Abbiamo raggiunto un'intesa bilaterale sugli ultimi aspetti, lasciando aperta la porta alla Russia per un suo eventuale ingresso nel Wto», annuncia il commissario eurpeo per il commercio, Karel De Gutch. L'accordo raggiunto tra Ue e Russia riguarda il comparto auto: alle case automilistiche europee che esportano componentistica in Russia sarà garantito un meccanismo di compensazione qualora gli l'export dovesse ridursi per variazine degli investimenti.
Adesso, ricorda De Gutch, «resta poco tempo perchè Russia e Georgia trovino un accordo tra loro». L'Unione europea, fa sapere il commissario europeo, «farà tutto il possibile per aiutare i due paesi al fine di risolvere ogni controversia». Tra Russia e Georgia pesa la crisi delle relazioni diplomatiche dopo la guerra in Ossezia del sud, e l'ultimo passo del Cremlino per accedere nell'organizzazione mondiale del commercio rischia di essere il più difficile da compiere.
Wednesday, 26 October 2011
bLOGBOOK
Le luci della città strappano all’oscurità notturna una dimensione urbana resa ancor più suggestiva dallo scintillio delle insegne e dei lampioni sull’asfalto ancora bagnato dalla pioggia. Bruxelles in vestito da sera si specchia su sé stessa, e quasi sembra compiacersi del proprio aspetto. Ovunque è tripudio di colore, per le strade e nelle piazze è umana rappresentazione di vitalità. Bruxelles è viva, giovane, dinamica. Una città che non riposa mai.
L’aria è quella solita, fredda come si conviene per una città del nord-ovest. Ma a differenza delle grandi metropoli - quelle più a sud nel continente, almeno – è aria buona, libera dai gas e dai fumi della civiltà industrializzata. Respirarla a pieni polmoni è un’esperienza piacevole, come ogni cosa che si riscopre. In questo angolo d’Europa il vento che spira da e verso le coste occidentali dona ossigeno puro in qualunque momento dell’anno. Per le vie è quindi una continua sfilata colorata di sciarpe, guanti e cappotti. Eppure questo non scalfisce minimamente la voglia di vivere della città. La gente si incontra e si ritrova negli spazi all’aperto, o nei mille locali che costellano il centro. Fragranze e aromi si sprigionano nell’aria, dove si incontrano e si mescolano per la gioia dei sensi e dei palati. Nelle strette stradine già cariche di odori, il brusio dei tanti giovani e l’inconfondibile scia della cangia testimoniano la vivacità di una città che non cessa di battere e pulsare. Le strade fungono da arterie per una città che ha nella Grand place Royal e nelle vie limitrofe il proprio cuore che pompa vita.
Godersi queste immagini, far propri i colori, gli odori e gli echi degli ambienti è cogliere l’anima della città. Girare di notte per questi luoghi è un’esperienza tutta da vivere, soprattutto per chi non l’ha mai provata prima. Entrare in una brasserie belga, poi, è un’esperienza ancor più unica. Si inizia a toccarla con mano nel momento in cui si scorre la lunga liste di birre sul menù posto sul tavolo. Un cartone riempito in ognuno delle due facciate con nomi di ogni sorta, tutti corrispondenti a marche e tipi di birra mai visti prima. Ma è andando al bancone per l’ordinazione e pagare il prodotto che si scopre quanto la birra sia una parte fondamentale della cultura del luogo. Una fila interminabile di spillatori adorna il lungo tavolo, meta di pellegrinaggio per chiunque abbia varcato la soglia del posto. Si respira l’atmosfera piacevole della vita notturna, dello stare insieme e, per chi tende a essere più nostalgico, il ricordo di esperienze analoghe già avute in passato. Ma nel momento in cui arriva il boccale, c’è spazio solo per assaporare i malti e i luppoli che ne costituiscono il contenuto.
Quando si esce, la città fuori è ancora come la si era lasciata, vestita a sera a specchiarsi su sé stessa. La vita scorre per le strade, con giovani che continuano a ingannare la notte e gli ultimi ritardatari che affrettano il passo per tornare alle proprie abitazioni. Nella Place royale il palazzo reale e il museo di Magritte si fronteggiano imponenti nella loro monumentalità, separati di tanto in tanto solo dal passare degli ultimi tram. Il silenzio che culla la notte inoltrata e l’assenza di presenze umane fa della piazza uno spazio di dechirichiana memoria. E nell’incertezza dell’uomo, la solitudine mostra il suo fascino.
L’aria è quella solita, fredda come si conviene per una città del nord-ovest. Ma a differenza delle grandi metropoli - quelle più a sud nel continente, almeno – è aria buona, libera dai gas e dai fumi della civiltà industrializzata. Respirarla a pieni polmoni è un’esperienza piacevole, come ogni cosa che si riscopre. In questo angolo d’Europa il vento che spira da e verso le coste occidentali dona ossigeno puro in qualunque momento dell’anno. Per le vie è quindi una continua sfilata colorata di sciarpe, guanti e cappotti. Eppure questo non scalfisce minimamente la voglia di vivere della città. La gente si incontra e si ritrova negli spazi all’aperto, o nei mille locali che costellano il centro. Fragranze e aromi si sprigionano nell’aria, dove si incontrano e si mescolano per la gioia dei sensi e dei palati. Nelle strette stradine già cariche di odori, il brusio dei tanti giovani e l’inconfondibile scia della cangia testimoniano la vivacità di una città che non cessa di battere e pulsare. Le strade fungono da arterie per una città che ha nella Grand place Royal e nelle vie limitrofe il proprio cuore che pompa vita.
Godersi queste immagini, far propri i colori, gli odori e gli echi degli ambienti è cogliere l’anima della città. Girare di notte per questi luoghi è un’esperienza tutta da vivere, soprattutto per chi non l’ha mai provata prima. Entrare in una brasserie belga, poi, è un’esperienza ancor più unica. Si inizia a toccarla con mano nel momento in cui si scorre la lunga liste di birre sul menù posto sul tavolo. Un cartone riempito in ognuno delle due facciate con nomi di ogni sorta, tutti corrispondenti a marche e tipi di birra mai visti prima. Ma è andando al bancone per l’ordinazione e pagare il prodotto che si scopre quanto la birra sia una parte fondamentale della cultura del luogo. Una fila interminabile di spillatori adorna il lungo tavolo, meta di pellegrinaggio per chiunque abbia varcato la soglia del posto. Si respira l’atmosfera piacevole della vita notturna, dello stare insieme e, per chi tende a essere più nostalgico, il ricordo di esperienze analoghe già avute in passato. Ma nel momento in cui arriva il boccale, c’è spazio solo per assaporare i malti e i luppoli che ne costituiscono il contenuto.
Quando si esce, la città fuori è ancora come la si era lasciata, vestita a sera a specchiarsi su sé stessa. La vita scorre per le strade, con giovani che continuano a ingannare la notte e gli ultimi ritardatari che affrettano il passo per tornare alle proprie abitazioni. Nella Place royale il palazzo reale e il museo di Magritte si fronteggiano imponenti nella loro monumentalità, separati di tanto in tanto solo dal passare degli ultimi tram. Il silenzio che culla la notte inoltrata e l’assenza di presenze umane fa della piazza uno spazio di dechirichiana memoria. E nell’incertezza dell’uomo, la solitudine mostra il suo fascino.
Tuesday, 25 October 2011
bLOGBOOK - Bruxelles (altri appunti sparsi)
Non la ricordavo così graziosa, questa città. A essere onesti non potrei affatto ricordarmela, visto che è la prima volta che cammino per questi luoghi, che calpesto queste vie e scorro questi palazzi. Ma solo adesso che mi ci trovo posso saperlo. L’ultima volta dovevo essere in periferia, o in qualche altro quartiere. Di certo non al centro. Bruxelles, come ogni città, ha nel suo centro storico un piccolo capolavoro artistico e stilistico. La Grand Place è l’apoteosi del tardo gotico europeo, con i suoi palazzi imponenti a cintare su ogni lato lo slargo. Ma è famoso per la sua infiorata, esplosione cromatica che dona a questo angolo di città, adesso gremito di persone, un ornamento che poche città si concedono. La città anticamente era concentrata tutta qui: l’hotel de Ville e la Maison de Roi, espressione del potere centrale, e le case di tutti gli ordini professionali, compongono la cornice della piazza, ancora oggi richiamo per migliaia di persone. La piazza parla tutte le lingue del continente: francese, tedesco, italiano, spagnolo, olandese e romeno si fondono tra loro in unico grande melting pot linguistico. Bruxelles attrae più gente di quanto non si possa pensare, e ancor più turisti. Mi mescolo tra di loro in questa piacevole giornata autunnale dal sapore estivo, cercando le zone irradiate da un sole incredibilmente caldo, mentre con gli occhi osservo la città che si muove intorno a me al ritmo dei miei passi.
Non ci sono auto, questa è la sola parte della città chiusa al transito. Il solo rumore è quello prodotto dal brusio delle persone che affollano le strade e le piazze di questo angolo di città. C’è chi si incontra, chi medita acquisti, chi si reca in uno dei tanti negozi di souvenir per dedicare un pensiero a persone care, chi semplicemente si gode la giornata al tavolino di un qualche locale. Vado alla Danish tavern, che a dispetto del nome ha un'ampia gamma di birre belga. Mi siedo e ordino una birra: cos’altro potrei chiedere in Belgio? Arriva la mia Grimberger. Una chiara, ma del resto ho chiesto semplicemente una birra, senza specificare quale. La sorseggio in maniche di camicia mentre offro il mio viso al sole. Poi apro la cartina e studio la mia posizione. Dopo un’occhiata lunga due sorsi di birra so dove devo andare. Per curiosità studio il percorso che ho fatto per arrivare fin dove sono. Casa mia non è lontana dal centro. Non mi affanno a finire la mia chiara, oggi devo solo gustarmi questa giornata, e brindare ai miei primi successi. Sette giorni che sono qui, e da quattro già collaboro per un’agenzia. Certo, non ci vivo, ma oggi non ci voglio pensare. Svuoto il bicchiere e mi rivesto: dove sto andando richiede di passare per vie non assolate.
Avete presente la statua di Peter Pan nei giardini di Kensington? Ebbene, il Manneken pis in una cosa gli somiglia: le dimensioni. E’ una statuina posta sull’apice di una fontana tardo gotica, della quale – proprio come il Peter Pan a Kensington – potreste tranquillamente non accorgervi. E’ alta si e no mezzo metro, e il fatto che il Belgio sia il paese che ha dato alla luce i puffi è solo una coincidenza. Per gli abitanti della città il bambino nudo che fa pipì è un simbolo importantissimo: rappresenta il loro spirito libero e la loro apertura mentale. Sarà forse per questo se è Bruxelles la capitale d’Europa.
Vado oltre. Se non ricordo male subito a sinistra dovrebbe esserci una birreria di due piani, la Poechenellekelder. E infatti è lì. Le indicazioni che mi ha dato Timothy prima di partire sono esatte. “Devi andarci”, mi ha detto. “E’ un posto bello ma soprattutto pieno di birre buone, tutte artigianali”. Oggi è lunedì, e in Belgio musei e buona parte dei locali il lunedì riposano, e questo non fa eccezione. Tornerò. Intanto penso a Timothy e soprattutto a chi da Timothy mi ha sempre allietato le serate: in Gallerie Saint Hubert c’era un negozio che faceva al caso loro. E quindi al mio. Mentre mi dirigo noto quante persone di colore ci siano in questa città. Quanto inciderà il passato coloniale di questo piccolo paese, e quanto la crisi?
“Mi scusi signore”. Una ragazza con un grosso zaino in spalla richiama la mia attenzione. “Saprebbe dirmi dove si trova Rue du Cardinal Mercier?”. “Mi spiace, ma non parlo francese”. La ragazza mi guarda per un attimo senza proferir parola. Quindi, dopo un attimo di esitazione, mi parla in inglese. “Saprebbe dirmi dove si trova Rue du Cardinal Mercier?” “Mi spiace davvero, ma non sono del posto. Provi a chiedere in libreria”. La ragazza mi guarda, mi ringrazia e se ne va via ridendo. “Tipico”, avrà pensato. “Quando all’estero chiedi informazioni a qualcuno trovi sempre chi è più straniero di te”. Beh, almeno in questo siamo uguali: persi in un luogo che ancora non ci appartiene. Avrei dovuto tirar fuori la cartina della città e aiutarla, ma ci ho pensato troppo tardi. Solo dopo ci si rende conto delle cose. In genere dei propri errori. Basta, non è per avere certi pensieri che sono uscito di casa. Vado e compro quello che devo comprare, non prima di aver assaporato questa via commerciale al coperto di una cupola di vetro. Realizzata verso la fine della prima metà dell’ottocento, avrebbe poi finito col fornire uno spunto ad altre città, come Milano per la sua galleria Vittorio Emanuele. Guardo l’orologio: si è fatto tardi. Torno a piazza reale e oltrepasso il Magrittè museum, in tempo per il tram che sta arrivando. Salgo sulla carrozza e prendo posto su un seggiolino che guarda verso la direzione di marcia. Guardo avanti. Vado avanti. Mentre alle mie spalle il centro si fa sempre più lontano.
Non ci sono auto, questa è la sola parte della città chiusa al transito. Il solo rumore è quello prodotto dal brusio delle persone che affollano le strade e le piazze di questo angolo di città. C’è chi si incontra, chi medita acquisti, chi si reca in uno dei tanti negozi di souvenir per dedicare un pensiero a persone care, chi semplicemente si gode la giornata al tavolino di un qualche locale. Vado alla Danish tavern, che a dispetto del nome ha un'ampia gamma di birre belga. Mi siedo e ordino una birra: cos’altro potrei chiedere in Belgio? Arriva la mia Grimberger. Una chiara, ma del resto ho chiesto semplicemente una birra, senza specificare quale. La sorseggio in maniche di camicia mentre offro il mio viso al sole. Poi apro la cartina e studio la mia posizione. Dopo un’occhiata lunga due sorsi di birra so dove devo andare. Per curiosità studio il percorso che ho fatto per arrivare fin dove sono. Casa mia non è lontana dal centro. Non mi affanno a finire la mia chiara, oggi devo solo gustarmi questa giornata, e brindare ai miei primi successi. Sette giorni che sono qui, e da quattro già collaboro per un’agenzia. Certo, non ci vivo, ma oggi non ci voglio pensare. Svuoto il bicchiere e mi rivesto: dove sto andando richiede di passare per vie non assolate.
Avete presente la statua di Peter Pan nei giardini di Kensington? Ebbene, il Manneken pis in una cosa gli somiglia: le dimensioni. E’ una statuina posta sull’apice di una fontana tardo gotica, della quale – proprio come il Peter Pan a Kensington – potreste tranquillamente non accorgervi. E’ alta si e no mezzo metro, e il fatto che il Belgio sia il paese che ha dato alla luce i puffi è solo una coincidenza. Per gli abitanti della città il bambino nudo che fa pipì è un simbolo importantissimo: rappresenta il loro spirito libero e la loro apertura mentale. Sarà forse per questo se è Bruxelles la capitale d’Europa.
Vado oltre. Se non ricordo male subito a sinistra dovrebbe esserci una birreria di due piani, la Poechenellekelder. E infatti è lì. Le indicazioni che mi ha dato Timothy prima di partire sono esatte. “Devi andarci”, mi ha detto. “E’ un posto bello ma soprattutto pieno di birre buone, tutte artigianali”. Oggi è lunedì, e in Belgio musei e buona parte dei locali il lunedì riposano, e questo non fa eccezione. Tornerò. Intanto penso a Timothy e soprattutto a chi da Timothy mi ha sempre allietato le serate: in Gallerie Saint Hubert c’era un negozio che faceva al caso loro. E quindi al mio. Mentre mi dirigo noto quante persone di colore ci siano in questa città. Quanto inciderà il passato coloniale di questo piccolo paese, e quanto la crisi?
“Mi scusi signore”. Una ragazza con un grosso zaino in spalla richiama la mia attenzione. “Saprebbe dirmi dove si trova Rue du Cardinal Mercier?”. “Mi spiace, ma non parlo francese”. La ragazza mi guarda per un attimo senza proferir parola. Quindi, dopo un attimo di esitazione, mi parla in inglese. “Saprebbe dirmi dove si trova Rue du Cardinal Mercier?” “Mi spiace davvero, ma non sono del posto. Provi a chiedere in libreria”. La ragazza mi guarda, mi ringrazia e se ne va via ridendo. “Tipico”, avrà pensato. “Quando all’estero chiedi informazioni a qualcuno trovi sempre chi è più straniero di te”. Beh, almeno in questo siamo uguali: persi in un luogo che ancora non ci appartiene. Avrei dovuto tirar fuori la cartina della città e aiutarla, ma ci ho pensato troppo tardi. Solo dopo ci si rende conto delle cose. In genere dei propri errori. Basta, non è per avere certi pensieri che sono uscito di casa. Vado e compro quello che devo comprare, non prima di aver assaporato questa via commerciale al coperto di una cupola di vetro. Realizzata verso la fine della prima metà dell’ottocento, avrebbe poi finito col fornire uno spunto ad altre città, come Milano per la sua galleria Vittorio Emanuele. Guardo l’orologio: si è fatto tardi. Torno a piazza reale e oltrepasso il Magrittè museum, in tempo per il tram che sta arrivando. Salgo sulla carrozza e prendo posto su un seggiolino che guarda verso la direzione di marcia. Guardo avanti. Vado avanti. Mentre alle mie spalle il centro si fa sempre più lontano.
Sunday, 23 October 2011
Libia, democrazia promessa tra mille incognite
Assicurate elezioni e costituzione, ma per il dopo Gheddafi è ancora tutto da decidere.
l'e-dittoreale
Dopo 42 anni crolla il regime di Muammar Gheddafi. Il colonnello libico è stato ucciso dai ribelli al termine di una caccia durata 8 mesi, quanti la guerra civile che ha dilaniato il paese del nord africa. Adesso si apre l’era post-gheddafiana. Bisogna capire quale assetto prenderà il paese: il futuro è dunque incerto e ricco di incognite, come sempre in casi come questi. Il primo ministro del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), Mahmoud Jibril, ha promesso elezioni entro otto mesi, per l’istituzione di un consiglio incaricato di scrivere una nuova costituzione. Elezioni e costituzione, due termini che per la nuova Libia sembrano evocare un avvenire in senso democratico.
Il primo ostacolo da superare sarà il rischio di ritorsioni sui lealisti, e in tal senso il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha esplicitamente invitato il Cnt a far sì che «venga impedita qualsiasi rappresaglia contro i civili e nei confronti delle forze pro Gheddafi sconfitte». Proprio per questo, ha aggiunto Rasmussen, «fino al 31 ottobre la Nato monitorerà la situazione». La missione continua, dunque. E non potrebbe essere diversamente, visto che la risoluzione Onu – sotto la quale operano le forze dell’Alleanza atlantica – è stata concepita, almeno ufficialmente, per la salvaguardia della popolazione libica. Ma a sentire le reazioni a caldo di Francia e Italia si intuisce che il vero obiettivo era Gheddafi. «Penso che possiamo dire che l'operazione militare della Nato è conclusa», ha detto il ministro degli Esteri francese Alain Juppe. Analoghe le parole del ministro della difesa, Ignazio La Russa: «Con la caduta di Sirte anche la nostra missione è terminata». La verità, peraltro non nuova, è che sia Francia che Italia hanno fretta di negoziare con il nuovo governo le commesse energetiche: l’Italia vuole la conferma degli impegni già presi con Eni, la Francia vuole ritagliare uno spazio vantaggioso alla sua Total. Questa è solo la prima parte della verità nascosta dietro la risoluzione Onu e la missione Nato. L’altra metà è che tutti volevano rovesciare Gheddafi, sebbene ufficialmente Rasmussen abbia più volte sottolineato che l’ormai ex colonnello «non è stato il bersaglio» delle operazioni. Ma sono le parole del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a far capire chiaramente che ci si voleva liberare una volta per tutte di Gheddafi. La sua morte, ha sottolineato Obama, «la fine di un doloroso capitolo», con quell’aggettivo – doloroso – a rimarcare la scomodità della persona in questione.
C'è poi il nodo legato alla composizione etnica della popolazione, composta in prevalenza da due etnie principali, gli arabi e i berberi, a loro volta suddivisi in una miriade di clan spesso in forte contrasto tra di loro. C'è poi l'etnia dei tuareg, forte minoranza. Nel sul del paese, poi, vi sono piccoli gruppi tribali Hausa e Tebu. Fino a oggi sono stati tutti uniti contro il nemico comune, ma adesso resta da capire come verrà suddiviso il potere e regolato il nuovo stato. Il rischio potrebbe essere il passaggio da una guerra civile all'altra. Insomma, la morte di Gheddafi e la fine del suo regime sono per ora le uniche certezze.
l'e-dittoreale
Dopo 42 anni crolla il regime di Muammar Gheddafi. Il colonnello libico è stato ucciso dai ribelli al termine di una caccia durata 8 mesi, quanti la guerra civile che ha dilaniato il paese del nord africa. Adesso si apre l’era post-gheddafiana. Bisogna capire quale assetto prenderà il paese: il futuro è dunque incerto e ricco di incognite, come sempre in casi come questi. Il primo ministro del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), Mahmoud Jibril, ha promesso elezioni entro otto mesi, per l’istituzione di un consiglio incaricato di scrivere una nuova costituzione. Elezioni e costituzione, due termini che per la nuova Libia sembrano evocare un avvenire in senso democratico.
Il primo ostacolo da superare sarà il rischio di ritorsioni sui lealisti, e in tal senso il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha esplicitamente invitato il Cnt a far sì che «venga impedita qualsiasi rappresaglia contro i civili e nei confronti delle forze pro Gheddafi sconfitte». Proprio per questo, ha aggiunto Rasmussen, «fino al 31 ottobre la Nato monitorerà la situazione». La missione continua, dunque. E non potrebbe essere diversamente, visto che la risoluzione Onu – sotto la quale operano le forze dell’Alleanza atlantica – è stata concepita, almeno ufficialmente, per la salvaguardia della popolazione libica. Ma a sentire le reazioni a caldo di Francia e Italia si intuisce che il vero obiettivo era Gheddafi. «Penso che possiamo dire che l'operazione militare della Nato è conclusa», ha detto il ministro degli Esteri francese Alain Juppe. Analoghe le parole del ministro della difesa, Ignazio La Russa: «Con la caduta di Sirte anche la nostra missione è terminata». La verità, peraltro non nuova, è che sia Francia che Italia hanno fretta di negoziare con il nuovo governo le commesse energetiche: l’Italia vuole la conferma degli impegni già presi con Eni, la Francia vuole ritagliare uno spazio vantaggioso alla sua Total. Questa è solo la prima parte della verità nascosta dietro la risoluzione Onu e la missione Nato. L’altra metà è che tutti volevano rovesciare Gheddafi, sebbene ufficialmente Rasmussen abbia più volte sottolineato che l’ormai ex colonnello «non è stato il bersaglio» delle operazioni. Ma sono le parole del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a far capire chiaramente che ci si voleva liberare una volta per tutte di Gheddafi. La sua morte, ha sottolineato Obama, «la fine di un doloroso capitolo», con quell’aggettivo – doloroso – a rimarcare la scomodità della persona in questione.
C'è poi il nodo legato alla composizione etnica della popolazione, composta in prevalenza da due etnie principali, gli arabi e i berberi, a loro volta suddivisi in una miriade di clan spesso in forte contrasto tra di loro. C'è poi l'etnia dei tuareg, forte minoranza. Nel sul del paese, poi, vi sono piccoli gruppi tribali Hausa e Tebu. Fino a oggi sono stati tutti uniti contro il nemico comune, ma adesso resta da capire come verrà suddiviso il potere e regolato il nuovo stato. Il rischio potrebbe essere il passaggio da una guerra civile all'altra. Insomma, la morte di Gheddafi e la fine del suo regime sono per ora le uniche certezze.
Saturday, 22 October 2011
Crisi, a Bruxelles prevale l'incertezza
Tante divisioni e nessun accordo contro la crisi alla vigilia del vertice europeo.
di Emiliano Biaggio
Clima di attesa a Bruxelles per il vertice europeo in programma domani. Nella capitale dell’Europa si respira però aria di profonda incertezza, per via di divergenze che non ancora non sono state appianate e intese che ancora stentano a essere trovate. A poco è servita la riunione straordinaria dell’Ecofin di ieri sera: l’unica cosa che è stata stabilita, infatti, è che per gli aiuti alla Grecia «è necessario un sostanziale aumento nel contributo da parte delle banche», come ha spiegato il presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Junker”, al termine della riunione. Da cui però, a ben vedere, è uscito solo un principio generico. Restano allora tutti sul tavolo i nodi sciogliere, che non sono pochi. Garantire la tranche di aiuti economici alla Grecia, dare risposte chiare ai mercati finanziari, assicurare la stabilità e la continuità dell’Euro, rafforzare il fondo di stabilità (l’Efsf, il cosiddetto "fondo salva-Stati") dotandolo di maggiore liquidità, mettere in sicurezza il sistema bancario dell’Europa: il vertice europeo di domani dovrà fornire risposte ad ognuna di queste questioni.
Al momento, però, l'accordo sulle misure anti-crisi ancora non si trova. Pesa in questo la profonda divisione tra Francia e Germania. La prima – che teme declassamenti del proprio rating – preme per risposte immediate ed efficaci; la seconda – per via di ragioni di politica interna – procede con cautela, dicendo di non ritenere l’incontro decisivo e di non vedere effetti negativi in caso di risultati al di sotto delle aspettative. Proprio quello, però, che non vogliono le borse e gli operatori finanziari. Per questo, ha detto nei giorni scorsi il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, «tutte le decisioni devono essere prese domenica, anche se le misure per la loro attuazione seguiranno successivamente». Barroso ha esplicitamente invocato «senso del compromesso da parte di tutti i partecipanti».
Il clima resta comunque di profonda incertezza: il presidente francese Nicolas Sarkozy ha promesso un nuovo piano globale entro la fine del mese, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha smorzato le aspettative per una soluzione alla crisi, mentre il ministro delle finanze della Germania, Wolfgang Schaeuble, ha confermato la presenza di un'intesa solo rispetto a un piano per ricapitalizzare le banche, rimandando le risposte su come ridurre il debito della Grecia. Nessuna intesa neanche sul rafforzamento del fondo salva stati. Vano è stato anche il vertice straordinario “improvvisato” mercoledì a Francoforte, in occasione del passaggio di consegne tra Jean Claude Trichet, presidente uscente della Bce, e il suo successore Mario Draghi. Una serie di incontri tra rappresentanti di Germania, Francia, Banca centrale europea, Commissione europea e il Fondo monetario internazionale. Che anche in quel caso non hanno prodotto nulla. «L'Unione Europea sta dando un'immagine disastrosa», ha commentato un preoccupato Jean Claude Junker, presidente dell’Eurogruppo. Stasera intanto è atteso un pre-vertice tra il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso, il presidente francese Nicolas Sarkozy e la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy.
Tutto ancora da stabilire, dunque. Si attende tra auspici e timori. Le borse europee hanno chiuso in rialzo, e qualcuno legge il segnale con cauto ottimismo. Ma la verità è che la Banca centrale europea ha acquistato titoli di Stato italiani e spagnoli. Segno che per questi paesi c'è ancora bisogno di aiuti, e che molto probabilmente altre questioni si aggiungeranno a quelle già sul tavolo. Non lo ha nascosto il ministro dell'Economia olandese, Jan Kees de Jager. «L'Italia – ha detto - deve prendere nuove misure e mi aspetto che le presenti durante i vertici di questo week end».
di Emiliano Biaggio
Clima di attesa a Bruxelles per il vertice europeo in programma domani. Nella capitale dell’Europa si respira però aria di profonda incertezza, per via di divergenze che non ancora non sono state appianate e intese che ancora stentano a essere trovate. A poco è servita la riunione straordinaria dell’Ecofin di ieri sera: l’unica cosa che è stata stabilita, infatti, è che per gli aiuti alla Grecia «è necessario un sostanziale aumento nel contributo da parte delle banche», come ha spiegato il presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Junker”, al termine della riunione. Da cui però, a ben vedere, è uscito solo un principio generico. Restano allora tutti sul tavolo i nodi sciogliere, che non sono pochi. Garantire la tranche di aiuti economici alla Grecia, dare risposte chiare ai mercati finanziari, assicurare la stabilità e la continuità dell’Euro, rafforzare il fondo di stabilità (l’Efsf, il cosiddetto "fondo salva-Stati") dotandolo di maggiore liquidità, mettere in sicurezza il sistema bancario dell’Europa: il vertice europeo di domani dovrà fornire risposte ad ognuna di queste questioni.
Al momento, però, l'accordo sulle misure anti-crisi ancora non si trova. Pesa in questo la profonda divisione tra Francia e Germania. La prima – che teme declassamenti del proprio rating – preme per risposte immediate ed efficaci; la seconda – per via di ragioni di politica interna – procede con cautela, dicendo di non ritenere l’incontro decisivo e di non vedere effetti negativi in caso di risultati al di sotto delle aspettative. Proprio quello, però, che non vogliono le borse e gli operatori finanziari. Per questo, ha detto nei giorni scorsi il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, «tutte le decisioni devono essere prese domenica, anche se le misure per la loro attuazione seguiranno successivamente». Barroso ha esplicitamente invocato «senso del compromesso da parte di tutti i partecipanti».
Il clima resta comunque di profonda incertezza: il presidente francese Nicolas Sarkozy ha promesso un nuovo piano globale entro la fine del mese, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha smorzato le aspettative per una soluzione alla crisi, mentre il ministro delle finanze della Germania, Wolfgang Schaeuble, ha confermato la presenza di un'intesa solo rispetto a un piano per ricapitalizzare le banche, rimandando le risposte su come ridurre il debito della Grecia. Nessuna intesa neanche sul rafforzamento del fondo salva stati. Vano è stato anche il vertice straordinario “improvvisato” mercoledì a Francoforte, in occasione del passaggio di consegne tra Jean Claude Trichet, presidente uscente della Bce, e il suo successore Mario Draghi. Una serie di incontri tra rappresentanti di Germania, Francia, Banca centrale europea, Commissione europea e il Fondo monetario internazionale. Che anche in quel caso non hanno prodotto nulla. «L'Unione Europea sta dando un'immagine disastrosa», ha commentato un preoccupato Jean Claude Junker, presidente dell’Eurogruppo. Stasera intanto è atteso un pre-vertice tra il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso, il presidente francese Nicolas Sarkozy e la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy.
Tutto ancora da stabilire, dunque. Si attende tra auspici e timori. Le borse europee hanno chiuso in rialzo, e qualcuno legge il segnale con cauto ottimismo. Ma la verità è che la Banca centrale europea ha acquistato titoli di Stato italiani e spagnoli. Segno che per questi paesi c'è ancora bisogno di aiuti, e che molto probabilmente altre questioni si aggiungeranno a quelle già sul tavolo. Non lo ha nascosto il ministro dell'Economia olandese, Jan Kees de Jager. «L'Italia – ha detto - deve prendere nuove misure e mi aspetto che le presenti durante i vertici di questo week end».
La Nato resta in Libia fino al 31 ottobre
L'uccisione di Gheddafi non produce alcuno stop immediato della missione. Rasmussen: «lavoreremo con Onu e Cnt».
di Emiliano Biaggio
La Nato resterà in Libia fino al 31 ottobre. Lo ha annunciato il segretario generale della stessa organizzazione, Anders Fogh Rasmussen, al termine di una riunione del consiglio atlantico durata quasi sei ore. «Fino al 31 ottobre la Nato monitorerà la situazione», ha detto in conferenza stampa. «Nel frattempo – ha spiegato - lavoreremo con l'Onu e il Consiglio nazionale di transizione libico (Cnt)». Rasmussen ha quindi parlato della morte dell’ormai ex leader libico. «Riguardo a Gheddafi posso dire che sono sempre per il rispetto della legge e dei diritti umani», ha precisato. Adesso «sta alle autorità libiche decidere se deve esserci un'indagine o meno» sulla sua uccisione. L’auspicio, ha quindi aggiunto, è che «si rispetti lo spirito del Cnt per la democrazia e la trasparenza». Il segretario generale della Nato si è detto quindi «orgoglioso» per il lavoro svolto, e ha ringraziato tutti gli uomini impegnati nelle operazioni, svolte «per dare piena attuazione alla risoluzione Onu».
Alla fine di una lunga e difficile giornata di lavoro, la Nato trova dunque il bandolo della matassa. Perché le divisioni all’interno dell’alleanza atlantica non sono mancate, e proprio queste sono all’origine dello slittamento dei lavori. La sessione avrebbe dovuto concludersi per le 18, ora per la quale era stata convocata la conferenza stampa di Rasmussen, ma solo alle 22 si è potuto sapere cosa è stato deciso. La difficoltà della decisione risiede nel fatto che questa doveva essere presa all’unanimità, e quindi serviva totale condivisione delle scelte. Ciò però non era scontato. Lo aveva lasciato intendere il Comandante supremo della Nato per l'Europa (Saceur), l'ammiraglio James Stavridis, che sulla sua pagina Facebook ha scritto che si sarebbe battuto per «la fine della missione Nato in Libia», palesando l’esistenza delle due diverse anime del Consiglio, una più francese e una seconda più su posizioni britanniche. La Francia è stata infatti capofila dell’opzione per uno stop immediato delle operazioni, mentre la Gran Bretagna ha chiesto di restare per verificare che la situazione sia davvero sotto controllo. Alla fine la Nato ha deciso che resterà fino al 31 ottobre, chiudendo così una operazione durata 7 mesi.
di Emiliano Biaggio
La Nato resterà in Libia fino al 31 ottobre. Lo ha annunciato il segretario generale della stessa organizzazione, Anders Fogh Rasmussen, al termine di una riunione del consiglio atlantico durata quasi sei ore. «Fino al 31 ottobre la Nato monitorerà la situazione», ha detto in conferenza stampa. «Nel frattempo – ha spiegato - lavoreremo con l'Onu e il Consiglio nazionale di transizione libico (Cnt)». Rasmussen ha quindi parlato della morte dell’ormai ex leader libico. «Riguardo a Gheddafi posso dire che sono sempre per il rispetto della legge e dei diritti umani», ha precisato. Adesso «sta alle autorità libiche decidere se deve esserci un'indagine o meno» sulla sua uccisione. L’auspicio, ha quindi aggiunto, è che «si rispetti lo spirito del Cnt per la democrazia e la trasparenza». Il segretario generale della Nato si è detto quindi «orgoglioso» per il lavoro svolto, e ha ringraziato tutti gli uomini impegnati nelle operazioni, svolte «per dare piena attuazione alla risoluzione Onu».
Alla fine di una lunga e difficile giornata di lavoro, la Nato trova dunque il bandolo della matassa. Perché le divisioni all’interno dell’alleanza atlantica non sono mancate, e proprio queste sono all’origine dello slittamento dei lavori. La sessione avrebbe dovuto concludersi per le 18, ora per la quale era stata convocata la conferenza stampa di Rasmussen, ma solo alle 22 si è potuto sapere cosa è stato deciso. La difficoltà della decisione risiede nel fatto che questa doveva essere presa all’unanimità, e quindi serviva totale condivisione delle scelte. Ciò però non era scontato. Lo aveva lasciato intendere il Comandante supremo della Nato per l'Europa (Saceur), l'ammiraglio James Stavridis, che sulla sua pagina Facebook ha scritto che si sarebbe battuto per «la fine della missione Nato in Libia», palesando l’esistenza delle due diverse anime del Consiglio, una più francese e una seconda più su posizioni britanniche. La Francia è stata infatti capofila dell’opzione per uno stop immediato delle operazioni, mentre la Gran Bretagna ha chiesto di restare per verificare che la situazione sia davvero sotto controllo. Alla fine la Nato ha deciso che resterà fino al 31 ottobre, chiudendo così una operazione durata 7 mesi.
Wednesday, 19 October 2011
Crisi, Barroso: «non agire avrà impatti sull'Europa»
In vista del vertice europeo di domenica il presidente della commissione Ue invita a lavorare per risolvere la crisi greca. E mettere al sicuro la moneta unica.
di Emiliano Biaggio
«L'Europa vive un momento delicato, per cui le decisioni prese o non prese avranno un impatto». E' il monito di Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europeo, che in vista del vertice dell'Ue di questo fine settimana invita tutte le parti in causa ad «assumere ognuno le proprie responsabilità» e dare «risposte chiare e decise» alle questioni che affliggono l'Europa. Prima su tutte quella greca. Proprio il paese ellenico, per Barroso, è il primo punto della sua agenda. Come spiega in conferenza stampa, occorre muoversi lungo quattro direzioni: «Servono azioni decise sulla Grecia; in secondo luogo occorre migliorare gli strumenti di rafforzamente dell'Euro; in terzo luogo - continua il presidente della Commissione Ue - bisogna rafforzare le banche europee». Infine, «serve una migliore governance» della moneta unica.
«E' un momento cruciale e può essere un momento decisivo», sottolinea ancora Barroso, riferendosi a chi, come la Germania, ritiene che il vertice di fine settimana non sia decisivo. «Noi lavoriamo perchè il vertice sia un successo», nell'auspicio di giungere a «decisioni politiche su tutte le questioni sul tappeto». Comunque, aggiunge Barroso, «anche se arriviamo ad un accordo politico al vertice, cosa che spero, ci vorrà ancora un pò di lavoro tecnico. Non possiamo attenderci che il vertice sia la fine di tutti i problemi».
A proposito di problemi comunitari, il presidente della Commissione europea non esclude interventi a sostegno di paesi in difficoltà, ed in particolare la Spagna. Parlando del declassamento del paese iberico da parte dell'agenzia di rating Moodi's, Barroso non nasconde che «è nostra convinzione che il fondo di stabilità (il cosiddetto "fondo salva-Stati", ndr) sia necessario anche per far fronte a situazioni che ora non stiamo affrontando».
Sul tavolo c'è infatti il piano di aiuti alla Grecia, ma non è dunque escluso un intervento a sostegno della Spagna e, in caso, sull'Italia. Il nostro paese è infatti "osservato speciale" dall'Europa ed in particolare dalla Bce. Le due manovre economiche di questa estate sono state dettate infatti dall'acquisto dei titoli di stato italiani da parte della Banca centrale europea.
di Emiliano Biaggio
«L'Europa vive un momento delicato, per cui le decisioni prese o non prese avranno un impatto». E' il monito di Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europeo, che in vista del vertice dell'Ue di questo fine settimana invita tutte le parti in causa ad «assumere ognuno le proprie responsabilità» e dare «risposte chiare e decise» alle questioni che affliggono l'Europa. Prima su tutte quella greca. Proprio il paese ellenico, per Barroso, è il primo punto della sua agenda. Come spiega in conferenza stampa, occorre muoversi lungo quattro direzioni: «Servono azioni decise sulla Grecia; in secondo luogo occorre migliorare gli strumenti di rafforzamente dell'Euro; in terzo luogo - continua il presidente della Commissione Ue - bisogna rafforzare le banche europee». Infine, «serve una migliore governance» della moneta unica.
«E' un momento cruciale e può essere un momento decisivo», sottolinea ancora Barroso, riferendosi a chi, come la Germania, ritiene che il vertice di fine settimana non sia decisivo. «Noi lavoriamo perchè il vertice sia un successo», nell'auspicio di giungere a «decisioni politiche su tutte le questioni sul tappeto». Comunque, aggiunge Barroso, «anche se arriviamo ad un accordo politico al vertice, cosa che spero, ci vorrà ancora un pò di lavoro tecnico. Non possiamo attenderci che il vertice sia la fine di tutti i problemi».
A proposito di problemi comunitari, il presidente della Commissione europea non esclude interventi a sostegno di paesi in difficoltà, ed in particolare la Spagna. Parlando del declassamento del paese iberico da parte dell'agenzia di rating Moodi's, Barroso non nasconde che «è nostra convinzione che il fondo di stabilità (il cosiddetto "fondo salva-Stati", ndr) sia necessario anche per far fronte a situazioni che ora non stiamo affrontando».
Sul tavolo c'è infatti il piano di aiuti alla Grecia, ma non è dunque escluso un intervento a sostegno della Spagna e, in caso, sull'Italia. Il nostro paese è infatti "osservato speciale" dall'Europa ed in particolare dalla Bce. Le due manovre economiche di questa estate sono state dettate infatti dall'acquisto dei titoli di stato italiani da parte della Banca centrale europea.
bLOGBOOK - Bruxelles (appunti sparsi)
Bruxelles, capitale d'Europa. Punto di incontro di popoli e tradizioni, di lingue e stili di vita. Esempio storico di multiculturalismo, oggi più che mai Bruxelles si impone come crocevia del vecchio continente dalla voglia di nuovo. Fredda e inospitale di giorno, con i suoi mille e più uffici, studi notari, impegni istituzionali; calda, viva e colorata di notte, con i suoi ristoranti, i suoi bistrot e le birrerie di ogni tipo, una per ogni tipologia di birra. Il Belgio è infatti conosciuto ovunque per la sua sconfinata produzione di birre, tutte di ottima e pregiata fattura. Ma il Paese ha saputo legare il proprio nome all'eredità lasciata da personaggi come Renè Magritte, Eddie Merckxs ed Hergè. E ovviamente, in quanto capitale d'Europa, a Paul Henri Spaak, tra i fondatori - oltre che del Benelux - proprio della Comunità europea, e primo presidente dell'Assemblea comune europea.
Come tutte le città dell'Europa settentrionale, anche Bruxelles non risparmia il clima inospitale tipico di tutte le destinazioni così a nord del continente. Cielo grigio, vento e pioggia scandiscono il passaggio del tempo e delle stagioni, specie quelle più rigide. Questo ovviamente incide, e non poco, su chi ha già dovuto vivere ciò che partire può voler significare. Aspettative, nostalgie, desideri, timori, vecchie amicizie lasciate, nuove da allacciare: tutti i posti risentono degli stati d'animo di chi viaggia, e tutto di conseguenza ha il sapore e il tenore ia come si vive a livello interiore la nuova città e il nuovo paese. Ovviamente il tutto varia da persona a persona.
Qui, giusto per soffermarsi per un istante sul caso qui in questione, la decisione, peraltro sofferta, è stata presa tenendo conto della congiuntura economica piuttosto sfavorevole. Con un mercato del lavoro fermo, o con movimenti per la sola uscita, le alternative non sono molte: o si cambia mestiere o si cambia aria. E allora via, a cercare di accrescere la propria esperienza professionale arricchendo la propria vita. Poi, a ridosso della partenza, ovviamente la naturale paura prende il sopravvento. O meglio, subentra la rabbia per aver perso quello che si aveva. Uno sgomento amplificato dal non saper dove andare a stare per via di una prenotazione via mail miseramente fallita. Umore nero, gastrite profonda. Poi la telefonata inattesa di saluto da parte di chi tanto ha fatto sussultare il cuore. Tutto salta. Lo stomaco si fa stretto stretto, il ritmo cardiaco va fuori controllo, gli occhi bruciano. Ma questo ovviamente riguarda un singolo caso.
Come detto, ognuno vive il proprio viaggio a seconda del proprio animo. E' questo, per esempio, che porta a dire - una volta arrivati a Bruxelles in una fredda giornata grigia - "che tempo infame" oppure "almeno non piove".
Bruxelles, enclave bilingua a maggioranza francofona in terra di Fiandre, grande esempio in piccolo delle contraddizioni di un paese diviso fondato sulle divisioni e sui contrasti. Re e democrazia, francese e olandese, Fiandre e Vallonia, antico e moderno. Crescita e solidità senza un governo, cattolicesimo e strade a luci rosse, regole rigide e relativi escamotage per aggirarle: le luci e le ombre di una nazione e di un popolo difficili da catalogare.
"C'è poco da capire", spiega Raffaella, 31 anni ben nascosti nel suo aspetto assai più giovane. "Bruxelles è una città a misura d'uomo: appena un milioni di abitanti, tanti locali e se uno vuole bella vita. Tante opportunità. Ma questa è una città che ti stritola". Tre anni in Repubblica centraficana con l'Unhcr, l'alto commissariato per i rifiugiati delle Nazioni Unite, due in Darfur e uno, l'ultimo della serie, in Iraq. Raffaella, esperta di cooperazione internazionale, è una delle tante che ha lasciato casa, famiglia e amici per far fortuna altrove. Ma soprattutto è una che sa bene cosa voglia dire essere stritolati. "Qui alla fine tutti conoscono tutti, e basta un passo falso o una cazzata di quelle grandi per essere fatti fuori. Bruxelles è una città che ricorda". Insomma, le carriere e le ambizioni qui si perdono molto più velocemente di quanto non si pensi. Come nel resto del mondo, del resto. Solo che "nessun'altra città ti annienta come Bruxelles". Grazie per il tuo benvenuto, Raffaella. Hai davvero ragione te? Di errori io ne conto già troppi, ma questo non significa che non li abbia finiti. Allora sono destinato ad assiere annientato, qui?! Lo dirà il tempo.
Come tutte le città dell'Europa settentrionale, anche Bruxelles non risparmia il clima inospitale tipico di tutte le destinazioni così a nord del continente. Cielo grigio, vento e pioggia scandiscono il passaggio del tempo e delle stagioni, specie quelle più rigide. Questo ovviamente incide, e non poco, su chi ha già dovuto vivere ciò che partire può voler significare. Aspettative, nostalgie, desideri, timori, vecchie amicizie lasciate, nuove da allacciare: tutti i posti risentono degli stati d'animo di chi viaggia, e tutto di conseguenza ha il sapore e il tenore ia come si vive a livello interiore la nuova città e il nuovo paese. Ovviamente il tutto varia da persona a persona.
Qui, giusto per soffermarsi per un istante sul caso qui in questione, la decisione, peraltro sofferta, è stata presa tenendo conto della congiuntura economica piuttosto sfavorevole. Con un mercato del lavoro fermo, o con movimenti per la sola uscita, le alternative non sono molte: o si cambia mestiere o si cambia aria. E allora via, a cercare di accrescere la propria esperienza professionale arricchendo la propria vita. Poi, a ridosso della partenza, ovviamente la naturale paura prende il sopravvento. O meglio, subentra la rabbia per aver perso quello che si aveva. Uno sgomento amplificato dal non saper dove andare a stare per via di una prenotazione via mail miseramente fallita. Umore nero, gastrite profonda. Poi la telefonata inattesa di saluto da parte di chi tanto ha fatto sussultare il cuore. Tutto salta. Lo stomaco si fa stretto stretto, il ritmo cardiaco va fuori controllo, gli occhi bruciano. Ma questo ovviamente riguarda un singolo caso.
Come detto, ognuno vive il proprio viaggio a seconda del proprio animo. E' questo, per esempio, che porta a dire - una volta arrivati a Bruxelles in una fredda giornata grigia - "che tempo infame" oppure "almeno non piove".
Bruxelles, enclave bilingua a maggioranza francofona in terra di Fiandre, grande esempio in piccolo delle contraddizioni di un paese diviso fondato sulle divisioni e sui contrasti. Re e democrazia, francese e olandese, Fiandre e Vallonia, antico e moderno. Crescita e solidità senza un governo, cattolicesimo e strade a luci rosse, regole rigide e relativi escamotage per aggirarle: le luci e le ombre di una nazione e di un popolo difficili da catalogare.
"C'è poco da capire", spiega Raffaella, 31 anni ben nascosti nel suo aspetto assai più giovane. "Bruxelles è una città a misura d'uomo: appena un milioni di abitanti, tanti locali e se uno vuole bella vita. Tante opportunità. Ma questa è una città che ti stritola". Tre anni in Repubblica centraficana con l'Unhcr, l'alto commissariato per i rifiugiati delle Nazioni Unite, due in Darfur e uno, l'ultimo della serie, in Iraq. Raffaella, esperta di cooperazione internazionale, è una delle tante che ha lasciato casa, famiglia e amici per far fortuna altrove. Ma soprattutto è una che sa bene cosa voglia dire essere stritolati. "Qui alla fine tutti conoscono tutti, e basta un passo falso o una cazzata di quelle grandi per essere fatti fuori. Bruxelles è una città che ricorda". Insomma, le carriere e le ambizioni qui si perdono molto più velocemente di quanto non si pensi. Come nel resto del mondo, del resto. Solo che "nessun'altra città ti annienta come Bruxelles". Grazie per il tuo benvenuto, Raffaella. Hai davvero ragione te? Di errori io ne conto già troppi, ma questo non significa che non li abbia finiti. Allora sono destinato ad assiere annientato, qui?! Lo dirà il tempo.
Tuesday, 18 October 2011
Verità universale, versione 2
Sunday, 16 October 2011
Memorabilia n°2
Uno schema piuttosto puntuale della realtà italiana, sintesi estrema e perfetta dei meccanismi perversi e disfunzionali di un Paese allo sbando. Una rappresentazione di un principio col tempo divenuto universale e non più soltanto relegato al mondo del lavoro. Da qui il detto: tutto a posto e niente in ordine.
Saturday, 15 October 2011
Il governo "Porta portese" di Berlusconi
Il premier incassa la fiducia e nomina nuovi membri dell'esecutivo. Mentre gli italiani continuano ad ascoltare favole.
l'e-dittoreale
Silvio Berlusconi ottiene la fiducia della Camera, raggiungendo quota 316 deputati e dimostrando, di avere la maggioranza minima necessaria, di poter continuare a guidare il paese. Quindi «avanti fino al termine della legislatura», scandisce il premier, che denuncia il tentativo di un presunto «golpe burocratico», un ennesimo «agguato della sinistra». Peccato che se Montecitorio si è fermato ancora una volta per occuparsi delle questioni berlusconiane, è perchè la maggioranza di Berlusconi non ha saputo approvare l'articolo 1 sull'articolo 1 del Rendiconto di bilancio, la legge che fissa i conti dello Stato. Altro che agguato della sinistra. Ancora una volta, dunque, Berlusconi stravolge la verità dei fatti e inventa nemici immaginari, per nascondere agli italiani le vere colpe e le vere responsabilità di un governo che doveva essere "del fare" ma che per l'Italia ha invece fatto poco e niente. Per Berlusconi «hanno tentato di far cadere il governo con un cavillo burocratico», spiegazione tanto incredibile quanto fantasiosa. Così come incredibile è la lettura che un pur comprensibilmente Berlusconi offre della situazione politica: «Abbiamo i numeri per governare e andremo avanti», dice, salvo essere smentito immediatamente da Umberto Bossi. «Silvio Berlusconi andrà a votare quando lo diremo noi», sibila il leader del Carroccio, che lascia intendere chi comandi realmente all'interno di questo esecutivo sempre più «un banco di Porta portese», come definito dal segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Dopo la fiducia ottenuta, infatti, Berlusconi nomina Catia Polidori e Aurelio Misiti rispettivamente viceministro allo Sviluppo Economico e viceministro alle Infrastrutture. Mentre nella squadra di governo entrano a far parte, ex novo, anche Giuseppe Galati (come sottosegretario all'Istruzione) e Guido Viceconte (come sottosegretiario all'Interno). Alla faccia dei tagli ai costi della politica e dei tanti, tantissimi, precari e senza lavoro in giro per il paese. Meno male che Silvio c'è. Purtroppo.
l'e-dittoreale
Silvio Berlusconi ottiene la fiducia della Camera, raggiungendo quota 316 deputati e dimostrando, di avere la maggioranza minima necessaria, di poter continuare a guidare il paese. Quindi «avanti fino al termine della legislatura», scandisce il premier, che denuncia il tentativo di un presunto «golpe burocratico», un ennesimo «agguato della sinistra». Peccato che se Montecitorio si è fermato ancora una volta per occuparsi delle questioni berlusconiane, è perchè la maggioranza di Berlusconi non ha saputo approvare l'articolo 1 sull'articolo 1 del Rendiconto di bilancio, la legge che fissa i conti dello Stato. Altro che agguato della sinistra. Ancora una volta, dunque, Berlusconi stravolge la verità dei fatti e inventa nemici immaginari, per nascondere agli italiani le vere colpe e le vere responsabilità di un governo che doveva essere "del fare" ma che per l'Italia ha invece fatto poco e niente. Per Berlusconi «hanno tentato di far cadere il governo con un cavillo burocratico», spiegazione tanto incredibile quanto fantasiosa. Così come incredibile è la lettura che un pur comprensibilmente Berlusconi offre della situazione politica: «Abbiamo i numeri per governare e andremo avanti», dice, salvo essere smentito immediatamente da Umberto Bossi. «Silvio Berlusconi andrà a votare quando lo diremo noi», sibila il leader del Carroccio, che lascia intendere chi comandi realmente all'interno di questo esecutivo sempre più «un banco di Porta portese», come definito dal segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Dopo la fiducia ottenuta, infatti, Berlusconi nomina Catia Polidori e Aurelio Misiti rispettivamente viceministro allo Sviluppo Economico e viceministro alle Infrastrutture. Mentre nella squadra di governo entrano a far parte, ex novo, anche Giuseppe Galati (come sottosegretario all'Istruzione) e Guido Viceconte (come sottosegretiario all'Interno). Alla faccia dei tagli ai costi della politica e dei tanti, tantissimi, precari e senza lavoro in giro per il paese. Meno male che Silvio c'è. Purtroppo.
Friday, 14 October 2011
breviario
«Io penso ai problemi veri del Paese. Come La giustizia, che non significa avere l’ossessione delle intercettazioni».
Flavio Tosi (Lega nord), sindaco di Verona, in un'intervista a laRepubblica del 14 ottobre 2011.
Flavio Tosi (Lega nord), sindaco di Verona, in un'intervista a laRepubblica del 14 ottobre 2011.
AS Grifondoro (maggica giallo-rossa)
E' opinione diffusa a Hogwarts che tra i babbani ci sia l'Harry Potter del mondo che non conosce e che non vuole credere nella magia. Qui a fianco vedete il celebre maghetto nonchè cercatore e capitano dell'Associazione Sportiva Grifondoro vicino a Vincenzo Montella, per anni goleador dell'Associazione Sportiva Roma, rinomata squadra calcistica del mondo reale ma poco nota nel regno della magia, nonostante la Roma sia magica per definizione. Qualcuno sostiene che la somiglianza con Potter sia frutto di qualche fortuita coincidenza, per altri sia il frutto di un maleficio di Voi sapete chi. Per altri ancora Hermione Granger (ma lei ha prontamente smentito) avrebbe sbagliato qualcosa nei preparativi della pozione polisucco così da rendere incompleta la trasformazione in Harry Potter. C'è comunque chi pensa che Montella sia in realtà lo stesso Potter che ogni tanto, per evadere dalla monotonia di Hogwarts, si trasfromi in questo fantomatico babbano denominato Vincenzo Montella, che infatti è riapparso qualche anno fa alla Roma in veste - del tutto inedita - di allenatore. Tante sono gli aspetti che sembrerebbero avvalorare quest'ultima tesi: la somiglianza fisica, il fatto che che sia Potter sia Montella volano (il primo con la scopa il secondo con l'aeroplanino), il fatto che Potter provenga da una squadra di maghi e Montella da una squadra magica. Ma non fatevi ingannare: di Harry Potter ce n'è uno, tutti gli altri son nessuno.
Thursday, 13 October 2011
Wednesday, 12 October 2011
Egitto nel caos, l'islam contro i copti
I cristiani uccisi dai militari, ritenuti responsabili di non saper e voler trovare chi si scaglia contro la più grande minoranza religiosa del paese. Vicina alla guerra civile.
di Emiliano Biaggio
Il nuovo Egitto piomba nelle lotte e nella violenza confessionale, con la minoranza dei cristiani copti presa di mira e vittima dell'esplosione di violenza. Oltre venti, forse trenta e anche più il numero imprecisato delle persone rimaste uccise al termine degli scontri tra manifestanti e militari scoppiati nel corso della protesta dei copti a Il Cairo. Quelli che rappresentano la maggiore minoranza religiosa del paese (i copti sono infatti il 10% dell'intera popolazione egiziana), sono scesi per le strade per dire basta alle violenze. Molti ritengono che l'esercito - che detiene il potere dall'uscita di scena di Hosni Mubarak e che ha il compito di aiutare la transizione alla democrazia - non sappia e non voglia trovare i responsabili degli attacchi alle chiese cristiane sferrati negli ultimi mesi. La ripetono quasi tutti come una litania: l'esercito è come Mubarak, non trova i colpevoli degli attacchi. La paura è la crescita del fondamentalismo islamico, una svolta integralista dell'Egitto. Del resto la forte crescita del movimento dei Fratelli musulmani è sotto gli occhi di tutto. La certezza è che proprio come in Iraq, caduto il raìs, nemico comune, il Paese s' è spaccato.
di Emiliano Biaggio
Il nuovo Egitto piomba nelle lotte e nella violenza confessionale, con la minoranza dei cristiani copti presa di mira e vittima dell'esplosione di violenza. Oltre venti, forse trenta e anche più il numero imprecisato delle persone rimaste uccise al termine degli scontri tra manifestanti e militari scoppiati nel corso della protesta dei copti a Il Cairo. Quelli che rappresentano la maggiore minoranza religiosa del paese (i copti sono infatti il 10% dell'intera popolazione egiziana), sono scesi per le strade per dire basta alle violenze. Molti ritengono che l'esercito - che detiene il potere dall'uscita di scena di Hosni Mubarak e che ha il compito di aiutare la transizione alla democrazia - non sappia e non voglia trovare i responsabili degli attacchi alle chiese cristiane sferrati negli ultimi mesi. La ripetono quasi tutti come una litania: l'esercito è come Mubarak, non trova i colpevoli degli attacchi. La paura è la crescita del fondamentalismo islamico, una svolta integralista dell'Egitto. Del resto la forte crescita del movimento dei Fratelli musulmani è sotto gli occhi di tutto. La certezza è che proprio come in Iraq, caduto il raìs, nemico comune, il Paese s' è spaccato.
Sunday, 9 October 2011
Corea del Nord, anche l'esercito patisce la fame
Fonti nordcoreane avrebbero denunciato penuria di cibo nella macchina bellica a guardia di Kim Jong-il e del suo regime.
di Emiliano Biaggio
In Corea del Nord la crisi alimentare si aggrava, e arriva a colpire anche i militari. Da quello che trapela dal blindato e inaccessibile paese asiatico, infatti, anche tra le fila dell'esercito si starebbe iniziando a toccare con mano la penuria di cibo. I soldati semplici avrebbero lamentato di mangiare una manciata di patate al giorno, e un alto ufficiale avrebbe confermato la diffocoltà del momento dicendo che la razione per un militare è di 100 grammi di cibo al giorno, poco per chi deve addestrarsi. Un problema per il regime. La Corea del Nord vanta sulla carta il quarto esercito più potente al mondo, il quarto per numero di uomini in servizio (oltre un milione). Ma le forze armate, punto di forza del regime e del suo capo Kim Jong-il, rischiano adesso di divenire un punto di criticità per le alte sfere di Pyongyang. Tutto è avvolto dal più fitto mistero, come sempre quando si parla di Corea del Nord. Tuttavia il ministro della Corea del Sud per la riunificazione, Yu Woo-ik, fa sapere che la situazione non sarebbe più seria del solito. «Non credo che la situazione sia davvero seria, sebbene la penuria di riso sia arrivata a toccare un livello più elevato del normale».
La malnutrizione, del resto, non è un mistero. Secondo le agenzie umanitarie facenti riferimento all'Onu dalla fame sarebbe toccato in modo grave un quarto della popolazione totale del Paese (cioè circa sei milioni di persone sui 24 milioni di nordcoreani). Ma se fosse vero che anche i militari adesso sarebbero tra quanti non mangiano a sufficienza si aprirebbero scenari di instabilità interna. Tanto che gli Stati Uniti non nascondono la propria «profonda preoccupazione».
di Emiliano Biaggio
In Corea del Nord la crisi alimentare si aggrava, e arriva a colpire anche i militari. Da quello che trapela dal blindato e inaccessibile paese asiatico, infatti, anche tra le fila dell'esercito si starebbe iniziando a toccare con mano la penuria di cibo. I soldati semplici avrebbero lamentato di mangiare una manciata di patate al giorno, e un alto ufficiale avrebbe confermato la diffocoltà del momento dicendo che la razione per un militare è di 100 grammi di cibo al giorno, poco per chi deve addestrarsi. Un problema per il regime. La Corea del Nord vanta sulla carta il quarto esercito più potente al mondo, il quarto per numero di uomini in servizio (oltre un milione). Ma le forze armate, punto di forza del regime e del suo capo Kim Jong-il, rischiano adesso di divenire un punto di criticità per le alte sfere di Pyongyang. Tutto è avvolto dal più fitto mistero, come sempre quando si parla di Corea del Nord. Tuttavia il ministro della Corea del Sud per la riunificazione, Yu Woo-ik, fa sapere che la situazione non sarebbe più seria del solito. «Non credo che la situazione sia davvero seria, sebbene la penuria di riso sia arrivata a toccare un livello più elevato del normale».
La malnutrizione, del resto, non è un mistero. Secondo le agenzie umanitarie facenti riferimento all'Onu dalla fame sarebbe toccato in modo grave un quarto della popolazione totale del Paese (cioè circa sei milioni di persone sui 24 milioni di nordcoreani). Ma se fosse vero che anche i militari adesso sarebbero tra quanti non mangiano a sufficienza si aprirebbero scenari di instabilità interna. Tanto che gli Stati Uniti non nascondono la propria «profonda preoccupazione».
Thursday, 6 October 2011
Verità universale
Un'immagine pubblicata sul calendario pin-up del 1952. Un'illustrazione vecchia ormai settant'anni che mostra però una verità di sempre, valida nel passato più remoto come nel presente. E così sarà in futuro. A guardarla con gli occhi di oggi, alla luce degli eventi della cronaca politica di questi ultimi anni, questa immagine può anche rappresentare la sintesi del berlusconismo. Dedicato a chi ancora si ostina a credere che l'uomo conti qualcosa nel rapporto fra sessi.
Wednesday, 5 October 2011
Via da Confindustria, riecco i vecchi padroni
La Fiat annuncia l'uscita dall'associazione, che dal 2012 perderà anche Pigna. Perchè l'imprenditore vuole essere libero di fare ciò che vuole.
di Emiliano Biaggio
«Confermo che Fiat e Fiat Industrial hanno deciso di uscire da Confindustria con effetto immediato dall'1 gennaio 2012». Firmato: Sergio Marchionne. L'amministratore delegato del Lingotto annuncia l'uscita dall'associazione degli industriali, facendole perdere peso - e quindi importanza - ma soprattutto proseguendo in quel percorso molto chiaro che vuole il ritorno del padrone quale signore assoluto delle fabbriche. Già con l'accordo di Pomigliano, dove Marchionne impose e ottenne la cancellazione di una buona parte dei diritti dei lavoratori e la riscrittura del diritto del lavoro, si capiva che il manager intendeva ridimensionare i sindacati e accrescere il potere decisionale del datore di lavoro. Il risultato è quello che tutti conosciamo: pause pranzo a fine turno, cioè dopo 8 ore; 80 ore di straordinario in più per lavoratore all’anno, che l'azienda stabilisce senza dover rendere conto al sindacato; primi tre giorni di malattia non retribuiti se considerati "assenteismo anomalo". Definirlo un nuovo embrione di schiavismo potrebbe essere per alcuni legittimo, per altri (i diretti interessati) fuori luogo, in quanto - in applicazione di quel malsano principio ormai riconosciuto da tutti per cui se si paga si può fare ciò che si vuole - l'azienda stipendia il proprio dipendente. A maggior ragione l'uscita da Confindustria. L'accordo di Pomigliano erano le prove generali per quella libera possibilità di stipulare contratti aziendali singolarmente, come vuole Marchionne. Il liberismo sfrenato che senza regole si traduce in giungla. Questo è. E in questo Marchionne trova seguito. In politica, innanzitutto. Sia nel ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, da sempre contro i sindacati più intransigenti (Cgil e Fiom), sia nei parlamentari. Infatti, sull'onda dell'annuncio di Marchionne la Lega chiede a Tremonti di far uscire da Confindustria le aziende di Stato (Ansaldo, Enel, Eni, Finmeccanica, Ferrovie dello Stato, solo per citarne alcune). In questo modo Confindustria perderebbe notevole peso ed Emma Marcegaglia - va sottolineato, piuttosto critica con questo governo - perderebbe autorevolezza e margini di trattative, in quanto rappresentante di piccole e medie imprese. In attesa di risposte dell'azionista (il Tesoro, e quindi Giulio Tremonti), Giorgio Jannone, presidente e amministratore delegato delle cartiere Pigna nonchè deputato Pdl (nel solito intreccio e forse conflitto di interessi tra politica ed economia), annuncia l'uscita da Confindustria del proprio gruppo. Il motivo? «Confindustria - spiega Jannone - deve rappresentare tutti gli iscritti, senza assumere posizioni marcatamente politiche, e senza porre ultimatum al governo, senza avallare candidati politici o annunci a pagamento». Fondata nel 1870, Pigna è una delle industrie italiane più antiche, ed è tra le aziende che fondarono Confindustria. Una sua uscita sarebbe dunque una defezioni di non poco conto. Ma Jannone esclude i condizionali. «Dall'1 gennaio 2012 - annuncia - non parteciperemo più a Confindustria, la cui iscrizione, tra l'altro, rappresenta un onere per tutte le imprese italiane non indifferente, essendo parametrata sul monte salari». Ecco dunque svelato l'arcano: i dipendenti costano troppo, e ciò non è più tollerabile. Insomma, Marchionne detta la linea padronale e i grandi proprietari si allineano. Ferie, malattie, maternità, pause, straordinari pagati, contratti a tempo indeterminato sono ormai lussi che non ci si può permettere. Le pistole semiautomatiche, invece, possono costare appena 150 euro. Pallottole incluse. Perchè l'operaio non dovrebbe prendere la mira e premere il grilletto? In fin dei conti, «l'assassinio è l'attività imprenditoriale su cui prospera il vostro sistema e si afferma rigogliosa la vostra industria»*.
*Charlie Chaplin, dal monologo finale di Monsieur Verdoux, 1947
di Emiliano Biaggio
«Confermo che Fiat e Fiat Industrial hanno deciso di uscire da Confindustria con effetto immediato dall'1 gennaio 2012». Firmato: Sergio Marchionne. L'amministratore delegato del Lingotto annuncia l'uscita dall'associazione degli industriali, facendole perdere peso - e quindi importanza - ma soprattutto proseguendo in quel percorso molto chiaro che vuole il ritorno del padrone quale signore assoluto delle fabbriche. Già con l'accordo di Pomigliano, dove Marchionne impose e ottenne la cancellazione di una buona parte dei diritti dei lavoratori e la riscrittura del diritto del lavoro, si capiva che il manager intendeva ridimensionare i sindacati e accrescere il potere decisionale del datore di lavoro. Il risultato è quello che tutti conosciamo: pause pranzo a fine turno, cioè dopo 8 ore; 80 ore di straordinario in più per lavoratore all’anno, che l'azienda stabilisce senza dover rendere conto al sindacato; primi tre giorni di malattia non retribuiti se considerati "assenteismo anomalo". Definirlo un nuovo embrione di schiavismo potrebbe essere per alcuni legittimo, per altri (i diretti interessati) fuori luogo, in quanto - in applicazione di quel malsano principio ormai riconosciuto da tutti per cui se si paga si può fare ciò che si vuole - l'azienda stipendia il proprio dipendente. A maggior ragione l'uscita da Confindustria. L'accordo di Pomigliano erano le prove generali per quella libera possibilità di stipulare contratti aziendali singolarmente, come vuole Marchionne. Il liberismo sfrenato che senza regole si traduce in giungla. Questo è. E in questo Marchionne trova seguito. In politica, innanzitutto. Sia nel ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, da sempre contro i sindacati più intransigenti (Cgil e Fiom), sia nei parlamentari. Infatti, sull'onda dell'annuncio di Marchionne la Lega chiede a Tremonti di far uscire da Confindustria le aziende di Stato (Ansaldo, Enel, Eni, Finmeccanica, Ferrovie dello Stato, solo per citarne alcune). In questo modo Confindustria perderebbe notevole peso ed Emma Marcegaglia - va sottolineato, piuttosto critica con questo governo - perderebbe autorevolezza e margini di trattative, in quanto rappresentante di piccole e medie imprese. In attesa di risposte dell'azionista (il Tesoro, e quindi Giulio Tremonti), Giorgio Jannone, presidente e amministratore delegato delle cartiere Pigna nonchè deputato Pdl (nel solito intreccio e forse conflitto di interessi tra politica ed economia), annuncia l'uscita da Confindustria del proprio gruppo. Il motivo? «Confindustria - spiega Jannone - deve rappresentare tutti gli iscritti, senza assumere posizioni marcatamente politiche, e senza porre ultimatum al governo, senza avallare candidati politici o annunci a pagamento». Fondata nel 1870, Pigna è una delle industrie italiane più antiche, ed è tra le aziende che fondarono Confindustria. Una sua uscita sarebbe dunque una defezioni di non poco conto. Ma Jannone esclude i condizionali. «Dall'1 gennaio 2012 - annuncia - non parteciperemo più a Confindustria, la cui iscrizione, tra l'altro, rappresenta un onere per tutte le imprese italiane non indifferente, essendo parametrata sul monte salari». Ecco dunque svelato l'arcano: i dipendenti costano troppo, e ciò non è più tollerabile. Insomma, Marchionne detta la linea padronale e i grandi proprietari si allineano. Ferie, malattie, maternità, pause, straordinari pagati, contratti a tempo indeterminato sono ormai lussi che non ci si può permettere. Le pistole semiautomatiche, invece, possono costare appena 150 euro. Pallottole incluse. Perchè l'operaio non dovrebbe prendere la mira e premere il grilletto? In fin dei conti, «l'assassinio è l'attività imprenditoriale su cui prospera il vostro sistema e si afferma rigogliosa la vostra industria»*.
*Charlie Chaplin, dal monologo finale di Monsieur Verdoux, 1947
Tuesday, 4 October 2011
Il Consiglio d'Europa riconosce la Palestina
Grazie a questa decisione godrà dello statuto di osservatore.
(fonte: ilSole24ore)
Il Consiglio d'Europa riconosce la Palestina. La dizione ufficiale è «Partner per la democrazia», ma di fatto il Consiglio nazionale palestinese gode da oggi dello statuto di osservatore, come Usa, Giappone, Canada, Maessico, Israele e Vaticano. La richiesta della Palestina di poter partecipare ai lavori, alle riunioni e ai dibattiti dell'istituzione europea in qualità di osservatore è stata ratificata dall'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa con 110 voti a favore, 5 contrari e 10 astenuti.
Il relatore dell'istanza palestinese, il parlamentare olandese Tiny Kox ha insistito sull'utilità di comprendere l'Autorità nazionlae palestinese nella primavera araba. Il presidente del parlamento Salim Al Zànoon ha definito il voto un evento storico che contribuirà certamente a ristabilire la pace nella regione. Dopo la delusione della scorsa settimane all'Onu, sottolinea una nota del Consiglio d'Europa, «il riconoscimento da parte del Consiglio d'Europa è un motivo di grande soddisfazione per i palestinesi, che considerano questa nuova situazione come la prima tappa per un riconoscimento della loro entità».
(fonte: ilSole24ore)
Il Consiglio d'Europa riconosce la Palestina. La dizione ufficiale è «Partner per la democrazia», ma di fatto il Consiglio nazionale palestinese gode da oggi dello statuto di osservatore, come Usa, Giappone, Canada, Maessico, Israele e Vaticano. La richiesta della Palestina di poter partecipare ai lavori, alle riunioni e ai dibattiti dell'istituzione europea in qualità di osservatore è stata ratificata dall'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa con 110 voti a favore, 5 contrari e 10 astenuti.
Il relatore dell'istanza palestinese, il parlamentare olandese Tiny Kox ha insistito sull'utilità di comprendere l'Autorità nazionlae palestinese nella primavera araba. Il presidente del parlamento Salim Al Zànoon ha definito il voto un evento storico che contribuirà certamente a ristabilire la pace nella regione. Dopo la delusione della scorsa settimane all'Onu, sottolinea una nota del Consiglio d'Europa, «il riconoscimento da parte del Consiglio d'Europa è un motivo di grande soddisfazione per i palestinesi, che considerano questa nuova situazione come la prima tappa per un riconoscimento della loro entità».
Israele, il ghetto ebraico del Medio Oriente
Tra muri realizzati e progettati, reticolati di filo spinato e sensori, lo Stato ebraico si autocondanna all'isolamento.
di Emiliano Biaggio
In Medio Oriente Israele è sempre più solo e soprattutto isolato. Ormai è un dato di fatto. Con Siria e Libano i rapporti sono da sempre tesi, con la Turchia - una volta paese amico - è crisi diplomatica, il nuovo Egitto è una incognita ma la riapertura del valico di Rafah (che permette il transito di cose e persone da e verso la Palestina) rappresenta una preoccupazione per il governo di Tel Aviv, e la Giordania è alle prese con problemi di politica interna. Come se non bastasse Israele si arrocca dietro a barriere di cemento e filo spinato. Per le autorità dello Stato ebraico, protezioni come il muro di Gerusalemme servono per difesa, peraltro legittima. Ma le recinzioni servono solo a circoscrivere il problema. E se è vero che le fortificazioni possono rendere lasciare buona parte delle minacce, va detto che gli israeliani restano però intrappolati - o meglio, confinati - dentro. Con i suoi progetti Israele si sta di fatto "ghettizando" (e mai termine sembra essere più appropriato) da sola. La miopia sta nel non rendersi conto che un cinta muraria non rende più inattabili e impenetrabili, ma rende più deboli. Perchè è la dimostrazione intanto del richiudersi su sè stessi, e poi perchè si dà l'immagine di un popolo che non sa essere aperto verso il prossimo. E questo, in una regione turbolenta dove anche l'Iran si affacia con sempre più antisemitica prepotenza, non giova certo a Israele. Che ha tutto il diritto alla difesa, ma forse anche il dovere di agire in altro modo. Invece procede con il suo progetto di bel recinto.
(fonte foto: ilSole24ore)
di Emiliano Biaggio
In Medio Oriente Israele è sempre più solo e soprattutto isolato. Ormai è un dato di fatto. Con Siria e Libano i rapporti sono da sempre tesi, con la Turchia - una volta paese amico - è crisi diplomatica, il nuovo Egitto è una incognita ma la riapertura del valico di Rafah (che permette il transito di cose e persone da e verso la Palestina) rappresenta una preoccupazione per il governo di Tel Aviv, e la Giordania è alle prese con problemi di politica interna. Come se non bastasse Israele si arrocca dietro a barriere di cemento e filo spinato. Per le autorità dello Stato ebraico, protezioni come il muro di Gerusalemme servono per difesa, peraltro legittima. Ma le recinzioni servono solo a circoscrivere il problema. E se è vero che le fortificazioni possono rendere lasciare buona parte delle minacce, va detto che gli israeliani restano però intrappolati - o meglio, confinati - dentro. Con i suoi progetti Israele si sta di fatto "ghettizando" (e mai termine sembra essere più appropriato) da sola. La miopia sta nel non rendersi conto che un cinta muraria non rende più inattabili e impenetrabili, ma rende più deboli. Perchè è la dimostrazione intanto del richiudersi su sè stessi, e poi perchè si dà l'immagine di un popolo che non sa essere aperto verso il prossimo. E questo, in una regione turbolenta dove anche l'Iran si affacia con sempre più antisemitica prepotenza, non giova certo a Israele. Che ha tutto il diritto alla difesa, ma forse anche il dovere di agire in altro modo. Invece procede con il suo progetto di bel recinto.
(fonte foto: ilSole24ore)
Monday, 3 October 2011
Israele, prove di nuove trattative
Da Tel Aviv si dicono pronti a tornare al tavolo, ma con «riserve». L'Anp: «Confini del 1967 e stop colonie o nessun accordo».
di Emiliano Biaggio
Israele ci riprova. Il premier dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu ha annunciato di voler riprendere le trattative con l'Autorità palestinese. Una nota dell'ufficio del capo del Governo di Tel Aviv fa sapere che Israele è pronto a intavolare «trattative dirette e senza precondizioni con l'Anp». Israele asseconda dunque le posizioni del Quartetto (Stati Uniti, Unione europea, Nazioni Unite e Russia) e invita a l'Anp ad «assumere un eguale atteggiamento e di associarsi alle trattative senza alcun ritardo». Ma i palestinesi mostrano scetticismo. A loro avviso Israele non intende arrivare a una soluzione che soddisfi veramente la parte arabo-islamica. Non a caso il capo negoziatore palestinese per il Medio Oriente, Saeb Ekerat, ricorda che «se il primo ministro israeliano concorda con il Quartetto allora deve annunciare un congelamento delle colonie e accettare il principio dei confini del 1967 perché è questo evidentemente che chiede il Quartetto». Uno scenario che difficilmete Israele prenderà in considerazione, se è vero - come sottolineato dalla nota dell'ufficio di Netanyahu - che lo Stato ebraico nutre «alcune riserve» sul piano proposto. Insomma, per ora ci sono le intenzioni. O solo l'annuncio della ripresa dello spettacolo dell'ormai noto teatrino della finta diplomazia. Per questo il Segretario alla difesa degli Stati Uniti, Leon Panetta, esorta israeliani e palestinesi a intraprendere «azioni coraggiose». Il rappresentante del Governo Usa esprime infatti tutta la preoccupazione che la Casa Bianca vive per le sorti di una regione più che mai turbolenta e con Israele ai margini. «In questo momento straordinario - spiega Panetta - in Medio Oriente, mentre si producono tanti cambiamenti, non è buono per Israele essere sempre più isolato. Ma questo è proprio quello che sta accadendo». Per cui «la domanda che bisogna porsi è se è sufficiente mantenere un vantaggio militare». Panetta lo chiede di fatto a Israele, che si dice disposta a trattare, «senza precondizioni» ma con «riserve». E' questa formula che lascia troppi dubbi e altrettante preoccupazioni. «Vogliamo tornare a negoziare», ammette il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen. Il problema è che «Netanyahu è libero di fare quello che preferisce perché è Israele la nazione occupante. Netanyahu occupa la nostra terra e può fare ciò che vuole».
di Emiliano Biaggio
Israele ci riprova. Il premier dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu ha annunciato di voler riprendere le trattative con l'Autorità palestinese. Una nota dell'ufficio del capo del Governo di Tel Aviv fa sapere che Israele è pronto a intavolare «trattative dirette e senza precondizioni con l'Anp». Israele asseconda dunque le posizioni del Quartetto (Stati Uniti, Unione europea, Nazioni Unite e Russia) e invita a l'Anp ad «assumere un eguale atteggiamento e di associarsi alle trattative senza alcun ritardo». Ma i palestinesi mostrano scetticismo. A loro avviso Israele non intende arrivare a una soluzione che soddisfi veramente la parte arabo-islamica. Non a caso il capo negoziatore palestinese per il Medio Oriente, Saeb Ekerat, ricorda che «se il primo ministro israeliano concorda con il Quartetto allora deve annunciare un congelamento delle colonie e accettare il principio dei confini del 1967 perché è questo evidentemente che chiede il Quartetto». Uno scenario che difficilmete Israele prenderà in considerazione, se è vero - come sottolineato dalla nota dell'ufficio di Netanyahu - che lo Stato ebraico nutre «alcune riserve» sul piano proposto. Insomma, per ora ci sono le intenzioni. O solo l'annuncio della ripresa dello spettacolo dell'ormai noto teatrino della finta diplomazia. Per questo il Segretario alla difesa degli Stati Uniti, Leon Panetta, esorta israeliani e palestinesi a intraprendere «azioni coraggiose». Il rappresentante del Governo Usa esprime infatti tutta la preoccupazione che la Casa Bianca vive per le sorti di una regione più che mai turbolenta e con Israele ai margini. «In questo momento straordinario - spiega Panetta - in Medio Oriente, mentre si producono tanti cambiamenti, non è buono per Israele essere sempre più isolato. Ma questo è proprio quello che sta accadendo». Per cui «la domanda che bisogna porsi è se è sufficiente mantenere un vantaggio militare». Panetta lo chiede di fatto a Israele, che si dice disposta a trattare, «senza precondizioni» ma con «riserve». E' questa formula che lascia troppi dubbi e altrettante preoccupazioni. «Vogliamo tornare a negoziare», ammette il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen. Il problema è che «Netanyahu è libero di fare quello che preferisce perché è Israele la nazione occupante. Netanyahu occupa la nostra terra e può fare ciò che vuole».
Sunday, 2 October 2011
L'Unione che non c'è e il ritorno al passato
l'analisi di Emiliano Biaggio
La Grecia riceverà altri aiuti da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea ed Unione europea. In cambio il governo di Atene procederà al taglio di 30.000 dipendenti pubblici. La stampa internazionale dà risalto all'accordo ritenendolo un buon risultato, una vittoria e un motivo di soddisfazione. Qui si pone però un quesito che molti sembrano non essersi - forse volutamente - posti: possono tagli del 20% sulle pensioni sopra i 1.200 euro e 30 mila statali in mobilità entro la fine dell'anno essere considerati una cosa positiva? Per l'elite di banchieri e la ristretta oligarchia che ha potere e ancor più privilegi otterrà da simili misure sì, per chi dovrà essere sacrificato ovviamente no. Il quesito è però un altro: Conviene all'Ue? Decisamente no. L'Unione europea è ormai vista da tutti più come un peso (come non ricordare la bocciatura della costituzione Ue di Paesi Bassi e Irlanda), in molti mettono in discussione l'Euro e le misure imposte dagli istituti di credito dimostrano come i governi nazionali ormai subiscano il processo di integrazione. O disintegrazione. Gli stati sono svuotati di autonomia decisionali e sono con la corda attorno alla gola in attesa di essere stritolati dalle condizioni che sistematicamente vengono imposte in nome di questo modello Euro che benefici non ne sta producendo e in nome di questo modello capitalista che uccide lo Stato in nome delle privatizzazioni. Risultato? La crisi delle democrazie. Mai come oggi la democrazia in generale è alle strette, provata da un sistema economico che di fatto toglie al popolo per dare a una nuova aristocrazia. Nobiltà, clero e terzo stato: questi gli ordini in voga in Europa nel XVIII secolo. Oggi siamo forse in una condizione tanto diversa? Clero e nobiltà insieme rappresentano la minoranza dell'intera popolazione, godono di privilegi (non pagano le tasse o le evadono, ma comunque non versano all'Erario, proprio come nel 1700), contro una maggioranza eterogenea di persone che rappresentano il resto dello strato sociale, oberato e schiacciato dai più potenti e più prepotenti. Le conquiste sociali di secoli sono state spazzate vie da pochi turbolenti decenni che hanno visto la frammentazione (o forse sarebbe più appropriato definirla disgregazione) di società (con le sue convenzioni e i suoi valori) e istituzioni (con le loro regole e meccanismi). Con il conseguente risultato di un generale e diffuso ritorno di pulsioni autoritarie. Il caso ungherese ne è un caso esemplare. Ma l'ascesa dell'estrema destra austriaca, il radicalismo turco e la voglia ovunque di stati forti testimonia che la democrazia è ormai a un bivio. Molti sostengono che il fallimento dell'Euro sarebbe un problema; restare nell'Euro, in questa presunta Europa che esaspera le differenze e le sofferenze, è forse una soluzione? No. Presto o tardi la situazione esploderà, ma non saranno certo i potenti banchieri e le signorie di sempre a farne le spese. L'Unione europea ha fallito, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. La globalizzazione ha prodotto la paura nel resto del mondo, e la rincorsa ai vecchi localismi e alle barriere doganali. Il tanto decantato progresso, come neanche nelle migliori sceneggiature chapliniane, ha prodotto solo giganteschi passi indietro. Oggi pochi signori tornano a condannare a morte 30.000 famiglie, a segnare la vita di migliaia di persone, con la naturalezza e la noncuranza propria di chi lavora per tessere le maglie di una società che deve produrre sempre più incolmabili differenze. Scrivere come fa Alessandro Alviani su La Stampa che «la Grecia può tirare il fiato» vuol dire nella migliore delle ipotesi non capire la gravità dell'affermazione e nella peggiore rendersi conto di un gioco al massacro che non risparmierà nessuno, tra i più deboli. Questa Europa non ha senso e non ha nulla di buono. E ce ne accorgiamo ogni giorno di più. Le democrazie sono in pericolo, le Nazioni Unite raccolgono la triste eredità della Società delle Nazioni, incapaci come sono di gestire le crisi e di far valare le ragioni dei soggetti meno importanti. La crisi non è allora solo economica. Visto che nessuno sembra ricordarsi come si risolse la situazione pre-rivoluzione francese, sarebbe opportuno ricordare come si risolse - per così dire - la situazione di crisi politico economica degli anni '30 del XX secolo: con una guerra mondiale. Forse non ce ne sarà bisogno, ma possiamo permetterci di ignorare un fatto così rilevante?
La Grecia riceverà altri aiuti da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea ed Unione europea. In cambio il governo di Atene procederà al taglio di 30.000 dipendenti pubblici. La stampa internazionale dà risalto all'accordo ritenendolo un buon risultato, una vittoria e un motivo di soddisfazione. Qui si pone però un quesito che molti sembrano non essersi - forse volutamente - posti: possono tagli del 20% sulle pensioni sopra i 1.200 euro e 30 mila statali in mobilità entro la fine dell'anno essere considerati una cosa positiva? Per l'elite di banchieri e la ristretta oligarchia che ha potere e ancor più privilegi otterrà da simili misure sì, per chi dovrà essere sacrificato ovviamente no. Il quesito è però un altro: Conviene all'Ue? Decisamente no. L'Unione europea è ormai vista da tutti più come un peso (come non ricordare la bocciatura della costituzione Ue di Paesi Bassi e Irlanda), in molti mettono in discussione l'Euro e le misure imposte dagli istituti di credito dimostrano come i governi nazionali ormai subiscano il processo di integrazione. O disintegrazione. Gli stati sono svuotati di autonomia decisionali e sono con la corda attorno alla gola in attesa di essere stritolati dalle condizioni che sistematicamente vengono imposte in nome di questo modello Euro che benefici non ne sta producendo e in nome di questo modello capitalista che uccide lo Stato in nome delle privatizzazioni. Risultato? La crisi delle democrazie. Mai come oggi la democrazia in generale è alle strette, provata da un sistema economico che di fatto toglie al popolo per dare a una nuova aristocrazia. Nobiltà, clero e terzo stato: questi gli ordini in voga in Europa nel XVIII secolo. Oggi siamo forse in una condizione tanto diversa? Clero e nobiltà insieme rappresentano la minoranza dell'intera popolazione, godono di privilegi (non pagano le tasse o le evadono, ma comunque non versano all'Erario, proprio come nel 1700), contro una maggioranza eterogenea di persone che rappresentano il resto dello strato sociale, oberato e schiacciato dai più potenti e più prepotenti. Le conquiste sociali di secoli sono state spazzate vie da pochi turbolenti decenni che hanno visto la frammentazione (o forse sarebbe più appropriato definirla disgregazione) di società (con le sue convenzioni e i suoi valori) e istituzioni (con le loro regole e meccanismi). Con il conseguente risultato di un generale e diffuso ritorno di pulsioni autoritarie. Il caso ungherese ne è un caso esemplare. Ma l'ascesa dell'estrema destra austriaca, il radicalismo turco e la voglia ovunque di stati forti testimonia che la democrazia è ormai a un bivio. Molti sostengono che il fallimento dell'Euro sarebbe un problema; restare nell'Euro, in questa presunta Europa che esaspera le differenze e le sofferenze, è forse una soluzione? No. Presto o tardi la situazione esploderà, ma non saranno certo i potenti banchieri e le signorie di sempre a farne le spese. L'Unione europea ha fallito, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. La globalizzazione ha prodotto la paura nel resto del mondo, e la rincorsa ai vecchi localismi e alle barriere doganali. Il tanto decantato progresso, come neanche nelle migliori sceneggiature chapliniane, ha prodotto solo giganteschi passi indietro. Oggi pochi signori tornano a condannare a morte 30.000 famiglie, a segnare la vita di migliaia di persone, con la naturalezza e la noncuranza propria di chi lavora per tessere le maglie di una società che deve produrre sempre più incolmabili differenze. Scrivere come fa Alessandro Alviani su La Stampa che «la Grecia può tirare il fiato» vuol dire nella migliore delle ipotesi non capire la gravità dell'affermazione e nella peggiore rendersi conto di un gioco al massacro che non risparmierà nessuno, tra i più deboli. Questa Europa non ha senso e non ha nulla di buono. E ce ne accorgiamo ogni giorno di più. Le democrazie sono in pericolo, le Nazioni Unite raccolgono la triste eredità della Società delle Nazioni, incapaci come sono di gestire le crisi e di far valare le ragioni dei soggetti meno importanti. La crisi non è allora solo economica. Visto che nessuno sembra ricordarsi come si risolse la situazione pre-rivoluzione francese, sarebbe opportuno ricordare come si risolse - per così dire - la situazione di crisi politico economica degli anni '30 del XX secolo: con una guerra mondiale. Forse non ce ne sarà bisogno, ma possiamo permetterci di ignorare un fatto così rilevante?
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