a cura di Emiliano Biaggio
"Invalidata la sentenza di corruzione di David Mills", titola il Guardian. "I giudici decidono su un cavillo giuridico ma l'accusa dice che non ci sono elementi per dichiarare l'imputato non colpevole". "Berlusconi: prescrizione per l'ex avvocato", scrive Le Figaro. "La corte di cassazione ha stabilito che i reati di corruzione per i quali David Mills era stato condannato a 4 anni e mezzo sono prescritti". "La Corte di Cassazione dichiara prescritto il caso Mills", scrive El Pais. "Secondo l'organismo Mills commise il reato, ma nel novembre 1999 e non nel febbraio 2000". "Dichiarato prescritto il reato di corruzione dell'ex avvocato di corruzione", si legge su El Mundo. "Lo ha stabilito la corte di cassazione". "Mill vince in corte l'appello", titola il Financial Times. "L'alta corte italiana ha stabilito che il caso è scaduto nei termini. Ma non scagiona Mill"."Berlusconi vuole l'assoluzione nel processo per corruzione", scrive il Washington Post. "La corte d'appello prescrive David Mills da reato di corruzione".
La stampa estera dà ampio spazio al processo Mills, ma non perde di vista nè le vicende italiane nè la figura di Silvio Berlusconi, che nelle vicende italiane e nel caso Mills ricopre un ruolo di primo piano. "Berlusconi risponde agli scandali con attacchi ai giudici", scrive El Pais. "Il primo ministro dice che l'Italia vive sottomessa a una stato di polizia". "Berlusconi definisce alcuni giudici 'talebani'", sottolinea Le Figaro. "Il capo del governo italiano ha lanciato un nuovo attacco alla magistratura".
Saturday, 27 February 2010
Appalti truccati, Bertolaso (e non solo) nella bufera
Sesso, denaro e favori nell'inchiesta sui Grandi eventi. Da cui emerge una torbida relazione tra politica e imprenditoria.
di Emiliano Biaggio
Appalti in cambio di sesso e denaro: queste le accuse rivolte a Guido Bertolaso dopo l'inchiesta sui Grandi eventi che ha portato all'arresto degli ingegneri Angelo Balducci, Fabio De Santis e Diego Della Giovampaola insieme all'imprenditore Diego Anemone. Secondo l'accusa tutti loro sarebbero stati favoriti dal capo della Protezione civile, dimissionario ma con la fiducia di Governo e maggioranza. Berlusconi ha infatti respinto le dimissioni di Bertolaso, Bossi ha pubblicamente riconosciuto che il sottosegretario «non si deve dimettere», mentre Scajola ha invitato il capo della Protezione civile a «restare finchè i fatti non verranno accertati». Al momento l'unica cosa certa è l'ambigua relazione che lega pubblico e privato, Stato e imprese. Sul registro degli indagati è finito anche il nome di Denis Verdini, coordinatore del Pdl, al quale sarebbe stato chiesto un incontro con il ministro delle Infrastrutture per questioni di appalti, forse alla ricerca di una raccomandazione. Contatti poco chiari con una politica che solo una settimana fa veniva accusata di aver trattato con Cosa Nostra e di avere in Berlusconi e Forza Italia i risultati di quegli accordi. Anche in quel frangente, scenari inquietanti tutti da chiarire, come gli scenari che si configurano adesso, ma che rivelano falle in quello che qualcuno ha già definito "una struttura". Perchè mai assegnare alla Protezione civile la gestione di avvenimenti come la Louis Vuitton cup, i mondiali di nuoto e l'Expo 2015, tutti eventi non emergenziali? E poi il terremoto in Abruzzo: «La ricostruzione dell'Aquila non compete alla Protezione civile», ricorda Legambiente. Il Pd, con Ermete Realacci, nota a fa notare invece «pericolose derive». Derive di competenze e decisioni, in uno schema ben preciso e piuttosto ampio di potere che sottrae potere ad altri poteri. Perchè la Protezione civile opera attraverso ordinanze, atti amministrativi e quindi di Governo, che in nome di emergenze toglie voce in capitolo a chi invece, in situazione ordinaria, ha il vero compito di decidere. Come il Parlamento, ad esempio. Un disegno riassunto nel ragionamento di Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil. «Si è costruito attorno ad un tema vero un'ideologia di "politica del fare", intorno alla quale si possono avere condizioni insostenibili per una democrazia», afferma. Questa ideologia "del fare", continua Epifani, «porta a sostituire criteri ordinari con metodi straordinari», e «pone il problema di una "struttura dei fini"», dove «il fine finisce con giustificare il mezzo». Per Epifani «a questo punto bisogna chiedersi: in una democrazia, quando è tollerabile questa struttura? Io dico quando c'è una calamità e una situazione di emergenza, quando cioè è in discussione la vita delle persone». Altrimenti, avverte il leader sindacale, «se si allarga la nozione dei fini si viene a compromettere l'etica della responsabilità pubblica» arrivando a generare «un'oligarchia autoreferenziale in cui si perde il confine tra l'interesse pubblico e privato e tra l'interesse di mercato e quello di chi sta all'interno» di questo circuito. «Ed è quello che sta accadendo», secondo Epifani. Berlusconi sostiene invece che «non c'è una nuova tangentopoli», per Epifani «sì, ed è sotto gli occhi di tutti». A smentire il premier anche la Corte di Conti, che denuncia un aumento del 229% della corruzione nel 2009: l'organismo però non dice se in questo +229% siano stati calcolati il caso dei Grandi eventi, Bertolaso, Anemone e soci. Probabilmente è stato calcolato Mario Sancetta, magistrato proprio della Corte dei conti il cui nome è finito sul registro degli indagati.
(Editoriale della puntata del 19 febbraio 2010 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
Appalti in cambio di sesso e denaro: queste le accuse rivolte a Guido Bertolaso dopo l'inchiesta sui Grandi eventi che ha portato all'arresto degli ingegneri Angelo Balducci, Fabio De Santis e Diego Della Giovampaola insieme all'imprenditore Diego Anemone. Secondo l'accusa tutti loro sarebbero stati favoriti dal capo della Protezione civile, dimissionario ma con la fiducia di Governo e maggioranza. Berlusconi ha infatti respinto le dimissioni di Bertolaso, Bossi ha pubblicamente riconosciuto che il sottosegretario «non si deve dimettere», mentre Scajola ha invitato il capo della Protezione civile a «restare finchè i fatti non verranno accertati». Al momento l'unica cosa certa è l'ambigua relazione che lega pubblico e privato, Stato e imprese. Sul registro degli indagati è finito anche il nome di Denis Verdini, coordinatore del Pdl, al quale sarebbe stato chiesto un incontro con il ministro delle Infrastrutture per questioni di appalti, forse alla ricerca di una raccomandazione. Contatti poco chiari con una politica che solo una settimana fa veniva accusata di aver trattato con Cosa Nostra e di avere in Berlusconi e Forza Italia i risultati di quegli accordi. Anche in quel frangente, scenari inquietanti tutti da chiarire, come gli scenari che si configurano adesso, ma che rivelano falle in quello che qualcuno ha già definito "una struttura". Perchè mai assegnare alla Protezione civile la gestione di avvenimenti come la Louis Vuitton cup, i mondiali di nuoto e l'Expo 2015, tutti eventi non emergenziali? E poi il terremoto in Abruzzo: «La ricostruzione dell'Aquila non compete alla Protezione civile», ricorda Legambiente. Il Pd, con Ermete Realacci, nota a fa notare invece «pericolose derive». Derive di competenze e decisioni, in uno schema ben preciso e piuttosto ampio di potere che sottrae potere ad altri poteri. Perchè la Protezione civile opera attraverso ordinanze, atti amministrativi e quindi di Governo, che in nome di emergenze toglie voce in capitolo a chi invece, in situazione ordinaria, ha il vero compito di decidere. Come il Parlamento, ad esempio. Un disegno riassunto nel ragionamento di Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil. «Si è costruito attorno ad un tema vero un'ideologia di "politica del fare", intorno alla quale si possono avere condizioni insostenibili per una democrazia», afferma. Questa ideologia "del fare", continua Epifani, «porta a sostituire criteri ordinari con metodi straordinari», e «pone il problema di una "struttura dei fini"», dove «il fine finisce con giustificare il mezzo». Per Epifani «a questo punto bisogna chiedersi: in una democrazia, quando è tollerabile questa struttura? Io dico quando c'è una calamità e una situazione di emergenza, quando cioè è in discussione la vita delle persone». Altrimenti, avverte il leader sindacale, «se si allarga la nozione dei fini si viene a compromettere l'etica della responsabilità pubblica» arrivando a generare «un'oligarchia autoreferenziale in cui si perde il confine tra l'interesse pubblico e privato e tra l'interesse di mercato e quello di chi sta all'interno» di questo circuito. «Ed è quello che sta accadendo», secondo Epifani. Berlusconi sostiene invece che «non c'è una nuova tangentopoli», per Epifani «sì, ed è sotto gli occhi di tutti». A smentire il premier anche la Corte di Conti, che denuncia un aumento del 229% della corruzione nel 2009: l'organismo però non dice se in questo +229% siano stati calcolati il caso dei Grandi eventi, Bertolaso, Anemone e soci. Probabilmente è stato calcolato Mario Sancetta, magistrato proprio della Corte dei conti il cui nome è finito sul registro degli indagati.
(Editoriale della puntata del 19 febbraio 2010 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
Thursday, 25 February 2010
I mille veleni che uccidono l'Italia
Non solo tangenti, ma un'illegalità a tutto campo e in ogni campo che pone questioni morali e problemi reali. A partire da chi governa.
l'e-dittoreale*
«Non c'è una nuova tangentopoli». Parole di Silvio Berlusconi, all'indomani dello scandalo dei grandi eventi. Ha ragione il presidente del Consiglio: in Italia c'è molto di più. L'apertura dell'ultimo vaso di Pandora ha mostrato infatti come ormai il paese sia l'espressione dell'illegalità e del malaffare. Corruzione, concussione, associazione a delinquere, appalti truccati, evasione e frode fiscale, riciclaggio, favoritismi e favoreggiamento, collusione mafiosa. C'è di tutto in questo campionario sempre più esteso e sempre meno virtuoso di una rete che si fatica a capire quanto sia estesa, quante persone coinvolga e fin dove arrivi. L'impressione è che di questo giro di attività illecite sa sia scoperta solo una prima, mastodontica ed inquietante parte di un sistema che a macchia d'olio sta riguardando e ha riguardato tutte le sfere del paese. Dalla politica all'imprenditoria, dalla magistratura ai servizi segreti, tanti i nomi sul registro degli indagati e molti gli aspetti oscuri da chiarire. Dalle amministrazioni locali - con il consigliere comunale del Pdl a Milano Mirko Pennisi, arrestato per concussione e Liana Scundi e il sindaco di Trezzano sul Naviglio (Milano) che ritira la candidatura per presunte tangenti, al Parlamento con il senatore del Pdl, Di Girolamo, accusato di avere legami con la 'Ndragheta: il mondo della politica è scosso da un terremoto, che non risparmia il Governo. Lo scandalo degli appalti truccati per il G8 e i grandi eventi tira in ballo Bertolaso, sottosegretario oltre che commissario straordinario per le emergenze (prima rifiuti poi Abruzzo), ma anche Gianni Letta, altro sottosegretario e pure lui, come Bertolaso, vicino al premier. E poi la smentita ufficiale di palazzo Chigi: «L'ingegnere Balducci non è venuto nè il 28, nè il 29, nè il 30 gennaio e neppure nei giorni successivi». Smentite che sanno di un tentativo di smarcarsi da accuse pesanti e situazioni imbarazzanti. Una nota rumorosa e stonata che anzichè fugare dubbi, genera nuove ulteriori perplessità attorno a un governo il cui capo è accusato di collusione con la mafia. Stessa accusa mossa al senatore Di Girolamo, anche lui Pdl, che sarebbe stato eletto con i voti della 'Ndrangheta e finito nel ciclone Telecom-Fastweb, caso di frode fiscale da due miliardi di euro che ha già portato gli inquirenti ad emettere 56 ordini di arresto. Evasione fiscale, ma soprattutto associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro: queste le ipotesi di reato in questo filone di indagini, che evidenziano un'altra nuova "cricca" oltre a quella di costruttori e imprenditori edili smascherata dalle altre indagini, quelle sul G8 e sulla ricostruzione dell'Abruzzo. Indagini che hanno portato a iscrivere nel registro degli indagati anche Achille Toro, adesso ex procuratore aggiunto di Roma che prima delle dimissioni avrebbe informato delle indagini Balducci e soci. Ma la procura di Firenze indaga anche sul magistrato della Corte dei Conti, Mario Sancetta: il malaffare travolge quindi anche la magistratura nei suoi diversi livelli, a dimostrazione dell'esistenza di un male diffuso e dal quale sempre meno si resta immuni. Una epidemia per il vicepresidente del Senato Emma Bonino dovuta al fatto che «c'è stata una violazione delle leggi, e chi è tenuto a controllare non ha controllato». No, non c'è una nuova tangentopoli, c'è un intricato intreccio tra sfere dello stato e settori del paese, che sfocia in un torbido mare di illegalità che arricchisce pochi e danneggia molti. Un circuito torbido come i fiumi Lambro e Po, inquinati da tonnellate di idrocarburi sversati in acqua per quello che si configura come il più clamoroso caso di inquinamento fluviale della storia d'Italia: anche, qui tante le cose da chiarire, ma sembra che sui terreni dove sorge l'ex raffineria responsabile dell'inquinamento, ci sia un affare edilizio da mezzo miliardo di euro. Anche in questo caso si indaga nel sottobosco degli appalti, analogo contenuto di un altro, nuovo, vaso di Pandora pieno dei mali d'Italia.
* poi editoriale della puntata del 26 febbraio 2010 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti
l'e-dittoreale*
«Non c'è una nuova tangentopoli». Parole di Silvio Berlusconi, all'indomani dello scandalo dei grandi eventi. Ha ragione il presidente del Consiglio: in Italia c'è molto di più. L'apertura dell'ultimo vaso di Pandora ha mostrato infatti come ormai il paese sia l'espressione dell'illegalità e del malaffare. Corruzione, concussione, associazione a delinquere, appalti truccati, evasione e frode fiscale, riciclaggio, favoritismi e favoreggiamento, collusione mafiosa. C'è di tutto in questo campionario sempre più esteso e sempre meno virtuoso di una rete che si fatica a capire quanto sia estesa, quante persone coinvolga e fin dove arrivi. L'impressione è che di questo giro di attività illecite sa sia scoperta solo una prima, mastodontica ed inquietante parte di un sistema che a macchia d'olio sta riguardando e ha riguardato tutte le sfere del paese. Dalla politica all'imprenditoria, dalla magistratura ai servizi segreti, tanti i nomi sul registro degli indagati e molti gli aspetti oscuri da chiarire. Dalle amministrazioni locali - con il consigliere comunale del Pdl a Milano Mirko Pennisi, arrestato per concussione e Liana Scundi e il sindaco di Trezzano sul Naviglio (Milano) che ritira la candidatura per presunte tangenti, al Parlamento con il senatore del Pdl, Di Girolamo, accusato di avere legami con la 'Ndragheta: il mondo della politica è scosso da un terremoto, che non risparmia il Governo. Lo scandalo degli appalti truccati per il G8 e i grandi eventi tira in ballo Bertolaso, sottosegretario oltre che commissario straordinario per le emergenze (prima rifiuti poi Abruzzo), ma anche Gianni Letta, altro sottosegretario e pure lui, come Bertolaso, vicino al premier. E poi la smentita ufficiale di palazzo Chigi: «L'ingegnere Balducci non è venuto nè il 28, nè il 29, nè il 30 gennaio e neppure nei giorni successivi». Smentite che sanno di un tentativo di smarcarsi da accuse pesanti e situazioni imbarazzanti. Una nota rumorosa e stonata che anzichè fugare dubbi, genera nuove ulteriori perplessità attorno a un governo il cui capo è accusato di collusione con la mafia. Stessa accusa mossa al senatore Di Girolamo, anche lui Pdl, che sarebbe stato eletto con i voti della 'Ndrangheta e finito nel ciclone Telecom-Fastweb, caso di frode fiscale da due miliardi di euro che ha già portato gli inquirenti ad emettere 56 ordini di arresto. Evasione fiscale, ma soprattutto associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro: queste le ipotesi di reato in questo filone di indagini, che evidenziano un'altra nuova "cricca" oltre a quella di costruttori e imprenditori edili smascherata dalle altre indagini, quelle sul G8 e sulla ricostruzione dell'Abruzzo. Indagini che hanno portato a iscrivere nel registro degli indagati anche Achille Toro, adesso ex procuratore aggiunto di Roma che prima delle dimissioni avrebbe informato delle indagini Balducci e soci. Ma la procura di Firenze indaga anche sul magistrato della Corte dei Conti, Mario Sancetta: il malaffare travolge quindi anche la magistratura nei suoi diversi livelli, a dimostrazione dell'esistenza di un male diffuso e dal quale sempre meno si resta immuni. Una epidemia per il vicepresidente del Senato Emma Bonino dovuta al fatto che «c'è stata una violazione delle leggi, e chi è tenuto a controllare non ha controllato». No, non c'è una nuova tangentopoli, c'è un intricato intreccio tra sfere dello stato e settori del paese, che sfocia in un torbido mare di illegalità che arricchisce pochi e danneggia molti. Un circuito torbido come i fiumi Lambro e Po, inquinati da tonnellate di idrocarburi sversati in acqua per quello che si configura come il più clamoroso caso di inquinamento fluviale della storia d'Italia: anche, qui tante le cose da chiarire, ma sembra che sui terreni dove sorge l'ex raffineria responsabile dell'inquinamento, ci sia un affare edilizio da mezzo miliardo di euro. Anche in questo caso si indaga nel sottobosco degli appalti, analogo contenuto di un altro, nuovo, vaso di Pandora pieno dei mali d'Italia.
* poi editoriale della puntata del 26 febbraio 2010 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti
Tuesday, 23 February 2010
«Con Obama nessun cambiamento»
Noam Chomsky lo aveva previsto chiaramente un anno fa, e dopo un anno i fatti gli danno ragione. Perchè dalla green economy alla politica estera, il presidente degli Stati Uniti di impegni ne ha disattesi molti.
di Emiliano Biaggio
«Con Obama non arriverà alcun cambiamento». Era il 24 gennaio 2009, e il primo presidente afro-americano della storia degli Stati Uniti era appena arrivato a conquistare la poltrona della Casa Bianca e l'opionione pubblica mondiale. Tutti fiduciosi, tutti speranzosi di quel cambiamento che lo stesso Obama in campagna elettorale diceva che "sì, possiamo" farlo. Ma Noam Chomsky, aveva già allora le idee molto chiare. «E' chiaro che Obama accetterà la dottrina Bush secondo la quale gli Stati Uniti possono bombardare il Pakistan liberamente», aveva detto Chomsky. Ci ha preso. Secondo uno studio pubblicato dalla New America Foundation, da quando Obama è diventato presidente il numero degli attacchi dei droni è aumentato: durante i primi 9 mesi e mezzo del suo mandato, Obama ha autorizzato in Pakistan almeno 41 attacchi missilistici, tanti quanti ne ha ordinati Bush negli ultimi 3 anni della sua presidenza. Per quanto riguarda il Medio Oriente, «Obama- continuava Chomsky- ha sostenuto il processo di pace e sostenuto il piano saudita, ma ha tralasciato il cuore della soluzione» ossia la creazione di due stati. Questo perchè «ciò pone obblighi per gli Stati Uniti». Anche qui Chomsky ci ha preso: il processo di pace in Medio Oriente si è arenato, e le costruzioni di insediamenti israeliani continuano. Sulla questione iraniana, «le affermazioni di Obama sono le stesse di Clinton: dice che sul tavolo ci sono tutte le opzioni. Inclusa quella della guerra nucleare, che è unopzone». Questo è quello che diceva obama diceva un anno fa, e che un anno fa Chomsky faceva notare. A distanza di un anno, i fatti dicono che il linguista e politologo c'ha preso. Anche per "meriti" dell'Iran, che ha avviato la produzione di uranio arricchito al 20 per cento nell'impianto di Natanz. E poi ci sono le questioni interne: Obama aveva aperto alla green economy e al taglio delle emissioni, adesso torna al rilancio del nucleare. Ha infatti annunciato il finanziamento con fondi ferali - e quindi soldi pubblici - di due nuovi impianti, per un costo complessivo di 8,3 miliardi. Una "revisione" dei piani rispetto ai proclami, che ripropone il problema delle scorie future. Ancora, Obama ha detto al mondo di voler un mondo senza atomica, salvo poi rifiutarsi di firmare la messa al bando delle mine anti uomo e aumentare la presenza militare in Afghanistan. Le speranze di Obama, insomma, si scoprono adesso mal riposte, forse solo troppo frettolose. E le promesse, al momento, disattese. Che ne è di quel "yes, we can"? Quello che è sempre stato. Del resto Chomsky c'ha preso: «Con Obama non arriverà alcun cambiamento». Sembra proprio che abbia avuto ragione.
di Emiliano Biaggio
«Con Obama non arriverà alcun cambiamento». Era il 24 gennaio 2009, e il primo presidente afro-americano della storia degli Stati Uniti era appena arrivato a conquistare la poltrona della Casa Bianca e l'opionione pubblica mondiale. Tutti fiduciosi, tutti speranzosi di quel cambiamento che lo stesso Obama in campagna elettorale diceva che "sì, possiamo" farlo. Ma Noam Chomsky, aveva già allora le idee molto chiare. «E' chiaro che Obama accetterà la dottrina Bush secondo la quale gli Stati Uniti possono bombardare il Pakistan liberamente», aveva detto Chomsky. Ci ha preso. Secondo uno studio pubblicato dalla New America Foundation, da quando Obama è diventato presidente il numero degli attacchi dei droni è aumentato: durante i primi 9 mesi e mezzo del suo mandato, Obama ha autorizzato in Pakistan almeno 41 attacchi missilistici, tanti quanti ne ha ordinati Bush negli ultimi 3 anni della sua presidenza. Per quanto riguarda il Medio Oriente, «Obama- continuava Chomsky- ha sostenuto il processo di pace e sostenuto il piano saudita, ma ha tralasciato il cuore della soluzione» ossia la creazione di due stati. Questo perchè «ciò pone obblighi per gli Stati Uniti». Anche qui Chomsky ci ha preso: il processo di pace in Medio Oriente si è arenato, e le costruzioni di insediamenti israeliani continuano. Sulla questione iraniana, «le affermazioni di Obama sono le stesse di Clinton: dice che sul tavolo ci sono tutte le opzioni. Inclusa quella della guerra nucleare, che è unopzone». Questo è quello che diceva obama diceva un anno fa, e che un anno fa Chomsky faceva notare. A distanza di un anno, i fatti dicono che il linguista e politologo c'ha preso. Anche per "meriti" dell'Iran, che ha avviato la produzione di uranio arricchito al 20 per cento nell'impianto di Natanz. E poi ci sono le questioni interne: Obama aveva aperto alla green economy e al taglio delle emissioni, adesso torna al rilancio del nucleare. Ha infatti annunciato il finanziamento con fondi ferali - e quindi soldi pubblici - di due nuovi impianti, per un costo complessivo di 8,3 miliardi. Una "revisione" dei piani rispetto ai proclami, che ripropone il problema delle scorie future. Ancora, Obama ha detto al mondo di voler un mondo senza atomica, salvo poi rifiutarsi di firmare la messa al bando delle mine anti uomo e aumentare la presenza militare in Afghanistan. Le speranze di Obama, insomma, si scoprono adesso mal riposte, forse solo troppo frettolose. E le promesse, al momento, disattese. Che ne è di quel "yes, we can"? Quello che è sempre stato. Del resto Chomsky c'ha preso: «Con Obama non arriverà alcun cambiamento». Sembra proprio che abbia avuto ragione.
Monday, 22 February 2010
Petrolio sotto le Falklands, e si riaccende il conflitto
Stimate riserve di greggio per 60 miliardi di barili, che Londra già si prepare ad estrarre. Tra la contrarietà argentina che limita il traffico navale nella zona, e Chavez che mette in guardia.
di Emiliano Biaggio
Ultimo baluardo dell'imperialismo britannico? Da oggi le isole Falklands sono molto di più. perchè negli abissi tutt'intorno ci sarebbe petrolio, e non poco. Secondo uno studio effettuato dalla Geological Society of London, sotto i fondali delle isole britanniche nell'Atlantico meridionale ci sarebbe una quantità di greggio tale da riempire 60 miliardi di barili. Musica per le orecchie dei governanti d'oltre Oceano, che ha già affidato alla compagnia "di bandiera" Desire Petroleum il compito di compiere un primo tentativo di estrazione. La società petrolifera intende ricavare negli anni a venire fino a 3 miliardi di barili di greggio. Ma la cosa potrebbe non essere così semplice, e la questione sembra destinata a prendere una brutta piega: da Buenos Aires, infatti, un decreto presidenziale ha stabilito la riduzione del traffico navale verso Falklands, che in Argentina ancora considerano Malvinas e che a distanza di quasi trent'anni dalla guerra per le isole (2 aprile-14 giugno 1982) restano contese. Il presidente argentino, Cristina Kirchner, con il suo decreto ha di fatto reso obbligatoria l’autorizzazione alla navigazione per tutti coloro che intendono dirigersi verso le isole contese. Non solo: Kirchner si è rivolta all’Onu. Il presidente dell'Argentina ha denunciato infatti che non è possibile trivellare nella zona, perchè «esistono numerose risoluzioni dell’Onu nelle quali si chiede a Gran Bretagna e Argentina di riprendere le conversazioni bilaterali per arrivare ad un accordo sulla sovranità dell'arcipelago e risoluzioni nelle quali si dice che nessuna delle due parti può prendere decisioni unilaterali». La questione delle Falklands/Malvinas torna improvvisamente tema d'attualità, e al centro delle agende internazionali. Per gli altri, perchè per i due protagonisti la ferita mai rimarginata si riapre. Un doloroso inconveniente che nessuno dei due capi di governo voleva, data la crisi interna del Labour e il crollo dei consensi della Kirchner, ma forse l'occasione potrebbe essere propizia per entrambe le parti, proprio per rilanciarsi di fronte all'opnione pubblica. Nel 1983 i generali tentarono la via militare, convinti di farcela e di "conquistare" gli argentini; la Tatcher rispose per ribadire che la Gran Bretagna è una potenza, e per non perdere i suoi consensi. La fine la ricordiamo tutti: ebbe la meglio la Lady di ferro, dopo un conflitto da 905 morti (649 argentini e 258 britannici) e 1.845 feriti (1.068 argentini e 777 britannici). Adesso, invece, come finirà? In molti si chiedono se si va verso una seconda guerra delle Falklands/Malvinas, mentre la Gran Bretagna ha trasportato la piattaforma estrattiva al largo delle isole per iniziare l'estrazione del petrolio. La tensione sale: l'Argentina ha già ricevuto l'aiuto indiretto del Venezuela, con Chavez che ha ricordato ai britannici che «il tempo per gli imperi è finito». Immediata la replica del governo di Londra: l'estrazione del petrolio è «completamente in conformità al diritto internazionale», ha spiegato il ministro degli Esteri britannico, David Miliband. decisamente più sibillino il premier britannico, Gordon Brown. Londra, ha fatto sapere, «ha in atto tutti i preparativi necessari per assicurare la sicurezza degli abitanti delle isole Falkland». E' forse pronto a dissotterrare l'ascia di guerra?
di Emiliano Biaggio
Ultimo baluardo dell'imperialismo britannico? Da oggi le isole Falklands sono molto di più. perchè negli abissi tutt'intorno ci sarebbe petrolio, e non poco. Secondo uno studio effettuato dalla Geological Society of London, sotto i fondali delle isole britanniche nell'Atlantico meridionale ci sarebbe una quantità di greggio tale da riempire 60 miliardi di barili. Musica per le orecchie dei governanti d'oltre Oceano, che ha già affidato alla compagnia "di bandiera" Desire Petroleum il compito di compiere un primo tentativo di estrazione. La società petrolifera intende ricavare negli anni a venire fino a 3 miliardi di barili di greggio. Ma la cosa potrebbe non essere così semplice, e la questione sembra destinata a prendere una brutta piega: da Buenos Aires, infatti, un decreto presidenziale ha stabilito la riduzione del traffico navale verso Falklands, che in Argentina ancora considerano Malvinas e che a distanza di quasi trent'anni dalla guerra per le isole (2 aprile-14 giugno 1982) restano contese. Il presidente argentino, Cristina Kirchner, con il suo decreto ha di fatto reso obbligatoria l’autorizzazione alla navigazione per tutti coloro che intendono dirigersi verso le isole contese. Non solo: Kirchner si è rivolta all’Onu. Il presidente dell'Argentina ha denunciato infatti che non è possibile trivellare nella zona, perchè «esistono numerose risoluzioni dell’Onu nelle quali si chiede a Gran Bretagna e Argentina di riprendere le conversazioni bilaterali per arrivare ad un accordo sulla sovranità dell'arcipelago e risoluzioni nelle quali si dice che nessuna delle due parti può prendere decisioni unilaterali». La questione delle Falklands/Malvinas torna improvvisamente tema d'attualità, e al centro delle agende internazionali. Per gli altri, perchè per i due protagonisti la ferita mai rimarginata si riapre. Un doloroso inconveniente che nessuno dei due capi di governo voleva, data la crisi interna del Labour e il crollo dei consensi della Kirchner, ma forse l'occasione potrebbe essere propizia per entrambe le parti, proprio per rilanciarsi di fronte all'opnione pubblica. Nel 1983 i generali tentarono la via militare, convinti di farcela e di "conquistare" gli argentini; la Tatcher rispose per ribadire che la Gran Bretagna è una potenza, e per non perdere i suoi consensi. La fine la ricordiamo tutti: ebbe la meglio la Lady di ferro, dopo un conflitto da 905 morti (649 argentini e 258 britannici) e 1.845 feriti (1.068 argentini e 777 britannici). Adesso, invece, come finirà? In molti si chiedono se si va verso una seconda guerra delle Falklands/Malvinas, mentre la Gran Bretagna ha trasportato la piattaforma estrattiva al largo delle isole per iniziare l'estrazione del petrolio. La tensione sale: l'Argentina ha già ricevuto l'aiuto indiretto del Venezuela, con Chavez che ha ricordato ai britannici che «il tempo per gli imperi è finito». Immediata la replica del governo di Londra: l'estrazione del petrolio è «completamente in conformità al diritto internazionale», ha spiegato il ministro degli Esteri britannico, David Miliband. decisamente più sibillino il premier britannico, Gordon Brown. Londra, ha fatto sapere, «ha in atto tutti i preparativi necessari per assicurare la sicurezza degli abitanti delle isole Falkland». E' forse pronto a dissotterrare l'ascia di guerra?
Perenco nella bufera, accusata di inquinare il mare della repubblica democratica del Congo
La denuncia arriva dal Parlamento, si va verso l'apertura di un'inchiesta.
di Alberto Fiorillo
Perenco accusata di inquinare il mare congolese: un deputato della Repubblica democratica del Congo, Jean Claude Mvuemba, ha infatti sostenuto pubblicamente che la società anglo-francese avrebbe sversato rifiuti tossici in mare. Secondo quanto ha dichiarato ai giornali di Kinshasa, «almeno 10.000 pesci» sono stati trovati morti lungo il breve tratto costiero che rappresenta l'unico sbocco a mare del Paese, nei dintorni del villaggio di Tiembe, situato a circa un chilometro all'impianto della società petrolifera Perenco. Il deputato ha chiesto l'invio sul posto di una commissione d'inchiesta che dovrebbe essere composta da delegati del governo centrale, della provincia, da parlamentari e da rappresentanti delle Ong che difendono i diritti umani e l'ambiente. Insieme dovrebbero valutare il tasso di inquinamento ambientale causato dalla società. Perenco si è installata nella Repubblica democratica del Congo nel 2000, subentrando alla TotalFina, e sta sfruttando il petrolio nella zona costiera di Manda, estraendo 7.000 barili al giorno in cinque diversi impianti di produzione.
di Alberto Fiorillo
Perenco accusata di inquinare il mare congolese: un deputato della Repubblica democratica del Congo, Jean Claude Mvuemba, ha infatti sostenuto pubblicamente che la società anglo-francese avrebbe sversato rifiuti tossici in mare. Secondo quanto ha dichiarato ai giornali di Kinshasa, «almeno 10.000 pesci» sono stati trovati morti lungo il breve tratto costiero che rappresenta l'unico sbocco a mare del Paese, nei dintorni del villaggio di Tiembe, situato a circa un chilometro all'impianto della società petrolifera Perenco. Il deputato ha chiesto l'invio sul posto di una commissione d'inchiesta che dovrebbe essere composta da delegati del governo centrale, della provincia, da parlamentari e da rappresentanti delle Ong che difendono i diritti umani e l'ambiente. Insieme dovrebbero valutare il tasso di inquinamento ambientale causato dalla società. Perenco si è installata nella Repubblica democratica del Congo nel 2000, subentrando alla TotalFina, e sta sfruttando il petrolio nella zona costiera di Manda, estraendo 7.000 barili al giorno in cinque diversi impianti di produzione.
Saturday, 20 February 2010
E' morto Ismailov, piantò i vessilli Urss sul Reichstag
L'immagine del soldato dell'armata rossa che issa la bandiera dell'Unione sovietica sul reichestag tedesco nel maggio del 1945 ha fatto storia. Perchè è storia. E' infatti un'immagine simbolo della fine della seconda guerra mondiale e la sconfitta del terzo Reich. A immortalare la storia - oltre a Evgeny Khaldey che scattò la foto - ha contribuito anche lui, Abdulkhakim Ismailov, uno di quei soldati sovietici che hanno issato quella bandiera. Adesso, a 93 anni, Ismailov è morto, a testimoniare e ricordare che ogni storia ha sempre una sua fine. E che alla fine della storia fa seguito il ricordo di essa. E' la memoria storica, eredità del passato. Lui, anche lui, ce l'ha lasciata. Tocca a noi non perderla, e tocca a noi trarne insegnamenti.
Intercettazioni e privacy, la sottile linea della discordia
Berlusconi vuole rivedere l'utilizzo del controllo delle telefonate e loro pubblicazione in nome della riservatezza. Che può arrivare a significare silenzio, da parte di tutti. Smantellando un sistema che ha permesso di smascherare grandi frodi e tanti illeciti.
l'e-dittoreale
«Non si può governare attaccati da pubblici dipendenti che sono i giudici». E poi c'è il problema dell'equilibrio tra uno strumento necessario per le indagini - quello delle intercettazioni - e la tutela della privacy degli indagati. Esclusa la via del decreto legge, il disegno di legge sulle intercettazioni seguirà il normale iter parlamentare (il testo è stato licenziato alla Camera lo scorso 11 giugno e il termine per presentare gli emendamenti prima dell’approdo a Palazzo Madama è il 3 marzo). Un testo che «non mi convince del tutto, lo vorrei più severo. Però è meglio della situazione attuale che è di barbarie pura. Quindi proseguiremo con quel testo». Berlusconi adesso vuole fare sul serio. Perchè lo scandalo sui grandi eventi e il conseguente "fango" piovuto addosso a Bertolaso, sono il frutto proprio delle intercettazioni. Solo grazie ai colloqui telefonici è stato possibile smascherare "la cricca", e rivelare quel torbido intreccio tra pubblico e privato, politica e imprenditoria. Probabilmente senza a quest'ora nessuno saprebbe nulla. Ecco perchè le intercettazionei sono e restano uno strumento importante, ma è proprio per questo che forse adesso più che mai rappresentano un qualcosa su cui intervenire. Come vuole il presidente del Consiglio. E' futile ricordare l'importanza della tutela della privacy, così come è inutile ricordare che lo stesso presidente del Consiglio è al centro di inchieste giudiziarie e che il tener sotto controllo telefonate in entrata e uscita ha permesso di far venire alla luce scandali come quello di Calciopoli. Si pone quindi il problema del confine della legittimità e della tollerabilità dello strumento: questione delicata per un tema scottante. Spingersi oltre questa linea sottile - da una parte e dall'altra - significa andare contro diritti e stato di diritto. L'opposizione teme - legittimamente - che la manovra voluta da Silvio Berlusconi finisca con legare le mani ai magistrati - categoria attaccata più volte e sempre duramente - e imbavagliare la stampa - altra categoria con la quale il premier non è tenero. Il rischio c'è, e non va negato. Ma c'è anche il pur legittimo dubbio sul quando le intercettazioni non possono essere usate. Il controllo di corrispondenza o conversazioni telefoniche lede la libertà della persona, ma non se questa è colpita da avviso di garanzia o al centro di indagini. Ci sono margini di manovra. All'interno di questi va stabilito se è contemplata o meno - e se sì quando - la diffusione pubblica. La privacy è, per legge, garantita per questioni di salute e questioni sessuali. Ma qui, la sfera sessuale nel caso Bertolaso è - dal quadro che sembra delinearsi - all'interno di un disegno più ampio. Ben inteso, rapporti extra-coniugali - veri o presunti che siano - riguarda la sfera privata tra uomo e donna. Ma se il rapporto extraconiugale è una parte della moneta con cui si paga una persona da corrompere, certo la questione diventa di competenza di chi è chiamato a fare indagini e poi - eventualmente - giudicare. La preoccupazione - per un pericolo che potrebbe essere vero e serio - arriva dalla denuncia del presidente del Consiglio di quello da lui definito «network» mediatico-giudiziario che starebbe, secondo il premier e la maggioranza, portando avanti una campagna di stampa pronta a mescolare fatti veri (le tangenti e la corruzione nella Pubblica amministrazione, denunciata anche dalla Corte dei conti) con personaggi che ne sarebbero le vittime e non i responsabili (Bertolaso). Attaccare potere giurisdizionale e stampa significa delegittimare elementi democratici, e quindi la democrazia stessa. Qui si annida l'insidia, qui nasce il pericolo. Berlusconi ha promesso un "giro di vite" contro la corruzione. Vuole, giustamente, ripulire l'immagine di una politica semprè più al centro di scandali. Ma allo stesso tempo accusa: «Vogliono farmi fuori». Anche con queste parole viene percipito il pericolo. E non solo dal premier.
l'e-dittoreale
«Non si può governare attaccati da pubblici dipendenti che sono i giudici». E poi c'è il problema dell'equilibrio tra uno strumento necessario per le indagini - quello delle intercettazioni - e la tutela della privacy degli indagati. Esclusa la via del decreto legge, il disegno di legge sulle intercettazioni seguirà il normale iter parlamentare (il testo è stato licenziato alla Camera lo scorso 11 giugno e il termine per presentare gli emendamenti prima dell’approdo a Palazzo Madama è il 3 marzo). Un testo che «non mi convince del tutto, lo vorrei più severo. Però è meglio della situazione attuale che è di barbarie pura. Quindi proseguiremo con quel testo». Berlusconi adesso vuole fare sul serio. Perchè lo scandalo sui grandi eventi e il conseguente "fango" piovuto addosso a Bertolaso, sono il frutto proprio delle intercettazioni. Solo grazie ai colloqui telefonici è stato possibile smascherare "la cricca", e rivelare quel torbido intreccio tra pubblico e privato, politica e imprenditoria. Probabilmente senza a quest'ora nessuno saprebbe nulla. Ecco perchè le intercettazionei sono e restano uno strumento importante, ma è proprio per questo che forse adesso più che mai rappresentano un qualcosa su cui intervenire. Come vuole il presidente del Consiglio. E' futile ricordare l'importanza della tutela della privacy, così come è inutile ricordare che lo stesso presidente del Consiglio è al centro di inchieste giudiziarie e che il tener sotto controllo telefonate in entrata e uscita ha permesso di far venire alla luce scandali come quello di Calciopoli. Si pone quindi il problema del confine della legittimità e della tollerabilità dello strumento: questione delicata per un tema scottante. Spingersi oltre questa linea sottile - da una parte e dall'altra - significa andare contro diritti e stato di diritto. L'opposizione teme - legittimamente - che la manovra voluta da Silvio Berlusconi finisca con legare le mani ai magistrati - categoria attaccata più volte e sempre duramente - e imbavagliare la stampa - altra categoria con la quale il premier non è tenero. Il rischio c'è, e non va negato. Ma c'è anche il pur legittimo dubbio sul quando le intercettazioni non possono essere usate. Il controllo di corrispondenza o conversazioni telefoniche lede la libertà della persona, ma non se questa è colpita da avviso di garanzia o al centro di indagini. Ci sono margini di manovra. All'interno di questi va stabilito se è contemplata o meno - e se sì quando - la diffusione pubblica. La privacy è, per legge, garantita per questioni di salute e questioni sessuali. Ma qui, la sfera sessuale nel caso Bertolaso è - dal quadro che sembra delinearsi - all'interno di un disegno più ampio. Ben inteso, rapporti extra-coniugali - veri o presunti che siano - riguarda la sfera privata tra uomo e donna. Ma se il rapporto extraconiugale è una parte della moneta con cui si paga una persona da corrompere, certo la questione diventa di competenza di chi è chiamato a fare indagini e poi - eventualmente - giudicare. La preoccupazione - per un pericolo che potrebbe essere vero e serio - arriva dalla denuncia del presidente del Consiglio di quello da lui definito «network» mediatico-giudiziario che starebbe, secondo il premier e la maggioranza, portando avanti una campagna di stampa pronta a mescolare fatti veri (le tangenti e la corruzione nella Pubblica amministrazione, denunciata anche dalla Corte dei conti) con personaggi che ne sarebbero le vittime e non i responsabili (Bertolaso). Attaccare potere giurisdizionale e stampa significa delegittimare elementi democratici, e quindi la democrazia stessa. Qui si annida l'insidia, qui nasce il pericolo. Berlusconi ha promesso un "giro di vite" contro la corruzione. Vuole, giustamente, ripulire l'immagine di una politica semprè più al centro di scandali. Ma allo stesso tempo accusa: «Vogliono farmi fuori». Anche con queste parole viene percipito il pericolo. E non solo dal premier.
Thursday, 18 February 2010
Epifani: «Costruita una struttura insostenibile»
Oligarchie, derive, e interessi sovrapposti: per il segretario generale della Cgil il caso grandi eventi è solo la punta di un iceberg di vaste dimensioni.
di Emiliano Biaggio
«Si è costruito attorno ad un tema vero un'ideologia di "politica del fare", intorno alla quale si possono avere condizioni insostenibili per una democrazia». Infatti, questa "politica del fare" «porta a sostituire criteri ordinari con metodi straordinari», e «pone il problema di una "struttura dei fini"», dove «il fine finisce con giustificare il mezzo». Per cui «a questo punto bisogna chiedersi: in una democrazia, quando è tollerabile questa struttura? Io dico quando c'è una calamità e una situazione di emergenza, quando cioè è in discussione la vita delle persone». Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, ragiona sulla Protezione civile e sulle indagini sui grandi eventi, temi che inducono il sindacalista a chiedere «trasparenza e controlli» e di «riportare nell'ordinario ciò che non è straordinario». Richieste frutto sempre del suo ragionamento. «Se si allarga la nozione dei fini», spiega Epifani, si hanno determinati effetti: da una parte «il pubblico agisce in una modalità diversa» rispetto dal solito, dall'altra si pone il problema di «chi stabilisce quali sono i fini». Tradotto, «in nome dell'urgenza si può fare di tutto». Ad esempio, continua Epifani, «un evento programmato da dieci anni non è un'emergenza, ma lo diventa se io per nove anni non faccio nulla».
Inoltre una "struttura dei fini" rispetto alle strutture di Protezione civile, continua il segretario generale della Cgil, «viene a compromettere l'etica della responsabilità pubblica» e a generare «un'oligarchia autoreferenziale in cui si perde il confine tra l'interesse pubblico e privato e tra l'interesse di mercato e quello di chi sta all'interno» di questo circuito. «Ed è quello che sta accadendo», sostiene Epifani. Per questo, continua il segretario generale della Cgil, la questione «non finisce oggi». A proposito dell'oggi: il tema non nasce adesso, perchè «sono anni che lavoriamo su questo, anche in solitudine», conclude Epifani, con un'ultima denuncia per quanti hanno lasciato che tutto - fino a oggi - avvenisse nel silenzio e nell'ombra.
di Emiliano Biaggio
«Si è costruito attorno ad un tema vero un'ideologia di "politica del fare", intorno alla quale si possono avere condizioni insostenibili per una democrazia». Infatti, questa "politica del fare" «porta a sostituire criteri ordinari con metodi straordinari», e «pone il problema di una "struttura dei fini"», dove «il fine finisce con giustificare il mezzo». Per cui «a questo punto bisogna chiedersi: in una democrazia, quando è tollerabile questa struttura? Io dico quando c'è una calamità e una situazione di emergenza, quando cioè è in discussione la vita delle persone». Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, ragiona sulla Protezione civile e sulle indagini sui grandi eventi, temi che inducono il sindacalista a chiedere «trasparenza e controlli» e di «riportare nell'ordinario ciò che non è straordinario». Richieste frutto sempre del suo ragionamento. «Se si allarga la nozione dei fini», spiega Epifani, si hanno determinati effetti: da una parte «il pubblico agisce in una modalità diversa» rispetto dal solito, dall'altra si pone il problema di «chi stabilisce quali sono i fini». Tradotto, «in nome dell'urgenza si può fare di tutto». Ad esempio, continua Epifani, «un evento programmato da dieci anni non è un'emergenza, ma lo diventa se io per nove anni non faccio nulla».
Inoltre una "struttura dei fini" rispetto alle strutture di Protezione civile, continua il segretario generale della Cgil, «viene a compromettere l'etica della responsabilità pubblica» e a generare «un'oligarchia autoreferenziale in cui si perde il confine tra l'interesse pubblico e privato e tra l'interesse di mercato e quello di chi sta all'interno» di questo circuito. «Ed è quello che sta accadendo», sostiene Epifani. Per questo, continua il segretario generale della Cgil, la questione «non finisce oggi». A proposito dell'oggi: il tema non nasce adesso, perchè «sono anni che lavoriamo su questo, anche in solitudine», conclude Epifani, con un'ultima denuncia per quanti hanno lasciato che tutto - fino a oggi - avvenisse nel silenzio e nell'ombra.
Monday, 15 February 2010
Via Binetti, ma sul Pd sventola bandiera bianca
Il progetto Partito democratico è fallito. E mentre si fa la conta di chi resta, si fa largo l'ipotesi di un grande centro Udc-Api che potrebbe far morire quel che resta di un partito in agonia.
l'e-dittoreale
Dopo gli annunci, i fatti: Paola Binetti lascia il Pd. Dice addio - non senza polemiche - e "trasloca" nell'Udc. «La deriva zapaterista del Pd non posso accettarla», spiega la teodem, contenta due volte: per il suo abbandono e per la solidarietà interna al partito democratico. «Grazie a Dio me ne sono andata. Ma molti sono dispiaciuti». Il primo è Pier Luigi Castagnetti, secondo cui «l'uscita della Binetti è una grave perdita per il Pd». Dello stesso avviso anche Paolo Gentiloni, per il quale adesso «il partito è più povero». Bersani prende atto delle decisioni della teodem, con amarezza. «Non posso, ovviamente, condividere le sue motivazioni», ma «l'allontanamento dell'onorevole Binetti è quello che mi dispiace di più», dice il segretario del Pd. Segretario al quale Binetti rivolge un ultimo pensiero: «Bersani è un rappresentante illuminato dei vecchi Ds, ma non è mai stato il leader della sintesi coi cattolici». La verità, aggiunge Binetti, è che «il Pd ha fallito». Parole dure, ma vere. Il Pd perde un altro tassello di quella che è ormai - è sempre più palese - è una scomessa persa, in una partita finita male. Nonostante Enrico Letta sia convinto che alla fine «il progetto Pd pagherà», allo stato attuale l'unica cosa che paga - e continua a pagare - è dazio. Le fila si rimpiccioliscono, e negli occhi appare solo smobilitazione. In questa lenta emorragia, Binetti è solo l'ultima delle perdite. Logico che tutti siano concordi col dire che senza Binetti il partito ci perde, perchè perde il progetto Pd. Progetto che a questo punto dovrà essere rivisto, ma con chiarezza. Binetti, andandosene, palesa quello che era sotto gli occhi di tutti: una incompatibilità tra le idee di centro e quelle di sinistra. Una fisiologica incapacità di piegarsi ai dictat cattolici da una parte e al non voler assolutamente spostarsi verso istanze più laiche dall'latra. «Per la cultura cattolica non c'è più spazio nel Pd, Bersani ha fatto un partito che somiglia ai socialisti spagnoli», denuncia Binetti. Ecco la verità del fallimento democrat, nelle parole di una donna delusa ed adirata ma non per questo inattendibile. Anzi. Binetti ha una buona dose di ragione, perchè in questo Pd, già orfano di Rutelli, Carra e Bianchi - la forte corrente centrista, per intenderci - c'è sempre più vecchia guardia Ds e sempre meno alternativa. Restano Franceschini, Realacci e soci, quella corrente centrista spostata a sinistra. E viene da chiedersi fino a quando. Il Pd vive e convive di difficoltà, ed è un partito «più povero», per dirla alla Gentiloni, perchè è sempre più debole e indebolito rispetto a sè stesso e a tutti gli altri: il Pdl - nonostante le divisioni - continua a macinare consensi, l'Idv di Di Pietro è in crescita, e l'Udc conserva un bacino di elettori e un potere attrattivo di voti tale da essere conteso da una parte e dall'altra. Se poi è vero che qualcuno già pensa a un avvicinamento tra Udc e Api, allora «i tempi per un grande centro sono maturi», enfatizza e auspica Binetti. Che a questo punto non se n'è andata per caso. In un'ottica bipolare, con un centro forte e un Pdl schiacciasassi, il Pd che futuro può avere? Allo stato attuale il rischio è quello di morire per emorragia interna. Per questo si dovrà fare chiarezza, e capire dove il Pd vorrà stare. Magari con un altro nome e un altro progetto, perchè quello democrat è ormai un sogno infranto.
l'e-dittoreale
Dopo gli annunci, i fatti: Paola Binetti lascia il Pd. Dice addio - non senza polemiche - e "trasloca" nell'Udc. «La deriva zapaterista del Pd non posso accettarla», spiega la teodem, contenta due volte: per il suo abbandono e per la solidarietà interna al partito democratico. «Grazie a Dio me ne sono andata. Ma molti sono dispiaciuti». Il primo è Pier Luigi Castagnetti, secondo cui «l'uscita della Binetti è una grave perdita per il Pd». Dello stesso avviso anche Paolo Gentiloni, per il quale adesso «il partito è più povero». Bersani prende atto delle decisioni della teodem, con amarezza. «Non posso, ovviamente, condividere le sue motivazioni», ma «l'allontanamento dell'onorevole Binetti è quello che mi dispiace di più», dice il segretario del Pd. Segretario al quale Binetti rivolge un ultimo pensiero: «Bersani è un rappresentante illuminato dei vecchi Ds, ma non è mai stato il leader della sintesi coi cattolici». La verità, aggiunge Binetti, è che «il Pd ha fallito». Parole dure, ma vere. Il Pd perde un altro tassello di quella che è ormai - è sempre più palese - è una scomessa persa, in una partita finita male. Nonostante Enrico Letta sia convinto che alla fine «il progetto Pd pagherà», allo stato attuale l'unica cosa che paga - e continua a pagare - è dazio. Le fila si rimpiccioliscono, e negli occhi appare solo smobilitazione. In questa lenta emorragia, Binetti è solo l'ultima delle perdite. Logico che tutti siano concordi col dire che senza Binetti il partito ci perde, perchè perde il progetto Pd. Progetto che a questo punto dovrà essere rivisto, ma con chiarezza. Binetti, andandosene, palesa quello che era sotto gli occhi di tutti: una incompatibilità tra le idee di centro e quelle di sinistra. Una fisiologica incapacità di piegarsi ai dictat cattolici da una parte e al non voler assolutamente spostarsi verso istanze più laiche dall'latra. «Per la cultura cattolica non c'è più spazio nel Pd, Bersani ha fatto un partito che somiglia ai socialisti spagnoli», denuncia Binetti. Ecco la verità del fallimento democrat, nelle parole di una donna delusa ed adirata ma non per questo inattendibile. Anzi. Binetti ha una buona dose di ragione, perchè in questo Pd, già orfano di Rutelli, Carra e Bianchi - la forte corrente centrista, per intenderci - c'è sempre più vecchia guardia Ds e sempre meno alternativa. Restano Franceschini, Realacci e soci, quella corrente centrista spostata a sinistra. E viene da chiedersi fino a quando. Il Pd vive e convive di difficoltà, ed è un partito «più povero», per dirla alla Gentiloni, perchè è sempre più debole e indebolito rispetto a sè stesso e a tutti gli altri: il Pdl - nonostante le divisioni - continua a macinare consensi, l'Idv di Di Pietro è in crescita, e l'Udc conserva un bacino di elettori e un potere attrattivo di voti tale da essere conteso da una parte e dall'altra. Se poi è vero che qualcuno già pensa a un avvicinamento tra Udc e Api, allora «i tempi per un grande centro sono maturi», enfatizza e auspica Binetti. Che a questo punto non se n'è andata per caso. In un'ottica bipolare, con un centro forte e un Pdl schiacciasassi, il Pd che futuro può avere? Allo stato attuale il rischio è quello di morire per emorragia interna. Per questo si dovrà fare chiarezza, e capire dove il Pd vorrà stare. Magari con un altro nome e un altro progetto, perchè quello democrat è ormai un sogno infranto.
Saturday, 13 February 2010
«Berlusconi frutto di Cosa Nostra. E tutti sapevano»
Parla Massimo Ciancimino, che racconta una Italia da brivido. Tra rivelazioni bomba - da accertare - e scenari inquietanti.
di Emiliano Biaggio
Uno Stato che non è Stato, un ordine istituzionalizzato più che istituzionale, un potere investito di autorità da chi potere e autorità lo è già. Un intreccio di politica, forze occulte e organismi ombra, con personaggi più o meno noti ma tutti con un passato oscuro e segreti da nascondere. Sembra la trama di una spy-story, e invece è l’Italia che racconta Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco corleonese di Palermo, don Vito Ciancimino. Il pentito di mafia, al processo contro il generale dei carabinieri Mauro Mori, accusato di aver ritardato la perquisizione del covo di Toto Riina, svela i suoi segreti: Forza Italia è nata dalle trattative tra Stato e Cosa Nostra, e «Berlusconi era il frutto di questi accordi», racconta ai magistrati. Berlusconi, l’attuale capo del governo e una volta giovane imprenditore che diede vita al complesso residenziale denominato Milano due, in cui, rivela Ciancimino, «investì mio padre». Un lungo rapporto, prima forse inconsapevole e poi dichiarato tra Berlusconi e malavita organizzata, in una continua linea di confine e contatto tra Stato e anti-Stato. Dove tutti sapevano. Perché allora, continua il figlio di Don Vito, «i ministri Rognoni e Mancino erano a conoscenza del dialogo intrapreso tra mio padre con il vice comandante del Ros, Mario Mori. Me lo disse mio padre, che lo aveva saputo da un esponente dei servizi segreti». Una storia di intrighi forse suggestiva e certamente inquietante, quella offerta da Ciancimino, in una deposizione a metà strada tra l’horror e il noir, dove tutto ruota a una creatura che si ribella al proprio che creatore, con «Provenzano che- continua il pentito- richiamava il partito nato anche come conseguenza della trattativa a ritornare sui propri passi». Enigmi e colpi di scena, per un mistero degno del miglior Poirot: questi direbbe forse che il colpevole è il maggiordomo, e allora ecco che per la maggioranza l’assassino è Ciancimino junior, che si dipinge proprio come maggiordomo dei rapporti tra Stato e mafia. Di «disegno politico» parla Sandro Bondi, ministro ai beni culturali, di «tentativo di delegittimazione dell’azione del governo» parla invece il ministro della giustizia Angelino Alfano, agrigentino e amico di Dell’Utri, lo stesso Dell’Utri ex stalliere di Berlusconi – col quale fondò Forza Italia - e attuale senatore del Pdl, condannato in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora intrecci e ambiguità. L’Idv non lascia spazi a dubbi e accusa il governo di essere «paramafioso», mentre il Pd preferisce invece la cautela. «Lasciamo lavorare la magistratura», commenta il responsabile giustizia del partito, Andrea Orlando. Prudenza doverosa, perché intanto il nostro codice penale stabilisce che ognuno è innocente fino a prova contraria, e poi perché la delicatezza del caso lo richiede. Certo, viene da chiedersi come mai il premier – un’esperienza da piduista alla spalle – abbia tanta voglia di ripristinare l’immunità parlamentare e come mai il senatore del Pdl Giuseppe Valentino abbia voluto presentare un disegno di legge contro le dichiarazioni dei pentiti. Altri interrogativi di una storia tutta italiana che – anche ammesso sia già stata scritta – deve ancora offrire un finale. Con lo spettatore – e forse non solo questo – che lo aspetta col fiato sospeso. Forse un epilogo potrà offrirlo lo stesso Ciancimino junior, che il prossimo 2 marzo – giorno della fine della posizione al processo Mori – per replicare alla accuse arrivate dagli esponenti della maggioranza.
(Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 12 febbraio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
Uno Stato che non è Stato, un ordine istituzionalizzato più che istituzionale, un potere investito di autorità da chi potere e autorità lo è già. Un intreccio di politica, forze occulte e organismi ombra, con personaggi più o meno noti ma tutti con un passato oscuro e segreti da nascondere. Sembra la trama di una spy-story, e invece è l’Italia che racconta Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco corleonese di Palermo, don Vito Ciancimino. Il pentito di mafia, al processo contro il generale dei carabinieri Mauro Mori, accusato di aver ritardato la perquisizione del covo di Toto Riina, svela i suoi segreti: Forza Italia è nata dalle trattative tra Stato e Cosa Nostra, e «Berlusconi era il frutto di questi accordi», racconta ai magistrati. Berlusconi, l’attuale capo del governo e una volta giovane imprenditore che diede vita al complesso residenziale denominato Milano due, in cui, rivela Ciancimino, «investì mio padre». Un lungo rapporto, prima forse inconsapevole e poi dichiarato tra Berlusconi e malavita organizzata, in una continua linea di confine e contatto tra Stato e anti-Stato. Dove tutti sapevano. Perché allora, continua il figlio di Don Vito, «i ministri Rognoni e Mancino erano a conoscenza del dialogo intrapreso tra mio padre con il vice comandante del Ros, Mario Mori. Me lo disse mio padre, che lo aveva saputo da un esponente dei servizi segreti». Una storia di intrighi forse suggestiva e certamente inquietante, quella offerta da Ciancimino, in una deposizione a metà strada tra l’horror e il noir, dove tutto ruota a una creatura che si ribella al proprio che creatore, con «Provenzano che- continua il pentito- richiamava il partito nato anche come conseguenza della trattativa a ritornare sui propri passi». Enigmi e colpi di scena, per un mistero degno del miglior Poirot: questi direbbe forse che il colpevole è il maggiordomo, e allora ecco che per la maggioranza l’assassino è Ciancimino junior, che si dipinge proprio come maggiordomo dei rapporti tra Stato e mafia. Di «disegno politico» parla Sandro Bondi, ministro ai beni culturali, di «tentativo di delegittimazione dell’azione del governo» parla invece il ministro della giustizia Angelino Alfano, agrigentino e amico di Dell’Utri, lo stesso Dell’Utri ex stalliere di Berlusconi – col quale fondò Forza Italia - e attuale senatore del Pdl, condannato in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora intrecci e ambiguità. L’Idv non lascia spazi a dubbi e accusa il governo di essere «paramafioso», mentre il Pd preferisce invece la cautela. «Lasciamo lavorare la magistratura», commenta il responsabile giustizia del partito, Andrea Orlando. Prudenza doverosa, perché intanto il nostro codice penale stabilisce che ognuno è innocente fino a prova contraria, e poi perché la delicatezza del caso lo richiede. Certo, viene da chiedersi come mai il premier – un’esperienza da piduista alla spalle – abbia tanta voglia di ripristinare l’immunità parlamentare e come mai il senatore del Pdl Giuseppe Valentino abbia voluto presentare un disegno di legge contro le dichiarazioni dei pentiti. Altri interrogativi di una storia tutta italiana che – anche ammesso sia già stata scritta – deve ancora offrire un finale. Con lo spettatore – e forse non solo questo – che lo aspetta col fiato sospeso. Forse un epilogo potrà offrirlo lo stesso Ciancimino junior, che il prossimo 2 marzo – giorno della fine della posizione al processo Mori – per replicare alla accuse arrivate dagli esponenti della maggioranza.
(Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 12 febbraio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
Friday, 12 February 2010
Soldi ai talebani o sostegno a Karzai? Il dilemma che divide sull'Afghanistan. Dove serve altro.
Mancanza di una strategia condivisa e scarsa visione del futuro: ecco a cosa non guarda la comunità internazionale per la rinascita di un paese desideroso di normalità
di Emanuele Bonini
Inceretezze, dubbi, strategie militari e via del dialogo. Impegni finanziari ed erogazione di soldi, ma a chi? Ai talebani che traggono vantaggi dalla situazione attuale? Oppure al governo di Karzai, debole, instabile e corrotto? C'è chi vuole darli agli uni, chi all'altro. Tutti però con delle condizioni. Variabili in un'equazione farcita di incognite. L'Afghanistan resta un rebus e una scommessa per la comunità internazionale, che nella conferenza di Londra ha saputo solo tracciare una bozza di road map per un disimpegno, tra le perplessità diffuse e un generale accordo condizionato. Gli Stati Uniti vorrebbero garantire fondi ai talebani, ma senza avere ad oggi - e chissà se potranno averla in un breve futuro - la certezza che una simile strategia si riveli vincente, e porti cioè dalla loro parte chi in questo momento li attacca. Gli Stati Uniti già una volta hanno saputo portare dalla propria parte i talebani, sostenendoli con armi e soldi in chiave anti-sovietica nella campagna intrapresa alla fine degli anni Settanta a Mosca. E' indubbio che allora gli americani raggiunsero i loro obiettivi, ma con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Basteranno i soldi per convincere (o meglio dire comprare) i talebani a sposare la causa occidentale? Difficile dirlo, e lo sanno bene sia alla Casa Bianca che al Pentagono, che però tentano d'azzardo con una strategia che sa quasi di ultima spiaggia. L'Unione europea non approva, e sostiene invece - ma con riserva - il governo di Kabul. Rinnova una parziale fiducia in Karzai, più che avventurarsi in finanziamenti a gruppi di insorti che non si sa cosa potranno fare di quei soldi. Ma l'Ue non si fida di Karzai, al quale non a caso ha chiesto di tener fede ai propri impegni. Anche in questo caso, dunque, una scommessa. L'unica certezza, anche in ambito Ue, è l'ipegno militare dei 27, presenti - magari non proprio tutti e 27 ma comunque ci sono - con i vari contingenti dei vari paesi membri. Per adesso c'è la via militare a mettere d'accordo Stati Unite ed Unione europea: entrambi sono presenti ed entrambi pensano ad un disimpegno. Per ilresto i "come" dividono le forze in campo, e soprende ascoltare dal responsabile della diplomazia francese parole che ci si aspetterebbe di sentire da un Nobel per la pace qual è Obama. Invece Bernard Kouchner invita al dialogo e alla via diplomatica, in quella che a oggi è la terza opzione, quella delle Nazioni Unite. Ecco il quadro, allora: Stati Uniti, Unione europea, nazioni Unite. Ognuno con la propria diversa strategia, ognuno con i propri interessi. Ognuno tassello di quel grande mosaico afghano fatto di forze locali, occupanti stranieri, insorti talebani, fondamentalismo islamico, traffico di armi, oppio, instabilità, corruzione, frammentazioni etniche. E poi, il nodo della riconciliazione nazionale e dello sviluppo della nazione: potranno mai avvenire le due cose se non si pongono le basi per un'alternativa? No. Facciamo che gli afghani abbiano una propria economia, un proprio mondo del lavoro, occupazione e mestieri. E tanto altro rispetto alla coltivazione del papavero da oppio. Garantire soldi così ha un senso, perchè dare soldi a pioggia senza poi poterli investire in nulla non produrrà altro che una continua alimentazione del narcotraffico e della compravendita di armi. E l'Afghanistan non smetterà mai di essere una pesante eredità per la comunità internazionale e un posto - per gli afghani - dove morire o da dove fuggire.
di Emanuele Bonini
Inceretezze, dubbi, strategie militari e via del dialogo. Impegni finanziari ed erogazione di soldi, ma a chi? Ai talebani che traggono vantaggi dalla situazione attuale? Oppure al governo di Karzai, debole, instabile e corrotto? C'è chi vuole darli agli uni, chi all'altro. Tutti però con delle condizioni. Variabili in un'equazione farcita di incognite. L'Afghanistan resta un rebus e una scommessa per la comunità internazionale, che nella conferenza di Londra ha saputo solo tracciare una bozza di road map per un disimpegno, tra le perplessità diffuse e un generale accordo condizionato. Gli Stati Uniti vorrebbero garantire fondi ai talebani, ma senza avere ad oggi - e chissà se potranno averla in un breve futuro - la certezza che una simile strategia si riveli vincente, e porti cioè dalla loro parte chi in questo momento li attacca. Gli Stati Uniti già una volta hanno saputo portare dalla propria parte i talebani, sostenendoli con armi e soldi in chiave anti-sovietica nella campagna intrapresa alla fine degli anni Settanta a Mosca. E' indubbio che allora gli americani raggiunsero i loro obiettivi, ma con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Basteranno i soldi per convincere (o meglio dire comprare) i talebani a sposare la causa occidentale? Difficile dirlo, e lo sanno bene sia alla Casa Bianca che al Pentagono, che però tentano d'azzardo con una strategia che sa quasi di ultima spiaggia. L'Unione europea non approva, e sostiene invece - ma con riserva - il governo di Kabul. Rinnova una parziale fiducia in Karzai, più che avventurarsi in finanziamenti a gruppi di insorti che non si sa cosa potranno fare di quei soldi. Ma l'Ue non si fida di Karzai, al quale non a caso ha chiesto di tener fede ai propri impegni. Anche in questo caso, dunque, una scommessa. L'unica certezza, anche in ambito Ue, è l'ipegno militare dei 27, presenti - magari non proprio tutti e 27 ma comunque ci sono - con i vari contingenti dei vari paesi membri. Per adesso c'è la via militare a mettere d'accordo Stati Unite ed Unione europea: entrambi sono presenti ed entrambi pensano ad un disimpegno. Per ilresto i "come" dividono le forze in campo, e soprende ascoltare dal responsabile della diplomazia francese parole che ci si aspetterebbe di sentire da un Nobel per la pace qual è Obama. Invece Bernard Kouchner invita al dialogo e alla via diplomatica, in quella che a oggi è la terza opzione, quella delle Nazioni Unite. Ecco il quadro, allora: Stati Uniti, Unione europea, nazioni Unite. Ognuno con la propria diversa strategia, ognuno con i propri interessi. Ognuno tassello di quel grande mosaico afghano fatto di forze locali, occupanti stranieri, insorti talebani, fondamentalismo islamico, traffico di armi, oppio, instabilità, corruzione, frammentazioni etniche. E poi, il nodo della riconciliazione nazionale e dello sviluppo della nazione: potranno mai avvenire le due cose se non si pongono le basi per un'alternativa? No. Facciamo che gli afghani abbiano una propria economia, un proprio mondo del lavoro, occupazione e mestieri. E tanto altro rispetto alla coltivazione del papavero da oppio. Garantire soldi così ha un senso, perchè dare soldi a pioggia senza poi poterli investire in nulla non produrrà altro che una continua alimentazione del narcotraffico e della compravendita di armi. E l'Afghanistan non smetterà mai di essere una pesante eredità per la comunità internazionale e un posto - per gli afghani - dove morire o da dove fuggire.
Thursday, 11 February 2010
Tra promesse e incertezze il futuro dell'Afghanistan
Al vertice del 28 gennaio ribaditi gli impegni per la ricostruzione, tra i "se" degli Usa e i "però" dell'Ue. Con avvertimenti dell'Onu e messaggi a Karzai e soci.
Di Valentina Pop (per EUobserver)
traduzione di Emiliano Biaggio
Dai leader mondiali arriva l'ok all'inizio di trasferimento delle competenze in materia di sicurezza afghana alle forze armate del paese e alle forze locali preposte. Riuniti a Londra per la conferenza sull'Afghanistan, i rappresentanti di 70 paesi si sono detti d'accordo a iniziare il passaggio di consegne agli inizi del 2011, per un processo che durerà cinque anni e nel corso del quale si dovranno trovare i fondi con cui persuadere i gruppi talebani a deporre le armi. I partecipanti alla conferenza sono convinti di aver mosso «passi decisivi per un un più forte leadership afghana che sappia rendere sicuro, stabilizzare e sviluppare l'Afghanistan». Ma perchè questi obiettivi possano essere davvero raggiunti occore garantire aiuto alla Nato, come richiesto nella conferenza di Londra. Un aiuto in termini di appoggio attuale ma soprattutto nella definizione di una road map che possa garantire il graduale ma definitivo disimpegno. Anche perchè la campagna afghana - iniziata nel 2002- è finita. I talebani non sono più al potere, anche se le insurrezioni non sono state arrestate ma hanno addirittura visto un'espansione in Pakistan e in altri territori in passato più sicuri. Gli Stati Uniti pensano di iniziare il richiamo dei propri soldati già il prossimo luglio, nel caso in cui l'aumento di 30.000 uomini non produca risultati. Ma questo non deve ingannare, perchè comunque ad agosto il numero complessivo di soldati occidentali raggiungerà le 100.000 unità. Un contingente dai costi notevoli, con cui bisogna fare - e lo si sta già facendo - i conti. Anche il presidente afghano, Hamid Karzai, pensa alle spese in tema di sicurezza e ha fatto sapere che l'Afghanistan avrà bisogoi di sostegno finanziario alle forze armate per altri 10-15 anni. Karzai ha quindi sottolineato l'importanza di politiche di reintegro degli ex miliziani talebani: una simile politica, ha assicurato, «taglierà i rapproti con Al Qaeda i gli altri gruppi terroristici e permetterà di giungere alla pacificazione» della nazione. Ancora una volta ha promesso di combattere contro la corruzione, ma la sua credibilità in questo ambito risente ancora delle accuse di nepostimo che gli sono state mosse. Ma Karzai ha promesso l'istituzione - di qui a un mese - di un ufficio indipendente per «l'indagine e la sanzione degli ufficiali corrotti». Catherine Ashton, responsabile della politca estera dell'Unione euopea ha comunque sottolineato che Karzai dovrà mantenere le sue promesse se vorrà continuare a godere del sostegno internazionale: «Sa bene quanto ci aspettiamo», ha detto. Gli alleati intanto hanno garantito almeno 350 milioni di euro per la riconciliazione nazionale dell'Afghanistan, con il meeting di Londra che ha esortato a contribuire al fondo per la ricostruizione, attualmente sotto gli 80 milioni. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha posto le condizioni degli Stati Uniti: «L'esercito statunitense è stato autorizzato a garantire un fondo sostanziale» ma solo nel caso in cui gli insorti rinuncino alla violenza e accettino la democrazia. Nel frattempo le Nazioni Unite mantengono in vita i loro mandati esplorativi per negoziati di pace con i comandanti talebani. «La soluzione a una guerra è sempre quella di parlare al tuo nemico, a meno che non vinca una delle parti», ha ricordato Bernard Kouchner, ministro degli esteri francese. Kai Eide, inviato speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan, ha ricordato però come nel paese asiatico il quadro sia piuttosto complesso: «Il processo di riconciliazione nazionale è importante, ma deve essere accompagnato da una riconciliazione politica». Messaggio non casuale, dopo le elezioni che hanno riconfermato - tra molti dubbi e tante proteste - Ahmid Karzai alla guida del paese.
Di Valentina Pop (per EUobserver)
traduzione di Emiliano Biaggio
Dai leader mondiali arriva l'ok all'inizio di trasferimento delle competenze in materia di sicurezza afghana alle forze armate del paese e alle forze locali preposte. Riuniti a Londra per la conferenza sull'Afghanistan, i rappresentanti di 70 paesi si sono detti d'accordo a iniziare il passaggio di consegne agli inizi del 2011, per un processo che durerà cinque anni e nel corso del quale si dovranno trovare i fondi con cui persuadere i gruppi talebani a deporre le armi. I partecipanti alla conferenza sono convinti di aver mosso «passi decisivi per un un più forte leadership afghana che sappia rendere sicuro, stabilizzare e sviluppare l'Afghanistan». Ma perchè questi obiettivi possano essere davvero raggiunti occore garantire aiuto alla Nato, come richiesto nella conferenza di Londra. Un aiuto in termini di appoggio attuale ma soprattutto nella definizione di una road map che possa garantire il graduale ma definitivo disimpegno. Anche perchè la campagna afghana - iniziata nel 2002- è finita. I talebani non sono più al potere, anche se le insurrezioni non sono state arrestate ma hanno addirittura visto un'espansione in Pakistan e in altri territori in passato più sicuri. Gli Stati Uniti pensano di iniziare il richiamo dei propri soldati già il prossimo luglio, nel caso in cui l'aumento di 30.000 uomini non produca risultati. Ma questo non deve ingannare, perchè comunque ad agosto il numero complessivo di soldati occidentali raggiungerà le 100.000 unità. Un contingente dai costi notevoli, con cui bisogna fare - e lo si sta già facendo - i conti. Anche il presidente afghano, Hamid Karzai, pensa alle spese in tema di sicurezza e ha fatto sapere che l'Afghanistan avrà bisogoi di sostegno finanziario alle forze armate per altri 10-15 anni. Karzai ha quindi sottolineato l'importanza di politiche di reintegro degli ex miliziani talebani: una simile politica, ha assicurato, «taglierà i rapproti con Al Qaeda i gli altri gruppi terroristici e permetterà di giungere alla pacificazione» della nazione. Ancora una volta ha promesso di combattere contro la corruzione, ma la sua credibilità in questo ambito risente ancora delle accuse di nepostimo che gli sono state mosse. Ma Karzai ha promesso l'istituzione - di qui a un mese - di un ufficio indipendente per «l'indagine e la sanzione degli ufficiali corrotti». Catherine Ashton, responsabile della politca estera dell'Unione euopea ha comunque sottolineato che Karzai dovrà mantenere le sue promesse se vorrà continuare a godere del sostegno internazionale: «Sa bene quanto ci aspettiamo», ha detto. Gli alleati intanto hanno garantito almeno 350 milioni di euro per la riconciliazione nazionale dell'Afghanistan, con il meeting di Londra che ha esortato a contribuire al fondo per la ricostruizione, attualmente sotto gli 80 milioni. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha posto le condizioni degli Stati Uniti: «L'esercito statunitense è stato autorizzato a garantire un fondo sostanziale» ma solo nel caso in cui gli insorti rinuncino alla violenza e accettino la democrazia. Nel frattempo le Nazioni Unite mantengono in vita i loro mandati esplorativi per negoziati di pace con i comandanti talebani. «La soluzione a una guerra è sempre quella di parlare al tuo nemico, a meno che non vinca una delle parti», ha ricordato Bernard Kouchner, ministro degli esteri francese. Kai Eide, inviato speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan, ha ricordato però come nel paese asiatico il quadro sia piuttosto complesso: «Il processo di riconciliazione nazionale è importante, ma deve essere accompagnato da una riconciliazione politica». Messaggio non casuale, dopo le elezioni che hanno riconfermato - tra molti dubbi e tante proteste - Ahmid Karzai alla guida del paese.
Tuesday, 9 February 2010
Aggiornamento guida delle compagnie
Rivista e - soprattutto - aggiornata la guida della compagnie petrolifere. Nell'elenco fanno la loro comparsa STATOIL, TESORO, VALERO e UZBEKNEFTEGAZ. Quattro nuove voci che vanno a completare e arricchire una lista adesso ancor più utile e aggiornata. Per gli addetti ai lavori e anche solo per i curiosi.
Dato che le compagnie dalla A alla Z sono in continua evoluzione (leggasi cessioni/acquisizioni/crescita), non sono escluse ulteriori nuovi aggiornamenti futuri.
Dato che le compagnie dalla A alla Z sono in continua evoluzione (leggasi cessioni/acquisizioni/crescita), non sono escluse ulteriori nuovi aggiornamenti futuri.
Monday, 8 February 2010
Guida delle compagnie petrolifere (TO-V)
Petrolio in ogni continente, con compagnie che trivellano da oltre un secolo e che continueranno a farlo per molto tempo. Questo, in sintesi, il quadro dell'industria petrolifera, che sul mercato vanta la presenza di più Paesi e più soggetti operanti. Ecco, dalla A alla Z, la guida le principali compagnie petrolifere internazionali. di Ugo Guarnacci ed Emiliano Biaggio
TOTAL: fondata nel 1924, è una società petrolifera francese, con sede a Parigi. È una delle prime quattro multinazionali del petrolio e del gas naturale insieme a Royal Dutch Shell, BP ed ExxonMobil, nonchè una dei sei "supermajor" del mondo insieme a BP, Chevron, ConocoPhillips, ExxonMobil e Shell. L’azienda opera nell’intera catena produttiva degli idrocarburi, dalla ricerca di nuovi giacimenti alla vendita al dettaglio dei prodotti derivati, ma è attiva anche nel comparto della petrolchimica. La compagnia nacque per volere dell'allora primo ministro Raymond Poincaré che, rigettando ogni possibile alleanza del paese con la Royal Dutch Shell, avanzò la proposta di creare un’impresa petrolifera nazionale, vista l’importanza che il greggio avrebbe assunto nell’eventualità di un conflitto con la Germania. Nacque così, il 28 marzo 1924, la Compagnie française des pétroles (CFP), che proprio contro la Germania si rivalse immediatamente: la compagnia ottenne il 23,75% delle azioni della Turkish petroleum company (poi INOC) detenute dalla Deutsche Bank. L'acquisizione delle azioni avvenne come risarcimento per i danni subiti nel corso della prima guerra mondiale. Nel 1985 assunse la denominazione attuale, TOTAL. La società, dopo aver acquistato la belga Petrofina nel 1999, si fuse con essa e cambiò il proprio nome in Total Fina. Come risultato dell’ulteriore accorpamento con la francese Elf Aquitaine nel 2000, si optò per TotalFinaElf, fino al 2003, per poi tornare alla denominazione Total. Opera in più di 130 paesi e conta più di 96.000 dipendenti, per assett complessivi per 118 miliardi di euro. La compagnia ha fatto parlare di sè per danni ambientali e illeciti di ogni genere: nel 1999 fu condannata a pagare un multa di 375.000 euro per lo sversamento in acqua di petrolio nei pressi di La Rochelle, al largo della coste della Britannia. L'incidente è ad oggi uno dei più grandi disastri ambientali di sempre. Nel 2007 la Total è stata messa sotto accusa per presunti reati di complicità in crimini contro l’umanità commessi in Birmania, dove rappresenta la principale compagnia petrolifera nonostante le sanzioni imposte dall'Unione europea contro la giunta militare al governo nel Paese. In particolare, la Total è stata accusata di sfruttamento della manodopera locale nella costruzioni dei gasdotti. Nel 2008 l'amministratore delegato di Total Italia, Lionel Levha, ed altri dipendenti Total vengono arrestati nell'ambito di un'inchiesta sugli appalti per l'estrazione di petrolio in Basilicata. I reati ipotizzati sono associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d'asta - con riferimento specifico agli appalti dei lavori per le estrazioni petrolifere - corruzione e concussione.
UZBEKNEFTEGAZ: è la compagnia nazionale dell'Uzbekistan. E' attiva nell'esplorazione e nell'estrazione petrolifera e del gas, ma lavora anche nel settore del Petrolchimico. Nata nel 1992 a seguito della disgregazione dell'URSS e la conseguente indipendenza del paese, Uzbekneftegaz è stata trasformata nella holding di stato nel 1998. Con oltre 120.000 dipendenti, vanta un fatturato prossimo ai 3 miliardi di dollari. La sua importanza è diventata strategica grazie alle partnership strette con altre compagnie nel settore del gas: insieme a PetroChina sta realizzando la sezione uzbeka del gasdotto Cina-Asia centrale, mentre con Petronas, Petrochina e Lukoil guida il consorizio per l'esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti di gas nel mar d'Aral.
VALERO: con 15 raffinerie e 9 impianti di produzione di etanolo tra california, Canada e Caraibi, è la più grande compagnia di raffinazione di petrolio e di prodotti petroliferi del nord America, anche grazie all'acquisizione di Ultramar, compagnia canedese di raffinazione e lavorazione di prodotti petroliferi. Valero Ha una capacità produttiva netta di 2,8 milioni di barili di greggio al giorno e asset per un valore complessivo di 34,3 miliardi di dollari. Vanta all'incirca 5.800 punti vendita al dettaglio, dislocati tra Stati Uniti (44 stati), Canada, Caraibi e America latina. Conta 21.000 dipendenti e registra - alla fine del 2008 - un fatturato di 119 miliardi di dollari. Lavora gasolio, benzina, carburante per aerei, solventi, gas naturali, propano, coke di petrolio. Vende i propri prodotti con il proprio nome e sotto altri marchi, tra i quali spicca quello di Total.
TOTAL: fondata nel 1924, è una società petrolifera francese, con sede a Parigi. È una delle prime quattro multinazionali del petrolio e del gas naturale insieme a Royal Dutch Shell, BP ed ExxonMobil, nonchè una dei sei "supermajor" del mondo insieme a BP, Chevron, ConocoPhillips, ExxonMobil e Shell. L’azienda opera nell’intera catena produttiva degli idrocarburi, dalla ricerca di nuovi giacimenti alla vendita al dettaglio dei prodotti derivati, ma è attiva anche nel comparto della petrolchimica. La compagnia nacque per volere dell'allora primo ministro Raymond Poincaré che, rigettando ogni possibile alleanza del paese con la Royal Dutch Shell, avanzò la proposta di creare un’impresa petrolifera nazionale, vista l’importanza che il greggio avrebbe assunto nell’eventualità di un conflitto con la Germania. Nacque così, il 28 marzo 1924, la Compagnie française des pétroles (CFP), che proprio contro la Germania si rivalse immediatamente: la compagnia ottenne il 23,75% delle azioni della Turkish petroleum company (poi INOC) detenute dalla Deutsche Bank. L'acquisizione delle azioni avvenne come risarcimento per i danni subiti nel corso della prima guerra mondiale. Nel 1985 assunse la denominazione attuale, TOTAL. La società, dopo aver acquistato la belga Petrofina nel 1999, si fuse con essa e cambiò il proprio nome in Total Fina. Come risultato dell’ulteriore accorpamento con la francese Elf Aquitaine nel 2000, si optò per TotalFinaElf, fino al 2003, per poi tornare alla denominazione Total. Opera in più di 130 paesi e conta più di 96.000 dipendenti, per assett complessivi per 118 miliardi di euro. La compagnia ha fatto parlare di sè per danni ambientali e illeciti di ogni genere: nel 1999 fu condannata a pagare un multa di 375.000 euro per lo sversamento in acqua di petrolio nei pressi di La Rochelle, al largo della coste della Britannia. L'incidente è ad oggi uno dei più grandi disastri ambientali di sempre. Nel 2007 la Total è stata messa sotto accusa per presunti reati di complicità in crimini contro l’umanità commessi in Birmania, dove rappresenta la principale compagnia petrolifera nonostante le sanzioni imposte dall'Unione europea contro la giunta militare al governo nel Paese. In particolare, la Total è stata accusata di sfruttamento della manodopera locale nella costruzioni dei gasdotti. Nel 2008 l'amministratore delegato di Total Italia, Lionel Levha, ed altri dipendenti Total vengono arrestati nell'ambito di un'inchiesta sugli appalti per l'estrazione di petrolio in Basilicata. I reati ipotizzati sono associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d'asta - con riferimento specifico agli appalti dei lavori per le estrazioni petrolifere - corruzione e concussione.
UZBEKNEFTEGAZ: è la compagnia nazionale dell'Uzbekistan. E' attiva nell'esplorazione e nell'estrazione petrolifera e del gas, ma lavora anche nel settore del Petrolchimico. Nata nel 1992 a seguito della disgregazione dell'URSS e la conseguente indipendenza del paese, Uzbekneftegaz è stata trasformata nella holding di stato nel 1998. Con oltre 120.000 dipendenti, vanta un fatturato prossimo ai 3 miliardi di dollari. La sua importanza è diventata strategica grazie alle partnership strette con altre compagnie nel settore del gas: insieme a PetroChina sta realizzando la sezione uzbeka del gasdotto Cina-Asia centrale, mentre con Petronas, Petrochina e Lukoil guida il consorizio per l'esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti di gas nel mar d'Aral.
VALERO: con 15 raffinerie e 9 impianti di produzione di etanolo tra california, Canada e Caraibi, è la più grande compagnia di raffinazione di petrolio e di prodotti petroliferi del nord America, anche grazie all'acquisizione di Ultramar, compagnia canedese di raffinazione e lavorazione di prodotti petroliferi. Valero Ha una capacità produttiva netta di 2,8 milioni di barili di greggio al giorno e asset per un valore complessivo di 34,3 miliardi di dollari. Vanta all'incirca 5.800 punti vendita al dettaglio, dislocati tra Stati Uniti (44 stati), Canada, Caraibi e America latina. Conta 21.000 dipendenti e registra - alla fine del 2008 - un fatturato di 119 miliardi di dollari. Lavora gasolio, benzina, carburante per aerei, solventi, gas naturali, propano, coke di petrolio. Vende i propri prodotti con il proprio nome e sotto altri marchi, tra i quali spicca quello di Total.
Ciancimino: «Forza Italia è nata grazie alla trattativa mafia-Stato»
di Salvo Palazzolo
«Nel 1994, l'ingegner Lo Verde, alias Bernardo Provenzano, mi fece avere tramite il suo entourage una lettera destinata a Dell'Utri e Berlusconi. Io la portai subito a mio padre, che all'epoca era in carcere: lui mi disse che con quella lettera si voleva richiamare Berlusconi e Dell'Utri, perché ritornassero nei ranghi. Mio padre mi diceva che il partito di Forza Italia era nato grazie alla trattativa e che Berlusconi era il frutto di tutti questi accordi».
Massimo Ciancimino torna nell'aula bunker di Palermo, al processo che vede imputato l'ex generale del Ros ed ex capo dei servizi segreti Mario Mori di aver protetto la latitanza del capomafia Bernardo Provenzano. Rispondendo alle domande del pubblico ministero Antonio Ingroia, il figlio dell'ex sindaco ha ripercorso il contenuto di un pizzino che ha consegnato nei mesi scorsi ai magistrati di Palermo. (leggi tutto)
«Nel 1994, l'ingegner Lo Verde, alias Bernardo Provenzano, mi fece avere tramite il suo entourage una lettera destinata a Dell'Utri e Berlusconi. Io la portai subito a mio padre, che all'epoca era in carcere: lui mi disse che con quella lettera si voleva richiamare Berlusconi e Dell'Utri, perché ritornassero nei ranghi. Mio padre mi diceva che il partito di Forza Italia era nato grazie alla trattativa e che Berlusconi era il frutto di tutti questi accordi».
Massimo Ciancimino torna nell'aula bunker di Palermo, al processo che vede imputato l'ex generale del Ros ed ex capo dei servizi segreti Mario Mori di aver protetto la latitanza del capomafia Bernardo Provenzano. Rispondendo alle domande del pubblico ministero Antonio Ingroia, il figlio dell'ex sindaco ha ripercorso il contenuto di un pizzino che ha consegnato nei mesi scorsi ai magistrati di Palermo. (leggi tutto)
Sunday, 7 February 2010
Berlusconi show: «Il muro a Betlemme? Non l'ho visto. E il legittimo impedimento non è un privilegio».
Quando potere e politica sono al servizio di pochi o singoli, e non prestano attenzione allo stato.
di Emiliano Biaggio
«La reazione di Israele su Gaza fu giusta». Lo afferma Silvio Berlusconi di fronte alla Knesset, il parlamento dello stato ebraico. Nella sua visita nel paese del Medio Oriente, il presidente del Consiglio rilascia dichiarazioni a favore di Israele tra gli applausi dei parlamentari e contro il processo di pace del conflitto israelo-palestinese. Le reazioni dell'Autorità nazionale palestinese infatti non si fanno attendere: «Quella degli israeliani a Gaza fu un'aggressione», replica Nemer Hammad, uno dei più stretti consiglieri politici di Abu Mazen, presidente dell’Anp. «C'è un rapporto che si chiama Goldstone sui crimini israeliani- ricorda Hammad - e qualunque cosa dica il premier Berlusconi non cambia la realtà». La realtà. Questa dice che l'esercito israeliano ha usato fosforo bianco su obiettivi civili nel corso dell'operazione "Piombo fuso", la campagna militare israeliana condotta contro Hamas dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 e costata la vita a 1.400 palestinesi. “Piombo fuso” fu «reazione giusta», per il premier italiano, che giustifica e difende Israele. Una presa di posizione più che comprensibile, dato che il presidente del consiglio è andato nello stato ebraico per fare affari, a cercare di vendere 40 aerei d'addestramento militare italiani per un conto di un miliardi di euro. In questi casi non bisogna perciò contrariare il possibile acquirente, ma certo chiudere gli occhi di fronte alla realtà non aiuta, specie in una regione turbolenta come quelle mediorientale. Invece gli occhi si chiudono. O meglio, restano aperti ma a guardare altrove. Come dimostra perfettamente Berlusconi. A chi gli chiede del muro che circonda Betlemme, il premier risponde che «non me ne sono accorto». E questo perché, precisa, «stavo rimettendo a posto le mie idee, prendendo appunti sulle cose che avrei dovuto dire al presidente». Spiegazione diplomatica con una dichiarazione elegante utile a glissare e dribblare eventuali inconvenienti. Certo che 725 chilometri di barriera di cemento alta 3 metri, per quanto uno possa essere assorto, difficilmente possono non apparire, sia pur per sbaglio, all'interno del campo visivo di un occhio umano. Ma tant'è, non si vede. Certo, tra il non vedere e il non voler vedere intercorre una bella differenza, ma allo stato attuale la realtà - questa volta - cambia poco. Perchè giustificare e sposare aprioristicamente la linea di Israele consegna allo Stato ebraico (e ai paesi suoi amici) lo scettro del potere per decidere della questione arabo-israliano, tagliando fuori la Palestina e i palestinesi. Alla Knesset Berlusconi tende la mano a Israele e la nega all'Autorità palestinese. Ancora una volta, è la logica del profitto ad avere la meglio. In Italia invece prevale invece la logica di misure che poco hanno a che fare con necessità reali e bisogni diffusi. Né un esempio il provvedimento approvato alla Camera con 316 si, 239 no e 40 astenuti: è la legge sul legittimo impedimento, testo con il quale – secondo il segretario del Pd, Pierluigi Bersani – il premier «mette davanti a sé l’Italia». Polemiche politiche a parte c’è da dire che Montecitorio dà l’ok ad un provvedimento che blocca i processi Mills e Mediaset, processi che riguardano una sola e ben determinata persona. E ciò mentre Alcoa, Eutelia e Fiat annunciano la chiusura dei propri stabilimenti, in un’ottica di politiche industriali che interessano migliaia di lavoratori ormai prossimi alla disoccupazione. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano spiega che il legittimo impedimento «non è un privilegio ma una tutela al diritto di governare» e in quest’ottica per il leader della Lega Umberto Bossi «la legge andava fatta e l’abbiamo fatta». Adesso che è stata fatta, votata e approvata si torni a far prevalere il buonsenso agli interessi personali. Al limite, si governi per il paese e non per sé stessi. Perché stare al Governo – è bene ricordarlo – lo impone. E questa crisi ancora di più.
(Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 5 febbraio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
«La reazione di Israele su Gaza fu giusta». Lo afferma Silvio Berlusconi di fronte alla Knesset, il parlamento dello stato ebraico. Nella sua visita nel paese del Medio Oriente, il presidente del Consiglio rilascia dichiarazioni a favore di Israele tra gli applausi dei parlamentari e contro il processo di pace del conflitto israelo-palestinese. Le reazioni dell'Autorità nazionale palestinese infatti non si fanno attendere: «Quella degli israeliani a Gaza fu un'aggressione», replica Nemer Hammad, uno dei più stretti consiglieri politici di Abu Mazen, presidente dell’Anp. «C'è un rapporto che si chiama Goldstone sui crimini israeliani- ricorda Hammad - e qualunque cosa dica il premier Berlusconi non cambia la realtà». La realtà. Questa dice che l'esercito israeliano ha usato fosforo bianco su obiettivi civili nel corso dell'operazione "Piombo fuso", la campagna militare israeliana condotta contro Hamas dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 e costata la vita a 1.400 palestinesi. “Piombo fuso” fu «reazione giusta», per il premier italiano, che giustifica e difende Israele. Una presa di posizione più che comprensibile, dato che il presidente del consiglio è andato nello stato ebraico per fare affari, a cercare di vendere 40 aerei d'addestramento militare italiani per un conto di un miliardi di euro. In questi casi non bisogna perciò contrariare il possibile acquirente, ma certo chiudere gli occhi di fronte alla realtà non aiuta, specie in una regione turbolenta come quelle mediorientale. Invece gli occhi si chiudono. O meglio, restano aperti ma a guardare altrove. Come dimostra perfettamente Berlusconi. A chi gli chiede del muro che circonda Betlemme, il premier risponde che «non me ne sono accorto». E questo perché, precisa, «stavo rimettendo a posto le mie idee, prendendo appunti sulle cose che avrei dovuto dire al presidente». Spiegazione diplomatica con una dichiarazione elegante utile a glissare e dribblare eventuali inconvenienti. Certo che 725 chilometri di barriera di cemento alta 3 metri, per quanto uno possa essere assorto, difficilmente possono non apparire, sia pur per sbaglio, all'interno del campo visivo di un occhio umano. Ma tant'è, non si vede. Certo, tra il non vedere e il non voler vedere intercorre una bella differenza, ma allo stato attuale la realtà - questa volta - cambia poco. Perchè giustificare e sposare aprioristicamente la linea di Israele consegna allo Stato ebraico (e ai paesi suoi amici) lo scettro del potere per decidere della questione arabo-israliano, tagliando fuori la Palestina e i palestinesi. Alla Knesset Berlusconi tende la mano a Israele e la nega all'Autorità palestinese. Ancora una volta, è la logica del profitto ad avere la meglio. In Italia invece prevale invece la logica di misure che poco hanno a che fare con necessità reali e bisogni diffusi. Né un esempio il provvedimento approvato alla Camera con 316 si, 239 no e 40 astenuti: è la legge sul legittimo impedimento, testo con il quale – secondo il segretario del Pd, Pierluigi Bersani – il premier «mette davanti a sé l’Italia». Polemiche politiche a parte c’è da dire che Montecitorio dà l’ok ad un provvedimento che blocca i processi Mills e Mediaset, processi che riguardano una sola e ben determinata persona. E ciò mentre Alcoa, Eutelia e Fiat annunciano la chiusura dei propri stabilimenti, in un’ottica di politiche industriali che interessano migliaia di lavoratori ormai prossimi alla disoccupazione. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano spiega che il legittimo impedimento «non è un privilegio ma una tutela al diritto di governare» e in quest’ottica per il leader della Lega Umberto Bossi «la legge andava fatta e l’abbiamo fatta». Adesso che è stata fatta, votata e approvata si torni a far prevalere il buonsenso agli interessi personali. Al limite, si governi per il paese e non per sé stessi. Perché stare al Governo – è bene ricordarlo – lo impone. E questa crisi ancora di più.
(Editoriale della puntata di E' la stampa bellezza del 5 febbraio 2010, in onda su Radio Libera Tutti.)
Saturday, 6 February 2010
Italia "alla conquista" del Brasile. Con i blindati dell'Iveco
Al gruppo Fiat commissionati oltre 2.000 VBTP-MR, in settore che non conosce mai crisi e che ci frutterà - per questa operazione - due miliardi e mezzo.
di Emiliano Biaggio
Mezzi e imbarcazioni militari pronte ad essere vendute dall'Italia al Brasile. Il governo di Roma e quello di Brasilia hanno infatti in corso una trattativa per la compravendita di carrarmati e fregate: sul tavolo ci sono 2.000 blindati che l'Iveco (gruppo Fiat) è pronta ad andare a produrre in territorio brasiliano - dove ha uno stabilimento - e una decina di navi per andare a rinnovare la flotta della marina brasiliana. La cosa non sorprende: tra il 1999 e il 2003 l'Italia ha esportato in Brasile armi e munizioni per 10 milioni di dollari. Un settore - quello della produzione di armi piccole e leggere - che vede il nostro paese al secondo posto al mondo. Sul fronte dei mezzi, l'sercito brasiliano e Iveco Latin America hanno firmato un contratto per la fornitura di 2.044 unità di un nuovo veicolo blindato per il trasporto persone (VBTP-MR), per una commessa da 6 miliardi di Reais (circa 2,5 miliardi di euro) in oltre 20 anni. Il rinnovo del parco mezzi bellici brasiliano rientra nella Strategia di difesa nazionale del paese sudamericano, che prevede - tra le altre cose - la riorganizzazione delle dotazioni di difesa dello Stato così da assicurare che le necessità dell’Esercito brasiliano siano supportate da tecnologie all’avanguardia. L'Italia ringrazia. Il clima un pò meno. Ancora una volta si parla di industria bellica e forniture di materiale bellico: il mondo ha ormai imboccato una inquietante ma ben precisa strada. Viene solo da chiedersi dove condurrà.
di Emiliano Biaggio
Mezzi e imbarcazioni militari pronte ad essere vendute dall'Italia al Brasile. Il governo di Roma e quello di Brasilia hanno infatti in corso una trattativa per la compravendita di carrarmati e fregate: sul tavolo ci sono 2.000 blindati che l'Iveco (gruppo Fiat) è pronta ad andare a produrre in territorio brasiliano - dove ha uno stabilimento - e una decina di navi per andare a rinnovare la flotta della marina brasiliana. La cosa non sorprende: tra il 1999 e il 2003 l'Italia ha esportato in Brasile armi e munizioni per 10 milioni di dollari. Un settore - quello della produzione di armi piccole e leggere - che vede il nostro paese al secondo posto al mondo. Sul fronte dei mezzi, l'sercito brasiliano e Iveco Latin America hanno firmato un contratto per la fornitura di 2.044 unità di un nuovo veicolo blindato per il trasporto persone (VBTP-MR), per una commessa da 6 miliardi di Reais (circa 2,5 miliardi di euro) in oltre 20 anni. Il rinnovo del parco mezzi bellici brasiliano rientra nella Strategia di difesa nazionale del paese sudamericano, che prevede - tra le altre cose - la riorganizzazione delle dotazioni di difesa dello Stato così da assicurare che le necessità dell’Esercito brasiliano siano supportate da tecnologie all’avanguardia. L'Italia ringrazia. Il clima un pò meno. Ancora una volta si parla di industria bellica e forniture di materiale bellico: il mondo ha ormai imboccato una inquietante ma ben precisa strada. Viene solo da chiedersi dove condurrà.
Friday, 5 February 2010
Medio Oriente, petrolio e armi nel Golfo
Missili Patriot in Qatar, Kuwait, Emirati Arabi e Bahrein. Mentre l'Iran lavora al nucleare e Israele pensa a come rinnovare il proprio parco aerei di addestramento.
di Emiliano Biaggio
In Iran al lavoro per il nucleare, in Qatar, Kuwait, Emirati Arabi e Bahrein missili a aerei da guerra, nel golfo Persico portaerei, in Israele delegazioni italiane a cercare di vendere aerei di addestramento militare. Grandi manovre in Medio Oriente, tutte ad alta tensione e all'insegna di una corsa al riarmo che non giova ad una regione fortemente instabile. Ognuno per i propri interessi - economici e strategici - legittimi, con Israele e Stati Uniti preoccupati dalla politica energetica iraniana. Teheran ufficialmente lavora al nucleare civile, tra i sospetti e i timori però della comunità internazionale che - Stati Uniti in testa - vorrebbe un inasprimento delle sanzioni, soluzione però "bocciata" da Cina e Russia, che hanno nella repubblica islamica un partner strategico. Visto lo stallo e la complessità della situazione, si gioca allora la carta della "difesa preventiva", vale a dire un aumento della capacità di offesa nella regione che possa servire da monito e da strategica premunizione in chiave anti-Iran. Così il governo del premio Nobel per la pace Barack Obama sigla accordi con Qatar, Kuwait, Bahrein ed Emirati Arabi per lo stazionamento di unità della marina Usa nei porti di questi paesi. Inoltre il Kuwait ha deciso di rinnovare la proprie difese missilistiche - batterie di missili Patriot - in parallelo con la scelta dell’Arabia Saudita di acquistare negli ultimi 24 mesi 25 miliardi di nuove forniture di armi americane e a consentire a Washington di aumentare da 20 mila a 30 mila uomini il proprio contingente, incaricato in caso di guerra di difendere le infrastrutture petrolifere. Gli Emirati Arabi, invece, hanno acquistato da Washington 80 caccia F-16 e stanno negoziando con Parigi per ottenere un imprecisato numero di jet Rafale. Poi vi sono i nuovi sistemi di difesa anti-aerea "Thaad" che Arabia Saudita e Emirati Arabi stanno installando mentre altre monarchie del Golfo meditano analoghe decisioni. Una generale corsa al riarmo dei paesi del Medio Oriente descritta da tutti i soggetti interessati come un processo di rafforzamento complessivo delle difese anti-missilistiche degli Stati del Golfo, che si sentono minacciati dal regime degli ayatollah. Il generale statunitense David Petraeus ha precisato che il sistema di difesa prevede otto batterie di missili Patriot, due per ognuno dei quattro paesi, in grado di abbattere i missili offensivi a corto raggio. E Israele? Non sta a guardare. Fonti dello stato ebraico hanno fatto sapere che «Israele deve rinnovare il proprio parco di aerei da addestramento». Di ufficiale, ancora, non cè niente. Anche perchè, spiega la fonte, «prima le Israeli Defense Forces devono valutare quali sono gli apparecchi sul mercato che meglio rispondono alle nostre esigenze e quindi passare al ministro i risultati della propria analisi». Almeno una prima analisi chi di dovere in Israele l'ha già fatta, se è vero (e lo è!) che la delegazione italiana guidata da Silvio Berlusconi avrebbe discusso della vendita di 40 M-346 Master, gli aerei di addestramento militare gioiello della nostra tecnologia, che equivarrebbero a un commessa, per l'azienda italiana Alenia Aermacchi (gruppo Finmeccanica), di circa un miliardo di euro. Quel che è certo è che in Medio Oriente - zona golfo Persico - si sta aumentando la pressione militare e bellica. Ma del resto il Nobel per la pace Obama ha parlato di un mondo senza atomico, mica di un mondo senza armi e senza mine anti-uomo. Cvd.
di Emiliano Biaggio
In Iran al lavoro per il nucleare, in Qatar, Kuwait, Emirati Arabi e Bahrein missili a aerei da guerra, nel golfo Persico portaerei, in Israele delegazioni italiane a cercare di vendere aerei di addestramento militare. Grandi manovre in Medio Oriente, tutte ad alta tensione e all'insegna di una corsa al riarmo che non giova ad una regione fortemente instabile. Ognuno per i propri interessi - economici e strategici - legittimi, con Israele e Stati Uniti preoccupati dalla politica energetica iraniana. Teheran ufficialmente lavora al nucleare civile, tra i sospetti e i timori però della comunità internazionale che - Stati Uniti in testa - vorrebbe un inasprimento delle sanzioni, soluzione però "bocciata" da Cina e Russia, che hanno nella repubblica islamica un partner strategico. Visto lo stallo e la complessità della situazione, si gioca allora la carta della "difesa preventiva", vale a dire un aumento della capacità di offesa nella regione che possa servire da monito e da strategica premunizione in chiave anti-Iran. Così il governo del premio Nobel per la pace Barack Obama sigla accordi con Qatar, Kuwait, Bahrein ed Emirati Arabi per lo stazionamento di unità della marina Usa nei porti di questi paesi. Inoltre il Kuwait ha deciso di rinnovare la proprie difese missilistiche - batterie di missili Patriot - in parallelo con la scelta dell’Arabia Saudita di acquistare negli ultimi 24 mesi 25 miliardi di nuove forniture di armi americane e a consentire a Washington di aumentare da 20 mila a 30 mila uomini il proprio contingente, incaricato in caso di guerra di difendere le infrastrutture petrolifere. Gli Emirati Arabi, invece, hanno acquistato da Washington 80 caccia F-16 e stanno negoziando con Parigi per ottenere un imprecisato numero di jet Rafale. Poi vi sono i nuovi sistemi di difesa anti-aerea "Thaad" che Arabia Saudita e Emirati Arabi stanno installando mentre altre monarchie del Golfo meditano analoghe decisioni. Una generale corsa al riarmo dei paesi del Medio Oriente descritta da tutti i soggetti interessati come un processo di rafforzamento complessivo delle difese anti-missilistiche degli Stati del Golfo, che si sentono minacciati dal regime degli ayatollah. Il generale statunitense David Petraeus ha precisato che il sistema di difesa prevede otto batterie di missili Patriot, due per ognuno dei quattro paesi, in grado di abbattere i missili offensivi a corto raggio. E Israele? Non sta a guardare. Fonti dello stato ebraico hanno fatto sapere che «Israele deve rinnovare il proprio parco di aerei da addestramento». Di ufficiale, ancora, non cè niente. Anche perchè, spiega la fonte, «prima le Israeli Defense Forces devono valutare quali sono gli apparecchi sul mercato che meglio rispondono alle nostre esigenze e quindi passare al ministro i risultati della propria analisi». Almeno una prima analisi chi di dovere in Israele l'ha già fatta, se è vero (e lo è!) che la delegazione italiana guidata da Silvio Berlusconi avrebbe discusso della vendita di 40 M-346 Master, gli aerei di addestramento militare gioiello della nostra tecnologia, che equivarrebbero a un commessa, per l'azienda italiana Alenia Aermacchi (gruppo Finmeccanica), di circa un miliardo di euro. Quel che è certo è che in Medio Oriente - zona golfo Persico - si sta aumentando la pressione militare e bellica. Ma del resto il Nobel per la pace Obama ha parlato di un mondo senza atomico, mica di un mondo senza armi e senza mine anti-uomo. Cvd.
Thursday, 4 February 2010
«Bene Israele a Gaza». Da Berlusconi duro colpo al processo di pace in Medioriente
Nella sua visita in Israele ignora il rapporto della commissione Goldstone, e sul muro dice: «Non l'ho visto».
di Emiliano Biaggio
«La reazione di Israele su Gaza fu giusta». Lo afferma Silvio Berlusconi di fronte alla Knesset, il parlamento dello stato ebraico. Nella sua visita nel paese del Medio Oriente, il presidente del Consiglio rilascia dichiarazioni a favore di Israele - e non accaso i parlamantari applaudono - e contro un processo di pace che a questo punto rischia una volta di più di diventare un chimera. Le reazioni dell'Anp infatti non si fanno attendere: «Quella degli israeliani a Gaza fu un'aggressione», replica Nemer Hammad, uno dei più stretti consiglieri politici di Abu Mazen. «C'è un rapporto che si chiama Goldstone sui crimini israeliani- ricorda il palestinese- e qualunque cosa dica il premier Berlusconi non cambia la realtà». La realtà. Questa dice che l'esercito israeliano ha usato fosforo bianco su obiettivi civili nel corso dell'operazione "Piombo fuso", quella «reazione giusta» cui fa riferimento Berlusconi. Ammesso che le ragioni possono essere sacrosante, il come si perseguono possono anche sconfessarle. Questo dovrebbe essere detto, ma nessuno lo dice. Si preferisce invece continuare con il giustificare Israele sempre e comunque. Nel caso specifico è comprensibile, dato che il presidente del consiglio è andato per fare affari (a cercare di vendere aerei d'addestramento militare italiani, per l'esattezza) , e in questi casi non bisogna contrariare il possibile acquirente, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà non aiuta, specie in una regione turbolente come quelle mediorientale. Invece gli occhi si chiudono. O meglio, restano aperti ma a guardare altrove. Come dimostra perfettamente Berlusconi. A chi gli chiede del muro che circonda Betlemme, il premier risponde che «non me ne sono accorto». E questo perchè «stavo rimettendo a posto le mie idee, prendendo appunti sulle cose che avrei dovuto dire al presidente». Spiegazione diplomatica, nulla da dire. Un modo molto elegante per glissare e dribblare eventuali inconvenienti con imbarazzi annessi. Certo che 725 chilometri di barriera di cemento alta 3 metri, per quanto uno possa essere assorto, difficilmente possono non apparire, sia pur per sbaglio, all'interno del campo visivo di un occhio umano. Ma tant'è, non si vede. Certo, tra il non vedere e il non voler vedere intercorre una bella differenza, ma allo stato attuale la realtà - questa volta - cambia poco. Perchè giustificare e sposare aprioristicamente la linea di Israele consegna allo Stato ebraico (e ai paesi suoi amici) lo scettro del potere per decidere della questione arabo-israliano, tagliando fuori la Palestina e i palestinesi. Alla Knesset Berlusconi tende la mano a Israele e la nega all'Autorità palestinese. Ancora una volta, è l'inumana logica del profitto a prevalere. (fonte foto: Apcom)
di Emiliano Biaggio
«La reazione di Israele su Gaza fu giusta». Lo afferma Silvio Berlusconi di fronte alla Knesset, il parlamento dello stato ebraico. Nella sua visita nel paese del Medio Oriente, il presidente del Consiglio rilascia dichiarazioni a favore di Israele - e non accaso i parlamantari applaudono - e contro un processo di pace che a questo punto rischia una volta di più di diventare un chimera. Le reazioni dell'Anp infatti non si fanno attendere: «Quella degli israeliani a Gaza fu un'aggressione», replica Nemer Hammad, uno dei più stretti consiglieri politici di Abu Mazen. «C'è un rapporto che si chiama Goldstone sui crimini israeliani- ricorda il palestinese- e qualunque cosa dica il premier Berlusconi non cambia la realtà». La realtà. Questa dice che l'esercito israeliano ha usato fosforo bianco su obiettivi civili nel corso dell'operazione "Piombo fuso", quella «reazione giusta» cui fa riferimento Berlusconi. Ammesso che le ragioni possono essere sacrosante, il come si perseguono possono anche sconfessarle. Questo dovrebbe essere detto, ma nessuno lo dice. Si preferisce invece continuare con il giustificare Israele sempre e comunque. Nel caso specifico è comprensibile, dato che il presidente del consiglio è andato per fare affari (a cercare di vendere aerei d'addestramento militare italiani, per l'esattezza) , e in questi casi non bisogna contrariare il possibile acquirente, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà non aiuta, specie in una regione turbolente come quelle mediorientale. Invece gli occhi si chiudono. O meglio, restano aperti ma a guardare altrove. Come dimostra perfettamente Berlusconi. A chi gli chiede del muro che circonda Betlemme, il premier risponde che «non me ne sono accorto». E questo perchè «stavo rimettendo a posto le mie idee, prendendo appunti sulle cose che avrei dovuto dire al presidente». Spiegazione diplomatica, nulla da dire. Un modo molto elegante per glissare e dribblare eventuali inconvenienti con imbarazzi annessi. Certo che 725 chilometri di barriera di cemento alta 3 metri, per quanto uno possa essere assorto, difficilmente possono non apparire, sia pur per sbaglio, all'interno del campo visivo di un occhio umano. Ma tant'è, non si vede. Certo, tra il non vedere e il non voler vedere intercorre una bella differenza, ma allo stato attuale la realtà - questa volta - cambia poco. Perchè giustificare e sposare aprioristicamente la linea di Israele consegna allo Stato ebraico (e ai paesi suoi amici) lo scettro del potere per decidere della questione arabo-israliano, tagliando fuori la Palestina e i palestinesi. Alla Knesset Berlusconi tende la mano a Israele e la nega all'Autorità palestinese. Ancora una volta, è l'inumana logica del profitto a prevalere. (fonte foto: Apcom)
Tuesday, 2 February 2010
Israele usò fosforo bianco contro obiettivi civili
Sotto accusa due alti ufficiali di Tzahal: «autorizzarono l'utilizzo di bombe che misero in pericolo vite umane».
di Emiliano Biaggio
Israele ha sparato su obiettivi civili con armi al fosforo. La rivelazione chock conferma clamorosamente quei crimini contro l'umanita denunciati dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon alla fine dell'operazione "piombo fuso", la campagna militare israeliana condotta contro Hamas dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 e che ha provocato la morte di 1.400 palestinesi. Le stesse Tzahal, le forze armate israeliane, non hanno smentito l'utilizzo di bombe al fosforo, che secondo le convenzioni internazionali possono essere utilizzate solamente a scopo di illuminazione, per spaventare o per nascondere le proprie truppe. Ma non come arma di offesa. una volta incendiata, la bomba al fosforo sprigiona particelle che si disperdono nell'aria e che, a contatto con i tessuti molli, sprigiona pezzi di feltro che a contatto con l'aria si incendiano e si attaccano alla pelle, bruciando per ore. Lo stato maggiore dell'esercito israeliano ha però riconosciuto che il colonnello Ilan Malka e il generale di brigata Eyal Eisenberg, il 15 gennaio 2009, due giorni prima della fine di "piombo fuso", oltrepassarono la propria autorità «nell'autorizzare l'utilizzo delle bombe al fosforo che misero in pericolo vite umane». Le Tzahal hanno fatto sapere di aver preso misure disciplinari nei confronti degli alti ufficiali, ma allo stesso tempo hanno riconosciuto come valide le accuse che erano state mosse al governo di Tel Aviv. La commissione Goldstone - voluta dal segretario generale dell'Onu in persona per far luce sull'operazione - già lo scorso settembre aveva infatti sostenuto che lo Stato ebraico «non ha adottato le precauzioni richieste dal diritto internazionale per limitare le perdite di vite umane, i feriti tra i civili e i danni materiali». Alle forze armate israeliane sono stati contestati «i proiettili di mortaio al fosforo bianco contro le installazioni dell'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi», «l'attacco intenzionale sull'ospedale Al Quds» sempre «con proiettili esplosivi e al fosforo», «l'attacco contro l'ospedale Al Wafa», insieme a «violazioni del diritto umanitario internazionale». Adesso il quotidiano israeliano Haaretz riferisce che «durante un combattimento con Hamas, che secondo l’intelligence israeliana possedeva missili anticarro, è stato deciso di usare il fosforo bianco per coprire le operazioni dell’esercito e rendere più difficile la visibilità per Hamas». In quel frangente - un’operazione a Tel al-Hawa, un quartiere meridionale della Striscia di Gaza - «centinaia di munizioni al fosforo sono state lanciate nella zona e hanno colpito alcuni civili palestinesi e degli impiegati dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i soccorsi e il lavoro».
di Emiliano Biaggio
Israele ha sparato su obiettivi civili con armi al fosforo. La rivelazione chock conferma clamorosamente quei crimini contro l'umanita denunciati dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon alla fine dell'operazione "piombo fuso", la campagna militare israeliana condotta contro Hamas dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 e che ha provocato la morte di 1.400 palestinesi. Le stesse Tzahal, le forze armate israeliane, non hanno smentito l'utilizzo di bombe al fosforo, che secondo le convenzioni internazionali possono essere utilizzate solamente a scopo di illuminazione, per spaventare o per nascondere le proprie truppe. Ma non come arma di offesa. una volta incendiata, la bomba al fosforo sprigiona particelle che si disperdono nell'aria e che, a contatto con i tessuti molli, sprigiona pezzi di feltro che a contatto con l'aria si incendiano e si attaccano alla pelle, bruciando per ore. Lo stato maggiore dell'esercito israeliano ha però riconosciuto che il colonnello Ilan Malka e il generale di brigata Eyal Eisenberg, il 15 gennaio 2009, due giorni prima della fine di "piombo fuso", oltrepassarono la propria autorità «nell'autorizzare l'utilizzo delle bombe al fosforo che misero in pericolo vite umane». Le Tzahal hanno fatto sapere di aver preso misure disciplinari nei confronti degli alti ufficiali, ma allo stesso tempo hanno riconosciuto come valide le accuse che erano state mosse al governo di Tel Aviv. La commissione Goldstone - voluta dal segretario generale dell'Onu in persona per far luce sull'operazione - già lo scorso settembre aveva infatti sostenuto che lo Stato ebraico «non ha adottato le precauzioni richieste dal diritto internazionale per limitare le perdite di vite umane, i feriti tra i civili e i danni materiali». Alle forze armate israeliane sono stati contestati «i proiettili di mortaio al fosforo bianco contro le installazioni dell'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi», «l'attacco intenzionale sull'ospedale Al Quds» sempre «con proiettili esplosivi e al fosforo», «l'attacco contro l'ospedale Al Wafa», insieme a «violazioni del diritto umanitario internazionale». Adesso il quotidiano israeliano Haaretz riferisce che «durante un combattimento con Hamas, che secondo l’intelligence israeliana possedeva missili anticarro, è stato deciso di usare il fosforo bianco per coprire le operazioni dell’esercito e rendere più difficile la visibilità per Hamas». In quel frangente - un’operazione a Tel al-Hawa, un quartiere meridionale della Striscia di Gaza - «centinaia di munizioni al fosforo sono state lanciate nella zona e hanno colpito alcuni civili palestinesi e degli impiegati dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i soccorsi e il lavoro».
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