Thursday, 29 April 2010

Austria e Ungheria, dalle urne esce la destra

Nei due paesi il forte astensionismo favorisce conservatori e nazionalisti, che nell'ex paese satellite sovietico possono cambiare la costituzione. Mentre oltre le Alpi l'Fpö supera il 15%.

di Emiliano Biaggio

Austria e Ungheria: due paesi con uno stesso passato e con un presente in comune. Cosa rende simili i due paesi a quasi cento anni dalla dissoluzione dell'impero austro-ungarico (avvenuta nel 1918)? L'avanzata della destra e dei movimenti xenofobi e razzisti. In Ugheria, dove il primo turno delle politiche aveva già visto la netta affermazione di Fidesz e Jobbik, il secondo turno conferma la sconfitta della sinistra e vede un'ulteriore affermazione di conservatori e nazionalisti, che conquistano la maggioranza dei seggi parlamentari rimasti in palio. Adesso il centrodestra ungherese - la coalizione Fidesz-Jobbik - vanta quella maggioranza dei due terzi richiesta per cambiare la Costituzione. E ciò desta preoccupazioni per come potrebbe essere modificata la carta costituzionale ungherese da una coalizione che vede una forza - Jobbik - xenofoba, razzista e antisemita, prim'ancora che anti-europeista.
Diversa ma non troppo la situazione in Austria, dove le presidenziali confermano il forte seguito per l'Fpö, il partito della Libertà che fu di Jörg Haider e che alle consultazioni di domenica ha ottenuto il 15,6% dei voti. Barbara Rosenkranz, candidata per il partito, non ha fatto mistero di voler rivedere quella parte della Costituzione che vieta la rinascita del partito nazista e punisce reati come la negazione dell'olocausto. Alla fine il socialdemocratico Heinz Fischer resta all'Hofburg - la residenza del presidente federale - dopo aver raccolto il 78,9% dei voti. A differenza dell'Ungheria tanto cara a Sissi, nel paese ancora legato al nome di Francesco Giuseppe vince il centro-sinistra, con l'affermazione dell'Spö. Ma anche qui il peso dell'estrema destra continua a farsi sentire. A favorire un simile fenomeno, in Austria come in Ungheria, la diserzione delle urne: in Austria è stata scarsissima la percentuale dei votanti, appena il 49,1% contro il 71% delle presidenziali del 2004. In Ungheria, invece, affluenza alle urne ancora più bassa: ha votato solo il 48% degli aventi diritti. Una dimostrazione della stanchezza e della disffezione per la politica, peraltro non esclusivi dell'Austria ma di un clima generale europeo che vede alto astensionismo e avanzata dei nazionalismi. Se solo ci fosse un'Unione europea politica, i leader dell'Ue si interrogherebbero sul fenomeno, ma in un'Unione europea di banchieri e finanzieri l'unica preoccupazione è la crisi economica greca.

Tuesday, 27 April 2010

Berlusconi: «Convincerò gli italiani con la tv»

Per riuscire a ottenere i consensi che non ha sul nucleare, il presidente del Consiglio gioca la carta dei media. Che controlla sempre più capillarmente.

di Emiliano Biaggio

«Prima di indicare il posizionamento delle centrali nucleari va cambiata l'opinione pubblica». Parola di Silvio Berlusconi, secondo cui il vero problema legato alla questione del nucleare è che «oggi gli italiani quando sentono parlare di nucleare sono terrorizzati». Detto in altri termini, manca «una forte opera di convincimento». Per questo, annuncia il presidente del consiglio, «con la tv di Stato stiamo lavorando a un progetto per raccogliere le testimonianze di tutti i cittadini francesi che vivono vicino alle centrali» nucleari, per «sottolineare che in Francia non c'è stato mai alcun incidente» e che «le centrali portano tanto lavoro». Il premier che tanto attacca comunismo e comunisti, non fa pubblico mistero di voler procedere con un vero e proprio lavaggio del cervello fatto di ripetizione continua di stessi messaggi per meglio indottrinare gli ascoltatori. Non essendo convinta l'opinione pubblica, non resta altro da fare che convinerla. parole e intenzioni pericolose, che a questo punto - oltre a riproporre l'annosa questione del potere dei mezzi di informazione, del loro controllo e del loro utilizzo - riapre il problema del conflitto di interessi e della necessità di una legge sulle tv.
L'impero mediatico di Berlusconi unito alla sua capacità comunicativa rischia di far precipitare l'Italia nel baratro della disinformazione e delle notizie a senso unico. Prove tecniche di regime, insomma. Le trasmissioni andranno in onda prossimamente, comunque quanto prima. E' bene ricordare che una democrazia, per essere completa, deve avere dei mezzi di informazione indipendenti: più i mezzi di comunicazione di massa saranno controllati (con tutti i filtri che conseguono) più ci si allontanerà da sistemi democratici per avvicinarsi a modelli autoritari. E questo sembra essere il caso italiano.

Monday, 26 April 2010

Cernobyl, l'incubo nucleare

Ricorre oggi l'anniversario di uno dei peggiori disastri di sempre. Tra ricordi e paure.

di Mario Piccirillo
Due esplosioni, una dietro l'altra, la notte del 26 aprile 1986 al reattore della quarta unità di Cernobyl. Undici miliardi di Bequerel la radioattività rilasciata dalle esplosioni, un valore 30 miliardi di volte superiore alla dose massima utilizzata per terapie radiologiche di tumori, con sei pompieri, ventiquattro dipendenti e trentuno liquidatori morti quasi subito per effetto delle radiazioni immediate e un numero difficilmente quantificabile di vittime per gli effetti a lungo termine di quelle assorbite. Dieci i giorni impiegati per spegnere gli incendi, 130 mila gli abitanti dei 76 villaggi evacuati nel raggio di 30 chilometri dalla centrale. Una nube di materiali radioattivi che si leva dal reattore ricadendo su vaste aree intorno alla centrale contaminandole pesantemente. Nubi radioattive che raggiungono l'Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia con livelli di contaminazione via via minori, e poi l'Italia, la Francia, la Germania. Questa tragica carrellata di numeri e fatti dà la misura della gravità e l'impatto del disastro di Cernobyl, disastro- va ricordato- causato non da un "normale" incidente, ma da un dissennato "esperimento di sicurezza" tentato dai tecnici ucraini, che portò alla mostruosa deflagrazione del reattore 4. Sono passati ventiquattro anni dall'evento, ma l'eco di quanto accadde resta forte ed ancora oggi l'atomo fa paura.
La centrale di Cernobyl ha cessato la sua attività il 15 dicembre del 2000, ma ancora oggi le conseguenze sono gravissime. Il fall-out radioattivo, infatti, ha interessato oltre 150 mila chilometri quadrati di territorio tra Bielorussia, Ucraina e Russia, coinvolgendo piu' di 3 milioni di persone. Il rapporto ufficiale redatto dalle agenzie dell'Onu (Oms, Unscear, Aiea e altre) stila per la tragedia di Cernobyl un bilancio di 65 morti accertati con sicurezza e altri 4 mila presunti (che non si possono associare direttamente al disastro) per tumori e leucemie su un arco di 80 anni. Il bilancio ufficiale non è condiviso da alcune associazioni antinucleariste che presentano stime molto piu' elevate, non condivise peraltro da altre sigle ambientaliste. I problemi alla centrale V.I Lenin, questo il nome dell'impianto, non finirono con il disastro del reattore 4. Il governo ucraino continuò a mantenere operativi i tre reattori rimanenti preoccupato dalla scarsità di energia elettrica nel paese che sarebbe derivata da una chiusura totale. Nel 1991 divampò un incendio nel reattore 2 che, rimasto danneggiato irreparabilmente, fu chiuso. Il reattore 1 fu smantellato nel novembre 1996 dopo gli accordi tragoverno ucraino e organizzazioni internazionali come l'Aiea. Il 15 dicembre del 2000, con una cerimonia ufficiale, il presidente ucraino Leonid Kucma pigiò personalmente l'interruttore che spense il reattore 3, cessando definitivamente ogni attività nella centrale.
Il reattore 4 di Cernobyl è chiuso in un sarcofago di cemento, che però non è un contenitore permanente e duraturo. Nonostante i periodici lavori di ristrutturazione e consolidamento, sta invecchiando. Le crepe nella struttura ne accelerano il deterioramento permettendo infiltrazioni di acqua. Inoltre, l'edificio, costruito su fondamenta non solide, sprofonda nel terreno e si deforma. Il costo stimato per una nuova copertura si aggira attorno al miliardo di euro e fino ad oggi sembra siano stati stanziati soltanto i due terzi della somma necessaria. L'emergenza Cernobyl, insomma, non è finita.

Saturday, 24 April 2010

Fini e Berlusconi, scontro e rottura

Il presidente della Camera invita a ridefinire i programmi di partito, il presidente del Consiglio "sfiducia" l'ex leader di An. E realizza un documento "anti-dissenso" nel Pdl.

di Emiliano Biaggio

Fini e Berlusconi alla resa dei conti, con critiche e accuse reciproche, parole forti e colpi proibiti in un confronto-scontro che sancisce pubblicamente la spaccatura all'interno del Pdl. Il presidente della Camera chiede una verifica interna su programmi e strategie, il presidente del consiglio intima a non creare correnti. Gli attriti tra l'ex leader di Alleanza nazionale e l'ex leader di Forza Italia non sono nuovi, ma negli ultimi mesi si sono però fatti sempre più forti. Berlusconi non ha gradito le uscite di Fini sul caso Spatuzza, sull'immigrazione e sulla giustizia, Fini non ha fatto mistero di non condividere la rotta presa dal timoniere del Pdl. Dopo i nuovi rapporti di forza venutisi a determinare con le regionali, Fini ha chiesto e ottenuto una verifica in seno al Pdl sulle nuove strategie: le convergenze di Berlusconi sulle posizioni della Lega hanno preoccupato il presidente della Camera, che ha minacciato la creazioni di gruppi autonomi in parlamento. «Si faccia un partito», ha tuonato Berlusconi, che non vuole che Fini resti come voce di dissenso, perchè, ha spiegato il premier, «non è possibile che ci siano correnti, qualcuno le ha definite metastasi dei partiti». Quel "qualcuno" è Fini, che cinque anni fa aveva usato queste stesse parole per gli allora colleghi di An. Citazioni velenose che ahnno anticipato la direzione nazionale del Pdl a conferma del clima infuocato nel partito. E a questo, riunito in plenum, Fini ha sollevato obiezioni. Sulle questioni economiche, ha detto, «non basta l'ottimismo, ci vuole il senso della realtà». Ma Fini ha poi posto altre questioni: di immigrazione, previdenza e giustizia. «Legalità- ha scandito- significa andar fieri degli arresti ma anche non dare l'idea che la riforma della giustizia non serve a creare sacche di privilegio», e «quell'impressione c'è». Fini ha quindi invitato a rivedere le politiche di welfare del Pdl. «Senza le risorse- ha avvertito- sarà difficile abbassare le tasse per le imprese e per le famiglie. Allora- ha suggerito- fermiamoci un attimo, per rimodulare il programma per ciò che si può concretamente fare. Nel 2013 ci chiederà il conto di ciò che abbiamo fatto o meno». Fini ha poi aperto il capitolo delle riforme: il presidente della Camera non ha condannato la bozza del ministro Roberto Calderoli, ma ha chiesto a Berlusconi di sapere qual'è quella del Pdl, quella del partito, in un implicito invito al presidente del consiglio a non confondere il governo con il partito di governo. E «per il Pdl i decreti attuativi del federalismo vanno fatti ad ogno costo?», ha chiesto ancora Fini. «Questo- ha tenuto a precisare- lo vuole la Lega. Io dico invece di fare una commissione nel Pdl dove ci siano governatori del nord e del centrosud. E poi chiedo: ma i costi li abbiamo previsti?». Gianfranco Fini ha quindi posto quesiti politici, e Silvio Berlusconi ha risposto a stretto giro: «Negli ultimi mesi le cose che ha detto non mi erano mai arrivate», ha detto dipingendo la sua realtà e mettendo Fini all'angolo. E per meglio riuscirci, lo ha pubblicamente consegnato alla gogna del partito e dei media: «Mi hai detto "sono pentito di aver fondato il Pdl" e che volevi fare gruppi autonomi in Parlamento. Gianfranco, diciamocele tra noi queste cose! Ma tu alle riunioni non sei mai voluto venire e non c'eri neanche a piazza San Giovanni a sostenere la nostra campagna elettorale». «Era un comizio», ha replicato secco Fini. Poi dal premier l'affondo finale: «Un presidente della Camera non deve fare il politico, se vuoi farlo lascia quella poltrona». Con queste parole Berlusconi, davanti alla platea del Pdl e davanti alle telecamere, ha sfiduciato il presidente della Camera, che a luci spente, ai suoi ha detto: «Io non sono ospite in questo partito, sono uno dei fondatori. Ora però mi vorrebbero trattare da ospite non gradito, ma io non ho nessun intenzione di abbandonare il Pdl. E non mi dimetterò». Il primo commento da fuori lo ha espresso il segretario del Pd, Pieruigi Bersani. «Uno spettacolo indecoroso», anche se, «Fini ha sollevato contraddizioni profonde su temi e problemi reali», ha commentato. Gianni Alemanno ha provato a minimizzare: «non ci sono i motivi oggettivi per una separazione o una rottura politica». Peccato soltanto che il divorzio tra Fini e Berlusconi sia sotto gli occhi di tutti. Come andrà a finire? Lo ha scandito Berlusconi: «Se lui non si allinea è fuori», ha detto riferendosi a Fini, dopo aver approvato un documento "anti-dissenso" nel nome di quella libertà di cui il Pdl e il suo leader sono promotori.

(editoriale della puntata del 23 aprile 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)

Thursday, 22 April 2010

Strappo Fini-Berlusconi. Nel giorno in cui, nel 1954, nasceva il maccartismo.

«Dimettiti», dice il premier al termine di una resa dei conti interna arrivata dopo accuse di complotti e voci di tradimenti.

di Emiliano Biaggio

Botta e risposta Fini-Berlusconi. Il presidente della Camera invita a rivedere le strategie del Pdl e bacchetta il presidente del consiglio. «Legalità significa andar fieri degli arresti ma anche non dare l'idea che la riforma della giustizia non serve a creare sacche di privilegio». E poi solleva le questioni legate ai nodi di econmia, riforme, welfare. «Senza le risorse, sarà difficile abbassare le tasse per le imprese e per le famiglie». «Negli ultimi mesi le cose che ha detto non mi erano mai arrivate», risponde Berlusconi. E «se vuoi fare politica lascia quella poltrona».«Che fai, mi cacci?», chiede un provocatorio Fini, che fa infuriare il presidente del Consiglio.
A sfogliare il calendario, facile capire che questa sia una "giornata storta" per il premier: il 22 aprile è infatti l'anniversario della nascita di Lenin, tanto per dirne una. Il leader della rivoluzione bolscevica, Vladimir Ilic Uljanov detto Lenin, nasce nel 1870 a Simbirsk, nell'omonima regione russa. Ma lo stesso giorno, nel 1915 però, nella cittadina belga di Ypres i tedeschi usano i gas, inaugurando di fatto la guerra con armi chimiche. Il bilancio è di 5.000 morti tra gli inglesi. Trenta anni dopo, il 22 aprile 1945, Adolf Hitler nel suo bunker riconosce la sconfitta e si dice pronto a suicidarsi. Tutti episodi che hanno a che fare con la storia di oggi, ma forse - a proposito di storia - un giorno che Berlusconi potrebbe far proprio è quello legato alla "Paura rossa": il 22 aprile 1954, infatti, il senatore statunitense Joseph McCarthy inizia ad investigare su esponenti dell'esercito sospettati di filo-comunismo avviando il periodo del maccartismo. Quei sospetti di complotti interni non sembrano un azzardo con le vicende interne al Pdl. Un 22 aprile che invece sembra indicare un possibile sollievo per il presidente del Consiglio, è quello del 2005: cinque anni fa il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, incaricava il presidente del Consiglio uscente Silvio Berlusconi di formare un nuovo governo. Che sia un segnale?

Wednesday, 21 April 2010

Perù, torna la minaccia delle trivelle in Amazzonia

La denuncia arriva da Survival, che da sempre si batte per i popoli indigeni. Che rischiano di venire spazzati via nel nome dell'oro nero.

di Emiliano Biaggio

Repsol Ypf ha inoltrato al Governo del Perù la richiesta di autorizzazione a tracciare 454 chilometri di linee sismiche e a costruire 152 eliporti in un'area della remota foresta amazzonica abitata dagli indiani incontattati. A denunciarlo è Survival, l'organizzazione internazionale di tutela delle popolazioni indigene. Stando a quanto riferito dall'associazione, «i progetti della Repsol sono stati rivelati in un rapporto recentemente inviato al ministro dell'Energia del Perù, che ora dovrà decidere se approvare o meno i piani presentati». La realizzazione delle linee sismiche «è parte fondamentale dei processi di prospezione petrolifera e comporta l'apertura di percorsi nella foresta lungo cui vengono fatti detonare esplosivi a intervalli regolari».
L'area dove la compagnia petrolifera spagnola vorrebbe lavorare, conosciuta come "Lotto 39", è abitata da «almeno due gruppi di indiani isolati» che, in caso di contatto con gli operai della compagnia, «rischierebbero di essere decimati», avverte Survival. Se la Repsol Ypf dovesse trovare «petrolio in quantità adeguate alla sua commercializzazione», Survival fa sapere che «dovrà essere necessariamente costruito un oleodotto per il trasporto del greggio dalla foresta Amazzonia fino a un terminale sulla costa pacifica del Perù». Il progetto di costruzione di un impianto, peraltro, e' appena stato reso pubblico dalla Perenco, compagnia anglo-francese che ha già trovato grandi giacimenti di petrolio nella regione. Ma c'è un altro problema: il "Lotto 39" «include ampie zone di una riserva proposta per tutelare gli indiani incontattati», secondo quanto riferisce Survival. L'organizzazione indigena Asociacion interetnica de desarrollo de la selva peruana (Aidesep), infatti, sta intentando causa alle compagnie per aver lavorato in queste aree. Ma c'è ancora di più: recenti ricerche realizzate da un gruppo di scienziati ambientali e pubblicate su Plos One hanno concluso che «questa è una delle regioni a maggior biodiversità del mondo». Di fronte al rischio trivelle, Stephen Corry, direttore generale di Survival International, si chiede «che cosa penseranno gli Indiani incontattati delle linee sismiche e degli eliporti in questa regione?». Forse, prosegue, «reagiranno in due modi: fuggendo oppure attaccando gli operai, che vedranno come invasori ostili». Ma in entrambi i casi, «le conseguenze potrebbero essere estremamente gravi», avverte. «La Repsol Ypf e le autorità peruviane- conclude Corry- dovrebbero già sapere che non è possibile effettuare attività petrolifere nelle foreste di proprietà degli Indiani incontattati in modo sicuro».

Tuesday, 20 April 2010

Fiat, Montezemolo lascia la presidenza. Qualcuno dice per la politica.

La fondazione Futuro Italiano per molti prelude la nascita di un partito. Con il quale non è escluso che possa allearsi Fini.

di Emiliano Biaggio

Luca Cordero di Montezemolo lascia la presidenza della Fiat. L'annuncio arriva dalla stessa casa automobilistica, e ufficializzata dallo stesso interessato. «Il compito che mi era stato assegnato nel maggio 2004 è stato assolto», ha spiegato Montezemolo, alla guida del gruppo quando questo è entrato nella sua fase più critica. Insieme all'amministratore delegato Sergio Marchionne ha rilanciato l'azienda, con acquisizioni sul mercato di aziende concorrenti e con scelte aziendali non certo indolore. Montezemolo resta nel consiglio di amministrazione della Fiat, la cui presidenza passa a John Elkann. Semplici cambi al vertice di un'azienda frutto di politiche aziendali o qualcosa di piu? In molti vedono in questo manifesto annuncio di Montezemolo di abbandono di carica, un annuncio tacito di "discesa in campo". E' ormai da tempo che si rincorrono voci su un impegno in politica di Montezemolo, che - in questi ragionamenti - potrebbe trovare in Gianfranco Fini un alleato.
A volerli cercare, analogie e punti di contatto tra i due ci sono: intanto entrambi hanno due fondazioni dal nome simile: FareFuturo Fini, Futuro Italiano Montezemolo. E poi la rinuncia alla presidenza Fiat di Montezemolo coincide con l'annuncio di Fini di essere pronto a formare propri gruppi autonomi in Parlamento. Uno smarcamento da Berlusconi che potrebbe far presagire altri tipi di convergenze. Del resto in tema di riforme le anime del centrodestra hanno idee diverse: Pdl e Lega ha fatto sapere che l'attuale sistema elettorale non si tocca. «Un conto sono le riforme istituzionali, un altro la legge elettorale», ha detto Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl. «Non riteniamo in questa fase mettere mano alla seconda», ha aggiunto. «Se ci mettiamo d’accordo sulle riforme istituzionali possiamo anche decidere di affrontare subito dopo la legge elettorale», ha invede detto il ministro leghista Roberto Calderoli. Posizioni diverse da quelle di Fini, secondo cui «non si può ragionare sul modello francese prescindendo dalla legge elettorale».
E in tema di riforme, Montezemolo "sposa" la linea finiana: «Parliamo di merito e di sana competizione, ma è accettabile- chiede l'ex presidente Fiat- che in un Paese civile, dove la scelta più importante è chi mandare in Parlamento, io sia costretto a votare una lista fatta dai partiti come se fossi un notaio che non può decidere?». Ancora, in tema di riforme proferisce parole che sanno di bocciatura di Berlusconi. «Si parla di riforme come di un prodotto di largo consumo, della vendita di saponette», afferma. Parole critiche come quelle del presidente della Camera: «Evitiamo di prendere scorciatoie, acchiappare parti di un modello e applicarle su altri», ammonisce Fini. Un Fini che si distingue da Berlusconi anche a livello internazionale, dove ha sempre saputo comportarsi secondo "etichette" diversamente dal capo del governo. E Montezemolo non è uno che a livello internazionale ami scherzare, abituato com'è a trattare con politici e imprenditori di tutto il mondo. Insomma, un eventuale asse Fini-Montezemolo non appare un'ipotesi del tutto priva di fondamento, per quanto ancora tutta da dimostrare. Per ora ci sono segnali che potrebbero lasciar intendere questa intesa, e si sa, quando si parla di politica tutto è possibile.

«Governo incapace di uscire dalla crisi»

Di Pietro attacca l'esecutivo, e Berlusconi: «Non affronta i nodi economici. Tanto le sue aziende vanno a gonfie vele...»

di Emiliano Biaggio

Per superare la crisi economica «serve uno scatto d'orgoglio, il Paese deve reagire a un governo incapace». Parole di Antonio Di Pietro, leader dell'Italia dei valori, che pone l'attenzione sulle difficoltà dell'Italia e critica il governo. «Occuparsi del dramma economico dovrebbe essere la priorità, in un Paese sull'orlo della bancarotta», afferma l'ex pm, che per fornisce alcuni dati della crisi dell'Italia. «Se da un lato i salari sono fermi al palo e ci classificano fra i peggiori Paesi dell'Ocse (23esimi su 30, peggio anche della Grecia), dall'altro si registrano aumenti vertiginosi nelle spese quotidiane». Di fronte a tutto questo, denuncia Di Pietro, «la conseguenza è un risultato amaro: gli equilibri economici delle famiglie italiane precipitano e anche arrivare alla terza settimana del mese è ormai un problema». Un problema, osserva, «che non riguarda il governo in carica, troppo impegnato con le beghe interne al Pdl e alle leggi salva premier. Come se non bastasse anche la perdita di posti di lavoro non si arresta». Insomma, «purtroppo la crisi economica in Italia esiste ancora, anche se le aziende del presidente del Consiglio e dei vostri amici vanno a gonfie vele».

Monday, 19 April 2010

COMUNICAZIONE

Da due settimane gli editoriali per la trasmissione E' la stampa bellezza, sono disponibili sul blog di Radio Libera Tutti (www.radioliberatutti.it). Sono stati pubblicati gli ultimi due, non si prevede la pubblicazione di quelli precedenti. La pagina blog sarà aggiornata prontamente a partire dal primo editoriale pubblicato su blog. Al momento i "precedenti" continuano ad essere disponbili su queste pagine web alla voce RLT.

Afghanistan, tra arresti e sospetti Emergency via da Lashkar-Gah

Operatori arrestati con l'accusa di complotto. Poi le smentite e la caduta di ogni imputazione. La scomodità dell'organizzazione di Strada dietro un'operazione poco chiara.

di Emanuele Bonini

Tre italiani arrestati con l'accusa di voler uccidere il governatore della provincia di Helmand, in Afghanistan. Un arresto cui hanno fatto seguito polemiche, precisazioni, ritrattazioni, smentite. E poi le denunce. In particolare di Emergency. Perchè è l'organizzazione di Gino Strada che si ritrova al centro di una vicenda che ruota attorno a talebani, forze di coalizione, militari, agenti segreti, autorità afghane e governo italiano. Una storia di cui poco si è saputo e della quale molto deve ancora essere chiarito. Di certo c'è che il chirurgo Marco Garatti, l'infermiere Matteo Dell'Aira e il responsabile sanitario Matteo Pagani sono stati presi in custodia insieme ad altre tre persone: tutti hanno in comune il fatto essere operatori di Emergency nell'ospedale di Lashkar-Gah, nella provincia di Helmand, una delle più turbolente dell'Afghanistan. Oppio e guerriglia, instabilità e talebani. Quegli stessi talebani con cui i sei avrebbero stretto alleanza per tendere un'imboscata al governatore della provincia. Secondo gli accusatori, Gulab Mangal stava per essere assassinato proprio nell'ospedale di Emergency di Lashkar-Gah, dove sono state ritrovate armi e cinture esplosive. In un primo momento dall'Afghanistan giunge notizia che gli italiani hanno confessato, in un secondo momento arriva invece la smentita. Misteri in un paese da dove le notizie arrivano ormai poco e male. Arrivano invece subito le critiche di Gino Strada, che parla di «montatura» e che critica il modo con cui l'Italia segue e gestisce lavicenda. «Fossero stati americani sarebbero già liberi», critica. Parole rivolte soprattutto al ministro degli Esteri, Franco Frattini, che prima prega che le accuse non corrispondano al vero poi, per placare le polemiche, assicura che «gli operatori umanitari non sono stati abbandonati». Ad essere abbandonato è invece l'ospedale di Lashkar-Gah, che Emergency ha lasciato e che da una settimana è sotto il controllo dei soldati afghani. «Ci vogliono mandar via», aveva detto subito Gino Strada. Alla fine così è stato. Un risultato non indifferente per chi non ha mai visto di buon occhio la struttura e l'organizzazione che in questi anni ci ha lavorato: gli operatori di Emergency hanno sempre soccorso chiunque indistintamente, quindi anche gli insorti. Una cosa mai digerita dal contingente britannico sul territorio. Ma Emergency è sempre stata scomoda per tutta la forza Isaf, poichè ha sempre denunciato violazioni dei diritti umani, raid sui civili, mancate concessioni di corridoi umanitari. Una fuga di notizie da fermare, specie adesso che sta per partire la nuova offensiva a Helmand e Kandahar. Intanto l'Onu ha chiesto di aprire un'inchiesta rapida sull'accaduto, inchiesta che rapida molto probabilmente non sarà, dato che su Marco Garatti e Emergency sono piovute nuove accuse: l'uomo è sospettato di aver «attirato» Daniele Mastrogiacomo nel Sud per farlo rapire dai talebani nel 2007, mentre il personale dell'associazione sarebbe anche coinvolto nella vicenda di Gabriele Torsello un anno prima. Insomma, un pò come l'intera storia recente di questo Afghanistan, anche per questa storia la parola fine appare ancora molto distante.

(editoriale del 16 aprile 2010 della trasmissione E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)

Saturday, 17 April 2010

Se ne va dopo un lungo periodo, una lunga vita fatta di volti, viaggi, esperienze. E ovviamente ricordi. Tanti, e quasi tutti belli. Scompare un simbolo e si chiude un'epoca, perchè diciannove anni - tanti ne aveva - bastano e avanzano per segnare un periodo. Quasi un ventennio di fedeltà, per quasi venti anni di legame e rapporto quasi mai messi in discussione. In tutto questo tempo, infatti, solo un anno (poco meno per la verità), ha abbandonato il suo pubblico di sempre: è stato l'anno del suo sequestro, unico momento difficile di un'esistenza fatta di felicità e allegria. E com'è giusto che fosse, quel capitolo ha saputo trovare il lieto fine. Fine, già. Come quella "vera", che poi è arrivata. Perchè dopo aver solcato mille strade, percorso centinaia migliaia di chilometri, dopo aver superato tormente di neve, attraversato larghe pozze d'acqua e scalato montagne, alla fine il suo motore s'è fermato. E stavolta per sempre. Suo malgrado, ha dovuto accendere gli stop e arrestare il proprio moto.
Quante ne ha viste e quante ne avrebbe potuto raccontare... Alla fine la vita l'aveva soltanto scalfita, segnata come solo l'esistenza sa fare. E questo vale per tutti, indistantamete. Per uomini come automobili. Ma lei, va detto, non era una macchina: era LA macchina. Quella che ha cullato i sogni di un bambino, che ha ascoltato umori e malumori di un adolescente, quella che ha accompagnano un giovane uomo in suo scorcio di mondo e di vita. Il tutto, trasportando e guidando in questo viaggio lui e quanti con lui hanno condiviso rotte e serate trascorse con lei. Lei che silenziosa non è mai stata e che di silenziatore ne ha infranto più d'uno, esce di scena senza fare rumore, nella sobrietà e nel silenzio propri di chi non vuole celebrazioni perchè sa di non aver fatto nulla di eccezionale se non il proprio dovere. E lei l'ha fatto, per quasi vent'anni.

Per chi sa e per chi può capire.

Österreich e Drittes reich, Austria all'ombra del nazismo

Il Partito della Libertà apre all'ideologia hitleriana, perchè vietarla - dice - viola il diritto della libertà di pensiero. E a fine mese si vota.

di Emiliano Biaggio
Abolire il reato di apologia del nazismo, perchè contrario alle libertà di pensiero e opinione: uno dei punti in programma per Barbara Rosenkranz, leader del partito austriaco Fpö che fu di Jörg Haider. Nell'Austria prima impero austro-ungarico e che di quell'impero ancora porta il nome (in tedesco Österreich è "Impero dell'est"), e poi terzo reich (drittes reich, in tedesco) dopo l'Anschluss, tornano le ombre di un passato che sembrava lontano ma che a quanto pare è tornato a galla. Il Partito della Libertà rivede infatti la storia, e di fatto riapre al nazismo e al suo ideatore. In nome della libertà di opinione Rosenkrantz vuole abolire la legge che vieta l'apologia, l'ideologia e la rinascita del nazismo in Austria. Per far ciò, ha proposto l'abolizione della legge che rappresenta un caposaldo della Costituzione repubblicana, e punisce severamente reati come la negazione dell'Olocausto. Esternazioni che non piacciono all'inquilino dell'Hofburg. «Chi si riconosce nella Seconda Repubblica non può né approvare, né lodare, né glorificare quel che è successo durante la guerra», ha tuonato il presidente della Repubblica, Heinz Fischer. Un monito, alla vigilia delle elezioni presidenziali che potrebbero ridisegnare l'assetto del paese. Il Fpö difficilmente vincerà le consultazioni, ma c'è chi stima una crescita del partito fino al 25% (rispetto al 17% di oggi). Preoccupato per la «deriva estremista» austriaca ed europea anche il Consiglio Centrale degli ebrei in Germania: per il segretario generale dell'organismo, Stephan Kramer, quello di Rosenkranz «non è un incidente di percorso».

Wednesday, 14 April 2010

Il centrosinistra che scompare, e che cancella la (propria) storia

Il secondo turno delle amministrative segna la vittoria del centrodestra dove mai aveva governato finora. Per meriti propri e, soprattutto, demeriti degli sconfitti

l'e-dittoreale

Mantova al centrodestra, così come Pomigliano d'Arco: i ballottaggi regalano nuove imprese al Pdl e alla coalizione di Berlusconi, e sanciscono nuove sconfitte per il centrosinistra in generale e il Pd in particolare. Perchè quello che aspira ad essere il maggior partito di centrosinistra, dopo un primo turno che non l'ha certo premiato, vede scivolare via una città - Mantova - sempre tra socialisti e comunisti dal dopoguerra a oggi, e un polo industriale - Pomigliano d'Arco - dove gli operai hanno voltato le spalle alla sinistra per sostenere il Pdl e il centrodestra, proprio come in Piemonte. Segnali che devono far riflettere, perchè la sinistra perde voti e consensi laddove si è sempre imposta, ma soprattutto dimostra di non essere più referente del movimento operaio e depositaria di quella cultura del lavoro e dei lavoratori tanto a cuore alla vecchia sinistra. La sinistra, per intenderci, che fu, tra gli altri, di Sandro Pertini e Pietro Nenni, di Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer. Altri nomi, per altri partiti e altri periodi storici, per una sinistra che oggi proprio con la storia si ritrova a fare i conti. I partiti della sinistra cosiddetta radicale (Prc, Pdci, Sel, Sl) sono ormai piccoli frammenti all'interno del sistema italiano, poco percepiti e ancor meno sostenuti dagli italiani. Non è un caso se il "cade" anche Comacchio, comune da sessant'anni guidato dalla sinistra nella Romagna una volta rossa e adesso sempre più azzurro-verde. Il Pd mostra e dimostra di avere poco appeal tra gli elettori, di essere lontano dalla gente, e ancor più distante da quel passato ben più glorioso di cui peraltro c'è chi può dire di essere testimone - penso a D'Alema e Veltroni, giovani "delfini" di Berlinguer. Nessuna nostalgia, semmai tanti rimpianti e molto su cui riflettere, vista la storia di oggi. I tempi cambiano, ed è chiaro che il Pd - come tutta la sinistra - non ha saputo tenere il passo e adeguarsi alle nuove realtà. Non ha saputo, insomma, cavalcare il cambiamento del paese nelle sfere politica e sociale. Non solo: non riconoscendo la sconfitta patita alle regionali, il Pd ha mostrato anche la propria miopia. E anche dopo i risultati dei ballottaggi i democratici non hanno saputo fare autocritica, anzi. Per Davide Zoggia, responsabile Enti locali del Pd, «questo turno amministrativo ha segnato una sostanziale parità tra i due schieramenti sia nelle città capoluogo che nei comuni sopra i 15.000 abitanti». Parole non vere, che non rassicurano gli elettori ma che al contrario li lasciano ancor più perplessi di fronte a una lettura "forzata" della realtà. E la realtà, inceve, è che «abbiamo perso noi, non hanno vinto loro», afferma Onofrio Piccolo, lo sconfitto di Pomigliano d'Arco. Parole che denunciano il fallimento del progetto Pd, a questo punto da rivedere e rilanciare. Magari a partire da un'approfondita analisi sull'utilità di questo partito, capace di perdere in una sola città - Mantova - il 16% dei consensi in due anni. Quanto basta per perdere i voti dell'elettorato di sempre, a Mantova come nel resto del paese.

Monday, 12 April 2010

Ungheria, avanza la destra

Alle politiche vincono Fidesz e Jobbik, confermando il clima di xenofobia e intolleranza sempre più diffuso in Europa, Italia compresa.

di Emiliano Biaggio

L'Ungheria svolta a destra. Le elezioni politiche premiano i conservatori di Fidesz (Unione Civica Ungherese) e l'estrema destra nazionalista e xenofoba di Jobbik (Movimento per un'Ungheria migliore), per la prima volta in Parlamento. Le urne "bocciano" i socialisti (Mszp), che vedono un crollo di consensi e una caduta al 19,2% rispetto al 43,2% del 2006. Il partito socialista sconta la crisi economica e paga gli errori dell'ex premier Ferenc Gyurcsany, che ha tenuto nascosti alla nazione i problemi dei conti pubblici. Un silenzio che è costata le dimissioni, e una brutta tegola per tutto il partito. Gli ungheresi puniscono i socialisti e premiano Fidesz, ora primo partito col 52,7% dei voti, che assicurano al partito di Viktor Orban almeno 206 dei 386 seggi. I socialisti sono comunque il secondo partito d'Ungheria con il 19,2% dei consensi, incalzato dall'ultradestra di Jobbik, che conquista il 16,7% dei voti e accede per la prima volta nel parlamento nazionale. Lì occuperà 26 seggi, appena due in meno dei socialisti, che ne hanno conquistati 28. Restano ancora gli ultimi seggi, che assegnerà il secondo turno. Intanto, già adesso un'eventuale asse Fidesz-Jobbik darebbe alla destra 232 seggi, 16 in meno per la maggioranza dei due terzi richiesta per cambiara la Costituzione. L'Ungheria verso una svolta tanto storica quanto delicata per gli equilibri futuri, in un assetto frutto di un fenomeno tutto europeo che vede l'affermazione di destra e - soprattutto - estrema destra. In Francia il Fronte nazionale di Jean Marie Le Pen è diventato il quarto partito del paese dopo le amministrative, mentre nei Paesi Bassi il l Partito per la libertà (Pvv) di Geer Wilders, formazione di destra estrema e xenofoba, è in costante crescita: è il primo partito della periferia di Amsterdam e il secondo all'Aja, e punta a guidare a breve una formazione di governo, ha detto lo stesso Wilders. Particolare non irrilevante per un paese fino a oggi considerato esempio di tolleranza. In Slovacchia il Partito nazionale slovacco (Sns) ha 20 deputati e dovrebbe restare al Governo nelle prossime elezioni. In Scandinavia, il Partito del popolo danese (Df) è dal 2001 un alleato indispensabile del governo liberal-conservatore, e dal 2005 la formazione nazionalista anit-islam fa parte del secondo governo Rasmussen; in Norvegia i conservatori del Partito del progresso (FrP) sono la seconda formazione del paese, mentre in Svezia i Democratici svedesi (Sd) - a dispetto del nome conservatori e nazionalisti, e per una politica restrittiva sull'immigrazione - potrebbero entrare al parlamento. Di queste tendenze conservatrici e intolleranti non è immune l'Italia, che ha appena dato "in gestione" due regioni alla Lega, partito anti-immigrati e anti-Europa. Anche anti-Italia, a ben vedere. Ma un partito in grado di far chiudere su sè stessi più dell'ultradestra europea.

Polonia in lutto, muore il presidente Kaczynski

Precipita vicino a Katyn l'aereo presidenziale. A bordo 88 tra rappresentanti istituzionali, della finanza e delle forze armate. Un paese politicamente decapitato che piange i suoi caduti.

di Emiliano Biaggio

E' forse il peggior incidente aereo dal dopoguerra: un aereo - un Tupulev di fabbricazione russa - con a bordo, tra gli altri, un presidente della Repubblica, un viceministro della Difesa, un presidente della banca centrale, un capo di stato maggiore, un capo della Marina e un capo dell'Aviazione. Un dramma umano e nazionale, per quella che si configura come tragedia politica. La Polonia piange i morti dell'intera delegazione morta a Smolensk, in Russia, a pochi chilometri da Katyn, luogo simbolo della persecuzione polacca. Proprio a Katyn era diretta la corposa delegazione polacca, 88 membri tra rappresentanti del mondo istituzionale, economico e militare. Avrebbero dovuto rendere omaggio agli oltre 20.000 soldati polacchi trucidati dall'armata rossa, hanno finito per segnare «una seconda Katyn», come ha avuto di dire un incredulo Lech Walesa, eroe di Solidarnosc, critico nei confronti di quel suo omonimo Lech, quel Lech Kaczynski presidente della Repubblica che tanto aveva voluto quel viaggio in Russia costatogli la vita. E non solo a lui. Anche Anna Walentynowicz, figura simbolo di Solidarosc e della lotta all'oppresione del regime comunista, tanto cara all'incredulo Walesa, incredulo come tutta la nazione.
La Polonia piange e non crede, non riesce a credere che il pilota dell'aereo schiantatosi a Smolensk sia precipitato per la testardaggine del pilota, che avrebbe ignorato le disposizioni degli operatori della torre di controllo del piccolo aeroporto militare russo: la nebbia fitta non rendeva possibile l'atterraggio, e sarebbero arrivati ripetuti inviti a convergere su Minsk o Mosca. Niente da fare: per quattro volte il velivolo presidenziale avrebbe cercato di atterrare a Smolensk, con il risultato finale adesso noto a tutti. Le scatole nere hanno fatto escludere guasti all'aereo. Resta quindi l'atroce dubbio di un evitabile errore umano. Che la Polonia adesso piange, stretta intorno a Jaroslaw Kaczynski, gemello dello scomparso Lech, adesso solo in una Polonia decapitata e chiamata a ripartire. Intanto è stata dichiarata una settimana di lutto nazionale.

Saturday, 10 April 2010

Disponibile on-line "Due saggi su Chaplin"

Qui a fianco la copertina dell'ultima fatica. Il personaggio al centro dello scritto non necessita di presentazioni, e il titolo della pubblicazione già dice tutto. Si tratta di due saggi - come recita, appunto, il titolo - su uno dei personaggi che hanno fatto la storia del cinema. Attraverso ricordi, aneddoti, autobiografie e ritagli di giornale, viaggio attraverso la vita di chi - prim'ancora che essere artista - è stato innanzitutto bambino, adulto e padre. In una parola, uomo. Due saggi che guardano alla figura di Chaplin fuori dal set per cercare di descrivere la poetica di un'intera e intensa produzione.
Il primo dei due saggi, composto nel 2009, è già proposto "a puntate" su questo blog. Il secondo, scritto nei primi mesi del 2010, è invece "l'inedito" di questa mini-raccolta chapliniana. Per leggere le 33 pagine di scritto, basta cliccare qui oppure al link sulla destra nella sezione Scritti biaggeschi.

Friday, 9 April 2010

Scandalo vaticano

Stato della Chiesa, Pontefice e alto clero nella bufera: in tutto il mondo, da decenni, l'onta dei preti pedofili. Che ora imbarazzano la Santa sede, accusata di sapere e di aver occultato.


di Emiliano Biaggio

Stati Uniti, Canada, Australia, Irlanda, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e Germania. Da ultima la Norvegia, e sembra che ci sia anche l'Africa. Ad accomunare paesi e continenti, i preti pedofili, per una scandalo che scuote fede e Santa sede. Fedeli e soprattutto le gerarchie ecclesiastiche si trovano a dover fare i conti con una delle pagine più buie della storia della Chiesa cattolica romana. Uno scandalo fatto di continui, ripetuti e diffusi abusi sessuali su minori. Uno dei casi più eclatanti è quello di padre Lawrence Murphy, sacerdote americano accusato di avere violentato 200 bambini sordomuti tra il 1950 e il 1970 nel Wisconsin. Allora, secondo documenti e ricostruzioni forniti dal New York Times, le autorità ecclesiastiche ebbero come «principale preoccupazione» quella di «proteggere la Chiesa dalla scandalo». Forse perchè all'epoca si ritenne il caso isolato, per quanto doloroso. Ma presto si scoprì che si trattava invece di un fenomeno di vasta portata e di impossibile controllo. E questo lo avrebbero saputo anche a Roma. C'è chi sostiene che già Paolo VI era al corrente della situazione e Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI ma una volta cardinale, avrebbe protetto padre Ernesto Garcia Rubio, sacerdote di Miami accusato di aver abusato di una giovane tra il 1985 e il 1987. Ratzinger è stato chiamato a testimoniare, ma «il Pontefice, in quanto Capo di Stato, gode dell’immunità diplomatica» fanno sapere i legali vaticani, che da questo principio costruiscono la difesa. Misura che se da una parte evita imbarazzanti domande, dall'altra crea una situazione di ambiguità. Proprio come le parole dello stesso Pontefice, che subito dopo Pasqua e nel mezzo di un ciclone internazionale ha invitato i sacerdoti ad essere «angeli». Frase che suona come richiamo, non certo come monito e sicuramente non come condanna. Chi invece condanna è la Confederazione elvetica, che indaga su presunti abusi nel paese: «Se gli esecutori del reato vengono dal mondo civile o clericale non fa differenza», attacca la presidente svizzera Doris Leuthard. «Entrambi- aggiunge- sono sottoposti alla legge svizzera, senza se né ma». Ma a generare non pochi imbarazzi e non memo polemiche è anche il caso - anche questo eclatante - dell'Irlanda: qui il numero uno della Chiesa Cattolica irlandese, il cardinale Sean Brady, ha ammesso pubblicamente di aver avuto un ruolo in un caso di pedofilia verificatosi in Irlanda a metà degli anni Settanta. Ulteriore dimostrazione di come il problema non è nuovo: è di oggi come di allora, solo che allora si cercò di tenere nascosto il tutto e oggi tutto invece viene alla luce. Benedetto XVI si limita a dire che «il problema dell'abuso dei minori non è specifico né dell'Irlanda né della Chiesa». Tentativi maldestri di giustificazioni che portano i quotidiani esteri, soprattutto quelli statunitensi, a scrivere che «Ratzinger sapeva ed è rimasto in silenzio» e il suo unico scopo è «proteggere la Chiesa invece dei bambini». Parole che non vengono digerite in Vaticano, e a proposito di parole: per replicare alle insinuazioni e respingere le accuse, le gerarchie ecclesiastiche usano termini e toni poco consoni per chi, da sempre, parla alle coscienze. Segno di un certo nervosismo per l'incapacità di gestire lo scandalo. Così prima il predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa, afferma che sul caso della pedofilia dei sacerdoti è in atto una campagna di odio e di aggressione contro il Papa e la Chiesa che ricorda il peggiore antisemitismo messo in pratica contro gli ebrei, e poi il decano del Collegio cardinalizio, cardinale Angelo Sodano, ha parlato di attacchi a Benedetto XVI come quelli subiti da Pio XII. Esternazioni che hanno generato critiche con le comunità ebraiche, a dimostrazione delle difficoltà della Chiesa. Chiesa che intanto fa quadrato intorno al Pontefice. «E' un Papa forte, il Papa del terzo millennio», afferma il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. Ma sul Vaticano e il suo capo di stato, il «papa del terzo millennio», piovono nuove accuse e critiche: dal mondo cattolico l'arcivescovo di Mechelen-Bruxelles, Andrè Joseph Leonard, denuncia il «colpevole silenzio» della Chiesa che per anni ha tentato di nascondere la portata dello scandalo dei preti pedofili. Il settimanale tedesco Stern, scrive che «quando Ratzinger guidava la Congregazione per la dottrina della fede, fu archiviato il processo a Maciel» fondatore dell'ordine dei Legionari di Cristo accusato di aver violentato «decine di seminaristi minorenni». In Inghilterra intanto cresce il clima di protesta: oltre 10 mila firme sono state depositate per annullare la prevista visita di Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia in programma. Sempre in Inghilterra il capo della Chiesa anglicana, Rowan Williams, non ha dubbi che in Irlanda la Chiesa cattolica ha perso «tutta la sua credibilità». In Irlanda, ma non solo.

(editoriale del 9 aprile 2010 della trasmissione E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti)

Wednesday, 7 April 2010

Gli imbarazzi del Pd e i nodi del Pdl, alla fine su tutti vince la Lega

Alle amministrative si afferma il centrodestra grazie alla crescita di un Carroccio adesso troppo forte anche per Berlusconi.

di Emiliano Biaggio

Il centrosinistra perde, il centrodestra vince. Risultati inappellabili quelle delle regionali, che vedono una netta affermazione della Lega e una brutta capitolazione del Pd, che perde regioni strategiche come Piemonte e Lazio. Sconfitta più cocente in quest'ultima, dato che nella regione non figuravano le liste del Pdl. Ma il centrosinistra cede anche Campania, Calabria e adesso il computo è di 11 regioni a 8 per il centrodestra. La sinistra, insomma perde terreno e anche laddove ancora mantiene la propria supremazia, deve fare i conti con la crescita della Lega. Nelle "rosse" Emilia Romagna, Toscana e Liguria, il Carroccio guadagna infatti rispettivamente l'8%, il 6% e il 5%. Dati che devono tener conto dell'elevato astensionismo - che ha toccato il 36% finendo, dati alla mano, col penalizzare il centrosinistra - ma che vanno letti anche alla luce dell'emorrargia continua del Pd: il Partito democratico, infatti, ha perso 2 milioni di voti rispetto a quanto raccolto nel 2005 da Ds e Margherita insieme. Per Ignazio Marino «sarebbe un errore non fare autocritica oggi e non ammettere che il centrosinistra esce sconfitto dalle elezioni regionali», ma il segretario del Pd Pier Luigi Bersani questo errore lo compie. «Non canto vittoria ma non parlo di sconfitta», dice. E a quanti gli contestano il risultato del Piemonte, risponde che «è falso che il Pd al Nord sia andato male». Tesi difficile da sostenere, per un partito che resiste solo in Liguria - e grazie al 3,3% dell'Udc - e in Trentino Alto Adige - dove però non si è votato. E anche in Emilia Romagna i consensi sono stati persi, tant'è che Giorgio Tonini non fa fatica a riconoscere, a differenza del suo segretario, che «l'Emilia si sta nordizzando». Critico Veltroni: «C’è gente sfiduciata che non vede un’alternativa credibile a Berlusconi», afferma, avviando di fatto la resa dei conti interna al partito. «Dobbiamo cambiare linea radicalmente e dire qualcosa, da mesi si parla solo di alleanze», critica il franceschiniano Paolo Gentiloni. Lo staff di Bersani fa quadrato intorno al leader, dicendo che il 7 a 6 «pochi mesi fa ce lo sognavamo». Il Pd esce dunque sconfitto e imbarazzato, ma nel Pdl gli umori non sono dei migliori: Berlusconi si ritrova con una piccola crisi interna al governo seguita alle dimissioni rassegnate da Raffele Fitto - ministro per i Rapporti con le regioni che ha rimesso il proprio mandato dopo la sconfitta del candidato in Puglia, da lui indicato - e con un Pdl che ha perso un milione di voti e che in Veneto ha subito adirittura lo storico sorpasso della Lega. Lega che conquista anche il Piemonte e già chiede il conto al premier, con il ministero dell'agricoltura lasciato vacante da Zaia e la poltrona del sindaco di Milano. Se prima il presidente del consiglio doveva guardarsi da Fini, adesso deve fare i conti con una Lega ancora più forte e quindi ancor più ingombrante. Ma soprattutto, ancor più necessaria per racimolare voti. Voti che prendono - e bene - Beppe Grillo e Antonio Di Pietro, con il primo addirittura ago della bilancia - alla fine decisivo - in Piemonte e con un eletto in Emilia Romagna. L'Italia esprime così il proprio scontento per la politica, con scelte per chi - almento sulla carta - vuole offrire un'alternativa. Avvertimento od orientamento che sia, l'Italia assume un nuovo volto. E non solo per un assetto sempre più tendente al monocolore causa anche la crisi della sinistra, ma anche per la vittoria di schieramenti che non guardano alla Repubblica - la lega - e alla politica - i grillini. In mezzo ci sono l'Idv - che fa dell'antiberlusconismo un cavallo di battaglia dimenticando che non vale un programma di governo - e l'Udc - che spiazza i propri elettori appoggiando ora il centrodestra ora il centrosinistra. Contribuendo alla disaffezione generale che affligge il paese.
(editoriale della puntata del 2 aprile 2010 di E' la stampa bellezza, su Radio Libera Tutti)

Tuesday, 6 April 2010

Ottantasei anni fa la legge Acerbo

Il 6 aprile 1924 l'Italia al voto con una legge che legittimo il regime fascista. Il triste anniversario a una settimana dalle amministrative.

di Emiliano Biaggio

Le elezioni amministrative si sono tenute una settimana fa, ma a distanza di sette giorni ancora si continua a parlarne. Nella maggioranza - con la Lega che pretende ruoli e incarichi sempre di maggior rilievo - come nell'opposizione - con il Pd che ha avviato una resa di conti interna. Ma in genere ogni tornata elettorale lascia degli strascichi: un esempio storico per l'Italia è quella del 6 aprile 1924. Quel giorno, infatti, si svolsero nel paese le elezioni politiche con la nuova legge Acerbo, dal nome del politico che la concepì, Giacomo Acerbo.
Schieratosi apertamente con gli interventisti in occasione della prima guerra mondiale, nel 1919 Acerbo costituisce il fascio di combattimento della provincia di Teramo e Chieti. Nel 1921 aderisce al Partito nazionale fascista e l'anno seguente partecipa alla marcia su Roma, per poi accompagnare il duce a ricevere l'incarico di ministro dal re. Nel 1923 vara la riforma della legge elettorale, voluta da Mussolini in persona per assicurare al Pnf una solida maggioranza parlamentare. Il testo prevedeva l'adozione del sistema maggioritario plurinominale all'interno di un collegio unico nazionale. Ogni lista poteva presentare un numero di candidati pari ai due terzi dei seggi in palio, cioè 356 su 535, e la lista che avesse ottenuto la maggioranza con una percentuale superiore al 25% dei voti avrebbe eletto in blocco tutti i suoi candidati. I restanti 179 seggi sarebbero stati ripartiti proporzionalmente alle liste di minoranza, sulla base della legge elettorale del 1919. La legge fu votata anche dal Pli e dal Ppi di don Sturzo.

Thursday, 1 April 2010

Chiesa, quelle continue e fastidiose ingerenze e quei suoi pessimi esempi

Con la scusa di parlare al fedele fa politica in Italia, mentre pretende di essere portatrice di valori tra lo scandalo dei preti pedofili

di Emiliano Biaggio
Libera Chiesa in libero Stato: principio alla base della separazione tra Chiesa e Stato, appunto, laddove ognuno mantiene le proprie sovranità e libertà e, automaticamente, evita ogni sorta di ingerenze negli affari dell'altro. Così, se da una parte la Repubblica italiana evita di dare suggerimento allo Stato della Chiesa in questioni di politica interna, da sempre il Vaticano fa i propri interessi in Italia. E ciò in barba alla logica della duplice sfera (Stato e Chiesa). Nessuno mette in dubbio che la Santa sede debba parlare ai fedeli, ma è indubbio che "messaggi" lanciati in momenti ben precisi e con parole poco soppesate lascino spazi al dubbio - e alla convinzione - che il parlare ai fedeli diventi la scusa e l'alibi per poter fare politica sempre e comunque. In un paese che ha bloccato i talk-show di approfondimento politico per l'intera campagna elettorale, il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, parlando ai fedeli e dice loro: «Il voto sia contro l'aborto». Un messaggio facile da decifrare, quando nel Lazio i candidati sono Renata Polverini e la "mangia bambini" Emma Bonino, una che la lotta per l'aborto l'ha fatto in prima linea e che ha permesso all'Italia di dotarsi della legge 194. Altro che predica, quella della Chiesa era campagna elettorale bella e buona: e, guarda caso, il giorno dopo le elezioni - a risultato acquisito e a vittoria del centrodestra accertata - Rino Fisichella, presidente della pontificia accademia per la vita, ha fatto sapere «era necessario che i vescovi intervenissero». Non solo: ha "tenuto a battesimo" i vincitori. «I cattolici, in queste elezioni, hanno una presenza determinante, come nel caso di Formigoni o Cota». E Cota, nel suo primo giorno da presidente del Piemonte, annuncia che «per me la Ru486 può restare nei magazzini». Bocciatura per la pillola abortiva, dunque. Per la gioia delle donne - silenti - e ancor più del Vaticano. Non a caso Emma Bonino denuncia «l'alleanza Bagnasco-Berlusconi»: la Chiesa non rispetta il principio della divisione degli stati, e si permette il lusso di dettare l'agenda politica di uno stato sovrano - quale, almeno sulla carta, è l'Italia - e di dire come votare. Con il plauso delle istituzione della Repubblica. Nessun problema, ci mancherebbe: semmai una grandissima coerenza. Sia i politici italiani che l'alto clero non fanno l'interesse generale, sia i politici italiani che l'alto clero pretendono di pontificare ma non hanno alcun valore da trasmettere nè insegnamenti da dare. Lo dimostrano le storie di escort, appalti truccati, transessuali, tangenti e pedofilia: entrambe le categorie sono poco raccomandabili e per nulla credibili. Eppure chi va con le escort umiliando la propria moglie - in barba al valore cristiano della famiglia - viene premiato. E chi abusa dei minori trova seguito. Libera Chiesa in libero Stato. Libera nos domine.