Wednesday, 30 December 2009
Sull'attenti. Compagnia, at-tenti!
Le manifestazioni dell'opposizione sono una «nauseante mascherata» e «la stampa estera fa parte del complotto» contro il governo. Chi lo dice? Verrebbe da dire Berlusconi, invece sono - nell'ordine - Ahmadinejd e i pasdaran, rispettivamente presidente dell'Iran e i guardiani della rivoluzione della repubblica islamica. Un paese, questo, che mette sotto cotrollo i mezzi d'informazione, soprattutto internet. Esattamente come vorrebbero fare in Italia, e non è escluso che possa essere fatto di qui a breve. Le analogie con il paese degli ayatollah non sono poche, e soprattutto non sono di poco conto. Se poi si aggiunge che si vuole rimettere mano alla Costituzione, appare inquietante ma non del tutto fuori luogo la vignetta qui sopra. Forse, ancor più inquietante, è l'immagine che viene offerta della e dalla opposizione. (fonte vignetta. Il Corriere della Sera del 29 dicembre 2009)
Tuesday, 29 December 2009
L'ombra delle trivelle sulle acque norvegesi
Le estrazioni petrolifere off-shore nell'arcipelago di Lofoten e Vesteralen dividono il Paese. MA adesso il governo è chiamato a dover prendere una decisione. Tra spinte di conservazione paesaggistica ed interessi economici. Guardando alla vicina Russia.
di Alberto Fiorillo
Petrolio o paesaggio? La scelta di una delle due risposte determinerà il futuro dell'arcipelago norvegese delle Lofoten e Vesteralen, un paradiso naturalistico dove il riconfermato governo laburista di Oslo vorrebbe avviare nuove trivellazioni petrolifere per sfruttare i giacimenti al largo delle loro coste. La questione divide la Norvegia da molto tempo. Il primo ministro Jens Stoltenberg ha rimandato per il momento ogni decisione sullo sfruttamento del petrolio delle Lofoten, ma il governo sta subendo fortissime pressioni della lobby petrolifera che ha già completato la fase preliminare delle ricerche (con studi sismici e geologici) propedeutica alle trivellazioni esplorative. I tre partiti di sinistra che formano la coalizione di governo in Norvegia (Partito laburista, sinistra socialista e partito di centro) nella loro piattaforma comune prevedono di non aprire le Lofoten e le Vesteralen allo sfruttamento petrolifero, confermando la decisione presa nel 2006. Però ora si trovano di fronte alla decisione se autorizzare o meno l'avvio della Valutazione di impatto ambientale (Via) e sembrano intenzionati a dare via libera. Secondo la Total, molto attiva nei mari norvegesi, bisogna rimpiazzare al più presto gli attuali giacimenti off-shore: il picco di produzione è stato ormai superato e i giacimenti si stanno riducendo, occorre quindi puntare alle isole del grande nord per garantire la continuità dell'industria petrolifera norvegese e dei posti di lavoro nel settore. Helge Lund, amministratore della Statoil, compagnia petrolifera della quale lo Stato detiene i due terzi delle azioni, calcola che le entrate potenziali che potrebbero venire dal petrolio della Lafoten siano di almeno 180 miliardi di euro. L'Olf, la Confindustria del petrolio norvegese, promette dal canto suo «duemila nuovi posti di lavoro senza il minimo danno all'ambiente o alla pesca». I petrolieri sono sostenuti dalla destra populista del Partito del Progresso (il secondo partito della Norvegia) che minimizza ogni rischio ambientale. Sul giornale Novethic un deputato della destra, Pal Arne Davidsen, spiega che «ci sono voluti circa 25 anni tra la scoperta del giacimento di Sno Hvit e l'inizio del suo sfruttamento. I progressi tecnologici saranno tali che si potranno sicuramente ridurre al minimo i rischi».
L'altro argomento forte dei petrolieri è lo sfruttamento futuro dell'enorme giacimento russo di Stockhman, attualmente in fase di sviluppo, che comporterà un forte aumento del traffico marittimo al largo delle coste norvegesi. Un'azione che forzerà in ogni modo le autorità norvegesi a sviluppare delle tecnologie e dei servizi di soccorso in caso di maree nere. Forti della vicinanza con un potenziale inquinamento prodotto dalla Russia i favorevoli all'apertura di nuovi pozzi off-shore spingono sull'acceleratore, mentre per gli ambientalisti norvegesi si tratta di un'aggressione a quello che in patria è considerato un santuario della natura. Le acque delle Lofoten ospitano l'ultimo grande stock di merluzzo del pianeta e soprattutto le sue aree riproduttive. Inoltre le Lofoten hanno una fiorente industria turistica che potrebbe essere compromessa dalle trivellazioni o, peggio, da incidenti e maree nere.
di Alberto Fiorillo
Petrolio o paesaggio? La scelta di una delle due risposte determinerà il futuro dell'arcipelago norvegese delle Lofoten e Vesteralen, un paradiso naturalistico dove il riconfermato governo laburista di Oslo vorrebbe avviare nuove trivellazioni petrolifere per sfruttare i giacimenti al largo delle loro coste. La questione divide la Norvegia da molto tempo. Il primo ministro Jens Stoltenberg ha rimandato per il momento ogni decisione sullo sfruttamento del petrolio delle Lofoten, ma il governo sta subendo fortissime pressioni della lobby petrolifera che ha già completato la fase preliminare delle ricerche (con studi sismici e geologici) propedeutica alle trivellazioni esplorative. I tre partiti di sinistra che formano la coalizione di governo in Norvegia (Partito laburista, sinistra socialista e partito di centro) nella loro piattaforma comune prevedono di non aprire le Lofoten e le Vesteralen allo sfruttamento petrolifero, confermando la decisione presa nel 2006. Però ora si trovano di fronte alla decisione se autorizzare o meno l'avvio della Valutazione di impatto ambientale (Via) e sembrano intenzionati a dare via libera. Secondo la Total, molto attiva nei mari norvegesi, bisogna rimpiazzare al più presto gli attuali giacimenti off-shore: il picco di produzione è stato ormai superato e i giacimenti si stanno riducendo, occorre quindi puntare alle isole del grande nord per garantire la continuità dell'industria petrolifera norvegese e dei posti di lavoro nel settore. Helge Lund, amministratore della Statoil, compagnia petrolifera della quale lo Stato detiene i due terzi delle azioni, calcola che le entrate potenziali che potrebbero venire dal petrolio della Lafoten siano di almeno 180 miliardi di euro. L'Olf, la Confindustria del petrolio norvegese, promette dal canto suo «duemila nuovi posti di lavoro senza il minimo danno all'ambiente o alla pesca». I petrolieri sono sostenuti dalla destra populista del Partito del Progresso (il secondo partito della Norvegia) che minimizza ogni rischio ambientale. Sul giornale Novethic un deputato della destra, Pal Arne Davidsen, spiega che «ci sono voluti circa 25 anni tra la scoperta del giacimento di Sno Hvit e l'inizio del suo sfruttamento. I progressi tecnologici saranno tali che si potranno sicuramente ridurre al minimo i rischi».
L'altro argomento forte dei petrolieri è lo sfruttamento futuro dell'enorme giacimento russo di Stockhman, attualmente in fase di sviluppo, che comporterà un forte aumento del traffico marittimo al largo delle coste norvegesi. Un'azione che forzerà in ogni modo le autorità norvegesi a sviluppare delle tecnologie e dei servizi di soccorso in caso di maree nere. Forti della vicinanza con un potenziale inquinamento prodotto dalla Russia i favorevoli all'apertura di nuovi pozzi off-shore spingono sull'acceleratore, mentre per gli ambientalisti norvegesi si tratta di un'aggressione a quello che in patria è considerato un santuario della natura. Le acque delle Lofoten ospitano l'ultimo grande stock di merluzzo del pianeta e soprattutto le sue aree riproduttive. Inoltre le Lofoten hanno una fiorente industria turistica che potrebbe essere compromessa dalle trivellazioni o, peggio, da incidenti e maree nere.
Monday, 28 December 2009
... _ _ _ ...
Scompare il nome del blog, ma non chi cura queste pagine. Almeno per ora. Una risposta - polemica - a quanti minacciano di voler mettere bavagli alla rete, piccoli o grandi che siano. Al posto di Emiliano Biaggio nessuna lettera, perchè il dibattito di questi giorni lascia senza parole e solo con diverse e serie preoccupazioni. In testa a queste pagine tre punti, tre linee, tre punti: chiedete a un telegrafista cosa significa, e già che ci siamo, vediamo se c'è qualcuno che si preoccupa delle sorti di questo paese. In alternativa, lanciamo bottiglie contenenti messaggi.
Nonostante il dietro-front del governo, questo blog continua a mantenere tre punti-tre linee- tre punti, perchè comunque permane il dubbio di una "mini-censura" a venire e perchè al di là di tutto resta la gravità del voler mettere mano alla rete. Si inizia rimettendo in discussione, si finisce con il ridefinire. Finchè si vorrà ridiscutere la democrazia e le sue regole, ci sarà di che preoccuparsi. E di che chiedere aiuto.
Emiliano Biaggio
Nonostante il dietro-front del governo, questo blog continua a mantenere tre punti-tre linee- tre punti, perchè comunque permane il dubbio di una "mini-censura" a venire e perchè al di là di tutto resta la gravità del voler mettere mano alla rete. Si inizia rimettendo in discussione, si finisce con il ridefinire. Finchè si vorrà ridiscutere la democrazia e le sue regole, ci sarà di che preoccuparsi. E di che chiedere aiuto.
Emiliano Biaggio
Internet, niente censura. All'orizzonte solo un bavaglio più piccolo.
Maroni fa marcia indietro, e chiede una «autoregolamentazione» per «rimuovere contenuti che integrino gravi reati». E' in arrivo una "censurina"?
di Emiliano Biaggio
Alla fine il Governo su internet fa retromarcia. All'indomani dell'aggressione di Berlusconi il ministro dell'Interno Roberto Maroni aveva annunciato un decreto per chiudere tutti quei siti e quelle pagine di sociaò network che inneggiavano all'odio. Il ministro leghista però fa marcia indietro. Due volte. Prima Maroni fa sapere che «non ho obiezioni a che si proceda con un disegno di legge, e non con un decreto, per consentire al Parlamento di discutere una materia così delicata», fermo restando che serve «una norma che consenta alla magistratura di rimuovere dal web le pagine in cui la magistratura stessa, e non il governo, ravvisi un reato, ad esempio di apologia o di istigazione». Insomma, a intervenire sulla rete non sarebbe il governo ma la magistratura. Un passo avanti, peccato che la magistratura sia nel mirino dell'esecutivo. Ad ogni modo, il ministro fa un ulteriore mossa all' indietro: non ci sarà un disegno di legge per prevenire la commissione di reati gravi su internet ma si procederà alla realizzazione di un codice di autoregolamentazione tra tutti i soggetti coinvolti. Al termine dell'incontro con i gestori delle reti internet e i rappresentanti dei social network, Maroni fa infatti sapere che «ci siamo impegnati ad elaborare delle proposte e a costituire un tavolo con tutti i soggetti che sono intervenuti, che sarà riconvocato a metà gennaio, per discutere le nostre proposte e valutare la possibilità di trovare una soluzione e cioè un codice di autoregolamentazione piuttosto che una norma di legge». Se alla fine si raggiungerà un'intesa, si tratterà - precisa Maroni - di «un grande accordo di responsabilità fra tutti gli operatori, e sarebbe il primo caso al mondo» di una sorta di compromesso tra la necessità di tutelare «la libertà di espressione del pensiero e quella di rimuovere contenuti che integrino gravi reati». Ben vengano i passi indietro del governo, ora resta da vedere cosa porteranno l'anno nuovo e la Befana. Ma resta il dubbio sul significato di queste sibilline parole: «rimuovere contenuti che integrino gravi reati», «rimuovere contenuti». Non è comunque censura? C'è il rischio che alla fine un bavaglio alla rete si metta lo stesso? C'è, eccome se c'è. Anche se vogliono farci credere di no. Staremo a vedere, ma le libertà e i diritti si negano piano piano, a meno di colpi di stato. Attenzione.
di Emiliano Biaggio
Alla fine il Governo su internet fa retromarcia. All'indomani dell'aggressione di Berlusconi il ministro dell'Interno Roberto Maroni aveva annunciato un decreto per chiudere tutti quei siti e quelle pagine di sociaò network che inneggiavano all'odio. Il ministro leghista però fa marcia indietro. Due volte. Prima Maroni fa sapere che «non ho obiezioni a che si proceda con un disegno di legge, e non con un decreto, per consentire al Parlamento di discutere una materia così delicata», fermo restando che serve «una norma che consenta alla magistratura di rimuovere dal web le pagine in cui la magistratura stessa, e non il governo, ravvisi un reato, ad esempio di apologia o di istigazione». Insomma, a intervenire sulla rete non sarebbe il governo ma la magistratura. Un passo avanti, peccato che la magistratura sia nel mirino dell'esecutivo. Ad ogni modo, il ministro fa un ulteriore mossa all' indietro: non ci sarà un disegno di legge per prevenire la commissione di reati gravi su internet ma si procederà alla realizzazione di un codice di autoregolamentazione tra tutti i soggetti coinvolti. Al termine dell'incontro con i gestori delle reti internet e i rappresentanti dei social network, Maroni fa infatti sapere che «ci siamo impegnati ad elaborare delle proposte e a costituire un tavolo con tutti i soggetti che sono intervenuti, che sarà riconvocato a metà gennaio, per discutere le nostre proposte e valutare la possibilità di trovare una soluzione e cioè un codice di autoregolamentazione piuttosto che una norma di legge». Se alla fine si raggiungerà un'intesa, si tratterà - precisa Maroni - di «un grande accordo di responsabilità fra tutti gli operatori, e sarebbe il primo caso al mondo» di una sorta di compromesso tra la necessità di tutelare «la libertà di espressione del pensiero e quella di rimuovere contenuti che integrino gravi reati». Ben vengano i passi indietro del governo, ora resta da vedere cosa porteranno l'anno nuovo e la Befana. Ma resta il dubbio sul significato di queste sibilline parole: «rimuovere contenuti che integrino gravi reati», «rimuovere contenuti». Non è comunque censura? C'è il rischio che alla fine un bavaglio alla rete si metta lo stesso? C'è, eccome se c'è. Anche se vogliono farci credere di no. Staremo a vedere, ma le libertà e i diritti si negano piano piano, a meno di colpi di stato. Attenzione.
Thursday, 24 December 2009
Com'è il rancio? La Russa: «Non lo so, ma di certo è buono»
Sappiamo dove sono e quanto rischiano i nostri militari, ma non come mangiano.
«Soldato, com'è il rancio?». «Ottimo, comandante». Ma è proprio cosi? Chissà se la risposta del ministro della Difesa risponde in maniera esauriente alla curiosità dei leghisti Carolina Lussana e Marco Reguzzoni, che in particolare vogliono conoscere provenienza, qualità e modalità di conservazione della carne somministrata alle Forze armate. La Russa pone una premessa, partendo dal sistema di "outsourcing" che, spiega, «equivale all’affidamento a un fornitore esterno dell’attività svolta dalla società committente». Ciò consente «la terzializzazione di attività no-core e una ottimizzazione nel rapporto costo-efficacia dei servizi». Ma tutto ciò, ammette lo stesso La Russa, porta ad una «parziale perdita di controllo delle attività terzializzate», ed è per questo che «è importante affidarsi a partners qualificati». Ne consegue che «in ragione di tali considerazioni non è possibile dare una risposta dettagliata ed esaustiva come richiesto». Ma, assicura il ministro, «è possibile dare ampia assicurazione sul raggiungimento della cosiddetta "costumer satisfaction", ossia piena soddisfazione del cliente relativamente alla fruizione del servizio che, in questo caso, si traduce nella piena rispondenza delle forniture di tale tipo di genere alimentare alle esigenze delle Forze Armate». La Russa aggiunge poi che il servizio di vettovagliamento è ormai appaltato all'esterno a ditte del libero mercato, le quali – puntualizza - «devono essere in possesso di certificazione International organization for standardization e si obbligano alla rispetto della normativa igienico-sanitaria comunitaria per le produzioni alimentari di origine animale» e inoltre devono attenersi a precise tecniche nel processo di preparazione dei pasti.
«Soldato, com'è il rancio?». «Ottimo, comandante». Ma è proprio cosi? Chissà se la risposta del ministro della Difesa risponde in maniera esauriente alla curiosità dei leghisti Carolina Lussana e Marco Reguzzoni, che in particolare vogliono conoscere provenienza, qualità e modalità di conservazione della carne somministrata alle Forze armate. La Russa pone una premessa, partendo dal sistema di "outsourcing" che, spiega, «equivale all’affidamento a un fornitore esterno dell’attività svolta dalla società committente». Ciò consente «la terzializzazione di attività no-core e una ottimizzazione nel rapporto costo-efficacia dei servizi». Ma tutto ciò, ammette lo stesso La Russa, porta ad una «parziale perdita di controllo delle attività terzializzate», ed è per questo che «è importante affidarsi a partners qualificati». Ne consegue che «in ragione di tali considerazioni non è possibile dare una risposta dettagliata ed esaustiva come richiesto». Ma, assicura il ministro, «è possibile dare ampia assicurazione sul raggiungimento della cosiddetta "costumer satisfaction", ossia piena soddisfazione del cliente relativamente alla fruizione del servizio che, in questo caso, si traduce nella piena rispondenza delle forniture di tale tipo di genere alimentare alle esigenze delle Forze Armate». La Russa aggiunge poi che il servizio di vettovagliamento è ormai appaltato all'esterno a ditte del libero mercato, le quali – puntualizza - «devono essere in possesso di certificazione International organization for standardization e si obbligano alla rispetto della normativa igienico-sanitaria comunitaria per le produzioni alimentari di origine animale» e inoltre devono attenersi a precise tecniche nel processo di preparazione dei pasti.
Wednesday, 23 December 2009
Cinepanettoni "d'autore", l'Italia cancella il cinema
Neri Parenti messo sullo stesso piano di Griffith, Fellini e Lynch. Col beneplacito tutto "made in Italy" del mercato e della non-cultura.
di Emiliano Biaggio
Cinema d'essai, in lingua anglosassone "art cinema", filone artistico che produce pellicole non commericiali e film d'autore, frutto della produzione indipendente e per un pubblico ristretto. L'esatto contrario, insomma, per dei film per il grande pubblico: queste utlime pellicole puntano infatti sulla quantità e sul record d'incassi ai botteghini, mentre il cinema d'essai guarda alla qualità del prodotto. Questo, almeno, in Italia era vero fino ieri. I parametri definiti dall'allora ministro alla Cultura Giuliano Urbani (II governo Berlusconi), fanno di pellicole quali Natale a Beverly Hills film d'essai. Una contraddizione in termini, e - se la concezione di cinema d'essai resta valida - una vera e propria negazione del film d'autore. La morte del film di qualità, per intenderci. Un negazionismo storico, perchè se adesso si considera d'essai un film "di massa" e di bassa qualità, allora si rimettono in discussione interpreti del cinema e della storia del cinema quali Griffith (The birth of a nation e Intolerance), Eisenstein (battleship Potemkin e Alexander Nevskij). Ma d'essai è anche il cinema di Toshiro Mifune, Michelangelo Antognoni e Stanley Kubrick: film di un certo tipo per spettatori di un certo livello, insomma. Ben altra cosa, quindi, rispetto alla tipologia di spettatore cui si rivolge Natale a Beverly hills. Ora, va detto che negli Stati Uniti il termine è stato usato dapprima per definire tutti i film stranieri, in particolar modo i "B-movie" di Italia e Francia, quindi - a partire dagli anni Settanta - quelli europei sessualmente espliciti. Da questo punto di vista, allora, nessun problema: i cinepanettoni sono "di serie B" e sessualmente espliciti, per cui dal punto di vista più strettamente hollywodiano - e quindi più cinematografico - tutto torna. Resta tuttavia un dubbio: anche se - a detta di qualcuno - si possono fregiare del titolo di "d'essai", possono essere chiamati film? In fin dei conti, i criteri Urbani non premiano la qualità del prodotto, quanto la sua 'domanda' e la casa di produzione che genera business. Anche stavolta, insomma, vince la logica del capitale e l'arte - quand'anche ci sia - resta solo un mero valore aggiunto decorativo. Ne consegue che sul grande schermo italiano passano innanzitutto prodotti da vendere: sì, nel nostro paese il cinema è morto. Il 25 dicembre ricorre l'anniversario della morte di Chaplin: quale occasione migliore per riscoprire l'arte?
di Emiliano Biaggio
Cinema d'essai, in lingua anglosassone "art cinema", filone artistico che produce pellicole non commericiali e film d'autore, frutto della produzione indipendente e per un pubblico ristretto. L'esatto contrario, insomma, per dei film per il grande pubblico: queste utlime pellicole puntano infatti sulla quantità e sul record d'incassi ai botteghini, mentre il cinema d'essai guarda alla qualità del prodotto. Questo, almeno, in Italia era vero fino ieri. I parametri definiti dall'allora ministro alla Cultura Giuliano Urbani (II governo Berlusconi), fanno di pellicole quali Natale a Beverly Hills film d'essai. Una contraddizione in termini, e - se la concezione di cinema d'essai resta valida - una vera e propria negazione del film d'autore. La morte del film di qualità, per intenderci. Un negazionismo storico, perchè se adesso si considera d'essai un film "di massa" e di bassa qualità, allora si rimettono in discussione interpreti del cinema e della storia del cinema quali Griffith (The birth of a nation e Intolerance), Eisenstein (battleship Potemkin e Alexander Nevskij). Ma d'essai è anche il cinema di Toshiro Mifune, Michelangelo Antognoni e Stanley Kubrick: film di un certo tipo per spettatori di un certo livello, insomma. Ben altra cosa, quindi, rispetto alla tipologia di spettatore cui si rivolge Natale a Beverly hills. Ora, va detto che negli Stati Uniti il termine è stato usato dapprima per definire tutti i film stranieri, in particolar modo i "B-movie" di Italia e Francia, quindi - a partire dagli anni Settanta - quelli europei sessualmente espliciti. Da questo punto di vista, allora, nessun problema: i cinepanettoni sono "di serie B" e sessualmente espliciti, per cui dal punto di vista più strettamente hollywodiano - e quindi più cinematografico - tutto torna. Resta tuttavia un dubbio: anche se - a detta di qualcuno - si possono fregiare del titolo di "d'essai", possono essere chiamati film? In fin dei conti, i criteri Urbani non premiano la qualità del prodotto, quanto la sua 'domanda' e la casa di produzione che genera business. Anche stavolta, insomma, vince la logica del capitale e l'arte - quand'anche ci sia - resta solo un mero valore aggiunto decorativo. Ne consegue che sul grande schermo italiano passano innanzitutto prodotti da vendere: sì, nel nostro paese il cinema è morto. Il 25 dicembre ricorre l'anniversario della morte di Chaplin: quale occasione migliore per riscoprire l'arte?
Tuesday, 22 December 2009
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Scompare il nome del blog, ma non chi cura queste pagine. Almeno per ora. Una risposta - polemica - a quanti minacciano di voler mettere bavagli alla rete, piccoli o grandi che siano. Al posto di Emiliano Biaggio nessuna lettera, perchè il dibattito di questi giorni lascia senza parole e solo con diverse e serie preoccupazioni. In testa a queste pagine tre punti, tre linee, tre punti: chiedete a un telegrafista cosa significa, e già che ci siamo, vediamo se c'è qualcuno che si preoccupa delle sorti di questo paese. In alternativa, lanciamo bottiglie contenenti messaggi.
Emiliano Biaggio
Emiliano Biaggio
Saturday, 19 December 2009
Video choc, aggressione a Berlusconi è una montatura
L'aggressione a Berlusconi è avvenuta davvero oppure è stata tutta una montatura studiata a tavolino? Questo video sembra propendere per la seconda ipotesi. In fin dei conti di cose che "non tornano" ce ne sono: quando si rompono due denti il dolore è lancinante e tale da stordire una persona; se poi si aggiungono gli effetti derivanti da frattura al naso, non ci si regge in piedi. Berlusconi invece si è alzato per tornare a salutare la folla. E poi, come mai la scorta non è partita subito? Perchè non hanno condotto subito il presidente del Consiglio all'ospedale se davvero le sue condizioni erano quelle diffuse dai bollettini medici? Da un punto di vista mediatico non c'è dubbio che l'aggressione abbia "bucato" lo schermo e non solo. E anche dal punto di vista politico è servito da pretesto... Pardon, da motivo, per chiedere di mettere mano (e bavaglio) alla rete. Dietrologia, anti-berlusconismo o inquietante realtà? Guardare il video e riflettere.
Friday, 18 December 2009
Brasile e Cina: «Ci siamo anche noi. E non ci fermerete»
Lula e Jiabao a Copenhagen per parlare di clima avvertono il mondo: «vogliamo anche noi la possibilità di diventare ricchi».
di Emiliano Biaggio
«Non veniamo qui in ginocchio, e non abbiamo bisogno di denaro per risolvere i nostri problemi. Qui a Copenhagen la questione non è solo quella del denaro, si tratta di dare a tutti i paesi in via di sviluppo le opportunità di poter vivere come gli altri paesi industrializzati». Anche perchè, «adesso che abbiamo iniziato a crescere, non vogliamo tornare al passato». Interviene all'assemblea plenaria del vertice mondiale sul clima Luis Ignacio Lula da Silva, ma non parla prettamente di clima. Il messaggio che lancia dal Bella Center di Copenhagen il presidente del Brasile, suona più come pro-memoria per il tempo a venire e per le trattative future. Lula si dice «frustrato» per tutti i colloqui «non così utili» avuti nella capitale danese, e fa capire di non gradire il comportamento degli altri Paesi, specie quelli degli Stati più industrializzati. Questi ultimi promettono aiuti ai Pesi in via di sviluppo per 100 miliardi di dollari, anche se non dicono come e quando intendono erogarli. Ma il presidente del Brasile non si limita a riflettere sul presente, e vuole mettere le cose in chiaro anche e soprattutto per il futuro. «Bisogna fare attenzione», bisogna scongiurare la possibilità che «questi interventi nei paesi in via di sviluppo diventino troppo invasivi». Il presidente del Brasile si riferisce anche al denaro, ai 100 miliardi di dollari promessi ai paesi in via di sviluppo per poter mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. «C'è bisogno di trasparenza per capire dove questi fondi verrano posizionati», ammonisce. Ma Lula tiene a sottolineare che non si tratta solo di una questione di soldi, perchè «il denaro non ha risolto niente nel passato e non lo farà neanche in futuro. Ciò che vogliamo è la possibilità di lavorare tutti insieme». Fuor di parafrasi il messaggio del leader brasiliano è questo: i paesi meno ricchi non sono in vendita, e devono essere considerati come tutti gli altri. Non devono essere esclusi, ma inclusi, perchè nell'era della globalizzazione bisogna ragionare in termini globali. «Non c'è da discutere solo un accordo tra paesi, ma un qualcosa di più serio», sottolinea Lula. Chi approfitta del palcoscenico mondiale di Copenhagen per tracciare la politica del "di qui in avanti", è la Cina, che con il premier Wen Jiabao ricorda «l'importanza della riduzione delle emissioni di CO2 e degli aiuti da dare ai paesi poveri per farli uscire dalla loro condizione di povertà», una piaga che «affligge soprattutto i paesi in via di sviluppo». E la Cina rientra proprio in questa categoria di Stati. Anche dal governo di Pechino arriva dunque lo stesso messaggio di Lula: stiamo attraversando la nostra crescita e non vogliamo rinunciarvi, perchè anche noi abbiamo gli stessi diritti ad essere ricchi, proprio come i paesi ricchi. Cina e Brasile sono seriamente intenzionati ad andare dritti per le rispettive strade: una sfida per gli equilibri geopolitici.
di Emiliano Biaggio
«Non veniamo qui in ginocchio, e non abbiamo bisogno di denaro per risolvere i nostri problemi. Qui a Copenhagen la questione non è solo quella del denaro, si tratta di dare a tutti i paesi in via di sviluppo le opportunità di poter vivere come gli altri paesi industrializzati». Anche perchè, «adesso che abbiamo iniziato a crescere, non vogliamo tornare al passato». Interviene all'assemblea plenaria del vertice mondiale sul clima Luis Ignacio Lula da Silva, ma non parla prettamente di clima. Il messaggio che lancia dal Bella Center di Copenhagen il presidente del Brasile, suona più come pro-memoria per il tempo a venire e per le trattative future. Lula si dice «frustrato» per tutti i colloqui «non così utili» avuti nella capitale danese, e fa capire di non gradire il comportamento degli altri Paesi, specie quelli degli Stati più industrializzati. Questi ultimi promettono aiuti ai Pesi in via di sviluppo per 100 miliardi di dollari, anche se non dicono come e quando intendono erogarli. Ma il presidente del Brasile non si limita a riflettere sul presente, e vuole mettere le cose in chiaro anche e soprattutto per il futuro. «Bisogna fare attenzione», bisogna scongiurare la possibilità che «questi interventi nei paesi in via di sviluppo diventino troppo invasivi». Il presidente del Brasile si riferisce anche al denaro, ai 100 miliardi di dollari promessi ai paesi in via di sviluppo per poter mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. «C'è bisogno di trasparenza per capire dove questi fondi verrano posizionati», ammonisce. Ma Lula tiene a sottolineare che non si tratta solo di una questione di soldi, perchè «il denaro non ha risolto niente nel passato e non lo farà neanche in futuro. Ciò che vogliamo è la possibilità di lavorare tutti insieme». Fuor di parafrasi il messaggio del leader brasiliano è questo: i paesi meno ricchi non sono in vendita, e devono essere considerati come tutti gli altri. Non devono essere esclusi, ma inclusi, perchè nell'era della globalizzazione bisogna ragionare in termini globali. «Non c'è da discutere solo un accordo tra paesi, ma un qualcosa di più serio», sottolinea Lula. Chi approfitta del palcoscenico mondiale di Copenhagen per tracciare la politica del "di qui in avanti", è la Cina, che con il premier Wen Jiabao ricorda «l'importanza della riduzione delle emissioni di CO2 e degli aiuti da dare ai paesi poveri per farli uscire dalla loro condizione di povertà», una piaga che «affligge soprattutto i paesi in via di sviluppo». E la Cina rientra proprio in questa categoria di Stati. Anche dal governo di Pechino arriva dunque lo stesso messaggio di Lula: stiamo attraversando la nostra crescita e non vogliamo rinunciarvi, perchè anche noi abbiamo gli stessi diritti ad essere ricchi, proprio come i paesi ricchi. Cina e Brasile sono seriamente intenzionati ad andare dritti per le rispettive strade: una sfida per gli equilibri geopolitici.
«I didn't get why they were so happy»
Last days of communism in Czechoslovakia seen by a child's eyes. «Students and intelectuals explainded us what it was goin' on»
Texts and article by Emiliano Biaggio
«I was only nine year old. For a child of my age, it was not an easy task to get closer to the truth». November 1989 represents for everyone a symbolic moment, a really short bur really strong period which has changed the history. And it's so still today, twenty years later, for those who know what we are talking about. Petr, 29 years old, blonde hair and sky-coloured eyes, today knows about november 1989, but at that time he coul not. Because he was too young, and above all very far from both Berlin and Prague. In 1989 "his" Czech republic was still Czechoslovakia, and there the falling of communism arrived the 17th of november, 12 days after the break at the german Kruscev's wall. «I remember that living in a small town, it was very difficult even for adults to get any piece of news about what was going on in Prague or abroad. Not counting the oficial propaganda in state owned tv or newspaper: We heard about some criminal striving to destabilize our paradise on Earth and even perhaps destroy socialism». Socialism, falling of Berlin wall, velvet revolution: for a so young witness of history too much words, too much concepts, and each of them not easy to be comprehended. And that's true especially when also your parents are looking for some explanation to give. «I must admit that in our family we were eager to break the cloud around the events in Prague. The leaders of the opposition movement (students and intelectuals) were travelling around the country talking to people on the streets and in the factories, trying to explain them, what they were doing. And they gained the support». So, in Czechoslovakia it was the change of people, began from the people and transmitted to the people. In Vsetin, small town at overt 300 kilometres from Prague where Petr spent his childhood and where he still today comes to visit his relativs, Czechs answered the calling. «There were some marches and manifestations. I guess it was the beginning of december». December. In Berlin the wall had been smashed down since one month, and soviet system was over. It happended also in Czechoslovakia, where «the new free elections were proposed for 1990», remembers Petr, who still has impressed in his mind the joy of people in those days. «I remember the splendid atmosphere of hope and happiness, solidarity and optimism, that was just omnipresent». What about today? What remains of that atmosphere? «Sincerely, I am totally fed up with the propaganda of nowadays media, and I wont certainly attend any of the official program during these days». Petr doesn't talk about the present, and we undestrand something is wrong. Maybe hopes have been disappointed, or maybe he does not remember the past and cannot make a comparison between what was and what is. But now he's older, he can see the embarassment of his people. «Today seems like, some people are still trying to cover up their old conformity and cowardness by kicking the old communists. And I dont want to be part of this spectacle».
Texts and article by Emiliano Biaggio
«I was only nine year old. For a child of my age, it was not an easy task to get closer to the truth». November 1989 represents for everyone a symbolic moment, a really short bur really strong period which has changed the history. And it's so still today, twenty years later, for those who know what we are talking about. Petr, 29 years old, blonde hair and sky-coloured eyes, today knows about november 1989, but at that time he coul not. Because he was too young, and above all very far from both Berlin and Prague. In 1989 "his" Czech republic was still Czechoslovakia, and there the falling of communism arrived the 17th of november, 12 days after the break at the german Kruscev's wall. «I remember that living in a small town, it was very difficult even for adults to get any piece of news about what was going on in Prague or abroad. Not counting the oficial propaganda in state owned tv or newspaper: We heard about some criminal striving to destabilize our paradise on Earth and even perhaps destroy socialism». Socialism, falling of Berlin wall, velvet revolution: for a so young witness of history too much words, too much concepts, and each of them not easy to be comprehended. And that's true especially when also your parents are looking for some explanation to give. «I must admit that in our family we were eager to break the cloud around the events in Prague. The leaders of the opposition movement (students and intelectuals) were travelling around the country talking to people on the streets and in the factories, trying to explain them, what they were doing. And they gained the support». So, in Czechoslovakia it was the change of people, began from the people and transmitted to the people. In Vsetin, small town at overt 300 kilometres from Prague where Petr spent his childhood and where he still today comes to visit his relativs, Czechs answered the calling. «There were some marches and manifestations. I guess it was the beginning of december». December. In Berlin the wall had been smashed down since one month, and soviet system was over. It happended also in Czechoslovakia, where «the new free elections were proposed for 1990», remembers Petr, who still has impressed in his mind the joy of people in those days. «I remember the splendid atmosphere of hope and happiness, solidarity and optimism, that was just omnipresent». What about today? What remains of that atmosphere? «Sincerely, I am totally fed up with the propaganda of nowadays media, and I wont certainly attend any of the official program during these days». Petr doesn't talk about the present, and we undestrand something is wrong. Maybe hopes have been disappointed, or maybe he does not remember the past and cannot make a comparison between what was and what is. But now he's older, he can see the embarassment of his people. «Today seems like, some people are still trying to cover up their old conformity and cowardness by kicking the old communists. And I dont want to be part of this spectacle».
Thursday, 17 December 2009
«Non capivo perchè erano tanto felici»
La caduta del comunismo vista dagli occhi di un bambino: «erano gli intellettuali che spiegavano cosa succedeva».
Testi raccolti da Emiliano Biaggio
«Avevo nove anni. Per un bambino della mia età non era facile capire cosa stesse realmente accadendo». Per tutti il novembre 1989 rappresenta un momento simbolo, un brevissimo ma intenso periodo che ha cambiato la storia. E lo è ancora oggi, a distanza di vent'anni, per chi sa di cosa stiamo parlando. Petr, 29 anni, capelli biondi e occhi azzurro cieli, oggi lo sa, ma allora non poteva. Perchè era piccolo, ma soprattutto distante da Berlino. E anche da Praga. Nel 1989 la sua Repubblica Ceca era ancora Cecoslovacchia, e lì la caduta del regime comunista arrivò il 17 novembre, 12 giorni dopo l'abbattimento del muro voluto da Kruscev. «Ricordo che, vivendo in un piccolo paese, era molto difficile anche per gli adulti avere una qualche notizia di cosa stava accadendo a Praga e all'estero. Per non parlare poi della propaganda sui giornali e in tv: sentivamo dire che dei criminali stavano cercando di destabilizzare il nostro paradiso in Terra, e che volevano addirittura abolire il socialismo». Socialismo, caduta del muro di Berlino, rivoluzione di velluto: per un testimone della storia così giovane, tante espressioni e concetti tutti insieme, e ognuno non facile da affrontare comprendere. Soprattutto se anche i tuoi genitori, da cui vorresti risposte, sono alla ricerca di spiegazioni da dare. «Devo ammettere che nella mia famiglia eravamo impazienti di rompere quella cortina che avvolgeva gli eventi di Praga. Furono i leader del movimento di opposizione - studenti e intellettuali per lo più - che, viaggiando per il Paese e parlando con la gente per le strade e nelle fabbriche, cercavano di spiegare cosa stava accandendo. E in questo modo ottennero sostegno». In Cecoslovacchia, dunque, fu il cambiamento della gente, iniziato dalle persone e trasmesso alle persone. A Vsetin, paese a più di 300 chilometri da Praga dove Petr viveva quando era bambino e dove ancora oggi a far visita ai parenti, i cechi risposero alla chiamata. «Ricordo cortei e manifestazioni. Credo fossero gli inizi di dicembre». Dicembre. A Berlino il muro era stato buttato giù praticamente da un mese, e il sistema sovietico era già stato rimosso. Infatti in Cecoslovacchia «furono indette libere elezioni per il 1990», ricorda oggi Petr, che da bambino qual era allora ha ancora impresso la gioia collettiva di quei giorni. «Ricordo un'atmosfera splendida. C'erano felicità, solidarietà, ottimismo, speranza». E oggi che ne è di quell'atmosfera? «Per quanto mi riguarda sono stufo dei messaggi di oggi, di quello che scrivono e dicono i mezzi d'informazione. E non ho partecipato ad alcun evento di commemorazione». Petr non parla del suo presente, ma si intuisce che qualcosa non va. Forse le aspettative nutrite sono state disattese, o forse perchè non ricordano bene il passato che non c'è più non sarebbe in grado di fare un confronto. Chissà. Ma adesso che è adulto, si accorge dell'imbarazzo che prova il suo popolo. «Oggi sembra che ci sia chi cerca di nascondere il vecchi conformismo e la mancanza di coraggio nell'affrontare il regime comunista».
Testi raccolti da Emiliano Biaggio
«Avevo nove anni. Per un bambino della mia età non era facile capire cosa stesse realmente accadendo». Per tutti il novembre 1989 rappresenta un momento simbolo, un brevissimo ma intenso periodo che ha cambiato la storia. E lo è ancora oggi, a distanza di vent'anni, per chi sa di cosa stiamo parlando. Petr, 29 anni, capelli biondi e occhi azzurro cieli, oggi lo sa, ma allora non poteva. Perchè era piccolo, ma soprattutto distante da Berlino. E anche da Praga. Nel 1989 la sua Repubblica Ceca era ancora Cecoslovacchia, e lì la caduta del regime comunista arrivò il 17 novembre, 12 giorni dopo l'abbattimento del muro voluto da Kruscev. «Ricordo che, vivendo in un piccolo paese, era molto difficile anche per gli adulti avere una qualche notizia di cosa stava accadendo a Praga e all'estero. Per non parlare poi della propaganda sui giornali e in tv: sentivamo dire che dei criminali stavano cercando di destabilizzare il nostro paradiso in Terra, e che volevano addirittura abolire il socialismo». Socialismo, caduta del muro di Berlino, rivoluzione di velluto: per un testimone della storia così giovane, tante espressioni e concetti tutti insieme, e ognuno non facile da affrontare comprendere. Soprattutto se anche i tuoi genitori, da cui vorresti risposte, sono alla ricerca di spiegazioni da dare. «Devo ammettere che nella mia famiglia eravamo impazienti di rompere quella cortina che avvolgeva gli eventi di Praga. Furono i leader del movimento di opposizione - studenti e intellettuali per lo più - che, viaggiando per il Paese e parlando con la gente per le strade e nelle fabbriche, cercavano di spiegare cosa stava accandendo. E in questo modo ottennero sostegno». In Cecoslovacchia, dunque, fu il cambiamento della gente, iniziato dalle persone e trasmesso alle persone. A Vsetin, paese a più di 300 chilometri da Praga dove Petr viveva quando era bambino e dove ancora oggi a far visita ai parenti, i cechi risposero alla chiamata. «Ricordo cortei e manifestazioni. Credo fossero gli inizi di dicembre». Dicembre. A Berlino il muro era stato buttato giù praticamente da un mese, e il sistema sovietico era già stato rimosso. Infatti in Cecoslovacchia «furono indette libere elezioni per il 1990», ricorda oggi Petr, che da bambino qual era allora ha ancora impresso la gioia collettiva di quei giorni. «Ricordo un'atmosfera splendida. C'erano felicità, solidarietà, ottimismo, speranza». E oggi che ne è di quell'atmosfera? «Per quanto mi riguarda sono stufo dei messaggi di oggi, di quello che scrivono e dicono i mezzi d'informazione. E non ho partecipato ad alcun evento di commemorazione». Petr non parla del suo presente, ma si intuisce che qualcosa non va. Forse le aspettative nutrite sono state disattese, o forse perchè non ricordano bene il passato che non c'è più non sarebbe in grado di fare un confronto. Chissà. Ma adesso che è adulto, si accorge dell'imbarazzo che prova il suo popolo. «Oggi sembra che ci sia chi cerca di nascondere il vecchi conformismo e la mancanza di coraggio nell'affrontare il regime comunista».
Wednesday, 16 December 2009
Cop15, e Prestigiacomo disse: «Dove si entra?»
Il ministro dell'Ambiente italiano impiega due ore solo per individuare l'ingresso del palazzo che ospita il vertice sul clima.
di Emiliano Biaggio.
Stefania Prestigiacomo è un ministro, quello dell'Ambiente per l'esattezza. Un dettaglio non irrilevante per chi, per il ruolo che ha, è chiamato a discutere di temi quali clima, natura e ambiente. Soprattutto se di tutto ciò si discute - o almeno si tenta di farlo - in sede internazionale, nell'ambito di una conferenza mondiale sul clima. Che poi è il vertice in corso a Copenhagen. In corso per tutti, non per Prestigiacomo, che si "perde" per le vie della capitale danese, e impiega due ore per trovare l'ingresso della sede che ospita il summit. No, non è una barzelletta, per quanti ci siano un francese, un inglese e un italiano. O meglio, l'italiano c'era ma stava da tutt'altra parte. A sentire quanto riportato da alcuni organi di informazione, Prestigiacomo sarebbe rimasta bloccata per oltre un'ora all'ingresso del "Bella Center", la sede del vertice Onu sul clima. Questo dopo aver girato in auto per trovare un varco, ma non si capisce per quale motivo, una volta all'ingresso, non abbia varcato la soglia. Per il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, «il fatto che il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo si sia persa tra la folla e non abbia trovato l'ingresso della Cop15, è il segnale di un ministro che non sa cosa sia venuta a fare al vertice». per carità, «nessuna mancanza di rispetto nei confronti di Prestigiacomo», si affretta a spiegare Bonelli. Piuttosto, puntualizza, si tratta di una «semplice constatazione del fatto che il ministro dell'Ambiente italiano sembra essere venuto a Copenhagen più per una passeggiata che per altro». Ironia facile, quella del presidente dei Verdi, del quale i maligni potrebbero dire che se Prestigiacomo si è dimenticata di entrare nella sede del vertice, del Sole che ride si sono dimenticati un pò tutti. Ma su una cosa Bonelli ha ragione: l'immagine offerta da Prestigiacomo «è il segnale di come il nostro paese sia ormai diventato il fanalino di coda per la lotta ai cambiamenti climatici». Gli altri, almeno, ci sono. Per non decidere nulla, a quanto sembra. Ma noi, non sappiamo neanche come si fa ad arrivarci. Può Copenhagen portare a qualcosa?
di Emiliano Biaggio.
Stefania Prestigiacomo è un ministro, quello dell'Ambiente per l'esattezza. Un dettaglio non irrilevante per chi, per il ruolo che ha, è chiamato a discutere di temi quali clima, natura e ambiente. Soprattutto se di tutto ciò si discute - o almeno si tenta di farlo - in sede internazionale, nell'ambito di una conferenza mondiale sul clima. Che poi è il vertice in corso a Copenhagen. In corso per tutti, non per Prestigiacomo, che si "perde" per le vie della capitale danese, e impiega due ore per trovare l'ingresso della sede che ospita il summit. No, non è una barzelletta, per quanti ci siano un francese, un inglese e un italiano. O meglio, l'italiano c'era ma stava da tutt'altra parte. A sentire quanto riportato da alcuni organi di informazione, Prestigiacomo sarebbe rimasta bloccata per oltre un'ora all'ingresso del "Bella Center", la sede del vertice Onu sul clima. Questo dopo aver girato in auto per trovare un varco, ma non si capisce per quale motivo, una volta all'ingresso, non abbia varcato la soglia. Per il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, «il fatto che il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo si sia persa tra la folla e non abbia trovato l'ingresso della Cop15, è il segnale di un ministro che non sa cosa sia venuta a fare al vertice». per carità, «nessuna mancanza di rispetto nei confronti di Prestigiacomo», si affretta a spiegare Bonelli. Piuttosto, puntualizza, si tratta di una «semplice constatazione del fatto che il ministro dell'Ambiente italiano sembra essere venuto a Copenhagen più per una passeggiata che per altro». Ironia facile, quella del presidente dei Verdi, del quale i maligni potrebbero dire che se Prestigiacomo si è dimenticata di entrare nella sede del vertice, del Sole che ride si sono dimenticati un pò tutti. Ma su una cosa Bonelli ha ragione: l'immagine offerta da Prestigiacomo «è il segnale di come il nostro paese sia ormai diventato il fanalino di coda per la lotta ai cambiamenti climatici». Gli altri, almeno, ci sono. Per non decidere nulla, a quanto sembra. Ma noi, non sappiamo neanche come si fa ad arrivarci. Può Copenhagen portare a qualcosa?
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Scompare il nome del blog, ma non chi cura queste pagine. Almeno per ora. Una risposta - polemica - a quanti minacciano di voler mettere bavagli alla rete, piccoli o grandi che siano. Al posto di Emiliano Biaggio nessuna lettera, perchè il dibattito di questi giorni lascia senza parole e solo con diverse e serie preoccupazioni. In testa a queste pagine tre punti, tre linee, tre punti: chiedete a un telegrafista cosa significa, e già che ci siamo, vediamo se c'è qualcuno che si preoccupa delle sorti di questo paese. In alternativa, lanciamo bottiglie contenenti messaggi.
Emiliano
Emiliano
Tuesday, 15 December 2009
Quando a essere aggredita è la democrazia
Aggredito il presidente del Consiglio, nel mirino finiscono tv, internet, sindacati e partiti di opposizione.
L'e-dittoreale
Berlusconi aggredito a Milano da Massimo Tartaglia, uomo affetto da disturbi psichici che ha colpito al volto il premier con un souvenir. Conseguenze del gesto, dicono le fonti mediche, due denti rotti, frattura del setto nasale e lesione del labbro. Ma a risentirne non è solo il presidente del Consiglio, come testimoniano le reazioni scatenate da quanto accaduto. Prim'ancora dell'aggressione a Milano si erano alzati fischi, «una cosa che non si può accettare» a detta del ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini. A un giornalista che le chiede se non si possono più accettare le contestazioni, Gelmini risponde «si, penso che serva un disegno di legge che sanzioni in maniera decisa certi comportamenti». Il ministro dell'Istruzione, di fatto non fa che dire che il dissenso non è permesso. Come se non bastasse, il ministro dell'Interno urla con forza che «bisogna chiudere i siti più volenti». Si mette mano alla rete, insomma, oscurando siti e blog come in Cina e Iran, tanto per fare un esempio. Paesi, quelli citati, non proprio emblema di democrazia e contestati in fatto di rispetto di diritti umani. Ma del resto, avverte Maroni, «sui social network sono subito apparsi più di 300 gruppi inneggianti a Tartaglia con titoli espliciti e violenti. Su You tube sono apparsi video dell'aggressione al Presidente del consiglio con appelli alla violenza». Youtube e social network (il più famoso - e usato - dei quali è Facebook, su cui sono apparsi gruppi pro-Tartaglia), veri e propri canali telematici "di massa": se si oscurano questi canali si assesta un duro colpo alla democrazia e a tutti i principi ad essa collegata, non bisogna nasconderselo. Per questo le ultime dichiarazioni non devono passare inosservate, perchè contengono in sè il rischio della deriva anti-democratica e il germe della dittautura. Come se non bastasse, il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto, nell'aula di Montecitorio sostiene la tesi secono cui la campagna di odio contro Berlusconi «è condotta dal network Repubblica-L'Espresso, da Il Fatto, dalla trasmissione di Santoro Annozero e da un terrorista mediatico di nome Travaglio». Per il deputato del Pdl «l'Italia dei valori, attraverso il suo leader di Pietro, sta evocando la violenza» insieme a «qualche settore giustizialista del Pd». Come se non bastasse, Cicchitto denuncia «l'allarmante e spesso improprio protagonismo degli organismi sindacali e istituzionali della magistratura: dall'Anm con i suoi proclami politici, al Csm con il suo continuo e strumentale ricorso alle cosiddette pratiche di tutela e ai pareri non richiesti sulle leggi in discussione in Parlamento». Attacchi a tutto campo, quindi. Si mettono in discussione partiti di opposizione, giudici, sindacati, programmi televisivi e giornalisti, e quindi libertà di stampa, libertà di espressione e libertà di opinione. Intanto Maroni annuncia che giovedì arriveranno sul tavolo del Consiglio dei ministri due proposte: una che intende inasprire le misure anti-contestazione alle manifestazioni, l'altra per valutare l'oscuramento dei siti internet «che inneggiano all'odio». Il ministro dell'Interno non si sbilancia: «Non ho intenzione di dire quali: lo dirò prima al Consiglio dei ministri, essendo misure delicate, che riguardano terreni delicati come la libertà di espressione sul web e quella di manifestazione, ancorché in luoghi pubblici». C'è poco da dire: il clima è veramente esasperato. A farne le spese non Berlusconi, ma tutto il Paese, ordinamento compreso. Come si è arrivati a questo? Come mai oggi si respira quest'aria pesante? Di Pietro, subito dopo aver stigmatizzato l'aggressione al premier ha detto parole che hanno scatenato un terremoto politico: «Io non voglio che ci si mai violenza, ma Berlusconi con i suoi comportamenti e il suo menefraghismo istiga alla violenza», ha affermato il leader dell'Idv. Diciamolo: in questi anni Berlusconi si è preoccupato dei suoi affari e dei suoi problemi più che concepire politiche realmente sociali. E ha attaccato sempre Quirinale, magistratura e opposizione. Il clima di oggi è quello che piano piano si è costruito nel tempo. Quello a cui siamo giunti è quindi un punto di arrivo, su cui anche il premier ha le sue responsabilità - forse ben consapevoli. A Satiricon diceva satirico Daniele Luttazzi: «Di questo passo, dove andremo a finire? Ci siamo già».
(Editoriale per la puntata del 18 dicembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
L'e-dittoreale
Berlusconi aggredito a Milano da Massimo Tartaglia, uomo affetto da disturbi psichici che ha colpito al volto il premier con un souvenir. Conseguenze del gesto, dicono le fonti mediche, due denti rotti, frattura del setto nasale e lesione del labbro. Ma a risentirne non è solo il presidente del Consiglio, come testimoniano le reazioni scatenate da quanto accaduto. Prim'ancora dell'aggressione a Milano si erano alzati fischi, «una cosa che non si può accettare» a detta del ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini. A un giornalista che le chiede se non si possono più accettare le contestazioni, Gelmini risponde «si, penso che serva un disegno di legge che sanzioni in maniera decisa certi comportamenti». Il ministro dell'Istruzione, di fatto non fa che dire che il dissenso non è permesso. Come se non bastasse, il ministro dell'Interno urla con forza che «bisogna chiudere i siti più volenti». Si mette mano alla rete, insomma, oscurando siti e blog come in Cina e Iran, tanto per fare un esempio. Paesi, quelli citati, non proprio emblema di democrazia e contestati in fatto di rispetto di diritti umani. Ma del resto, avverte Maroni, «sui social network sono subito apparsi più di 300 gruppi inneggianti a Tartaglia con titoli espliciti e violenti. Su You tube sono apparsi video dell'aggressione al Presidente del consiglio con appelli alla violenza». Youtube e social network (il più famoso - e usato - dei quali è Facebook, su cui sono apparsi gruppi pro-Tartaglia), veri e propri canali telematici "di massa": se si oscurano questi canali si assesta un duro colpo alla democrazia e a tutti i principi ad essa collegata, non bisogna nasconderselo. Per questo le ultime dichiarazioni non devono passare inosservate, perchè contengono in sè il rischio della deriva anti-democratica e il germe della dittautura. Come se non bastasse, il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto, nell'aula di Montecitorio sostiene la tesi secono cui la campagna di odio contro Berlusconi «è condotta dal network Repubblica-L'Espresso, da Il Fatto, dalla trasmissione di Santoro Annozero e da un terrorista mediatico di nome Travaglio». Per il deputato del Pdl «l'Italia dei valori, attraverso il suo leader di Pietro, sta evocando la violenza» insieme a «qualche settore giustizialista del Pd». Come se non bastasse, Cicchitto denuncia «l'allarmante e spesso improprio protagonismo degli organismi sindacali e istituzionali della magistratura: dall'Anm con i suoi proclami politici, al Csm con il suo continuo e strumentale ricorso alle cosiddette pratiche di tutela e ai pareri non richiesti sulle leggi in discussione in Parlamento». Attacchi a tutto campo, quindi. Si mettono in discussione partiti di opposizione, giudici, sindacati, programmi televisivi e giornalisti, e quindi libertà di stampa, libertà di espressione e libertà di opinione. Intanto Maroni annuncia che giovedì arriveranno sul tavolo del Consiglio dei ministri due proposte: una che intende inasprire le misure anti-contestazione alle manifestazioni, l'altra per valutare l'oscuramento dei siti internet «che inneggiano all'odio». Il ministro dell'Interno non si sbilancia: «Non ho intenzione di dire quali: lo dirò prima al Consiglio dei ministri, essendo misure delicate, che riguardano terreni delicati come la libertà di espressione sul web e quella di manifestazione, ancorché in luoghi pubblici». C'è poco da dire: il clima è veramente esasperato. A farne le spese non Berlusconi, ma tutto il Paese, ordinamento compreso. Come si è arrivati a questo? Come mai oggi si respira quest'aria pesante? Di Pietro, subito dopo aver stigmatizzato l'aggressione al premier ha detto parole che hanno scatenato un terremoto politico: «Io non voglio che ci si mai violenza, ma Berlusconi con i suoi comportamenti e il suo menefraghismo istiga alla violenza», ha affermato il leader dell'Idv. Diciamolo: in questi anni Berlusconi si è preoccupato dei suoi affari e dei suoi problemi più che concepire politiche realmente sociali. E ha attaccato sempre Quirinale, magistratura e opposizione. Il clima di oggi è quello che piano piano si è costruito nel tempo. Quello a cui siamo giunti è quindi un punto di arrivo, su cui anche il premier ha le sue responsabilità - forse ben consapevoli. A Satiricon diceva satirico Daniele Luttazzi: «Di questo passo, dove andremo a finire? Ci siamo già».
(Editoriale per la puntata del 18 dicembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
Saturday, 12 December 2009
Italians
Berlusconi a Bonn ha dato spettacolo, o meglio, ha parlato e fatto parlare di sè. Proprio come nel 2003, quando sempre in sede di Unione europea (a Bonn era al congresso del Ppe, uno dei partiti dell'Ue) diede del capò all'europarlamentare Schultz. Ecco allora un video - noto e famoso - che ci ricorda come il nostro paese sia un'anomalia europea e dell'Unione euroopea. Fotogrammi per ridere, e per deridere.
Tuesday, 8 December 2009
In arrivo altri 750 milioni per le missioni all'estero. Che sono una trentina.
Dal Marocco all'India, passando per Malta, Georgia e Bahrein, ecco dove finiscono i soldi pubblici per gli impegni di pace armati.
di Emanuele Bonini - Quanto ci costano gli altri 1.000 soldati in Afghanistan? E' stato detto, finora oltre 8.300 euro l'anno pro-capite. E adesso la Finanziaria che si appresta ad essere approvata prevede 750 milioni di euro per le missioni all'estero. Che non è solo Afghanistan. Forse nessuno lo sa, o magari in molti se ne sono scordati, ma attualmente sono 33 le operazioni militari che vedono impegnati i contingenti italiani in 21 Paesi, per un totale di 9.100 militari schierati sul campo, secondo Sky Tg24. Per fare cosa? Per la stabilizzazione delle aree di crisi e "peacekeeping", vale a dire mantenimento della pace. Tre le aree dove sono numericamente più impiegati: la gran parte è stanziata in Afghanistan, in Libano e nell'area balcanica. Ma i nostri soldati, secondo documenti del ministero della Difesa, si trovano anche a Malta, Marocco, Sudan, Repubblica democratica del Congo, Cipro, India e Pakistan, Bosnia, Egitto, Emirati arabi, Bahrein e Georgia. Le fonti governative parlano di 8.730 militari impegnati "solo" in 30 operazioni in corso in "solo" 20 Paesi, ma i dati sono aggiornati ad agosto. Ad ogni modo resta indicativo il fatto di quanto si spenda nel settore militare e di come non altrettanto si faccia per le politiche sociali.
di Emanuele Bonini - Quanto ci costano gli altri 1.000 soldati in Afghanistan? E' stato detto, finora oltre 8.300 euro l'anno pro-capite. E adesso la Finanziaria che si appresta ad essere approvata prevede 750 milioni di euro per le missioni all'estero. Che non è solo Afghanistan. Forse nessuno lo sa, o magari in molti se ne sono scordati, ma attualmente sono 33 le operazioni militari che vedono impegnati i contingenti italiani in 21 Paesi, per un totale di 9.100 militari schierati sul campo, secondo Sky Tg24. Per fare cosa? Per la stabilizzazione delle aree di crisi e "peacekeeping", vale a dire mantenimento della pace. Tre le aree dove sono numericamente più impiegati: la gran parte è stanziata in Afghanistan, in Libano e nell'area balcanica. Ma i nostri soldati, secondo documenti del ministero della Difesa, si trovano anche a Malta, Marocco, Sudan, Repubblica democratica del Congo, Cipro, India e Pakistan, Bosnia, Egitto, Emirati arabi, Bahrein e Georgia. Le fonti governative parlano di 8.730 militari impegnati "solo" in 30 operazioni in corso in "solo" 20 Paesi, ma i dati sono aggiornati ad agosto. Ad ogni modo resta indicativo il fatto di quanto si spenda nel settore militare e di come non altrettanto si faccia per le politiche sociali.
Monday, 7 December 2009
Sul web la rassegna stampa settimanale. Libera a tutti.
Su radioliberatutti.it i principali avvenimenti dei 7 giorni "in salsa agro-dolce".
di Emiliano Biaggio
I principali avvenimenti della settimana rivisti e riletti alla luce degli sviluppi dei principali temi nazionali ed internazionali. Analisi puntuale delle notizie per una rassegna stampa settimanale su web realizzata attraverso gli articoli dei principali quotidiani, riletti con sottile e graffiante ironia per vivere il mondo di tutti i giorni in allegria. E' la stampa bellezza!, programma in onda tutti i venerdi su Rlt- Radio Libera Tutti, dalle 14.30 alle 16.00. Fatti, commenti, satira e apprfondimenti in una formula nuova e originale e frizzante per scoprire e gustare la bellezza e il divertimento dell'informazione e dell'essere informati. Una clip di apertura per riepilogare e presentare i temi della settimana, un editoriale introduttivo del tema - o dei temi - da dibattere, e a seguire la "tribuna politica" e tanto altro. Con Andrea, Davide e Simone in studio, e con interventi in diretta e in sede di esperti e opinionisti, dibattiti e focus per momenti di confronto e spunti di riflessione su politica, economia, società e - naturalmente - informazione.
di Emiliano Biaggio
I principali avvenimenti della settimana rivisti e riletti alla luce degli sviluppi dei principali temi nazionali ed internazionali. Analisi puntuale delle notizie per una rassegna stampa settimanale su web realizzata attraverso gli articoli dei principali quotidiani, riletti con sottile e graffiante ironia per vivere il mondo di tutti i giorni in allegria. E' la stampa bellezza!, programma in onda tutti i venerdi su Rlt- Radio Libera Tutti, dalle 14.30 alle 16.00. Fatti, commenti, satira e apprfondimenti in una formula nuova e originale e frizzante per scoprire e gustare la bellezza e il divertimento dell'informazione e dell'essere informati. Una clip di apertura per riepilogare e presentare i temi della settimana, un editoriale introduttivo del tema - o dei temi - da dibattere, e a seguire la "tribuna politica" e tanto altro. Con Andrea, Davide e Simone in studio, e con interventi in diretta e in sede di esperti e opinionisti, dibattiti e focus per momenti di confronto e spunti di riflessione su politica, economia, società e - naturalmente - informazione.
Saturday, 5 December 2009
Afghanistan, l'Italia invia altri 1.000 soldati
Fino a oggi la missione ci è costata più di 8.300 euro a testa ogni anno. Figuriamoci adesso.
di Emanuele Bonini
Gli Stati Uniti chiamano, l'Italia - ma non solo - risponde. Il presidente Usa Barack Obama chiede agli alleati altri soldati per l'Afghanistan, e il consiglio dei ministri dà il via libera all'invio di altri 1.000 uomini. Partiranno nel 2010, e si andranno ad aggiungere ai 2.700 già schierati. Ma chi pagherà la loro permanenza? Finora la guerra in Afghanistan ci è costata 2,4 miliardi di euro, una media di 300 milioni ogni anno, ma le stime dicono che attualmente le spese militari per il solo Afghanistan (abbiamo soldati anche in Libano) ha superato il mezzo miliardo. Ciò vuol dire che a ogni singolo italiano questa guerra costa più di 8.300 euro all'anno. Calcolare quanto costa al contribuente non è possibile, per via del fenomeno dell'evasione fiscale, ma certo è che con famiglie che nel nostro paese fanno fatica ad arrivare a fine mese, una simile voce di spesa significa andare a gravere ulteriormente sulla vita dei nuclei famigliari. Per cui un ulteriore aumento della spesa bellica rischia di diventare difficile da far digerire, e non solo al "tesoriere" Tremonti, ma anche agli elettori. Intanto però l'Italia aumenta il proprio impegno, caratterizzandosi come il paese alleato che ha messo in cantiere il più grande aumento di truppe. Il Governo, nella seduta del Cdm, ha comunque stabilito nel 2013 l'anno della fine della missione in Afghanistan: bisogna tirare la cinghia "solo" per altri tre o quattro anni. (fonte foto: Limes)
di Emanuele Bonini
Gli Stati Uniti chiamano, l'Italia - ma non solo - risponde. Il presidente Usa Barack Obama chiede agli alleati altri soldati per l'Afghanistan, e il consiglio dei ministri dà il via libera all'invio di altri 1.000 uomini. Partiranno nel 2010, e si andranno ad aggiungere ai 2.700 già schierati. Ma chi pagherà la loro permanenza? Finora la guerra in Afghanistan ci è costata 2,4 miliardi di euro, una media di 300 milioni ogni anno, ma le stime dicono che attualmente le spese militari per il solo Afghanistan (abbiamo soldati anche in Libano) ha superato il mezzo miliardo. Ciò vuol dire che a ogni singolo italiano questa guerra costa più di 8.300 euro all'anno. Calcolare quanto costa al contribuente non è possibile, per via del fenomeno dell'evasione fiscale, ma certo è che con famiglie che nel nostro paese fanno fatica ad arrivare a fine mese, una simile voce di spesa significa andare a gravere ulteriormente sulla vita dei nuclei famigliari. Per cui un ulteriore aumento della spesa bellica rischia di diventare difficile da far digerire, e non solo al "tesoriere" Tremonti, ma anche agli elettori. Intanto però l'Italia aumenta il proprio impegno, caratterizzandosi come il paese alleato che ha messo in cantiere il più grande aumento di truppe. Il Governo, nella seduta del Cdm, ha comunque stabilito nel 2013 l'anno della fine della missione in Afghanistan: bisogna tirare la cinghia "solo" per altri tre o quattro anni. (fonte foto: Limes)
Wednesday, 2 December 2009
Obama: «altri 40.000 soldati in Afghanistan. Per vincere»
Dall'accademia militare di West Point (New York), dove Bush lanciò la guerra preventiva al terrore, il presidente Nobel per la pace rilancia la campagna avviata dal suo predecessore.
di Emanuele Bonini
Trentamila soldati da inviare entro sei mesi, «per vincere» la guerra ai talebani, al fondamentalismo islamico e, quindi, al terrorismo. Una mobilitazione rapida per una vittoria rapida, almeno secondo i calcoli. Perchè secondo i piani di Barack Obama dall'estate 2011 i soldati statunitensi inizieranno a essere smobilitati. Il tanto atteso annuncio di un aumento di truppe in Afghanistan non ha deluso le aspettative: il presidente degli Stati Uniti ha confermato le voci circolate e le notizie trapelate negli ultimi giorni, per una decisione che va a rispondere alle richieste dello stato maggiore dell'esercito, che aveva sollecitato più uomini e mezzi per contrastare la controffensiva talebana nel paese. Perciò, adesso, ai 68.000 soldati già presenti sul territorio, se ne vanno ad aggiungere altre tre decine di migliaia, portando a 100.000 il numero degli uomini del solo contingente statunitense. Con l'America in recessione, e con un conflitto costato finora più di 230 miliardi di dollari, la Casa Bianca opta per una scelta che - secondo le stime - costerà all'Erario federale tra i 15 e i 30 miliardi di dollari l'anno. Obama, nel suo discorso, ha glissato sul come conta finanziare queste nuove ulteriori spese militari. Alla nazione, e ai contribuenti ormai stanchi di una campagna durata già otto anni, ha soltanto ricordato che in Afghanistan «è in gioco la sicurezza nazionale dell'America». Un messaggio che il presidente Usa rivolge anche agli alleati. «Questo fardello- sostiene Obama- non è soltanto il nostro. Non è soltanto la guerra dell’America». Alla comunità internazionale vengono chiesti 10.000 soldati, e a quanto pare ne sarebbero stati sollecitati 2.000 alla Germania, 1.500 ciascuno a Italia e Francia e 1.000 al Regno Unito, oltre ad altre 4.000 unità che proverrebbero da altri membri della Nato. Immediate le risposte della comunità internazionale: il premier britannico, Gordon Brown, fa sapere che invierà 500 uomini, mentre il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi garantisce che l'Italia «farà la sua parte». Persino la Spagna risponde all'appello statunitense, con il governo di Madrid che annuncia l'invio di 200 soldati. Da sottolineare la semplicità nel trovare uomini e mezzi per la campagna afghana e l'immediata disponibilità dei diversi paesi a dare ognuno il proprio contributo. Cose, queste, venute clamorosamente a mancare quando, appena due settimane fa, si chiedeva di individuare risorse e strategie per combattere la fame nel mondo. Allora tutti assenti, oggi tutti pronti a spendere. In tempo di crisi, per di più. Il gioco vale la candela? Difficile dirlo, certo è che «gli attacchi aumenteranno», annunciano i talebani. Ma Obama è sicuro: «l'Afghanistan non è perduto», e soprattutto, aggiunge, «non è un altro Vietnam». Meno male, con quello che ci costa... E non solo in termini economici: dal 2001 a oggi sono caduti sul campo 1.533 soldati, 486 solo quest'anno. Per non parlare delle decine di migliaia di vittime civili: solo nei primi mesi del 2009 ne sono state conteggiate 1.013, ben il 24% in più rispetto allo stesso periodo del 2008. Ma non deve soprendere, sono i numeri propri di una guerra, e in Afghanistan si combatte. Obama dice fino al 2011. Nel frattempo tutti resteranno a guardare. Anche chi, nel sud del mondo, riuscirà a non morire di fame.
di Emanuele Bonini
Trentamila soldati da inviare entro sei mesi, «per vincere» la guerra ai talebani, al fondamentalismo islamico e, quindi, al terrorismo. Una mobilitazione rapida per una vittoria rapida, almeno secondo i calcoli. Perchè secondo i piani di Barack Obama dall'estate 2011 i soldati statunitensi inizieranno a essere smobilitati. Il tanto atteso annuncio di un aumento di truppe in Afghanistan non ha deluso le aspettative: il presidente degli Stati Uniti ha confermato le voci circolate e le notizie trapelate negli ultimi giorni, per una decisione che va a rispondere alle richieste dello stato maggiore dell'esercito, che aveva sollecitato più uomini e mezzi per contrastare la controffensiva talebana nel paese. Perciò, adesso, ai 68.000 soldati già presenti sul territorio, se ne vanno ad aggiungere altre tre decine di migliaia, portando a 100.000 il numero degli uomini del solo contingente statunitense. Con l'America in recessione, e con un conflitto costato finora più di 230 miliardi di dollari, la Casa Bianca opta per una scelta che - secondo le stime - costerà all'Erario federale tra i 15 e i 30 miliardi di dollari l'anno. Obama, nel suo discorso, ha glissato sul come conta finanziare queste nuove ulteriori spese militari. Alla nazione, e ai contribuenti ormai stanchi di una campagna durata già otto anni, ha soltanto ricordato che in Afghanistan «è in gioco la sicurezza nazionale dell'America». Un messaggio che il presidente Usa rivolge anche agli alleati. «Questo fardello- sostiene Obama- non è soltanto il nostro. Non è soltanto la guerra dell’America». Alla comunità internazionale vengono chiesti 10.000 soldati, e a quanto pare ne sarebbero stati sollecitati 2.000 alla Germania, 1.500 ciascuno a Italia e Francia e 1.000 al Regno Unito, oltre ad altre 4.000 unità che proverrebbero da altri membri della Nato. Immediate le risposte della comunità internazionale: il premier britannico, Gordon Brown, fa sapere che invierà 500 uomini, mentre il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi garantisce che l'Italia «farà la sua parte». Persino la Spagna risponde all'appello statunitense, con il governo di Madrid che annuncia l'invio di 200 soldati. Da sottolineare la semplicità nel trovare uomini e mezzi per la campagna afghana e l'immediata disponibilità dei diversi paesi a dare ognuno il proprio contributo. Cose, queste, venute clamorosamente a mancare quando, appena due settimane fa, si chiedeva di individuare risorse e strategie per combattere la fame nel mondo. Allora tutti assenti, oggi tutti pronti a spendere. In tempo di crisi, per di più. Il gioco vale la candela? Difficile dirlo, certo è che «gli attacchi aumenteranno», annunciano i talebani. Ma Obama è sicuro: «l'Afghanistan non è perduto», e soprattutto, aggiunge, «non è un altro Vietnam». Meno male, con quello che ci costa... E non solo in termini economici: dal 2001 a oggi sono caduti sul campo 1.533 soldati, 486 solo quest'anno. Per non parlare delle decine di migliaia di vittime civili: solo nei primi mesi del 2009 ne sono state conteggiate 1.013, ben il 24% in più rispetto allo stesso periodo del 2008. Ma non deve soprendere, sono i numeri propri di una guerra, e in Afghanistan si combatte. Obama dice fino al 2011. Nel frattempo tutti resteranno a guardare. Anche chi, nel sud del mondo, riuscirà a non morire di fame.
Tuesday, 1 December 2009
«Berlusconi confonde leadership con monarchia assoluta». Fini parla fuorionda e si apre il caso.
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Galeotto fu il microfono. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, non si accorge che la trasmittente della telecamera è in funzione e commenta gli ultimi avvenimenti politici, partendo dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Spatuzza. «Spero facciano riscontri con scrupolo... Se quello che dice è vero è una bomba atomica...». Fini si lascia andare in dichiarazioni a tutto campo, e a proposito del premier dice: «Berlusconi confonde leadership con monarchia assoluta». Subito scoppia il caso. «Fini non sa cosa sia la riconoscenza», commenta Paolo Romani, viceministro allo Sviluppo economico con delega alle comunicazioni. da parte sua un messaggio di un certo tipo. Luca Cordero di Montezemolo, ironizza: Fini?
«E' il presidente della Camera, per il momento...». C'è chi sostiene che scherzando si dicano grandi verità, e allora probabilmente il presidente della Fiat rischia di non andare lontano dal vero. Il Pdl al momento minimizza, ma il portavoce del partito, Daniele Capezzone, è lapidario: «Tocca al presidente della Camera spiegare il senso delle sue parole». Parole che suonano come un vero e proprio richiamo all'ordine. Ed ecco allora le precisazioni del portavoce di Fini, Fabrizio Alfano: «Il presidente della Camera si riferiva a quanto emerso dagli organi di informazione nel corso delle ultime settimane relativamente alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Brusca, Ciancimino e Spatuzza, in ordine alle quali intendeva sottolineare la necessità di riscontrare con il massimo scrupolo l'attendibilità delle loro parole». Ma precisazioni a parte, nel Pdl è sempre più crisi interna. Emiliano Biaggio (fonte video: la Repubblica)
Galeotto fu il microfono. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, non si accorge che la trasmittente della telecamera è in funzione e commenta gli ultimi avvenimenti politici, partendo dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Spatuzza. «Spero facciano riscontri con scrupolo... Se quello che dice è vero è una bomba atomica...». Fini si lascia andare in dichiarazioni a tutto campo, e a proposito del premier dice: «Berlusconi confonde leadership con monarchia assoluta». Subito scoppia il caso. «Fini non sa cosa sia la riconoscenza», commenta Paolo Romani, viceministro allo Sviluppo economico con delega alle comunicazioni. da parte sua un messaggio di un certo tipo. Luca Cordero di Montezemolo, ironizza: Fini?
«E' il presidente della Camera, per il momento...». C'è chi sostiene che scherzando si dicano grandi verità, e allora probabilmente il presidente della Fiat rischia di non andare lontano dal vero. Il Pdl al momento minimizza, ma il portavoce del partito, Daniele Capezzone, è lapidario: «Tocca al presidente della Camera spiegare il senso delle sue parole». Parole che suonano come un vero e proprio richiamo all'ordine. Ed ecco allora le precisazioni del portavoce di Fini, Fabrizio Alfano: «Il presidente della Camera si riferiva a quanto emerso dagli organi di informazione nel corso delle ultime settimane relativamente alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Brusca, Ciancimino e Spatuzza, in ordine alle quali intendeva sottolineare la necessità di riscontrare con il massimo scrupolo l'attendibilità delle loro parole». Ma precisazioni a parte, nel Pdl è sempre più crisi interna. Emiliano Biaggio (fonte video: la Repubblica)
Monday, 30 November 2009
A proposito di immigrati
Si, sono tra noi. Ma anche se noi li vediamo come extra-terrestri, gli extra-comunitari sono proprio come noi. Due mani, due gambe, due occhi, un sangue rosso che scorre nelle vene. E talvolta anche più sfruttati di noi. Lavorano in nero, proprio come noi. E quelli in regola, versano i contributi all'Inps. Proprio come noi. E allora, in cosa sono diversi? E se fossimo noi quelli strani? (clicca sull'immagine)
Saturday, 28 November 2009
Dalla finanziaria scricchiolii di democrazia
L'e-dittoreale
Immigrati sì, immigrati no. La finanziaria ripropone ancora una volta uno dei tormentoni di questi tempi, ovver ocome comèportarsi nei confronti degli stranieri. Anche quelli in regola. La manovra infatti prevedeva un emendamento - presentato dalla Lega - che poneva un limite temporale di sei mesi per gli ammortizzatori sociali agli extracomunitari. Solo a loro. Un principio in contrasto con i principi di eguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione, ma in contrasto anche con l'idea stessa di democrazia. E in contrasto anche con quelle radici, quei valori e quei principi cristiani che tanto l'Italia sbandiera ogni qul volta sono messi in discussione. Per cui a fronte delle proteste dell'opposizione (emendamento «incivile» secondo la deputata Pd Giovanna Melandri), delle critiche del governo stesso (il ministro del Welfare Maurizio Sacconi per l'occasione ricorda che «gli ammortizzatori sociali ordinari corrispondono a diritti soggettivi dei lavoratori») e il monito della Chiesa («anche Gesù era un migrante», ricorda il pontefice), Maurizio Fugatti, deputato del Carroccio e "padre" dell'emendamento della discordia, si vede costretto a fare marcia indietro. «Resto convinto delle idee espresse riguardo all'emendamento sulla cassa integrazione agli extracomunitari», tiene a precisare il leghista. Che aggiunge: «Vista però la contrarietà del ministro del Welfare Sacconi, non è mia intenzione creare problemi alla maggiranza e quindi l'emendamento in questione sarà ritirato». Allarme rientrato quindi. Anzi, no. Perchè per sua stessa ammissione Fugatti riconosce di non essere pentito e di non essere nel torto: questo è il problema. Si fa un gran parlare delle "generazioni Balotelli"- e queste generazioni, come insegna lo stesso Balotelli, si trovano anche nel nord padano - ma poi si tende a discriminarle. Perchè di questo si tratta, di discriminazione. Come altro definire l'emendamento presentato in Finanziaria e per di più approvato? In questi ultimi anni in molti hanno gradito - più o meno legittimamente - al regime. Certo è che se si rimettono in discussione principi come uguaglianza - e quindi parità di diritti - si rimette in discussione anche il concetto stesso di democrazia. Lo sa bene il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che vede nei continui strappi Parlamento-Governo-Magistratura motivi di preoccupazione in quanto su questi poteri - separati - la democrazia si basa. Per cui, afferma il capo dello Stato, «è indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione». Inoltre, continua Napolitano, «spetta al Parlamento esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia». Un messaggio dovuto, visti gli scontri e le voglie di rivedere il sistema giustizia, uno dei tre poteri. Non che le rifrome non debbano essere fatte, ma come tutte le cose bisognerebbe capire le modalità. Il rischio è che la magistratura possa essere indebolita - nella misura in cui non possa operare - con uno squilibrio di poteri. Del resto se si inizia a sdoganare, non si sa più dove si può arrivare. E l'Italia si è già spinta troppo oltre. La Costituzione attuale è il documento che sancisce la natura antifascista dell'Italia, la dimostrazione di un paese che ha ripudiato modelli autoritari, liberticidi e iniqui per ideali di democrazia, libertà, uguaglianza e parità di diritti. Siamo allora sotto un nuovo regime? Certamente ci sono derive anti-democratiche che devono suonare come campanelli d'allarme. Oggi la Lega fa dietro front, ma domani?
Immigrati sì, immigrati no. La finanziaria ripropone ancora una volta uno dei tormentoni di questi tempi, ovver ocome comèportarsi nei confronti degli stranieri. Anche quelli in regola. La manovra infatti prevedeva un emendamento - presentato dalla Lega - che poneva un limite temporale di sei mesi per gli ammortizzatori sociali agli extracomunitari. Solo a loro. Un principio in contrasto con i principi di eguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione, ma in contrasto anche con l'idea stessa di democrazia. E in contrasto anche con quelle radici, quei valori e quei principi cristiani che tanto l'Italia sbandiera ogni qul volta sono messi in discussione. Per cui a fronte delle proteste dell'opposizione (emendamento «incivile» secondo la deputata Pd Giovanna Melandri), delle critiche del governo stesso (il ministro del Welfare Maurizio Sacconi per l'occasione ricorda che «gli ammortizzatori sociali ordinari corrispondono a diritti soggettivi dei lavoratori») e il monito della Chiesa («anche Gesù era un migrante», ricorda il pontefice), Maurizio Fugatti, deputato del Carroccio e "padre" dell'emendamento della discordia, si vede costretto a fare marcia indietro. «Resto convinto delle idee espresse riguardo all'emendamento sulla cassa integrazione agli extracomunitari», tiene a precisare il leghista. Che aggiunge: «Vista però la contrarietà del ministro del Welfare Sacconi, non è mia intenzione creare problemi alla maggiranza e quindi l'emendamento in questione sarà ritirato». Allarme rientrato quindi. Anzi, no. Perchè per sua stessa ammissione Fugatti riconosce di non essere pentito e di non essere nel torto: questo è il problema. Si fa un gran parlare delle "generazioni Balotelli"- e queste generazioni, come insegna lo stesso Balotelli, si trovano anche nel nord padano - ma poi si tende a discriminarle. Perchè di questo si tratta, di discriminazione. Come altro definire l'emendamento presentato in Finanziaria e per di più approvato? In questi ultimi anni in molti hanno gradito - più o meno legittimamente - al regime. Certo è che se si rimettono in discussione principi come uguaglianza - e quindi parità di diritti - si rimette in discussione anche il concetto stesso di democrazia. Lo sa bene il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che vede nei continui strappi Parlamento-Governo-Magistratura motivi di preoccupazione in quanto su questi poteri - separati - la democrazia si basa. Per cui, afferma il capo dello Stato, «è indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione». Inoltre, continua Napolitano, «spetta al Parlamento esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia». Un messaggio dovuto, visti gli scontri e le voglie di rivedere il sistema giustizia, uno dei tre poteri. Non che le rifrome non debbano essere fatte, ma come tutte le cose bisognerebbe capire le modalità. Il rischio è che la magistratura possa essere indebolita - nella misura in cui non possa operare - con uno squilibrio di poteri. Del resto se si inizia a sdoganare, non si sa più dove si può arrivare. E l'Italia si è già spinta troppo oltre. La Costituzione attuale è il documento che sancisce la natura antifascista dell'Italia, la dimostrazione di un paese che ha ripudiato modelli autoritari, liberticidi e iniqui per ideali di democrazia, libertà, uguaglianza e parità di diritti. Siamo allora sotto un nuovo regime? Certamente ci sono derive anti-democratiche che devono suonare come campanelli d'allarme. Oggi la Lega fa dietro front, ma domani?
Friday, 27 November 2009
Crisi, Tremonti vede vie d'uscita, Fiat ed Eutelia lo smentiscono
A rischio quasi 4.000 posti di lavoro. E Marchionne pensa ad una delocalizzazione in Polonia.
di Emiliano Biaggio*
«Può essere che chiudiamo il 2010 con un segno positivo del Pil». Parola di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia di un governo secondo cui - a sentire il titolare degli Esteri Franco Frattini - «siamo il paese che guida la ripresa economica in Europa». Ma l'esecutivo è costretto a fare bene i propri calcoli, perchè c'è ripresa solo se c'è un sistema produttivo funzionante, mentre in Italia sembra invece esserci un sistema in seria difficoltà, se non addirittura in crisi. Lo dimostra l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, che svela il piano della casa automobilistica torinese: chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e produzione delocalizzata in Polonia. Una scelta che fa insorgere i sindacati e che viene definita «folle» dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Immediata la replica di Marchionne: «Prima di usare un linguaggio pesante come "follia", uno dovrebbe capire i dati», sostiene l'ad di Fiat. «Siamo pronti a discutere- dice- ma non si può pensare di tenere tutti gli stabilimenti aperti». Un discorso che vale anche per Eutelia: il quarto operatore di telecomunicazioni in Italia minaccia di chiudere i battenti causa crisi aziendale. Nulla a che vedere con la congiuntura economica internazionale, ma poco importa, perchè se anche la chiusura di Eutelia fosse dettata dalla crisi economico-finanziaria globale, il destino dei circa duemila dipendenti non sarebbe certo diverso. Dopo Termini Imerese, ecco allora un'altra situazione spinosa per il governo, che si vede privato di forza lavoro proprio mentre vaticina riprese economiche. Dati alla mano, i dipendenti a rischio licenziamento a Termini Imerese sono 1.370, ai quali si aggiungono gli altri 800 lavoratori dell'indotto. Nel 2010 l'Italia rischia quindi di trovarsi con almeno quattromila disoccupati in più. Numeri da crisi, ma del resto Tremonti è stato chiaro: «Può essere che chiudiamo il 2010 con un segno positivo del Pil». Può essere.
* Editoriale per la trasmissione radiofonica E' la stampa bellezza del 27 novembre 2009
di Emiliano Biaggio*
«Può essere che chiudiamo il 2010 con un segno positivo del Pil». Parola di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia di un governo secondo cui - a sentire il titolare degli Esteri Franco Frattini - «siamo il paese che guida la ripresa economica in Europa». Ma l'esecutivo è costretto a fare bene i propri calcoli, perchè c'è ripresa solo se c'è un sistema produttivo funzionante, mentre in Italia sembra invece esserci un sistema in seria difficoltà, se non addirittura in crisi. Lo dimostra l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, che svela il piano della casa automobilistica torinese: chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e produzione delocalizzata in Polonia. Una scelta che fa insorgere i sindacati e che viene definita «folle» dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Immediata la replica di Marchionne: «Prima di usare un linguaggio pesante come "follia", uno dovrebbe capire i dati», sostiene l'ad di Fiat. «Siamo pronti a discutere- dice- ma non si può pensare di tenere tutti gli stabilimenti aperti». Un discorso che vale anche per Eutelia: il quarto operatore di telecomunicazioni in Italia minaccia di chiudere i battenti causa crisi aziendale. Nulla a che vedere con la congiuntura economica internazionale, ma poco importa, perchè se anche la chiusura di Eutelia fosse dettata dalla crisi economico-finanziaria globale, il destino dei circa duemila dipendenti non sarebbe certo diverso. Dopo Termini Imerese, ecco allora un'altra situazione spinosa per il governo, che si vede privato di forza lavoro proprio mentre vaticina riprese economiche. Dati alla mano, i dipendenti a rischio licenziamento a Termini Imerese sono 1.370, ai quali si aggiungono gli altri 800 lavoratori dell'indotto. Nel 2010 l'Italia rischia quindi di trovarsi con almeno quattromila disoccupati in più. Numeri da crisi, ma del resto Tremonti è stato chiaro: «Può essere che chiudiamo il 2010 con un segno positivo del Pil». Può essere.
* Editoriale per la trasmissione radiofonica E' la stampa bellezza del 27 novembre 2009
Saturday, 21 November 2009
Gestione delle risorse idriche ai privati, in Italia scoppia la guerra dell'acqua
Via libera di Montecitorio al decreto che sottrae "l'oro blu" alla sfera pubblica. Ronchi: «Critiche strumentali, non c'è privatizzazione». L'Idv: «Pronti al referendum»
di Emiliano Biaggio
Con 320 voti favorevoli e 270 contrari la Camera dei deputati vota la fiducia al decreto 'salva-infrazioni', anche detto 'decreto Ronchi', che tra le altre cose affida ai privati la gestione delle risorse idriche. Il ministro per le Politiche europee Andrea Ronchi, che dà il nome al provvedimento, sostiene che parlare di privatizzazione dell'acqua è «una semplificazione strumentale», e assicura che «l'acqua era, resta e sarà un bene pubblico non privatizzabile». I principi contenuti nell'articolo 15 del decreto, aggiunge Ronchi, «ribadiscono e rafforzano questo concetto». Il ministro fa riferimento ad un emendamento presentato dal Pd - e approvato dall'aula - che sancisce la natura pubblica delle risorse idriche. Una dichiarazione, in sostanza, di principio, che resta povera di significati di fronte alla realtà. E la realtà è che l'approvvigionamento alla fonte, il trasporto e la commercializzazione dell'acqua finisce nelle mani dei privati. Per chi ha dato nome al decreto, dunque nessun problema, solo polemiche sterili e «strumentali». Peccato però che nel testo non è prevista l'istituzione di alcuna Autorità garante. Cosa significa questo? Che sono in ballo «garanzia degli interessi dei cittadini e una corretta regolazione del settore», avverte Filippo Bubbico, capogruppo Pd in commissione Industria del Senato. L'ulteriore rischio, sottolinea il senatore Pd Roberto Della Seta, «è che ai privati vadano i profitti della gestione dell'acqua e allo Stato rimangano gli oneri della manutenzione delle reti, che come è noto sono un colabrodo e perdono circa un terzo dell'acqua». Immediate le repliche del Pdl, con l'europarlamentare Giovanni Collino, responsabile enti locali del Popolo della libertà, secondo cui «sul decreto Ronchi la sinistra, sapendo di mentire, sta agitando il rischio privatizzazione dell'acqua perchè in realtà non ha una controproposta seria da offrire al dibattito». Ma le polemiche non si placano, e nel dibattito intervienene anche il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che giudica «gravissime» disposizioni e conseguenze del decreto. Il Forum dei movimenti per l'acqua insorge: il provvedimento del governo «non tiene conto dell'orientamento popolare che si è già espresso con oltre 400.000 firme raccolte sulla legge di iniziativa popolare». Insieme all'opposizione (Pd e soprattutto Idv) e alla sinistra extraparlamentare (Prc, Sinistra e libertà, e Verdi) «si valuterà la questione del Referendum abrogativo della norma», fa sapere l'organizzazione. E qualcuno la valutazione l'ha già fatta. «Il gruppo Italia dei Valori ha stabilito come unica possibilità rimasta quella di organizzare un referendum abrogativo», fa sapere il deputato dell'Idv Domenico Scilipoti. Insomma, in Italia la guerra dell'acqua è iniziata.
(Seconda parte dell'editoriale della puntata del 20 novembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
Con 320 voti favorevoli e 270 contrari la Camera dei deputati vota la fiducia al decreto 'salva-infrazioni', anche detto 'decreto Ronchi', che tra le altre cose affida ai privati la gestione delle risorse idriche. Il ministro per le Politiche europee Andrea Ronchi, che dà il nome al provvedimento, sostiene che parlare di privatizzazione dell'acqua è «una semplificazione strumentale», e assicura che «l'acqua era, resta e sarà un bene pubblico non privatizzabile». I principi contenuti nell'articolo 15 del decreto, aggiunge Ronchi, «ribadiscono e rafforzano questo concetto». Il ministro fa riferimento ad un emendamento presentato dal Pd - e approvato dall'aula - che sancisce la natura pubblica delle risorse idriche. Una dichiarazione, in sostanza, di principio, che resta povera di significati di fronte alla realtà. E la realtà è che l'approvvigionamento alla fonte, il trasporto e la commercializzazione dell'acqua finisce nelle mani dei privati. Per chi ha dato nome al decreto, dunque nessun problema, solo polemiche sterili e «strumentali». Peccato però che nel testo non è prevista l'istituzione di alcuna Autorità garante. Cosa significa questo? Che sono in ballo «garanzia degli interessi dei cittadini e una corretta regolazione del settore», avverte Filippo Bubbico, capogruppo Pd in commissione Industria del Senato. L'ulteriore rischio, sottolinea il senatore Pd Roberto Della Seta, «è che ai privati vadano i profitti della gestione dell'acqua e allo Stato rimangano gli oneri della manutenzione delle reti, che come è noto sono un colabrodo e perdono circa un terzo dell'acqua». Immediate le repliche del Pdl, con l'europarlamentare Giovanni Collino, responsabile enti locali del Popolo della libertà, secondo cui «sul decreto Ronchi la sinistra, sapendo di mentire, sta agitando il rischio privatizzazione dell'acqua perchè in realtà non ha una controproposta seria da offrire al dibattito». Ma le polemiche non si placano, e nel dibattito intervienene anche il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che giudica «gravissime» disposizioni e conseguenze del decreto. Il Forum dei movimenti per l'acqua insorge: il provvedimento del governo «non tiene conto dell'orientamento popolare che si è già espresso con oltre 400.000 firme raccolte sulla legge di iniziativa popolare». Insieme all'opposizione (Pd e soprattutto Idv) e alla sinistra extraparlamentare (Prc, Sinistra e libertà, e Verdi) «si valuterà la questione del Referendum abrogativo della norma», fa sapere l'organizzazione. E qualcuno la valutazione l'ha già fatta. «Il gruppo Italia dei Valori ha stabilito come unica possibilità rimasta quella di organizzare un referendum abrogativo», fa sapere il deputato dell'Idv Domenico Scilipoti. Insomma, in Italia la guerra dell'acqua è iniziata.
(Seconda parte dell'editoriale della puntata del 20 novembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
Friday, 20 November 2009
Wednesday, 18 November 2009
Condannati a morte
Il mondo volta pagina, o meglio, si volta dall'altra parte. L'impegno alla riduzione del numero degli affamati si ferma, e i sottonutriti sono sempre di più.
di Emiliano Biaggio
Nel 2000, quando si decise di arrivare a dimezzare il numero degli affamati, la fame nel mondo colpiva 800 milioni di persone. Oggi ne colpisce un miliardo. Dopo nove anni, dunque, nulla è stato fatto. Non solo: nel 2000 si indicò il 2025 il termine ultimo entro cui sconfiggere la fame. Adesso il documento finale del vertice di Roma si limita a dire che bisogna cancellare la fame «il prima possibile». Il mondo si ferma, e inizia a voltarsi dall'altra parte. Fino a pochi anni fa, almeno c'erano impegni, seppur sulla carta. Adesso non ci sono più nemmeno quelli. E ciò nonostante «oggi nel mondo muoiono 17.000 bambini al giorno, sei milioni all'anno, uno ogni cinque secondi», denuncia il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon. Una vergogna. «Il cibo è un diritto di tutti», afferma Benedetto XVI, che giudica «inaccettabili opulenza e spreco». Ma il Pontefice, alla fine, "si dimentica" di parlare di impegni finanziari per contrastare la povertà, ed evita ai paesi più ricchi e avanzati di mettersi in gioco. Nel documento finale solo principi vaghi e generali, e di risorse nemmeno l'ombra: restano solo i 20 miliardi in tre anni promessi nel G8 dell'Aquila. Soldi ancora non visti, ma comunque ben poca cosa rispetto ai 44 miliardi di dollari all'anno a sostegno dell'agricoltura locale chiesti dal presidente della Fao, Jacques Diouf. Il vertice sulla sicurezza alimentare è stato un flop, certificato dall'assenza dei "grandi otto" del pianeta. Anche se, a ben vedere, non erano solo loro a mancare. Perde tutta la comunità internazionale, che alla Fao assiste anche all'intervento di Robert Mugabe, quel leader controverso e molto discusso, considerato da buona parte del mondo un dittatore sanguinario. Sarà per questo che i grandi del pianeta hanno disertatato? Per isolare Mugabe? No. Sulla piaga mondiale della fame, il messaggio silenzioso lanciato è: "Potremmo, ma non vogliamo". Di fronte a tutto questo resta un'amara considerazione: per le spese militari (vogliamo chiamarle "missioni di pace"?) i governi rifinanziano e continuano a rifinanziare. La direzione è chiara e - ammesso che sia umanitaria - non è però umana.
(Prima parte dell'editoriale della puntata del 20 novembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
di Emiliano Biaggio
Nel 2000, quando si decise di arrivare a dimezzare il numero degli affamati, la fame nel mondo colpiva 800 milioni di persone. Oggi ne colpisce un miliardo. Dopo nove anni, dunque, nulla è stato fatto. Non solo: nel 2000 si indicò il 2025 il termine ultimo entro cui sconfiggere la fame. Adesso il documento finale del vertice di Roma si limita a dire che bisogna cancellare la fame «il prima possibile». Il mondo si ferma, e inizia a voltarsi dall'altra parte. Fino a pochi anni fa, almeno c'erano impegni, seppur sulla carta. Adesso non ci sono più nemmeno quelli. E ciò nonostante «oggi nel mondo muoiono 17.000 bambini al giorno, sei milioni all'anno, uno ogni cinque secondi», denuncia il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon. Una vergogna. «Il cibo è un diritto di tutti», afferma Benedetto XVI, che giudica «inaccettabili opulenza e spreco». Ma il Pontefice, alla fine, "si dimentica" di parlare di impegni finanziari per contrastare la povertà, ed evita ai paesi più ricchi e avanzati di mettersi in gioco. Nel documento finale solo principi vaghi e generali, e di risorse nemmeno l'ombra: restano solo i 20 miliardi in tre anni promessi nel G8 dell'Aquila. Soldi ancora non visti, ma comunque ben poca cosa rispetto ai 44 miliardi di dollari all'anno a sostegno dell'agricoltura locale chiesti dal presidente della Fao, Jacques Diouf. Il vertice sulla sicurezza alimentare è stato un flop, certificato dall'assenza dei "grandi otto" del pianeta. Anche se, a ben vedere, non erano solo loro a mancare. Perde tutta la comunità internazionale, che alla Fao assiste anche all'intervento di Robert Mugabe, quel leader controverso e molto discusso, considerato da buona parte del mondo un dittatore sanguinario. Sarà per questo che i grandi del pianeta hanno disertatato? Per isolare Mugabe? No. Sulla piaga mondiale della fame, il messaggio silenzioso lanciato è: "Potremmo, ma non vogliamo". Di fronte a tutto questo resta un'amara considerazione: per le spese militari (vogliamo chiamarle "missioni di pace"?) i governi rifinanziano e continuano a rifinanziare. La direzione è chiara e - ammesso che sia umanitaria - non è però umana.
(Prima parte dell'editoriale della puntata del 20 novembre 2009 di E' la stampa bellezza, in onda su Radio Libera Tutti.)
Monday, 16 November 2009
«Recuperare le aree dismesse». Ecco la rivoluzione "verde" della Lega
Mentre il governo lavora al piano casa, il Carroccio ha in cantiere una legge sull'edilizia sostenibile. Che Angelo Alessandri, presidente commissione Ambiente alla Camera, vuole in vigore molto presto.
di Emiliano Biaggio
Risparmio energetico, energie prodotte da fonti rinnovabili e strutture realizzate con materiali a basso impatto ambientale. In Italia i progetti per edifici "verdi" e un'edilizia sostenibile ci sono, e «ce ne sono molti», ma restano tutti sulla carta. O meglio, chiusi in qualche cassetto o "dimenticati" in qualche ufficio. Già, perchè «la burocrazia impedisce a questi progetti di di partire e di essere realizzati». Che si tratti di «progetti estemporanei» o di piani ben definiti, non fa differenza: «la burocrazia frena» le aspirazioni "verdi" del nostro paese nell'eco-edilizia. Questa l'Italia che "dipinge" il presidente della commissione Ambiente della Camera, Angelo Alessandri, che della sostenibilità dei nostri edifici ha fatto una sua battaglia. Una battaglia "suggerita", verrebbe da dire. «Sono stato in Svezia, e lì, ad Hammarby (zona di Stoccolma, ndr), è stato realizzato un quartiere intero esclusivamente con criteri di sostenibilità ambientale. Addirittura- aggiunge- hanno un sistema di posta pneumatica sotterranea che evita il passaggio del postino». E questo quartiere, evidenzia il deputato della Lega, attraverso «il recupero di aree dismesse e capannoni abbandonati». E in Italia? Tutto fermo, almeno per ora. Perchè il gruppo della Lega alla Camera - Alessandri in testa - ha concepito una proposta di legge, il 'Sistema casa-qualità', che vuole «dare impulso» ai progetti italiani fermi, sul modello dell'esperienza svedese. La proposta di legge, che «ha terminato la fase istruttoria» e che adesso «si spera di renderla legge a breve», si basa su un principio fondamentale: «il recupero degli impianti dismessi e delle case abbandonate», spiega il deputato leghista. La logica della bozza, evidenzia, è questa: «E' meglio intervenire qui che costruire nuovi edifici».
I vantaggi sono diversi: evitare nuove colate di cemento permette di non aggravare il problema del dissesto idrogeologico, e dall'altra «bonificare questi siti permette di risanare un'area le falde o il territorio, che altrimenti non verrebbe mai recuperato». E poi c'è l'altro aspetto ambientale: dati ancora non se ne hanno, ma un recupero di queste aree con criteri di sostenibilità permetterà «un notevole abbattimento di CO2», addirittura anche a «emissioni quasi zero», assicura Alessandri.
Il progetto, però, costa, e «soldi pubblici da investire al momento non ci sono». Per portare avanti il 'Sistema casa-qualità', allora, spazio ai privati. «Con il project financing si possono trovare le risorse per finanziare i progetti», assicura. Del resto ad Hammarby, l'eco-quartiere di Stoccolma, «dei 4,5 miliardi spesi per "creare" il quartiere, solo 200 milioni erano fondi pubblici». Per ingolosire i privati e coinvolgerli nel progetto, sono previsti «incentivi finanziari e premi», ma quello che occorre è «semplificazione» procedurale. Insomma, l'edilizia "verde", almeno sulla carta può partire. Le idee fino a oggi accantonate verranno realizzate? «Noi siamo fiduciosi. Contiamo di avere la legge dopo la Finanziaria, e il prossimo anno vedremo i primi grandi progetti«, conclude Alessandri.
di Emiliano Biaggio
Risparmio energetico, energie prodotte da fonti rinnovabili e strutture realizzate con materiali a basso impatto ambientale. In Italia i progetti per edifici "verdi" e un'edilizia sostenibile ci sono, e «ce ne sono molti», ma restano tutti sulla carta. O meglio, chiusi in qualche cassetto o "dimenticati" in qualche ufficio. Già, perchè «la burocrazia impedisce a questi progetti di di partire e di essere realizzati». Che si tratti di «progetti estemporanei» o di piani ben definiti, non fa differenza: «la burocrazia frena» le aspirazioni "verdi" del nostro paese nell'eco-edilizia. Questa l'Italia che "dipinge" il presidente della commissione Ambiente della Camera, Angelo Alessandri, che della sostenibilità dei nostri edifici ha fatto una sua battaglia. Una battaglia "suggerita", verrebbe da dire. «Sono stato in Svezia, e lì, ad Hammarby (zona di Stoccolma, ndr), è stato realizzato un quartiere intero esclusivamente con criteri di sostenibilità ambientale. Addirittura- aggiunge- hanno un sistema di posta pneumatica sotterranea che evita il passaggio del postino». E questo quartiere, evidenzia il deputato della Lega, attraverso «il recupero di aree dismesse e capannoni abbandonati». E in Italia? Tutto fermo, almeno per ora. Perchè il gruppo della Lega alla Camera - Alessandri in testa - ha concepito una proposta di legge, il 'Sistema casa-qualità', che vuole «dare impulso» ai progetti italiani fermi, sul modello dell'esperienza svedese. La proposta di legge, che «ha terminato la fase istruttoria» e che adesso «si spera di renderla legge a breve», si basa su un principio fondamentale: «il recupero degli impianti dismessi e delle case abbandonate», spiega il deputato leghista. La logica della bozza, evidenzia, è questa: «E' meglio intervenire qui che costruire nuovi edifici».
I vantaggi sono diversi: evitare nuove colate di cemento permette di non aggravare il problema del dissesto idrogeologico, e dall'altra «bonificare questi siti permette di risanare un'area le falde o il territorio, che altrimenti non verrebbe mai recuperato». E poi c'è l'altro aspetto ambientale: dati ancora non se ne hanno, ma un recupero di queste aree con criteri di sostenibilità permetterà «un notevole abbattimento di CO2», addirittura anche a «emissioni quasi zero», assicura Alessandri.
Il progetto, però, costa, e «soldi pubblici da investire al momento non ci sono». Per portare avanti il 'Sistema casa-qualità', allora, spazio ai privati. «Con il project financing si possono trovare le risorse per finanziare i progetti», assicura. Del resto ad Hammarby, l'eco-quartiere di Stoccolma, «dei 4,5 miliardi spesi per "creare" il quartiere, solo 200 milioni erano fondi pubblici». Per ingolosire i privati e coinvolgerli nel progetto, sono previsti «incentivi finanziari e premi», ma quello che occorre è «semplificazione» procedurale. Insomma, l'edilizia "verde", almeno sulla carta può partire. Le idee fino a oggi accantonate verranno realizzate? «Noi siamo fiduciosi. Contiamo di avere la legge dopo la Finanziaria, e il prossimo anno vedremo i primi grandi progetti«, conclude Alessandri.
Sunday, 15 November 2009
Preghiera al dio vino
Padre nostro che sei in cantina,
sia lodata la tua medicina;
venga a noi il tuo buon vino
purché sia siano e genuino.
Sia fatta la sua volontà,
nel goderne in quantità.
Dacci oggi la nostra dose quotidiana
e riempi i nostri bicchieri
come noi li riempiamo ai nostri bevitori;
e non ci indurre all'astemia,
ma liberaci dall'acqua e così sia.
(culto abruzzese, composta dai devoti di Cese dei Marsi)
sia lodata la tua medicina;
venga a noi il tuo buon vino
purché sia siano e genuino.
Sia fatta la sua volontà,
nel goderne in quantità.
Dacci oggi la nostra dose quotidiana
e riempi i nostri bicchieri
come noi li riempiamo ai nostri bevitori;
e non ci indurre all'astemia,
ma liberaci dall'acqua e così sia.
(culto abruzzese, composta dai devoti di Cese dei Marsi)
Saturday, 14 November 2009
«Io, famoso per caso»
Ha "creato" il commissario Montalbano, e ha vinto la sua scommessa. A colloquio con uno dei maggiori scrittori dei nostri giorni.
di Emiliano Biaggio
«No che non mi aspettavo di avere tutto questo successo». Sentirselo dire dal "padre" del commissario Montalbano, fa un certo effetto. Ma Andrea Camilleri è davvero sincero, non ha falsa modestia da mostrare. E si vede da come si ferma a conversare, da come si lascia intervistare e dal modo - cordiale e disponibile - con cui sta "al gioco" delle domande e risposte. L'incontro è del tutto fortuito e imprevisto, un pò come il successo che - a sentire lo scrittore siciliano - ha riscontrato lo stesso Camilleri. «Pensa che questa popolarità e tutta questa pubblicità è arrivata grazie al passaparola...», dice quasi a voler sottolineare che, almeno per lui, le case editrici hanno ricoperto un ruolo minore nella pubblicizzazione e nel lancio dello scrittore. «Ma del resto non esiste una formula per fare successo», ricorda Camilleri. E questo, alla fine, è un bene, perchè «se esistessero formule magiche saremmo tutti scrittori di successo». Come dire, se ci fosse una ricetta per confezionare libri che poi vendono milioni di copie, il talento e la capacità personali non avrebbero più modo di esistere. E poi, a ben vedere, «servono gli scrittori, ma servono soprattutto i lettori», evidenzia Camilleri. «Per il successo di una qualsiasi opera serve l'apprezzamento del pubblico, nel caso dei libri del lettore», spiega.
Nella vita, per lavoro, ha scritto gialli. Storie complesse fatte di intrighi e casi intricati da risolvere. Ma il creatore di Montalbano, via via che parla, dimostra di essere persona semplice. Lo conferma quando punta i suoi occhi pieni di vitalità su una confezione di prodotti sott'olio, esposta sul ripiano alle nostre spalle: parla, forse riflettendo tra sè o forse rivolgendosi a chi gli sta di fronte: «Quando vai a mangiare fuori ti rendi conto che le cose hanno un sapore diverso», esclama lo scrittore. «Oggi serve un ritorno ai cibi veri». Il pensiero di Camilleri va alla terra, alla "sua" terra: la Sicilia. «In trent'anni ho visto scomparire distese di ulivi saraceni, ed è un vero peccato. Lo sviluppo edilizio è necessario, ma non a danno dell'ambiente». Un ambiente, che sulla sua isola, risulta fin troppo trascurato. «In Sicilia ci sono troppe terre abbandonate, c'è poca attenzione». Avremmo potuto parlare di tanto, ma Camilleri vuole che, almeno per un attimo, si parli della Sicilia, la sua Sicilia. Che poi è la Sicilia di Montalbano. Chissà quanta fatica per concepire tutte quelle storie... «Nessuna fatica», assicura lo scrittore. Certo, «ogni giorno mi sveglio alle 6 del mattino, mi rado, mi faccio la doccia, faccio colazione, e poi scrivo fino all'ora di pranzo. E poi dopo pranzo fino a sera». Insomma, nessun sacrificio, solo tanta voglia di creare e stupire. E passione per il proprio lavoro. «Certo. E penso che Brunetta dovrebbe darmi una medaglia per questo...».
di Emiliano Biaggio
«No che non mi aspettavo di avere tutto questo successo». Sentirselo dire dal "padre" del commissario Montalbano, fa un certo effetto. Ma Andrea Camilleri è davvero sincero, non ha falsa modestia da mostrare. E si vede da come si ferma a conversare, da come si lascia intervistare e dal modo - cordiale e disponibile - con cui sta "al gioco" delle domande e risposte. L'incontro è del tutto fortuito e imprevisto, un pò come il successo che - a sentire lo scrittore siciliano - ha riscontrato lo stesso Camilleri. «Pensa che questa popolarità e tutta questa pubblicità è arrivata grazie al passaparola...», dice quasi a voler sottolineare che, almeno per lui, le case editrici hanno ricoperto un ruolo minore nella pubblicizzazione e nel lancio dello scrittore. «Ma del resto non esiste una formula per fare successo», ricorda Camilleri. E questo, alla fine, è un bene, perchè «se esistessero formule magiche saremmo tutti scrittori di successo». Come dire, se ci fosse una ricetta per confezionare libri che poi vendono milioni di copie, il talento e la capacità personali non avrebbero più modo di esistere. E poi, a ben vedere, «servono gli scrittori, ma servono soprattutto i lettori», evidenzia Camilleri. «Per il successo di una qualsiasi opera serve l'apprezzamento del pubblico, nel caso dei libri del lettore», spiega.
Nella vita, per lavoro, ha scritto gialli. Storie complesse fatte di intrighi e casi intricati da risolvere. Ma il creatore di Montalbano, via via che parla, dimostra di essere persona semplice. Lo conferma quando punta i suoi occhi pieni di vitalità su una confezione di prodotti sott'olio, esposta sul ripiano alle nostre spalle: parla, forse riflettendo tra sè o forse rivolgendosi a chi gli sta di fronte: «Quando vai a mangiare fuori ti rendi conto che le cose hanno un sapore diverso», esclama lo scrittore. «Oggi serve un ritorno ai cibi veri». Il pensiero di Camilleri va alla terra, alla "sua" terra: la Sicilia. «In trent'anni ho visto scomparire distese di ulivi saraceni, ed è un vero peccato. Lo sviluppo edilizio è necessario, ma non a danno dell'ambiente». Un ambiente, che sulla sua isola, risulta fin troppo trascurato. «In Sicilia ci sono troppe terre abbandonate, c'è poca attenzione». Avremmo potuto parlare di tanto, ma Camilleri vuole che, almeno per un attimo, si parli della Sicilia, la sua Sicilia. Che poi è la Sicilia di Montalbano. Chissà quanta fatica per concepire tutte quelle storie... «Nessuna fatica», assicura lo scrittore. Certo, «ogni giorno mi sveglio alle 6 del mattino, mi rado, mi faccio la doccia, faccio colazione, e poi scrivo fino all'ora di pranzo. E poi dopo pranzo fino a sera». Insomma, nessun sacrificio, solo tanta voglia di creare e stupire. E passione per il proprio lavoro. «Certo. E penso che Brunetta dovrebbe darmi una medaglia per questo...».
Wednesday, 11 November 2009
Tuesday, 10 November 2009
Il muro e il sogno di un’era liberale che ancora non è cominciata
Cosa è successo nei vent'anni successivi alla riunificazione della Germania
di Ian Buruma (dal Corriere della sera del 10 novembre 2009)
Vent’anni fa, quando il Muro di Berlino veniva fatto a pezzi e l’impero sovietico traballava sull’orlo del precipizio, solo i più accaniti sostenitori dell’utopia sinceramente affranti. Certo, c’era ancora chi restava aggrappato alla possibilità di quello che un tempo veniva definito il «socialismo reale». Altri criticavano il trionfalismo del «nuovo ordine internazionale» promesso da George Bush padre. E il modo in cui la Germania dell’Ovest si precipitò a impossessarsi di quel relitto che era il suo vicino dell’Est parve quasi un gesto di crudeltà. Eppure, il 1989 fu un anno fantastico (tranne che in Cina, dove le aspirazioni democratiche venivano soffocate nel sangue). Molti di noi già intuivano gli albori di una nuova era liberale che avrebbe visto diffondersi libertà e giustizia in tutto il mondo, come una cascata di fiori. Vent’anni dopo, sappiamo che le cose non sono andate così. Un populismo xenofobo assedia oggi le democrazie europee. I partiti socialdemocratici battono in ritirata, mentre a destra i demagoghi promettono di salvaguardare i «valori occidentali» dalle orde islamiche. I disastri economici degli ultimi anni sembrano confermare il monito che Mikhail Gorbaciov ha lanciato nel ventesimo anniversario del 1989: «Anche il capitalismo occidentale, ormai privato del vecchio nemico e immaginandosi vincitore indiscusso e incarnazione del progresso globale, rischia di condurre la società occidentale verso l’ennesimo vicolo cieco della storia». Dalla prospettiva odierna, si direbbe che i liberali, nel senso americano e «progressista» del termine, potrebbero risultare i perdenti del 1989. Se tra socialdemocratici e comunisti il disprezzo era reciproco, ciò non toglie che molti principi socialdemocratici, radicati negli ideali marxisti di giustizia ed eguaglianza sociale, sono stati purtroppo gettati via, come il proverbiale bambino, assieme all’acqua sporca del comunismo. Tutto aveva preso avvio con l’esaltazione del libero mercato nell’era Thatcher-Reagan.
La società, nella celebre dichiarazione di Margaret Thatcher, non esiste. Solo gli individui contano, e le famiglie. Era il concetto di ciascuno per sé. Per molti, il proclama prometteva la liberazione, tanto dai mercati soffocati da un’infinità di normative, quanto dalla prepotenza dei sindacati e dai privilegi di classe. Per questo era stato l’ispirazione del neo-liberismo. Ma l’esasperazione del libero mercato ha scalzato il ruolo dello Stato nella costruzione di una società migliore, più giusta e più equa. Mentre i neo-liberali avanzavano baldanzosi sfrondando e abbattendo le vecchie strutture dei socialdemocratici, la sinistra sprecava le sue energie discettando di politiche culturali, di «identità» e di multiculturalismo ideologico. L’idealismo democratico era un tempo dominio della sinistra, e abbracciava sia i socialdemocratici che i liberali. Negli Stati Uniti, erano i democratici, come John Kennedy, a sostenere la causa della libertà nel mondo. Ma sul finire del ventesimo secolo è parso ben più importante alla sinistra salvare la cultura del «Terzo Mondo» dal «neocolonialismo» — per quanto fuori luogo — anziché promuovere uguaglianza e democrazia. Gli esponenti della sinistra erano pronti a difendere dittature brutali (Castro, Mao, Pol Pot, Khomeini e altri ancora) semplicemente perché antagonisti dell’«imperialismo occidentale». Risultato: tutta la politica scaturita dal marxismo — anche quella di lontana ispirazione — ha perso ogni credibilità e si è spenta definitivamente nel 1989. Ovviamente, è stato un disastro per comunisti e socialisti, ma anche per i socialdemocratici, perché questi hanno visto venir meno la base ideologica del loro idealismo. E senza ideali, la politica si riduce a una forma di burocrazia, una gestione di interessi puramente materiali. Eppure, la retorica dell’idealismo non è svanita del tutto. Si è semplicemente spostata da sinistra a destra. Anche questo movimento ha preso le sue mosse da Reagan e dalla Thatcher, che adottarono lo slancio kennediano della diffusione della democrazia nel mondo intero. E una volta che il linguaggio dell’internazionalismo — rivoluzione democratica, liberazione nazionale e via dicendo — è stato abbandonato dalla sinistra, i neo-conservatori sono prontamente accorsi a raccoglierlo. Il loro sostegno alla forza militare americana come testa d’ariete della democrazia sarà stato un tentativo maldestro, rozzo, arrogante, ignorante, ingenuo e profondamente pericoloso, ma nessuno può negare che non sia nato da una spinta idealistica. Il fascino dello slancio rivoluzionario ha attirato alcuni vecchi esponenti della sinistra sul versante neo-conservatore. La maggior parte dei liberali, tuttavia, si è allarmata davanti ai neocon, senza però trovare una risposta coerente. Perso ogni entusiasmo per l’internazionalismo, la reazione comune dei liberali al radicalismo dei neocon è stata quella di lanciare un appello al «realismo», alla non ingerenza negli affari altrui, al ritiro dal mondo. In molti casi, questa si è rivelata davvero la rotta più saggia da seguire, ancorché assai poco stimolante. Non sorprende pertanto che un internazionalista di sinistra, come il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, abbia trovato rifugio per il suo idealismo nel governo conservatore di Nicolas Sarkozy.
Per la prima volta dall’epoca di Kennedy, gli Stati Uniti sono una delle poche democrazie liberali al mondo guidate da un governo di centrosinistra. Sarà in grado il presidente Obama di spianare la strada verso una nuova era di idealismo sociale e politico? Ne dubito. Obama non è un socialista, né un semplice burocrate. Possiede ideali modesti, ma nonostante tutto potrebbe rivelarsi un presidente eccellente. Ciò che serve alla rinascita dell’idealismo liberale, tuttavia, è un insieme di nuovi ideali su come promuovere giustizia, uguaglianza e libertà nel mondo. Reagan, Thatcher e Gorbaciov hanno assistito al tramonto di un’ideologia che in passato aveva dato speranza e ispirato reali progressi, ma che sfortunatamente aveva provocato anche schiavitù e massacri. E noi restiamo in attesa di una nuova visione per guidarci sulla strada del progresso, che finalmente sia — ci auguriamo — libero da ogni tirannia.
di Ian Buruma (dal Corriere della sera del 10 novembre 2009)
Vent’anni fa, quando il Muro di Berlino veniva fatto a pezzi e l’impero sovietico traballava sull’orlo del precipizio, solo i più accaniti sostenitori dell’utopia sinceramente affranti. Certo, c’era ancora chi restava aggrappato alla possibilità di quello che un tempo veniva definito il «socialismo reale». Altri criticavano il trionfalismo del «nuovo ordine internazionale» promesso da George Bush padre. E il modo in cui la Germania dell’Ovest si precipitò a impossessarsi di quel relitto che era il suo vicino dell’Est parve quasi un gesto di crudeltà. Eppure, il 1989 fu un anno fantastico (tranne che in Cina, dove le aspirazioni democratiche venivano soffocate nel sangue). Molti di noi già intuivano gli albori di una nuova era liberale che avrebbe visto diffondersi libertà e giustizia in tutto il mondo, come una cascata di fiori. Vent’anni dopo, sappiamo che le cose non sono andate così. Un populismo xenofobo assedia oggi le democrazie europee. I partiti socialdemocratici battono in ritirata, mentre a destra i demagoghi promettono di salvaguardare i «valori occidentali» dalle orde islamiche. I disastri economici degli ultimi anni sembrano confermare il monito che Mikhail Gorbaciov ha lanciato nel ventesimo anniversario del 1989: «Anche il capitalismo occidentale, ormai privato del vecchio nemico e immaginandosi vincitore indiscusso e incarnazione del progresso globale, rischia di condurre la società occidentale verso l’ennesimo vicolo cieco della storia». Dalla prospettiva odierna, si direbbe che i liberali, nel senso americano e «progressista» del termine, potrebbero risultare i perdenti del 1989. Se tra socialdemocratici e comunisti il disprezzo era reciproco, ciò non toglie che molti principi socialdemocratici, radicati negli ideali marxisti di giustizia ed eguaglianza sociale, sono stati purtroppo gettati via, come il proverbiale bambino, assieme all’acqua sporca del comunismo. Tutto aveva preso avvio con l’esaltazione del libero mercato nell’era Thatcher-Reagan.
La società, nella celebre dichiarazione di Margaret Thatcher, non esiste. Solo gli individui contano, e le famiglie. Era il concetto di ciascuno per sé. Per molti, il proclama prometteva la liberazione, tanto dai mercati soffocati da un’infinità di normative, quanto dalla prepotenza dei sindacati e dai privilegi di classe. Per questo era stato l’ispirazione del neo-liberismo. Ma l’esasperazione del libero mercato ha scalzato il ruolo dello Stato nella costruzione di una società migliore, più giusta e più equa. Mentre i neo-liberali avanzavano baldanzosi sfrondando e abbattendo le vecchie strutture dei socialdemocratici, la sinistra sprecava le sue energie discettando di politiche culturali, di «identità» e di multiculturalismo ideologico. L’idealismo democratico era un tempo dominio della sinistra, e abbracciava sia i socialdemocratici che i liberali. Negli Stati Uniti, erano i democratici, come John Kennedy, a sostenere la causa della libertà nel mondo. Ma sul finire del ventesimo secolo è parso ben più importante alla sinistra salvare la cultura del «Terzo Mondo» dal «neocolonialismo» — per quanto fuori luogo — anziché promuovere uguaglianza e democrazia. Gli esponenti della sinistra erano pronti a difendere dittature brutali (Castro, Mao, Pol Pot, Khomeini e altri ancora) semplicemente perché antagonisti dell’«imperialismo occidentale». Risultato: tutta la politica scaturita dal marxismo — anche quella di lontana ispirazione — ha perso ogni credibilità e si è spenta definitivamente nel 1989. Ovviamente, è stato un disastro per comunisti e socialisti, ma anche per i socialdemocratici, perché questi hanno visto venir meno la base ideologica del loro idealismo. E senza ideali, la politica si riduce a una forma di burocrazia, una gestione di interessi puramente materiali. Eppure, la retorica dell’idealismo non è svanita del tutto. Si è semplicemente spostata da sinistra a destra. Anche questo movimento ha preso le sue mosse da Reagan e dalla Thatcher, che adottarono lo slancio kennediano della diffusione della democrazia nel mondo intero. E una volta che il linguaggio dell’internazionalismo — rivoluzione democratica, liberazione nazionale e via dicendo — è stato abbandonato dalla sinistra, i neo-conservatori sono prontamente accorsi a raccoglierlo. Il loro sostegno alla forza militare americana come testa d’ariete della democrazia sarà stato un tentativo maldestro, rozzo, arrogante, ignorante, ingenuo e profondamente pericoloso, ma nessuno può negare che non sia nato da una spinta idealistica. Il fascino dello slancio rivoluzionario ha attirato alcuni vecchi esponenti della sinistra sul versante neo-conservatore. La maggior parte dei liberali, tuttavia, si è allarmata davanti ai neocon, senza però trovare una risposta coerente. Perso ogni entusiasmo per l’internazionalismo, la reazione comune dei liberali al radicalismo dei neocon è stata quella di lanciare un appello al «realismo», alla non ingerenza negli affari altrui, al ritiro dal mondo. In molti casi, questa si è rivelata davvero la rotta più saggia da seguire, ancorché assai poco stimolante. Non sorprende pertanto che un internazionalista di sinistra, come il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, abbia trovato rifugio per il suo idealismo nel governo conservatore di Nicolas Sarkozy.
Per la prima volta dall’epoca di Kennedy, gli Stati Uniti sono una delle poche democrazie liberali al mondo guidate da un governo di centrosinistra. Sarà in grado il presidente Obama di spianare la strada verso una nuova era di idealismo sociale e politico? Ne dubito. Obama non è un socialista, né un semplice burocrate. Possiede ideali modesti, ma nonostante tutto potrebbe rivelarsi un presidente eccellente. Ciò che serve alla rinascita dell’idealismo liberale, tuttavia, è un insieme di nuovi ideali su come promuovere giustizia, uguaglianza e libertà nel mondo. Reagan, Thatcher e Gorbaciov hanno assistito al tramonto di un’ideologia che in passato aveva dato speranza e ispirato reali progressi, ma che sfortunatamente aveva provocato anche schiavitù e massacri. E noi restiamo in attesa di una nuova visione per guidarci sulla strada del progresso, che finalmente sia — ci auguriamo — libero da ogni tirannia.
Monday, 9 November 2009
«La riunificazione non c'è stata»
A vent'anni dalla caduta del muro parla Ingo Schuze, scrittore tedesco vissuto all'est e passato a Berlino. Ovest.
Testi raccolti da Nicola Sessa. Riadattamento di Emiliano Biaggio
«Fino a dieci anni fa bisognava risolvere solo la questione geografica. Adesso c'è anche un altro muro da tirare giù: quello tra ricchi e poveri». Ingo Schulze, da sempre scrive e racconta. E adesso descrive e narra il modo in cui la Germania celebra il ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Un muro - dal 1961 in poi - più volte definito "della vergogna", ma che una volta rimosso non ha saputo aprire la strada all'unificazione nazionale. «Sono in molti, quelli dell'est,a credere che non si possa parlare di Wiedervereinigung, di riunificazione», sostiene Schulze. «Che cosa vuol dire riunificazione? Mescolanza, scambio tra le due parti». Ma dopo il crollo del muro, lamenta, «non c'è stato nulla di tutto questo, anzi. Le differenze si sono rimarcate». Chi meglio di lui - nato e cresciuto nell'allora Germania est per poi trasferirsi, nel 1990, a Berlino - può cogliere gli spetti di una Germania ancora divisa - forse anche più di prima - in due? «Prima della caduta del muro, tedeschi eravamo noi e tedeschi erano anche quelli della Germania federale». Ma poi «si è cominciata a fare una distinzione tra i due popoli, quando noi ci siamo accorti di essere diversi e abbiamo iniziato a riferirci a noi stessi come Ossi, tedeschi dell'est». Un ovest ricco e industrializzato, che non saputo investire in un est più arretrato che oggi deve fare i conti con la disoccupazione e migrazioni coatte dei tedeschi orientali, soprattutto giovani. A distanza di vent'anni da quel 9 novembre 1989, esistono ancora due Germanie. Ma non sono più quelle del socialismo e del capitalismo, sono quelle del benessere e del malessere. Nuove divisioni da rimuovere «E' una sfida molto difficile da vincere, perchè la distanza rischia di diventare incolmabile», avverte lo scrittore tedesco. Ingo Schulze non può non mettere in risalto la differenza tra passato e presente, e i paragoni diventano automatici e inevitabili. «Il sistema socialista aveva molti pregi: il sistema sanitario, l'educazione, i trasporti - che per il 70% si sviluppavano su rotaia. E il diritto al lavoro era qualcosa di concreto, ew non un'astrazioner come lo è oggi nel sistema occidentale». Sistema occidentale che, paradossalemte, «dopo il 1990 ha subito un brusco arresto nello sviluppo, e in nome della competitività le politiche sociali sono state sacrficate sull'altare del capitale. Non fraintendentemi. Non sto dicendo che la Ddr fosse il sistema perfetto. Quel sistema si basava su una dittaura liberticida e nessuno vuole tornare indietro». Insomma, «non ritengo una grave perdita lo sgretolamento del blocco orientale, ma è quanto meno criticabile la scelta dell'Occidente di voler cancellare tutto quello che fosse della Ddr, anche le cose buone». E' chiaro che le attese del pluripremiato scrittore tedesco sono state disattese, come quelle di milioni di Ossi, forse contenti solo in parte di essersi ricongiunti con il resto del Paese. «Non esiste uguaglianza se non c'è giustizia sociale, e non c'è dignità per un uomo che non sia posto nelle condizioni di lavorare» dice Schulze. «Sai a quanto ammonta il sussidio che il governo passa ai disoccupati? Quattro euro e venticinque centesimi al giorno. Possiamo dire che queste sono persone libere?»
Testi raccolti da Nicola Sessa. Riadattamento di Emiliano Biaggio
«Fino a dieci anni fa bisognava risolvere solo la questione geografica. Adesso c'è anche un altro muro da tirare giù: quello tra ricchi e poveri». Ingo Schulze, da sempre scrive e racconta. E adesso descrive e narra il modo in cui la Germania celebra il ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Un muro - dal 1961 in poi - più volte definito "della vergogna", ma che una volta rimosso non ha saputo aprire la strada all'unificazione nazionale. «Sono in molti, quelli dell'est,a credere che non si possa parlare di Wiedervereinigung, di riunificazione», sostiene Schulze. «Che cosa vuol dire riunificazione? Mescolanza, scambio tra le due parti». Ma dopo il crollo del muro, lamenta, «non c'è stato nulla di tutto questo, anzi. Le differenze si sono rimarcate». Chi meglio di lui - nato e cresciuto nell'allora Germania est per poi trasferirsi, nel 1990, a Berlino - può cogliere gli spetti di una Germania ancora divisa - forse anche più di prima - in due? «Prima della caduta del muro, tedeschi eravamo noi e tedeschi erano anche quelli della Germania federale». Ma poi «si è cominciata a fare una distinzione tra i due popoli, quando noi ci siamo accorti di essere diversi e abbiamo iniziato a riferirci a noi stessi come Ossi, tedeschi dell'est». Un ovest ricco e industrializzato, che non saputo investire in un est più arretrato che oggi deve fare i conti con la disoccupazione e migrazioni coatte dei tedeschi orientali, soprattutto giovani. A distanza di vent'anni da quel 9 novembre 1989, esistono ancora due Germanie. Ma non sono più quelle del socialismo e del capitalismo, sono quelle del benessere e del malessere. Nuove divisioni da rimuovere «E' una sfida molto difficile da vincere, perchè la distanza rischia di diventare incolmabile», avverte lo scrittore tedesco. Ingo Schulze non può non mettere in risalto la differenza tra passato e presente, e i paragoni diventano automatici e inevitabili. «Il sistema socialista aveva molti pregi: il sistema sanitario, l'educazione, i trasporti - che per il 70% si sviluppavano su rotaia. E il diritto al lavoro era qualcosa di concreto, ew non un'astrazioner come lo è oggi nel sistema occidentale». Sistema occidentale che, paradossalemte, «dopo il 1990 ha subito un brusco arresto nello sviluppo, e in nome della competitività le politiche sociali sono state sacrficate sull'altare del capitale. Non fraintendentemi. Non sto dicendo che la Ddr fosse il sistema perfetto. Quel sistema si basava su una dittaura liberticida e nessuno vuole tornare indietro». Insomma, «non ritengo una grave perdita lo sgretolamento del blocco orientale, ma è quanto meno criticabile la scelta dell'Occidente di voler cancellare tutto quello che fosse della Ddr, anche le cose buone». E' chiaro che le attese del pluripremiato scrittore tedesco sono state disattese, come quelle di milioni di Ossi, forse contenti solo in parte di essersi ricongiunti con il resto del Paese. «Non esiste uguaglianza se non c'è giustizia sociale, e non c'è dignità per un uomo che non sia posto nelle condizioni di lavorare» dice Schulze. «Sai a quanto ammonta il sussidio che il governo passa ai disoccupati? Quattro euro e venticinque centesimi al giorno. Possiamo dire che queste sono persone libere?»
A est delle illusioni
Una città divisa in due da un muro, un popolo in festa per l'unità ritrovata. Ma vent'anni dopo resta una Germania dell'est, e anche più diversa di allora.
di Emiliano Biaggio
9 novembre 1989: gente festante saluta il muro che divide in due Berlino, abbatte quello che ancora oggi rappresenta il lato più bieco di un socialismo reale irreale. Oggi, la Germania e il mondo celebrano il ventennale di un episodio storico che ha riscritto la storia. E aperto un nuovo capitolo, fatto di libertà e di democrazia. E capitalismo. Ma che ne è dell'est di Berlino e dell'oriente tedesco a distanza di 20 anni? Una città e un paese dai volti nuovi, senza dubbio. Con un accenno di preoccupazione per un presente non facile e un futuro incerto frutto del nuovo corso, mescolato a un pizzico di nostalgia per un passato dal quale ancora non ci si è liberati. Ironia della sorte, i tedeschi dell'est hanno lasciato un'illusione per sposarne una nuova. La vecchia Ddr di democratico aveva solo la dicitura, mentre i vicini della Germania federale invece erano realmente ciò che dicevano di essere. Oggi ai lander occidentali si sono aggiunti quelli orientali, più poveri e svuotati di popolazione, per via di un esodo dall'est all'ovest che dopo la caduta del muro ha ripreso in tutto il suo vigore. La Ddr ha cancellato il proprio stile e il proprio passato, ha smantellato un sistema politico e produttivo, senza avere nulla in cambio. Il risultato è disoccupazione, giovani che vanno all'ovest in cerca di fortuna, una parte del Paese che ancora oggi stenta a mettersi alla pari del resto di una Nazione che - complice anche la crisi - mugugna sempre di più. L'est della Germania è stata e ancora è un costo per tutti gli altri tedeschi, che adesso, dopo la festa, si trovano a dover sistemare e ripulire. Dall'altra parte dell'illusione, gli ex tedeschi della Germania est, che iniziano a confrontare il loro passato e il loro presente: la nostalgia c'è, nonostante tutto. Alla fine tutti, per motivi diversi, hanno almeno un motivo per avvertare un pizzico di insoddisfazione: i tedeschi occidentali, che devono continuare ad accollarsi un est comunque "diverso" e che ancora non riesce a "diventare" tedesco; i tedeschi orientali, che hanno pagato a caro prezzo la loro libertà e la riunificazione, con arretratezza, disoccupazione e la consapevolezza di non essere riusciti ad integrarsi con i fratelli dell'ovest. Solo dieci anni fa, quando la Germania unita festeggiava i dieci anni dalla caduta del muro, in molti sostenevano che a distanza di un decennio la Germania era lontana almeno 40 anni dalla piena riunificazione. Oggi, dopo altri dieci anni, le differenze e le distanze si ampliano, nonostante non ci sia più alcuna parete divisoria. 9 novembre 2009: una Germania diversamente festante e tedeschi diversamente felici celebrano il ventennale di un episodio storico che ha riscritto la storia. Consegnata a una nuova illusione e nuove delusioni.
di Emiliano Biaggio
9 novembre 1989: gente festante saluta il muro che divide in due Berlino, abbatte quello che ancora oggi rappresenta il lato più bieco di un socialismo reale irreale. Oggi, la Germania e il mondo celebrano il ventennale di un episodio storico che ha riscritto la storia. E aperto un nuovo capitolo, fatto di libertà e di democrazia. E capitalismo. Ma che ne è dell'est di Berlino e dell'oriente tedesco a distanza di 20 anni? Una città e un paese dai volti nuovi, senza dubbio. Con un accenno di preoccupazione per un presente non facile e un futuro incerto frutto del nuovo corso, mescolato a un pizzico di nostalgia per un passato dal quale ancora non ci si è liberati. Ironia della sorte, i tedeschi dell'est hanno lasciato un'illusione per sposarne una nuova. La vecchia Ddr di democratico aveva solo la dicitura, mentre i vicini della Germania federale invece erano realmente ciò che dicevano di essere. Oggi ai lander occidentali si sono aggiunti quelli orientali, più poveri e svuotati di popolazione, per via di un esodo dall'est all'ovest che dopo la caduta del muro ha ripreso in tutto il suo vigore. La Ddr ha cancellato il proprio stile e il proprio passato, ha smantellato un sistema politico e produttivo, senza avere nulla in cambio. Il risultato è disoccupazione, giovani che vanno all'ovest in cerca di fortuna, una parte del Paese che ancora oggi stenta a mettersi alla pari del resto di una Nazione che - complice anche la crisi - mugugna sempre di più. L'est della Germania è stata e ancora è un costo per tutti gli altri tedeschi, che adesso, dopo la festa, si trovano a dover sistemare e ripulire. Dall'altra parte dell'illusione, gli ex tedeschi della Germania est, che iniziano a confrontare il loro passato e il loro presente: la nostalgia c'è, nonostante tutto. Alla fine tutti, per motivi diversi, hanno almeno un motivo per avvertare un pizzico di insoddisfazione: i tedeschi occidentali, che devono continuare ad accollarsi un est comunque "diverso" e che ancora non riesce a "diventare" tedesco; i tedeschi orientali, che hanno pagato a caro prezzo la loro libertà e la riunificazione, con arretratezza, disoccupazione e la consapevolezza di non essere riusciti ad integrarsi con i fratelli dell'ovest. Solo dieci anni fa, quando la Germania unita festeggiava i dieci anni dalla caduta del muro, in molti sostenevano che a distanza di un decennio la Germania era lontana almeno 40 anni dalla piena riunificazione. Oggi, dopo altri dieci anni, le differenze e le distanze si ampliano, nonostante non ci sia più alcuna parete divisoria. 9 novembre 2009: una Germania diversamente festante e tedeschi diversamente felici celebrano il ventennale di un episodio storico che ha riscritto la storia. Consegnata a una nuova illusione e nuove delusioni.
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