Friday, 29 October 2010

L'oggettività di Buttiglione

«Essere gay è moralmente sbagliato, come lo è l’adulterio, il non pagare le tasse o il non donare soldi ai poveri». Parola di Rocco Buttiglione, che così ha risposto ai conduttori del programma radiofonico di Radio2 "Un Giorno da Pecora". A Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro che gli chiedevano se non sia politicamente d’accordo con Nichi Vendola in quanto omossesuale, Buttiglione - presidente dell'Udc - ha replicato così: «non ce l’ho con lui perchè è gay, sul piano politico e sociale sono contro la discriminazione nei confronti dei gay, ma moralmente non sono d’accordo, penso che l’omosessualità sia oggettivamente sbagliata».
E' contro la discriminazione, però... Diciamocelo, ancora una volta ascoltiamo l'ipocrita falso buonismo di chi dice "io non sono razzista, ma...". Sorge un dubbio? Ma la fratellanza, la tolleranza, l'amore e la solidarietà sono o non sono valori cristiani? E il rispetto e la tutela delle minoranze è o non un principio costituzionalmente riconosciuto? Difficile dirlo. Almeno oggettivamente, perchè soggettivamente ognuno la pensa come vuole e come può. E allora, diciamo pure che oggettivamente Buttiglione fa rima. Con cosa, soggettivamente, lo stabilsca ciascuno di noi.
(editoriale per la puntata del 29 ottobre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti).

Tuesday, 26 October 2010

Afghanistan, un'asse Usa-Iran non è impossibile

Una possibile intesa tra Iran e Usa permetterebbe di trasformare la porosa frontiera irano-pakistana in una barriera posta a bloccare il jihadismo proveniente da Pakistan e Pashtunistan nella sua avanzata verso occidente.


(Da Limes 1/2008 del gennaio 2008. Carta di Laura Canali.)

Qualsiasi nuovo equilibrio nel Grande Medio Oriente dovrà includere un'intesa fra persiani e americani. Lo scambio verterebbe sulla reintegrazione dell'Iran nel gioco regionale e globale per quel che effettivamente vale (molto più di quanto vorrebbero arabi, sunniti e americani), in cambio della rinuncia alla Bomba e alla moderazione delle spinte sovversive nell'arco d'influenza achemenide-sciita, dal Libano al subcontinente indiano. A cominciare dalla collaborazione in Iraq e Afghanistan. Facendo quindi della frontiera irano-pakistana la barriera avanzata contro la penetrazione del jihadismo deobandi verso occidente. (Dall'editoriale dello stesso numero di Limes, di Lucio Caracciolo).

Afghanistan, Stati Uniti e Iran discutono la pace. Insieme e allo stesso tavolo.

Tra scetticismi e sospetti reciproci per discutere la ricostruzione del paese. Holbrooke: «Per noi nessun problema». Teheran: «Preoccupati per la stabilità».

di Emiliano Biaggio

L'Iran al tavolo di pace per l'Afghanistan. E' questa la notizia del vertice fortemente voluto dalle autorità italiana per fare il punto della situazione nel paese asiatico e delineare le strategie di ricostruzione dello stato. Attorno allo stesso tavolo, infatti, delegazione iraniana e statunitense, per quello che è un avvenimento di non poco conto. Tra Stati Uniti e Iran non corre buon sangue, anzi. I rapporti sono tesi da quando nel 1979 l'ambasciata usa a Teheran venne occupata da studenti seguaci di Khomeini. Da allora i due paesi hanno smesso di avere rapporti, e in genere sono gli elvetici a incontrare per conto di Washington qualsiasi emissario di Teheran. Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini si gode il successo di questa compresenza. «Questo dimostra che non è una coalizione dell'Occidente, ma un gruppo di paesi che credono nella necessità di aiutare l'Afghanistan». Cauto ottimismo arriva anche dagli Stati Uniti. Richard Holbrooke, consigliere speciale del presidente Obama e del segretario di Stato Hilary Clinton per Pakistan e Afghanistan, ricorda che è nell'interesse della repubblica islamica far sì che l'Afghanistan ritrovi normalità. «L'Iran ha un ruolo da giocare per una soluzione pacifica» della crisi afghana. Quanto alla presenza con rappresentanti irananiani, aggiunge, «per gli Stati Uniti non c'è alcun problema a vedere gli inviati dell'Iran intorno a questo tavolo». Anzi, la presenza a Roma di una delegazione iraniana insieme agli inviati di dieci paesi musulmani e dell'Oci (Organizzazione della Conferenza Islamica) dimostra che in Afghanistan «non c'è nessuno scontro di civiltà» ma «un fronte unito contro minacce comuni».
Gli Stati Uniti sanno che l'Iran preferisce un Afghanistan stabile, ma allo stesso tempo la casa Bianca non vede l'ora di porre fine a una missione già costata quasi 360 miliardi di dollari. Quindi qualsiasi mano tesa è ben vista, soprattutto in questi tempi di crisi economica e conti fuori posto. Ma lo scetticismo resta da entrambe le parti, così come i reciproci sospetti. L'inviato speciale di Teheran, Mohammad Ali Ghanezadeh, tiene a sottolineare che la repubblica islamica intende raggiungere «una soluzione regionale». Da Teheran, l portavoce del ministro degli Esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, fa sapere che «La repubblica islamica dell'Iran, in qualità di governo vicino, è profondamente preoccupata per la stabilità dell'Afghanistan, e per questo ha fornito assistenza per la ricostruzione». Un'attività che inquieta l'amministrazione Usa: il portavoce della Casa Bianca Bill Burton esprime disappunto per quello si teme essere un sostegno ai talebani. «Il popolo americano e la comunita' mondiale hanno ogni ragione per essere preoccupati del tentativo dell'Iran di esercitare una cattiva influenza sull'Afghanistan», dichiara Burton. «Lo provino», replica l'inviato speciale iraniano per l'Afghanistan. Insomma, restano attriti e tensioni. Ma il dialogo, si sa, è fatto anche di toni accesi. E' impensabile che di punto in bianco Teheran e washington inizino a tessere rapporti cordiali. Ma diciamolo: per molti era anche impensabile che diplomatici dei due paesi potessero sedersi attorno allo stesso tavolo.

Monday, 25 October 2010

La Russia sovrana

Mosca non ha fatto la fine dell'Unione Sovietica ed è di nuovo sovrana, ma deve modernizzarsi. Lo farà in maniera non-occidentale. La malattia della Russia è anche una malattia dell'Europa.

di Lucio Caracciolo (su LaRepubblica del 24 ottobre 2010)
Dieci anni fa la Russia pareva avviata a fare la fine dell'Unione Sovietica. I tormentati anni di Eltsin, seguiti al suicidio dell'impero sovietico – che Putin battezzerà «la grande catastrofe geopolitica» – sembravano preannunciare la disgregazione di quel che restava dello spazio statuale russo. Molti in Occidente se l'auguravano, senza forse valutare i rischi connessi alla disintegrazione di una superpotenza nucleare. Putin impiegò otto anni per raddrizzare la barra, usando dei tradizionali metodi del Cremlino, così da ricostruire la “verticale del potere”. La Federazione Russa appariva ricompattata sotto l'autorità centrale, tanto da consentire il passaggio di consegne fra Putin e il suo delfino Medvedev.
Certo, la Russia è di nuovo sovrana. Ma quanto solida è questa sovranità? E come si riaffaccia Mosca nella competizione mondiale? Il 10 settembre scorso lo stesso presidente Medvedev ha tracciato un bilancio non consolatorio: «Un'economia inefficace, una sfera sociale semisovietica, una democrazia non consolidata, tendenze demografiche negative, il Caucaso instabile. Problemi molto grandi perfino per uno Stato come la Russia». Superata l'emergenza, restano irrisolti i nodi strutturali che minano la crescita e la stabilità della Russia. Donde la nuova parola d'ordine: «Modernizzazione». Si tratta di emancipare la Russia dalla schiavitù dell'energia e delle materie prime, che agisce come una droga contro l'innovazione. Non solo economica, anche sociale e politica. Ma attenzione: né Medvedev né gli altri leader russi hanno intenzione di copiare l'Occidente. Per molti russi democrazia è sinonimo di caos. Ascoltiamo ancora il presidente: «Si dice della necessità di forzare un cambiamento del sistema politico. Alcune volte si dice che si dovrebbe tornare ai "democratici" anni Novanta. Ma il ritorno a uno Stato paralizzato è inammissibile. Per questo voglio deludere i sostenitori della rivoluzione permanente. Noi non andremo di fretta». Con ciò Medvedev vuole smentire le analisi di alcuni neocremlinologi, che l'hanno eretto a sfidante di Putin. La strana coppia che da un paio d'anni gestisce gli affari russi ha mostrato segni di logoramento, ma non è sul punto di divorziare. Immaginare un Medvedev “filo-occidentale” in rotta di collisione con il “veterorusso” Putin è piuttosto irrealistico. Tuttavia, la crisi economica scoppiata negli Stati Uniti ha reso più evidenti i limiti della crescita russa. L'obsolescenza delle infrastrutture e l'arretratezza delle tecnologie civili sono una zavorra intollerabile. Ma i cambiamenti socio-politici, prima ancora che economici, connessi alla modernizzazione del paese comportano prezzi tali da frenare lo slancio dei riformatori. Toccare le rendite di potere è pericoloso, specie in uno Stato a forte tradizione autoritaria. Molto dipenderà dal clima internazionale. Per modernizzarsi, la Russia ha bisogno dell'Europa. Specie della Germania. Lo sosteneva novant'anni fa Keynes, nelle sue celeberrime “Conseguenze economiche della pace”. Non è meno vero oggi. Con una differenza: se la modernizzazione economica e politica della Russia fallisse, le conseguenze per noi europei sarebbero più pesanti che mai. La malattia della Russia è anche una malattia dell'Europa. Ne guariremo insieme. O continueremo a soffrirne insieme.

Thursday, 21 October 2010

Intercettazioni, Rai, giustizia: dove osa il berlusconismo

La guerra a Santoro e lo stop a Fazio-Benigni-Saviano. E poi ancora una giustizia su misura e limiti alla stampa. I tanti dubbi e un'accusa precisa: «C'è un governo eversivo».

di Emiliano Biaggio*

Legge sulle intercettazioni, un cms sotto il controllo dei partiti, scudo giudiziario retroattivo, stop alle trasmissioni Rai che parlano di camorra, Berlusconi, acquisti ai Caraibi. Che succede in Italia? Semplice: bavaglio all'informazione, limiti alla libertà d'espressione, giudici e magistrati senza più indipendenza, giustizia su misura di pochi - anche di uno solo. Insomma, la democrazia è in pericolo. Lo denuncia uno come Fabio Granata, di Futuro e libertà ed ex-An: non un comunista, insomma. Il deputato finiano si dice «contrariato e perplesso» per lo scudo giudiziario retroattivo. Il presidente della commissione di vigilanza Rai, Sergio Zavoli, non certo un bolscevico, etichetta ciò che avviene all'interno della tv di Stato «un disordine che va a toccare una grande questione democratica». E sullo stop alla trasmissione di Fabio Fazio, Roberto Saviano e Roberto Benigni, Claudio Abbado - direttore d'orchestra e non comandante di una guarnigione partigiana - taglia corto: è «mancanza di libertà di espressione». Oliviero Diliberto, lui sì comunista, denuncia quanto è sotto gli occhi di tutti: «Siamo in presenza di un governo eversivo». Del resto, domanda, «come definire chi, con il lodo Alfano, cancella in un sol colpo il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge?». Per chi non l'avesse ancora capito, da parte di chi sta al Governo c'è il «tentativo di sovvertire l'ordine costituzionale per favorire Berlusconi». Di certo, non lo si deve infastidire, in nessun modo. Il premier ha tentato di non mandare in onda un puntata di report che lo riguarda in prima persone per acquisti di immobili ad Antigua, non vuole che gli controllino il telefono - perchè, parole sue «è terribile essere in un Paese in cui non puoi avere la certezza di non essere intercettato» - persegue chiunque lo contesti, come dimostrano i casi Boffo, Fini e Marcegaglia. Insomma, capito che succede in Italia? C'è «l’irresistibile voglia di regime di Berlusconi», avverte Francesco Pardi, capogruppo Idv al Senato. Ma non dobbiamo disperare, perchè, sottolinea, «per fortuna non siamo ancora alla dittatura». Già: ancora.
(poi editoriale per la trasmissione del 24 ottobre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)

Wednesday, 20 October 2010

Giustizia, per Berlusconi congelamento retroattivo dei processi

Al Senato votato un provvedimento per presidente del consiglio e capo dello Stato. In nome dell'uguaglianza davanti alla legge.

di Emiliano Biaggio

In tema di giustizia Berlusconi incassa una bella e importante vittoria: lo scudo giudiziario retroattivo. La commissione Affari costituzionali del Senato ha infatti approvato l`emendamento del relatore Carlo Vizzini (Pdl) al lodo Alfano costituzionale, quello che congela tutti processi, anche quelli già avviati per fatti antecedenti all`assunzione della carica, di presidente del Consiglio e presidente della Repubblica. Capo di governo e capo di Stato, quindi, non sono perseguibili. Lo spiega ancor più chiaramente Fabio Granata, critico nei confronti di una disposizione che lo lascia «contrariato e perplesso». Con lo scudo giudiziario «i processi nei confronti del presidente della Repubblica o del presidente del Consiglio, anche relativi a fatti antecedenti l`assunzione della carica, possono essere sospesi con deliberazione parlamentare». E se uno controlla il Parlamento attraverso la maggioranza dei gruppi, questo si traduce in una impossibilità a procedere. In due parole: immunità e impunità. Per Vizzini, artefice della norma, però, non è così. «Né immunità né impunità, solo la sospensione del processo», taglia corto. Diverso il giudizio di Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc, secondo il quale «la retroattività è un errore». Di «vergogna» parla il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Dal Quirinale nessun commento, solo la dichirazione di «estraneità» rispetto a quello su cui sta lavorando il governo. Insomma, a livello politico infuria la polemica. Quel che è certo, è che prevale il principio per cui la legge è uguale per tutti.

Tuesday, 19 October 2010

Alfano: un Csm sotto il controllo dei partiti

E' l'ultima mossa (a sorpresa) del governo in tema di giustizia.

di Emiliano Biaggio
Da via Arenula, sede del ministero di Giustizia, trapela un nuovo brandello della futura riforma della giustizia. E riguarda la sede Consiglio superiore de magistratura: palazzo dei Maresciall. O meglio, quello che ne resterà in futuro, se effettivamente il disegno di legge andrà nella direzione anticipata. Non più uno, ma due Csm, e questo si sa da tempo. Non più la sezione disciplinare dentro il Csm, ma fuori, un'Alta corte per "punire" tutte le magistrature, e pure questo è noto. Ma il colpo di grazia, è l'ipotesi che sia rivoluzionata rispetto a oggi la composizione del Consiglio. La politica prenderebbe il dominio di quello che oggi è l`organo di autogoverno delle toghe. Alle quali resterebbe di poter eleggere "solo" un terzo dei componenti, mentre gli altri due verrebbero votati dalle Camere. Da Donatella Ferranti (Pd) arrivano critiche al progetto di riforma: ciò a suo giudizio mostra «la confusione della maggioranza». Ma attenzione: due Csm così, uno per i giudici e uno per i pm nominati dai partiti, non avrebbero certo la forza di contrastare la politica, poiché sarebbero essi stessi una sorta di Terza Camera. Insomma, si mette in discussione uno dei tre poteri alla base delle democrazie. Non solo: con un Parlamento svilito del proprio ruolo (Berlusconi ha fatto ricorso a «26 voti di fiducia e 54 decreti», ha denunciato il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani), e un potere giurisdizionale controllato dai partiti, il rischio è uno squilibrio a vantaggio del potere esecutivo e a svantaggio delle garanzie democratiche. Ricordiamolo: il principio della separazioni dei poteri è da tutti ritenuto elemento imprescindibile per un paese che voglia essere democratico. Qui, invece, il sospetto è che si voglia sacrificare la democrazia in nome di personalismi. Non a caso il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, chiede «grande attenzione».

Monday, 18 October 2010

Italia-Serbia, la sconfitta delle forze dell'ordine

Il Viminale difende la polizia italiana, ma nei nostri stadi entra di tutto. Con la responsabilità dello Stato.

di Emiliano Biaggio

Spranghe, coltelli, fumogeni, assalto agli autobus dei giocatori e vetri infranti: ecco Italia-Serbia, partita che non passerà certo agli onori della cronaca. Intanto perché mai giocata, e poi perché non disputata per disordini e incidenti ad opera del tifo violento e politicizzato di Serbia, per quello che alla fine si configura come uno dei risultati forse meno lusinghieri dell’intreccio – mai spezzato – tra calcio e politica. Nelle gradinate dello stadio Luigi Ferraris di Genova tifosi serbi danno alle fiamme la bandiera albanese, per un chiaro riferimento alla questione del Kosovo; sotto, un manipolo di calciatori della rappresentativa serba mostra ai propri “tifosi” le tre dita simbolo del nazionalismo ultra-ortodosso della grande Serbia. Niente sport, insomma. Solo un palcoscenico dove mettere in scena il peggio dell’essere umani e riproporre problematiche balcaniche mai risolte. Alla fine il presidente della Serbia, Boris Tadic, ha dovuto chiamare il presidente del Consiglio di casa nostra per esprimere dispiacere per gli incidenti causati dagli ultras nazionalisti, che hanno impedito il regolare svolgimento della sfida. Insomma. Da contrasti sportivi a incidente diplomatico, per quello che ormai è un caso. Con accuse che si rincorrono e si susseguono. Per i rappresentanti del governo di Belgrado è colpa nostra. Lo dice senza mezzi termini l'ambasciatrice serba in Italia, Sanda Raskovic-Ivic: «La polizia italiana avrebbe dovuto perquisire meglio all'ingresso dello stadio». Replica il portavoce dell'Osservatorio sulle manifestazioni sportive del Viminale Roberto Massucci: «Le informazioni provenienti dalla Serbia non avevano delineato alcun profilo di rischio per la tifoseria serba». Ci sono state, quindi, «smagliature nel sistema informativo» tra Belgrado e Roma circa la presenza delle frange più estreme del tifo violento serbo. Nuove accuse all’Italia, stavolta arrivano da Ivica Dacic, ministro dell'Interno e vicepremier serbo, secondo il quale i preparativi per la partita di Genova non stati fatti bene, e che l'intervento della polizia italiana avrebbe potuto essere molto più efficace. Tradotto, critica il ministro serbo, non si doveva permettere l'ingresso allo stadio a tifosi in possesso di oggetti vari. Risponde per le rime il ministro dell’Interno, Roberto Maroni: «Non ho nessuna censura da muovere a chi ha gestito l'ordine pubblico», afferma. «Anzi- aggiunge- è stata evitata una strage, poteva essere un Heysel 2». Il direttore generale della Figc, Antonello Valentini, si dice fiducioso perché, sostiene, «insieme alla polizia italiana abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare». Poche storie, taglia corto l’Uefa. «Anche l’Italia è responsabile». Già, perché di chi è compito fare le perquisizioni all’ingresso? Chi è che deve assicurare l’ordine e la sicurezza? Quelle stesse forze dell’ordine difese a spada tratta dal ministro Maroni. Quelle forze dell’ordine, dai prefetti agli agenti, capaci di reprimere in occasione dei G8 e del tutto incapaci di agire quando si tratta di permettere a famiglie con bambini di guardare una partita di calcio. Lo dice anche Fabio Capello, uno che di calcio e di stadi ne sa qualcosa: a suo giudizio «le tristi immagini di Italia-Serbia parlano da sole ed è grave che queste cose accadano ancora». Già, ancora. 28 ottobre 1979: Vincenzo Paparelli muore durante un Roma-Lazio per colpa di un razzo nautico per segnalazioni luminose sparato dalla Curva sud e che attraversò tutto il campo di gioco da un lato all'altro finendo proprio nell'occhio della vittima. Come era entrato quel razzo? 2 ottobre 1984: il tifoso milanista Marco Fonghessi muore accoltellato al termine di Milan-Cremonese. Ancora: 29 gennaio 1995: il tifoso genoano Vincenzo Spagnolo viene accoltellato da un tifoso milanista Simone Barbaglia fuori dallo stadio Ferraris prima di Genoa – Milan. 17 giugno 2001: durante lo spareggio promozione per accedere in serie B fra Messina e Catania dalla curva catanese parte una bomba carta che uccide Antonino Currò. Il problema Italia-Serbia, allora, arriva da lontano. Non da Belgrado con Ivan il terribile, ma da chi in Italia, da sempre, sa usare le forze di polizia solo per reprimere e malmenare e non per la pubblica incolumità. L’Italia è colpevole, diciamolo. Ma si sa: lo stato, e chi in divisa lo rappresenta, non pagano mai.

(editoriale per la trasmissione del 17 ottobre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)

Thursday, 14 October 2010

L’immagine oscura della Russia

L’omicidio impunito della giornalista russa Anna Politkovskaja e tutto ciò che cela e rivela tra le righe.

di Carlo Gubitosa (per peacelink)

«Anna è stata uccisa a causa del suo lavoro. Non vedo altre motivazioni possibili per questo efferato delitto». Così diceva Vitaly Yaroshevsky, vice-direttore della Novaya Gazeta, subito dopo l’omicidio a sangue freddo di Anna Politkovskaja con cinque colpi di pistola alla testa e al petto. Uccisa nell’ascensore di casa sua il 7 ottobre 2006 a Mosca, Anna è la giornalista che, nei suoi libri e sulle pagine della Novaya, ha descritto meglio di chiunque altro la violenza della guerra in Cecenia e il rapporto di questa violenza con gli interessi di Vladimir Putin e del suo regime di oligarchi.
Di fronte ai mille interrogativi di questa esecuzione, la giustizia russa non è riuscita a fornire risposte, e il 19 febbraio scorso l’attività di due anni e quattro mesi di indagini, quattro mesi di processo e tre ore di camera di consiglio si è conclusa con un nulla di fatto. I 12 giurati della corte militare di Mosca, presieduta dal giudice Yevgeny Zubov, hanno assolto per insufficienza di prove con verdetto unanime i quattro imputati del processo.
Si tratta dell’ex dirigente della polizia moscovita Serghei Khadzhikurbanov, accusato di essere l’organizzatore del delitto per conto di un mandante non precisato; dei fratelli ceceni Dzhabrail e Ibragim Makhmudov, che secondo l’accusa avrebbero seguito e pedinato la giornalista; dell’ex colonnello dei servizi segreti Pavel Riaguzov, che ha dovuto rispondere assieme a Khadzhkurbanov dell’accusa di abuso d’ufficio ed estorsione per aver fornito al gruppo ceceno l’indirizzo della giornalista. Tutti assolti. (leggi tutto)

Esce nelle librerie Tre, ultimo libro di Melissa P.

Melissa P. ha scritto un nuovo libro, Tre. Non siamo qui critici letterari, e quindi lasciamo ad altri - con più voce in capitolo - il compito di recensire l'opera. Ci ha pensato, per fortuna, un sito internet femminista. A questo indirizzo: www.malvestite.net/2010/10/13/melissa-panarello-aka-melissa-p-tre-il-dito-radioattivo-lo-spermatozoo-interplanetario-il-cazzo-morto-del-nonno-marx-una-pisciata-a-occhi-chiusi-una-posa-un-po-vintage/

Wednesday, 13 October 2010

Le prostitute lavorano nel bosco? In Abruzzo tagliano gli alberi

La denuncia delle associazioni ecologiste: «Vogliono buttare giù un bosco di 30 ettari». Per favoreggiamento.

di Emiliano Biaggio

«Favoreggiamento della prostituzione: rei di questo grave reato migliaia di alberi verranno presto passati per le motoseghe lungo il fiume Tronto, nel versante abruzzese». Nessuno scherzo, ma - al contrario - è quanto sembra stia veramente per accadere in Abruzzo, dove le "lucciole" si avvalgono del bosco per nascondersi, appartarsi ed esercitare la professione. E adesso - denunciano Wwf, Lipu e Pro Natura - «un bosco rigoglioso di 30 ettari che crea gravi problemi all'ordine pubblico verra' raso al suolo». Le associazioni sottolineano che le istituzioni, «tra cui la Regione Abruzzo», a breve «taglieranno migliaia di salici e pioppi sul Tronto, un bosco grande quanto 30 campi di calcio», e questo «per... favoreggiamento della prostituzione».
Gli ecologisti si dicono «stupefatti» e «allibiti», e fanno sapere di aver inviato una lettera alle istituzioni coinvolte per «un appello per fermare quest'azione priva di qualsiasi senso». L'appello, sottolineano le associazioni, intende chiedere che «si fermino le motoseghe e si affronti questa situazione moltiplicando l'assistenza sociale e le azioni volte ad allieviare il disagio». Questo, concludono Wwf, Lipu e Pro Natura, «senza prendersela con gli alberi e reprimendo invece, con ancora più forza, chi sfrutta le donne».

Tuesday, 12 October 2010

90.000 uomini e 3 miliardi di euro: ecco il vero volto della guerra

Dal 2003 a oggi lo scopo e i modi dell'intervento in Afghanistan sono cambiati: lo dicono i numeri.
di Carlo Bonini (su La Repubblica del 12 ottobre 2010)

In principio, marzo del 2003, furono un colonnello, mille uomini, una promessa di impiego non superiore ai sei mesi e una bolletta da 100 milioni di euro. Una fiche per sedere al tavolo della "War on Terror". E su un fronte, quello afgano, degradato, con l'avvio dell'offensiva alleata in Iraq, a retrovia. Sette anni e 90mila uomini dopo (tanti sono i nostri soldati ruotati tra i distretti di Kabul, Herat, Farah), ci "scopriamo" in guerra. Con un contingente che, tra due mesi, arriverà a 3mila 950 uomini, articolato in tre "battle group", una task force di reazione rapida (la "TF 45"), una robusta forza aerea di attacco (caccia "Amx", elicotteri "Mangusta", droni "Predator", elicotteri multi-uso dell'Aviazione e, proprio da ieri, anche della Marina), unità meccanizzate (carri armati "Dardo", blindati pesanti da trasporto "Freccia"), per un costo di missione che toccherà i 675 milioni di euro annui, 56 milioni al mese. Oltre 3 miliardi di euro dall'inizio di questa avventura.
Ora, il Parlamento, stupito, chiede come sia stato possibile ritrovarsi impantanati nell'inferno afgano. Eppure, il nostro "surge" ha avuto padri bipartisan. I numeri, nel tempo, sono stati sotto gli occhi di tutti, solo a volerli vedere. Esattamente come il progressivo build-up militare concordato dall'Italia all'interno della Nato. Con un anno - il 2006 - a fare da spartiacque. Tra il maggio e il giugno di 4 anni fa, alla vigilia dell'assunzione del comando Nato per le operazioni belliche nel sud dell'Afghanistan (luglio), il governo Prodi, con il sostegno dell'allora opposizione di centro-destra, battezza nuove regole di ingaggio per il nostro contingente, autorizzando le operazioni offensive di "search and destroy" (ricerca e distruzione del nemico) previo nulla osta del governo entro 72 ore dalla richiesta di ingaggio. Di più. Il nostro contingente sale a oltre 2.300 uomini e Palazzo Chigi dà luce verde al dispiegamento nel teatro delle operazioni di Farah (Afghanistan occidentale) della più grande unità di forze speciali mai impiegata dai tempi della Somalia. Viene battezzata "Task Force 45". È composta da 200 uomini selezionati tra i ranger del 4° reggimento alpini, gli incursori di marina del Comsubin, il 9° reggimento paracadutisti Col Moschin, il 185° Rao della Folgore.
È un'epifania. Nell'aprile del 2007, infatti, mentre il costo della missione sfonda per la prima volta il tetto dei 300 milioni di euro annui, è ancora il governo Prodi a disporre l'invio al fronte di carri armati "Dardo" (i "carri neri degli italiani", li battezza l'insorgenza afgana) e di elicotteri d'attacco "Mangusta". Mentre nel febbraio 2008, quando il centro-sinistra si prepara a lasciare Palazzo Chigi, nel distretto di Farah, viene costituito il primo "battle group" destinato ad affiancare nelle operazioni di "search and destroy" la Task Force 45.
A giugno del 2008, Silvio Berlusconi è a Palazzo Chigi per il suo secondo mandato. La spesa per finanziare la missione sale a 349 milioni di euro. Necessari a salire un altro gradino del nostro build-up. In settembre, arriva infatti nel teatro delle operazioni una prima coppia di caccia "Tornado" e, due mesi dopo, viene costituito, sempre nel distretto di Farah, un secondo "battle group" con un incremento dei nostri effettivi di 500 uomini. Anche i "caveat" imposti ai nostri Stati Maggiori si modificano significativamente. E nel prendere atto che 72 ore sono un tempo infinito per un esercito in guerra, il termine temporale per l'autorizzazione di Palazzo Chigi a operazioni offensive di "search and destroy" scende a 6 ore. La notte per il giorno. Il giorno per la notte.
Insomma, già nel gennaio del 2009, un Paese meno distratto potrebbe concludere che in Afghanistan i nostri uomini stanno combattendo una guerra. Anche perché, con l'aumento della spesa, anche il cosiddetto "dispositivo" d'arma si è modificato. Lungo la linea del fronte, con l'impiego dei carri "Dardo" e dei "Mangusta", è infatti diventato di routine l'uso dei potenti mortai da 120 millimetri Thompson, che consentono il bombardamento a distanza delle postazioni dell'insorgenza Talebana. Ma il Parlamento non discute. E così, anche il 2009, passa con la ratifica burocratica di un nuovo incremento di spesa (che sfiorerà i 600 milioni di euro) e di un nuovo rafforzamento del "nostro dispositivo". A gennaio di quest'anno, il contingente supera i 3200 uomini, 4 caccia Amx, dopo un lungo addestramento nel deserto del Nevada, sostituiscono i "Tornado". E nell'estate scorsa, a sud di Herat fanno la loro comparsa 17 blindati "Freccia". Bestioni da 28 tonnellate su ruote (quattro volte il peso dei "Lince"), inadatti alle montagne afgane, ma necessari al trasporto rapido di unità da combattimento (ogni mezzo carica 11 militari) lungo le poche rotabili.
Poi, la strage degli alpini. L'invito del ministro della Difesa ("il Parlamento decida se dotare i caccia Amx di bombe"). L'affacciarsi dell'oziosa domanda ("siamo in guerra?"). E, intanto, una nuova partenza per il fronte. Storia di ieri. Tre elicotteri EH-101 della Marina militare addestrati al volo notturno, alle operazioni speciali e alla guida caccia.

Bombe sugli aerei. Italia in guerra in Afghanistan?

Muiono altri soldati italiani e La Russa propone di equipaggiare con armi di offesa i nostri velivoli. Ed è polemica.

di Emanuele Bonini
 
In Afghanistan in missione di pace. In assetto di guerra. Dopo la morte dei quattro alpini italiani nel paese dei talebani si rirpropone il dibattito sulla missione all'estero del nostro contingente. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, propone di dotare di bombe gli aerei italiani. «In Afghanistan- afferma- tutti i contingenti internazionali presenti - Stati Uniti, Germania, Francia - hanno i bombardieri con l'armamento previsto, cioè le bombe. L'Italia no, per mia decisione». Ma adesso, «di fronte a quello che sta accadendo, non me la sento più di assumere questa decisione da solo, di fronte a quello che sta avvenendo: voglio che sia confortata o cambiata dalle commissioni parlamentari competenti». La politica si divide e la polemica si accende: «Siamo oltre la missione di pace?», domanda Rosa Calipari, vicepresidente Pd della Camera. Più netto Massimo Donadi, capogruppo Idv a Montecitorio. «Si deve prendere atto che i nostri soldati stanno combattendo una guerra e non si può più parlare di missione di pace». Quindi, aggiunge, «serve al più presto una discussione in Parlamento sul rientro dei nostri militari e sul necessario cambiamento di strategia in Afghanistan». Gli fa eco l'eurodeputato Antonio De Magistris: «In Afghanistan è in corso una guerra che coinvolge i nostri militari», e che vede «violato l'articolo 11 della Costituzione». Per La Russa armare i bombardieri italiani in Afghanistan non significa «cambiare la natura della missione» perché «non è l'arma che la qualifica, ma il modo in cui la usi». Ma anche nella maggioranza le voci critiche sulla missione in Afghanistan non mancano. Pur precisando di esprimere una «posizione personale», il presidente del Veneto Luca Zaia (Lega) non usa mezzi termini: «Tutto, anche le missioni internazionali, ha un inizio e una fine: riportiamo a casa i nostri ragazzi. Non mi sembra di essere blasfemo se pongo il problema di quando finirà», consapevole comunque che «il ritiro dev’essere graduale e compatibile con gli impegni presi dall’Italia in sede internazionale». La protesta monta, tanto che il ministro degli Esteri, Franco Frattini, arriva ad annunciare che «il 2011 deve essere l'anno di inizio del ritiro». E, aggiunge, «da qui al 2014 vedo una riduzione complessiva del contingente combattente». Insomma, dopo 34 militari lasciati sul campo e oltre 3 miliardi di euro spesi dall'inizio della missione (2003), anche in Italia si inizia a parlare di ritiro. Nessuno ammette la guerra, ma bisogna saper non chiedere troppo. O no?

Monday, 11 October 2010

FACT SHEET/ Legge bavaglio, il ddl del Senato

A palazzo Madama il provvedimento è già stato approvato, manca solo il pronunciamento della Camera. Cosa cambierà se anche l'Aula di Montecitorio dovesse approvare il ddl così come licenziato dall'altro ramo del Parlamento? Ecco cosa prevede il testo, approvato al Senato il 10 giugno 2010.

scheda di Repubblica.it

COSA NON SI POTRA' PIU' PUBBLICARE - La lista delle notizie che i media non possono più pubblicare è lunga. Si comincia con il divieto di pubblicare le intercettazioni di conversazioni telefoniche, email, ma anche i tabulati del traffico telefonico che riguardano persone estranee alle indagini, di cui il magistrato abbia ordinato la distruzione o l'esclusione dal fascicolo di inchiesta.
Le intercettazioni agli atti dell'inchiesta saranno invece off-limits sui media, anche se non sono più coperte dal segreto istruttorio, fino alla conclusione delle indagini preliminari.
Per tutta la durata dell'inchiesta, poi, i giornalisti non potranno pubblicare nessuno degli altri atti inclusi nel fascicolo del pubblico ministero. Questo divieto è però mitigato dalla possibilità per i media di dare conto "per riassunto" di quegli atti non più coperti da segreto. Inoltre, per quanto riguarda le richieste e le ordinanze di custodia cautelare, se ne potrà pubblicare "il contenuto", ma solo dopo che l'interessato abbia ricevuto l'atto. Bene inteso: queste deroghe non valgono per le intercettazioni, su cui rimane il blackout totale. Il disegno di legge colpisce anche le riprese filmate e le registrazioni "fraudolente", cioè quelle effettuate senza il consenso dell'interessato, ma ad uno degli ultimi rimpasti del testo è spuntata l'eccezione della "attività di cronaca" da parte dei "giornalisti iscritti all'ordine professionale", che non si macchierebbero quindi del delitto in questione.
L'escort Patrizia D'Addario che ha registrato il premier Berlusconi nella notte che ha passato a Palazzo Grazioli in sua compagnia, ma senza essere una giornalista, rischierebbe con la nuova legge fino a 4 anni di reclusione. La lista dei divieti è estesa alle toghe. Il pm che "rilascia dichiarazioni pubbliche in merito al procedimento" o che viola segreti d'inchiesta potrà essere sostituito dal capo dell'ufficio. Infine, meno pubblicità per la giustizia: la ripresa video/audio delle udienze dei processi dovrà essere decisa, nel caso una parte si opponga, dal presidente della Corte d'Appello di riferimento.

SANZIONI - Lo spettro delle sanzioni, per i giornalisti ma anche per i giudici e gli investigatori che violano la consegna del silenzio è ampia, ma il disegno di legge conta di tutelare la privacy usando soprattutto il deterrente del portafoglio, quello degli editori dei media che pubblicano l'impubblicabile. Per loro sono previste sanzioni fino a 300.000 euro, se i loro media pubblicano le intercettazioni incluse nelle inchieste ma non ancora divulgabili. Si sale ad oltre 450.000 euro di sanzione massima se le intercettazioni sono quelle di cui i giudici abbiano ordinato la distruzione o l'esclusione dal fascicolo d'indagine.
Quanto al carcere, le pene sono modulate. La rivelazione del segreto d'ufficio è punita con la reclusione da uno a sei anni. Questo reato è tipico del pubblico ufficiale, ma non si esclude che il giornalista ne possa rispondere in correo. Il giornalista che pubblica il contenuto delle intercettazioni non ricomprese nelle inchieste e da distruggere rischia da sei mesi a tre anni di reclusione, ma se si tratta di intercettazioni agli atti dell'inchiesta la pena si riduce di fatto ad un'ammenda.

QUANDO E COME SI POTRA' INTERCETTARE - Il disegno di legge ha anche un'altra faccia, che riguarda più direttamente l'attività dei magistrati. Per il governo e la maggioranza di centrodestra, infatti, la riservatezza delle persone val bene alcune limitazioni al ricorso alle intercettazioni nelle inchieste. Il provvedimento dispone dei filtri più stretti di tempo, di merito e di procedura.
Durata delle intercettazioni: con l'eccezione delle inchieste per mafia e terrorismo, per le quali valgono le norme attuali, le intercettazioni richieste dal pm potranno essere autorizzate dai giudici per un termine massimo di 75 giorni, dopodiché potranno essere prorogate di 3 giorni in 3 giorni fino al termine delle indagini. Per le "cimici" delle intercettazioni ambientali, invece, il pm dovrà ottenere il via libera del tribunale ogni 3 giorni.

CHI POTRA' ESSERE INTERCCETTATO - L'ascolto potrà essere autorizzato se sussistono "gravi indizi di reato", ma il ddl delimita la platea delle persone intercettabili, cioè gli indagati o le persone "a conoscenza dei fatti" oggetto dell'inchiesta.
Quanto alle intercettazioni ambientali, le cimici potranno essere messe nei luoghi "dove si sta svolgendo attività criminosa". Al di fuori di questa condizione, si potranno mettere sotto ascolto altri luoghi, purché non siano "privati". Altri limiti riguardano la possibilità di utilizzare le intercettazioni. I risultati dell'ascolto non potranno essere usati in procedimenti diversi da quelli per cui sono state ordinate (con l'eccezione dei reati di mafia e terrorismo, spionaggio e pedopornografia).

TRIBUNALE COLLEGIALE - La stretta riguarda infine la procedura per avviare le intercettazioni. Il pm dovrà chiedere l'autorizzazione e le eventuali proroghe non più al gip, come ora, ma al tribunale del capoluogo di distretto che decide in composizione collegiale. Inoltre, il pm, con la richiesta di autorizzazione, dovrà trasmettere al tribunale il fascicolo con gli atti di indagine fino a quel momento compiuti e così ogni volta che chiede una proroga.

«Dobbiamo intervenire sulle intercettazioni»

Il premier torna a parlare del suo progetto di controverso ddl. Senza il quale, sostiene, «l'Italia non è un Paese civile».

di Emiliano Biaggio
Silvio Berlusconi non molla. Anzi, rilancia. Il governo stilerà il disegno di legge sulle intercettazioni, per tramutarlo in legge e riscrivere le regole. Il presidente del Consiglio lo urla con forza: «Dobbiamo intervenire sulle intercettazioni, perchè un Paese in cui non c'è inviolabilità di ciò che si dice al telefono non è un Paese civile». Quello che sembrava un percorso non solo interrotto ma terminato su un binario morto (anche per gli attriti con i finiani) adesso torna nell'agenza di palazzo Chigi. Una scelta figlia dei controlli nella sede de Il Giornale, quotidiano della famiglia Berlusconi, dopo "il caso Marcegaglia". La pubblicazione dei colloqui telefonici tra la presidente di Confindustria, il presidente di Mediaset e del direttore del quotidiano ha lasciato il segno. Per Maurizio Lupi (Pdl, vicepresidente della Camera), la pubblicazione di quelle conversazioni telefoniche sono «Una cosa incredibile, che dimostra come avessimo ragione noi a voler porre un limite alle intercettazioni». Ma il ddl sulle intercettazioni si scontra con la situazione politica, con un governo che al momento non ha una maggioranza solida alla Camera e con i finiani che non hanno nascosto perplessità per il disegno berlusconiano. Sullo sfondo lo spettro di un possibile governo tecnico non lascia tranquillo il premier, consapevole delle difficoltà. Certo è che la questione si ripropone, e torna ad essere tema caldo.

Saturday, 9 October 2010

Trame e segreti dietro l'omicidio di Anna Politkovskaja

di Piero Sinatti (9 ottobre 2006. Fonte: www.ilsole24ore.com)
Un centinaio sono gli articoli, le interviste e i documenti pubblicati sul bisettimanale d’opposizione «Novaja Gazeta» dalla inviata e commentatrice Anna Politkovskaja, assassinata sabato scorso in pieno centro di Mosca e in pieno giorno. Quei materiali che andavano a colpire bersagli pericolosi. avevano un comune denominatore: l’aspra (e anche unilaterale) denuncia del conflitto di Cecenia, delle tensioni nel Nord Caucaso e più in generale della corruzione e dell’arbitrio (proizvol) annidati “come una cancrena” tra i tutori della legge, nell’esercito, nelle istituzioni di governo, centrali e regionali.
In Cecenia la Politkovskaja aveva compiuto 40 “missioni” a partire dallo scoppio del secondo conflitto russo-ceceno, nell’agosto 1999, sfidando pericoli e minacce. Nessun giornalista vanta una simile performance. Scampata a due attentati, nel 2001 era stata vittima, proprio in Cecenia, di gravi sopraffazioni da parte di ufficiali dell’FSB. Più volte insignita, in Russia, di prestigiosi premi giornalistici, è stata spesso ascoltata come testimone da istituzioni internazionali che indagavano sulle violazione dei diritti umani e civili in Cecenia. Ha pubblicato in Occidente alcuni libri su quella regione, tradotti anche in Italia (come Cecenia – Il disonore della Russia, edito da Fandango, Roma, nel 2003) e un viscerale pamphlet contro Putin, La Russia di Putin, edito un anno fa in Italia da Adelphi. Nei confronti del Presidente, la Politkovskaja confessa di nutrire “un’antipatia istintiva, profonda”. Lo considera “un razzista”, “uno sbirro della polizia segreta”, “un Akakij Akakevich (il patetico ometto del Cappotto di Gogol’, P.S.) seduto sul trono di tutte le Russie”, l’affossatore della democrazia in Russia e il responsabile del conflitto ceceno con le sue atrocità. C’è da dire che mai usa un linguaggio altrettanto duro nei confronti dei terroristi ceceni.
Secondo i colleghi di “Novaja Gazeta”, l’assassinio della Politkovskaja è legato alla sua attività professionale. Proprio gli articoli di quest’anno potrebbero suggerire delle tracce. Sempre documentati, rivelano, oltre a un coraggioso e paziente lavoro condotto sul campo, un’ampia disponibilità di fonti: nelle procure, al Ministero degli interni, nell’esercito e forse nei “servizi” – l’FSB. Su Beslan la giornalista aveva pubblicato varie inchieste e un mese fa materiali riservati del Ministero degli interni federale che rivelano confusione, reticenze, incompetenze, superficialità abissali nella gestione della crisi e nelle successive indagini. Aveva denunciato malversazioni e ruberie impunite commesse in altre repubbliche nord caucasiche (specie in Ingushetija e Dagestan) da parte di alti dirigenti e persecuzioni contro inquirenti onesti. Si era impegnata perché il caso del giovane allievo tankista Sychev, vittima delle violenze dei “nonni” nella scuola militare di Cheljabinsk (gli avevano provocato l’amputazione delle gambe e dei genitali), non venisse messo a tacere dalle autorità militari.
Il caso più clamoroso, tuttavia, rivelato dalla Politkovskaja assieme a un suo collega in un’inchiesta apparsa nel n.74 di “Novaja Gazeta” a fine settembre, riguarda l’intervento a San Pietroburgo di un manipolo di armati del battaglione ceceno “Vostok” (Oriente), integrato nella 42a Divisione fucilieri motorizzata federale. Erano arrivati il 15 settembre scorso nella capitale baltica per dirimere una contesa, scoppiata tra due società gestite da due biznesmeny ceceni rivali. Oggetto della contesa la chiusura per bancarotta di una grossa fabbrica locale per la lavorazione della carne e la destinazione al mercato immobiliare dell’area su cui sorge. Una speculazione di alcuni milioni di dollari, cui il proprietario della fabbrica si opponeva.
L’intervento degli uomini del “Vostok” – armati di tutto punto e personalmente guidati dal suo comandante e fondatore, il generale di brigata e “eroe della Federazione Russa” Sulim Jamadaev (un suo fratello è deputato alla Duma) – si concludeva con il proprietario della fabbrica spedito all’ospedale con le ossa rotte e la firma dei documenti che sancivano la bancarotta della fabbrica.
Una squadra della militsija della capitale baltica, chiamata per arrestare gli uomini di Jamadaev, dopo averne verificato identità e accreditamenti ufficiali, si ritirava lasciando loro campo libero.
La vicenda, che ha dell’incredibile, si collega alla denuncia della Politkovskaja del regime filorusso del giovane Ramzan Kadyrov (che ha inferto colpi mortali ai separatisti e di fatto procede con rapidità alla ricostruzione del paese e al consolidamento di un certo ordine) e dei battaglioni che lo sostengono.
Secondo la Politkovskaja, essi operano nella piena illegalità. Dispongono di prigioni segrete. Rapiscono, imprigionano, torturano e fanno sparire, per sempre, gli avversari, veri o presunti, del nuovo regime. Le loro azioni e il loro stesso raggruppamento avrebbero, secondo la giornalista, motivazioni extra politiche: difendersi dall’istituto della “vendetta di sangue” tra famiglie o perseguirlo, oppure arricchirsi con esazioni, sequestri e riscatti e farsi finanziare da Mosca. Questi battaglioni hanno arruolato migliaia di ex-boeviki che hanno deposto le armi, arrendendosi a Kadyrov più che ai federali. Putin, secondo la Politkovskaja, li ha pienamente legittimati, li finanzia e si disinteressa delle loro azioni illegali in nome della “cecenizzazione” del confitto, che consente il suo esaurimento e il ritiro dalla Cecenia delle truppe russe.
In un’intervista del 5 ottobre, due giorni prima del suo assassinio, la giornalista rivelava a Radio Svoboda di aver preparato tre articoli per il suo giornale in cui avrebbe chiamato in causa con tanto di documenti lo stesso Ramzan Kadyrov. Ma c’è un’altra circostanza singolare: due reggimenti ceceni incorporati nella 42° Divisione, il “Vostok” di Sulim Jamadaev e il “Zapad” (“Occidente”), comandato da Said Kakiev, per decisione del ministero della Difesa russo, partecipano già alla missione ufficiale di Mosca in Libano. Pochi giorni fa sono arrivati in Libano un centinaio di loro uomini incaricati di proteggere i genieri russi che dovranno bonificare parti di coste e infrastrutture libanesi bombardate dagli israeliani. All’arrivo dei ceceni in Libano hanno dato ampia risonanza i TG russi (il più seguito dei quali, il “Vremja”, taceva domenica, al pari di Putin, sull’assassinio della Politkovskaja). Sono andate in onda interviste di soldati ceceni, in cui questi si dichiaravano fieri di partecipare, da buoni musulmani, all’opera di risanamento di un paese musulmano come la loro Cecenia.

Friday, 8 October 2010

Politkovskaja, la scomparsa sulla stampa italiana

Nei titoli e nei catenacci di alcuni quotidiani italiani dell'8 ottobre 2006 il ricordo della giornalista russa.

di Emiliano Biaggio

"I ceceni non hanno più voce", il titolo de Il Manifesto. "Uccisa a Mosca Anna Politkovskaja, giornalista e paladina dei diritti umani nel Caucaso". "Giornalista assassinata a Mosca", le parole di Repubblica. "Denunciò l'orrore della guerra cecena, Anna Politkovskaya uccisa a colpi di arma da fuoco nell'atrio di casa". "Uccisa in ascensore la giornalista che sfidava Putin", l'apertura della Stampa. "Anna Politkovskaja aveva raccontato al mondo gli orrori della guerra cecena". "Uccisa la giornalista Anna Politkovskaja", il titolo de l'Unità. "Denunciò la guerra di Putin". "Assassinata Anna Politkovskaia", il cappello di Liberazione. "Era la reporter più odiata dal Cremlino".

La confessione di un criminale degli squadroni della morte: tornavamo e li giustiziavamo…

di Anna Politkovskaja (27 maggio 2004, traduzione di F. Giovannelli per peacelink)
Il nostro giornale ha scritto più volte dell'ondata di rapimenti che quest'anno si è abbattuta sull'Inguscezia, compiuti, come ritenevamo, con la partecipazione della direzione dell'FSB della repubblica. Ecco ora un documento che, da una parte, si potrebbe ritenere un falso, non fosse altro perché si ha tanta voglia di prenderlo per un falso. Dall'altra però ci sono le prove – di cui la redazione è in possesso – che il documento è autentico.
«Alla procura generale della Russia, da Oniščenko Igor N.
Si rivolge a voi un collaboratore dell'FSB RF (i servizi segreti della Repubblica Federale russa N.d.T.) per la regione di Stavropol'skij, che ha lavorato nell'FSB per l'Inguscezia con un incarico speciale. Finito il periodo della trasferta, sono tornato a casa. La coscienza mi tormenta. Sono operativo negli organi dell'FSB da quasi 12 anni, e non pensavo che avrei sofferto tanto.
Il capo dell'FSB per Inguscezia, Korjakov, è una persona terribile nel nostro sistema. Benché dica di essere stato mandato a lavorare niente di meno che da Patruševij e Putin, questa disgustosa canaglia elimina gli uomini solo in quanto ingusci o ceceni. Nella vita ha ricevuto una qualche offesa, e per questo li odia.
Korakov ha costretto me e i miei colleghi (eravamo 5 in tutto a lavorare per lui) a picchiare sistematicamente tutti quelli che arrestavamo, sotto le mentite spoglie di collaboratori del ROŠ (il quartier generale regionale N.d.T.).
Poi, secondo lo schema: abbigliamento speciale, passamontagna, altri certificati, travestimenti, automobili (di regola quelle degli stessi arrestati, cambiavamo solo i numeri) pass speciali… con la scusa di una consegna oltre i confini di Magas, dopo aver fatto un giro, generalmente tornavamo di nuovo al nostro edificio con altre macchine e li giustiziavamo. Tutto il lavoro veniva svolto solo di notte. Di giorno recuperavamo il sonno.
Korjakov doveva riferire a Mosca che il lavoro procedeva bene, e dimostrarsi degno della carica di generale acquisita da poco. Per questo c'era un piano. Ogni settimana almeno 5 persone. All'inizio del 2003, quando ero appena stato assegnato all'incarico, arrestavamo davvero solo quelli che vi avevano preso parte (intende: preso parte alle bande armate - A.P.), ma dopo settembre, quando Korjakov si è inferocito con un certo procuratore, come diceva, abbiamo iniziato a catturare tutti, senza selezione, solo a basandoci sull'aspetto. Come diceva Korjakov, che differenza c'è, sono tutte carogne. Io personalmente con Sergej ho mutilato più di 50 persone e ne ho seppellite 35.
Oggi sono arrivato a casa. Mi hanno premiato per aver prestato servizio in modo impeccabile. Grazie all'ultima operazione che ha portato alla rimozione del procuratore locale, in possesso di materiale compromettente su Korjakov (intende Rašid Ozdoev, sostituto procuratore della procura della Repubblica di Inguscezia, rapito l'11 marzo 2004 – A.P.). Il generale da tempo gli dava la caccia. Io ho distrutto la sua arma di ordinanza e i suoi documenti, ho frantumato tutte le certezze. Quella stessa notte Korjakov ha dato l'ordine ad altri di liberarsi di lui.
Sono colpevole. Scrivo perché ho timore di Dio. Sono pentito. Questa è la pura verità, un giorno lo sapranno tutti comunque. Non so se potrò lavare i miei peccati davanti a Dio con questa lettera.
Oniščenko Igor' N.».
In basso, il timbro: “Direzione della Procura Generale della Federazione Russa nel Distretto Federale del Sud. 16.04.2004 registrazione N°1556.
Non c'è niente né da aggiungere né da commentare. Vivere in un paese con tali reparti speciali e continuare a far finta che vada tutto bene, è già un crimine.

Anna Politkovskaja, madrina delle libertà di espressione e di stampa

Non ha mai rinunciato a raccontare le verità più scomode, e per questo molto probabilmente è stata uccisa. Ma restano il suo coraggio e i suoi articoli. E la sua storia.

di Emiliano Biaggio*

Quattro anni veniva assassinata Anna Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta e interprete del diritto-dovere dell'informazione vera e libera. Espressione della libertà d'espressione e capofila della controinformazione russa, Politkovskaja ha sempre scritto e denunciato quelle realtà che altri, tanti altri, non hanno saputo e voluto raccontare. A rischio della propria incolumità e nel rispetto della propria professionalità, non ha mai avuto timore ad apporre la propria firma su articoli fortemente critici su Vladimir Putin, sullo scarso rispetto dimostrato dei diritti civili e dello stato di diritto da parte di Governo ed esercito, sulla conduzione della guerra in Cecenia, sulle politiche del Cremlino in Daghestan e Inguscezia. Inchieste e resoconti pericolosi da realizzare, scomodi da pubblicare. Ma non per Politkovskaja e per il suo giornale, col tempo sempre più riferimento di una parte dell'opinione pubblica russa e di ampie fasce di quella internazionale. Una voce critica fuori dal coro e dagli schemi imposti da Mosca, quella di Politkovskaja, divenuta fastidiosa, troppo fastidiosa, alle orecchie e non solo dei gestori del potere. Avrebbe potuto occuparsi di altro, magari di sport, o avrebbe anche solo non farsi domande e porsi dei limiti, Anna Politkovskaja; così facendo avrebbe avuto una vita più tranquilla, lei che in più di un'occasione è stata minacciata di morte. Peccato invece che lei abbia preferito altro, e cioè spiegare come le cose andassero realmente, a dispetto delle versioni ufficiali fatte di silenzi, omissioni e menzogne. E' per rompere questo muro di false verità che Politkovskaja ha sempre scritto, perchè - scriveva ella stessa nel 2004 - «io vivo la vita e scrivo di ciò che vedo», e «vivere [...] e continuare a far finta che vada tutto bene, è già un crimine». Politkovskaja questo crimine non ha voluto compierlo, pur sapendo che esercitare la libera informazione non sempre è un diritto e in molti casi, al contrario, finisce con l'essere una colpa. E lei ne era consapevole. Nel 2005 arrivò a dire: «Certe volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano», ed io «non sono la sola ad essere in pericolo». Parole dette durante una conferenza di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di stampa, come a voler ribadire a tutti ciò che era, personalmente e professionalmente. Il 7 ottobre 2006 Anna Politkovskaja è assassinata nell'ascensore del suo palazzo, mentre stava rincasando. Per molti la sua morte è stata commissionata, forse da quegli stessi soggetti - governo ed esercito su tutti - che lei aveva messo in imbarazzo e in difficoltà di fronte al mondo. Un primo processo non è bastato a chiarire chi e perchè abbia voluto mettere a tacere la sua voce di verità, a ancora oggi - dopo l'annullamento del processo e il riavvio delle indagini - si attende di sapere chi ha privato Russia e non solo Russia di Anna Politkovskaja. Ciò non toglie che la sua storia e le sue storie sono quanto di più prezioso ci abbia lasciato.

(poi editoriale per la trasmissione del 10 ottobre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)

Wednesday, 6 October 2010

Rom, immigrati ed espulsioni da Milano a Roma: Italia come la Francia? L'Ue si oppone

Sarkozy e Berlusconi "uniti" dalla stretta sull'immigrazione e dalle politiche dei rimpatri. Ed entrambi trovano le critiche di Bruxelles

di Marianna Quatraro

E’ scontro aperto tra l’Eliseo e l’Ue: la Francia espelle rom e immigrati, smantella i loro campi e l’Unione Europea apre una procedura di infrazione contro il governo guidato da Nicolas Sarkozy, sostenendo che si tratta di una violazione della Carta europea sui diritti fondamentali. La vice presidente Viviane Reding ha detto: “Sarò molto chiara: non c'è posto in Europa per la discriminazione basata sulle origini etniche o di razza. E' incompatibile con i valori su cui si fonda l'Unione europea. Le autorità nazionali che discriminano gruppi etnici violano anche la Carta europea dei diritti fondamentali, che tutti gli Stati membri, compresa la Francia, hanno firmato”. Sarkozy ha definito le critiche del commissario alla sua politica inaccettabili e se inizialmente aveva invitato tutti a moderare i toni ed evitare di alimentare ‘una sterile controversia’, poi ha provocato il commissario Reding dicendo “Che faccia venire i rom nel suo Paese, che li accolga nel Lussemburgo”.
La posizione di Sarkozy incontra la piena approvazione del premier italiano, Silvio Berlusconi: “Sostengo Nicolas Sarkozy. L'Europa non ha ancora compreso affatto che quello dei rom non è un problema unicamente francese o italiano, greco o spagnolo. Il presidente Sarkozy ne è invece pienamente cosciente. La Reding avrebbe fatto meglio a trattare la questione in privato con i dirigenti francesi prima di esprimersi pubblicamente come ha fatto”. Si oppone, invece, l’Ue, difendendo la posizione della Reding e spiegando che le sue parole sono a nome di tutta la commissione. Dalla Francia all’Italia, la questione rom si fa di portata sempre più rilevante. Mentre a Venezia sono stati sgombrati alcuni campi e dati alloggi fissi, a Milano è stata avviata una campagna di sgomberi da due anni: ogni settimana viene cancellato un insediamento abusivo, con conseguente transumanza da un campo all'altro. Dal 2007 ci sono stati 315 sgomberi e la settimana scorsa è stato chiuso il più grande campo abusivo in città: quello in via Rubattino, Lambrate, dove vivevano 200 rom in condizioni igieniche disastrose. Nella Capitale, invece, la prefettura ha censito circa 200 insediamenti abusivi, alcuni dei quali si stanno smantellando. Ai rom vengono offerti alloggi temporanei in residence, ma i capifamiglia temendo la disgregazione dei nuclei familiari preferiscono trasferirsi in altri campi. Il sindaco Gianni Alemanno prevede la costruzione dai 10 ai 12 campi attrezzati fuori dal raccordo anulare per un massimo di 6mila posti. Il progetto del comune è costruire degli alloggi con la collaborazione dei capifamiglia. (fonte: businessonline.it del 16 settembre 2010)

Tuesday, 5 October 2010

Bosnia Erzegovina, uno stato in dieci punti


di Emiliano Biaggio - La Bosnia Erzegovina è frutto di negoziazioni internazionali intraprese all'indomani della dissoluzione della Yugoslavia e a seguito delle guerre intestine che ne derivarono. Con gli accordi di Dayton (Daitona), o più precisamente il General framework agreement for peace (GFAP), stipulati il 21 novembre 1995 nella base Wright-Patterson Air Force, si è posto fine alla guerra civile jugoslava. L'accordo prevede il passaggio, o meglio il ritorno, della Slavonia orientale alla Croazia, appartenente fino alla fine della guerra alla Serbia. Viene riconosciuta ufficialmente la presenza in Bosnia Erzegovina di due entità ben definite: la Federazione croato-musulmana che detiene il 51% del Territorio bosniaco e la Repubblica Srpska (49%). Ciascuna entità è dotata di un parlamento locale: la Repubblica Serba di un'assemblea legislativa unicamerale, mentre la Federazione croato-musulmana di un organo bicamerale. A livello statale vengono invece eletti ogni quattro anni gli esponenti della camera dei rappresentanti del parlamento, formata da 42 deputati, 28 eletti nella Federazione e 14 nella Repubblica; infine della camera dei popoli fanno parte 5 serbi, 5 croati e 5 musulmani. Qua sopra le dieci condizioni alla base dello stato di Bosnia Erzegovina.

Bosnia Erzegovina, dalle urne solo incognite

L'ombra di brogli e irregolarità sulle elezioni presidenziali. Con i serbi della Srpska che avvertono: se vinciamo è sessione.

di Emiliano Biaggio

Incertezza e attesa nel cuore dei Balcani: si sono concluse le elezioni politiche in Bosnia, paese ancora diviso che ancora non riesce a rilanciarsi dopo la guerra del 1992-1995. E ancora una volta pare che lo stato debba fare i conti con le proprie questioni irrisolte, perchè sul voto aleggia lo spettro dei brogli. Lo stato nato dalla dissoluzione della Jugoslavia, schiacciato tra Croazia e Serbia, si prepara ad eleggere i tre uomini che dovranno governare le tre regioni autonome che la compongono, il Distretto di Brčko, la Repubblica Serba (Srpska) e la Federazione croato-musulmana. Un paese che non ha in croati e serbi i vicini di casa e i popoli d'oltreconfine, ma che vede una non facile convivenza anche al proprio interno con i medesimi soggetti. Dalle urne non dovrebbe uscire la risposta politica che ci aspetta: anche i più ottimisti ritengono infatti le elezioni non segneranno una definitiva stabilità alla nazione bosniaca, dal 2006 alle prese con le continue tensioni tra Federazione (croati e bosniaci) e Repubblica (serbi) che costringono il governo centrale di Sarajevo al compromesso. Per il malumore dei bosniaci. In questo rebus politico, la situazione diventa difficile da pronosticare: di certo si sa solo che l’Unione europea ha già allertato gli enti internazionali sui possibili brogli, in ogni regione. E l'Ocse avverte: alle elezioni ci sarebbero troppe schede non valide. Gli osservatori dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico hanno infatti espresso preoccupazione per il numero molto alto di schede non valide registrato nella Republika Srpska (Rs), l'entità a maggioranza serba del paese. Un elemento di ulteriori attriti all'interno di un paese che ha nella Srpska un'entità desiderosa di indipendenza. Proprio nell'area serba c'è attesa per capire chi la spunterà: vanno infatti al ballottaggio Nebojsa Radmanovic e Milorad Dodik. Il primo è il candidato ideale per la politica del compromesso e rappresenta l’attuale premier al governo di Sarajevo, Nikola Špirić. Milorad Dodik, dei socialdemocratici indipendenti, ha già minacciato la secessione dalla Bosnia in caso di vittoria schiacciante. Attese e incertezze animano dunque la Bosnia-Erzegovina, che vede già assegnato il seggio croato: l'ha spuntata, alla fine, il candidato della socialdemocrazia Zeijko Komsic. Per il seggio del Distretto di Brčko, terzo e ultimo in questa repubblica federale semipresidenziale tripartita, sembra abbia vinto Bakir Izetbegovic, figlio del leader musulmano bosniaco ai tempi della guerra, Alija. Il passato, insomma, ritorna. E sembra che non si riesca proprio a voltare pagina. (fonte foto: Wikipedia)

Monday, 4 October 2010

Energia, ecco dove si gioca una partita importante per gli assetti futuri del mondo

Gli equilibri geopolitici, vecchi e nuovi, passano per le risorse energetiche. E da una fase che vede nuovi soggetti protagonisti del presente e già proiettati al futuro.

di Emanuele Bonini

Gli equilibri geopolitici mondiali presenti e soprattutto futuri passano per l'energia. Tutti, da esperti a politici a operatori del settore ne sono sempre più convinti e coscienti: quello energetico costituisce il nodo cruciale da sciogliere per capire verso quali assetti sta andando il mondo. Già adesso la corsa all'accaparramento delle risorse energetico ha determinato nuove alleanze e aperto nuovi fronti di concorrenza: l'asse Pechino-Caracas per il petrolio o i rapporti privilegiati tra Brasile, Argentina e Bolivia nel mercato del gas sono solo due dei nuovi scenari che rimettono in discussione i sistemi in vigore fino a pochi anni fa. Per intenderci, gli Stati Uniti non hanno più quella prese nel sud America che avevano fino a pochi decenni fa, e l'America Latina si sta pian piano emancipando. Ma non c'è solo il sud America: ci sono i paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina, cui si affianca un Sudafrica che avanza a ritmi forsennati), in continua, forte e costante crescita economica mentre il resto del mondo soffre una crisi che non accenna a finire. Potenze emergenti e grandi in declino: glà questa sola equazione basterebbe da sola a sintetizzare i cambiamenti geopolitici in atto. Ma la corsa all'energia è e sarà sempre più strategica: svincolarsi dalla dipendenza dell'altro garantisce libertà, la certezza di non dover concedere niente a nessuno; garantirsi alleanze - come sta facendo la Cina in Africa - e quindi accesso alle risorse è il colonialismo di nuovo corso. In questo i nuovi grandi sono in vantaggio: sono in crescita e possono offrire liquidità, ma soprattutto contropartite. E' il caso cinese. Il governo di Pechino in Africa porta infrastrutture e modernità: a differenza del vecchio occidentale che sfruttava, qui per le risorse dà in cambio contropartite che fanno comodo. Applica, in sostanza, il principio per cui il commercio internazionale porta benefici reciproci. Lo stesso sono in grado di fare India e Brasile. Questi paesi (la Russia no) si pongono inoltre all'avanguardia sul fronte energetico: conoscono un'espansione in un momento che consente loro di investire nelle fonti rinnovabili, costruendo un sistema produttivo che l'occidente non ha e che convertire sarebbe economicamente oneroso in fase di normalità, ma che diventa assai doloroso (e poco fattibile) in una fase di crisi come quella in corso. I paesi del Brics procedono in sostanza con quello che gli altri - al momento - non si possono permettere. Finendo con l'essere favoriti da uno sviluppo successivo a quello degli altri. I paesi sviluppati puntano sui combustibili fossili perchè su questi hanno costruito le proprie fortune e i propri sistemi, ma senza creare strategie alternative allo sfruttamento degli altri. Non è un caso se le politiche di sostenibilità restino lettera morta e parole mai convertite in atti concreti. Ma adesso gli ordini sono rimessi in discussione: al polo c'è una corsa alle risorse sommerse, in Africa agli europei si sono sostituiti i cinesi, nei governi di tutta Europa - e in quello statunitense - ci sono progetti per la realizzazione di gasdotti di strategico interesse (Nabucco e SouthStream) che dovrebbero bypassare la Russia, ma in chiave iraniana. Peccato che oggi non si può isolare la Russia senza fare i conti con la Repubblica islamica, che allo stato attuale offre poche garanzie. Qualcosa, insomma, cambierà. In un senso o nell'altro. Questo è inevitabile, perchè le risorse energetiche permettono di andare avanti. E rappresentano la sfida più difficile da affrontare.

Elettricità, 1/3 di quella dell'Unione europea nel 2030 sarà rinnovabile

Energia pulita dal 19% al 36%, giù carbone, gas e nucleare.

di Alberto Fiorillo (portavoce nazionale di Legambiente)
Entro vent'anni un terzo dell'elettricità consumata nell'Unione europea sarà prodotta utilizzando fonti rinnovabili. La stima è contenuta nell'ultimo rapporto della Commissione Europea (Eu Energy Trend to 2030), il documento che fotografa l'evoluzione delle tecnologie e l'andamento dei consumi energetici. Nel dossier viene evidenziato che per la prima volta si avrebbe un consumo di energia elettrica al 2030 costante rispetto ai livelli attuali e che la distribuzione della produzione di energia elettrica tra le diverse tecnologie fa emergere che le rinnovabili elettriche avranno una quota molto più elevata, passando dall'attuale 19% al 36%. Contemporaneamente si registrerà una riduzione della produzione da gas, carbone e nucleare.
Nello scenario europeo del 2030, quindi, la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili sarà superiore ad un terzo, mentre diminuirà la produzione dalle fonti energetiche tradizionali. Il nucleare, in controtendenza rispetto a tutti gli scenari che prospettano un ritorno dell'atomo, sarà in sensibile calo, passando dal 28 al 24%. (fonte: agenzia Dire)

Friday, 1 October 2010

Turchia, il ritorno del sultano

Solo il 38% dei turchi vuole l'Unione europea, e appena il 23% degli europei scommette su un ingresso del paese in Ue. Mentre lo stato che fu di Ataturk riscopre il proprio passato di potenza.

di Lucio Caracciolo*

Abbiamo perso Ankara? Già antemurale atlantico lungo il limes sud-orientale, la Turchia intende mutarsi nel cuore di un impero informale esteso dal Mediterraneo orientale alla Cina occidentale, dai Balcani al Vicino e al Medio Oriente? Recep Tayyip Erdoğan, leader sempre più spavaldo della rinascente potenza anatolica, smetterà i panni del musulmano moderato e democratico per svelare il suo volto nascosto di sultano neo-ottomano e di aspirante califfo dell'ecumene islamica? La sua agenda segreta verte sulla sfida all'Occidente, sull'infiltrazione maomettana dell'Europa, sulla riconquista di Gerusalemme? Così profetizzano le Cassandre americane e israeliane, echeggiando gli irriducibili avversari domestici – non solo militari – del primo ministro turco. Se fino a ieri potevamo scartare simili voci come eccentriche, oggi gli annunci di sciagura echeggiano al Congresso di Washington, financo alla Casa Bianca. Nello Stato ebraico sono quasi senso comune: il 78% degli israeliani vede nel turco un nemico. Quanto all'Unione Europea, la mascherata allestita negli anni Novanta, per cui ci imponevamo di credere di voler integrare i turchi nella famiglia comunitaria, ha esaurito la sua pallida magia. Solo il 38% dei turchi e il 23% degli europei scommette ancora sulla bontà di un matrimonio comunque improbabile. L'effetto combinato della crisi turco-israeliana su Gaza, della tensione turco-americana sull'Iran e dei sospetti sulla deriva islamista del partito di Erdoğan (Akp) – rilanciati dalla sua vittoria nel referendum costituzionale del 12 settembre, che ha messo all'angolo i militari laici e filo-occidentali – ha diffuso nel mondo atlantico la “sindrome di Ankara”. Ci sentiamo traditi. I nostri baldi giannizzeri, pronti all'uso contro russi, arabi infidi e jihadisti, ci hanno voltato le spalle. Si apprestano a pugnalarci. “Who lost Turkey?”. La caccia ai colpevoli è in corso. Procedere a un'analisi meno eccitata della questione turca non facile. Radicati stereotipi razzisti turbano la nostra capacità di interpretare le evoluzioni della risorgente potenza bicontinentale. Un aspirante primattore, proiettato ad affermarsi entro il 2050 come terza economia europea e nona mondiale, con più abitanti della Germania, un esercito di prim'ordine e un soft power che aspira a penetrare nelle terre islamiche, turaniche e/o ex ottomane. Soprattutto, con una certa idea di sé. A suo tempo evocata da leader laici come Turgut Özal e Süleyman Demirel, per cui la missione di Ankara consiste nel guidare un universo turco “che si estende dalla Muraglia cinese fino all'Adriatico”. E oggi riassunta con candida convinzione dal ministro degli Esteri di Erdoğan, Ahmet Davutoğlu: “Il mondo si aspetta grandi cose dalla Turchia”. Non abbiamo ancora perso Ankara. Primo, perché “noi” non esistiamo: l'Occidente come insieme strategico-geopolitico è morto vincendo la guerra fredda, pur se fatica a confessarselo. Secondo, perché conviene rovesciare la prospettiva: la Turchia sta cercando di (ri)trovare se stessa, non di rompere gli ormeggi con il mondo euro-atlantico. Esercizio acrobatico. Perché infrange il tabù kemalista, che almeno nella sua vulgata contrapponeva la repubblica anatolica al passato ottomano. Noi della sedicente Unione Europea non possiamo trattare la Turchia peggio di quei paesi dell'ex Est che abbiamo non troppo spontaneamente accolto dopo l'Ottantanove. Abbiamo a che fare con i principali eredi di un impero plurisecolare. I quali erano stati costretti – si erano costretti - a dimenticarlo. Non più. Guai a pensare che si tratti solo delle megalomanie di Erdoğan o delle utopie di Davutoğlu. Chiunque guiderà la Turchia nel prossimo futuro potrà slittare questo o quell'accento, non il cuore della geopolitica turca. Una potenza è tornata. E intende restare. (articolo pubblicato su LaRepubblica del 30 settembre 2010).

*direttore responsabile di Limes

Stampa estera, la politica italiana vista da fuori

Titoli e catenacci delle testate di Spagna, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti*.

traduzioni di Emiliano Biaggio

"Silvio Berlusconi supera il voto di fiducia grazie all'appoggio di Fini", titola El Mundo. "Senza il suo sostegno il governo sarebbe caduto". "Berlusconi ottiene la fiducia condizionata della Camera", scrive El Pais. "La maggioranza evita il primo scoglio con 342 voti e guadagna tempo contro il voto anticipato". "Berlusconi assicura la sopravvivenza al suo governo", si legge su Le Figaro. "Il presidente del Consiglio italiano ha ottenuto la fiducia del Parlamento col sostegno dei dissidenti di destra". "Silvio Berlusconi salvato dai dissidenti di destra", titola Libération. "Grazie al sostegno di Gianfranco Fini il primo ministro italiano conserva il suo mandato". "Silvio Berlusconi sopravvive al voto di fiducia grazie ai ribelli", scrive il Guardian. "Gli ex-alleati fanno retromarcia e sostengono il premier". "Berlusconi supera il voto, ma dipende dai ribelli", scandisce il Finantial Times. "Il presidente del Consiglio sotto pressione". "L'Italia di Berlusconi trionfa nel voto di fiducia", scrive il Washington Post. "Ma resta lo spettro di elezioni anticipate".

*(dai siti internet delle rispettive testate, in articoli dal 29 al 30 settembre.)