Un'immensa quantità di energia disponibile, il supergiacimento al confine con il Libano ridisegna gli equilibri nel Mediterraneo.
di Paolo Della Sala (Il secolo XIX, 11 dicembre 2010)
Il Bacino del Levante, la porzione di Mediterraneo che va da Cipro verso le coste situate tra la Siria e Gaza, trabocca di gas (e petrolio) e ciò disegna un Medio Oriente completamente nuovo, in cui Israele diventerebbe esportatore di gas e il Libano potrebbe tornare a essere la Svizzera d'Oriente. Tutto ciò è confermato dai rilievi compiuti dalla società di rilievi norvegese PGS nel 2007, e da quelli della texana Noble Energy, eseguiti lungo le coste nord di Israele e al di là del confine col Libano. Si sapeva già da tre anni che tra le coste della Siria, i fondali di Cipro (attorno al vulcano sottomarino Eratostene) e il porto di Beirut vi sono alcuni miliardi di barili di petrolio. Ma i dati più recenti, filtrati a partire dall'aprile di quest'anno, sono di assoluto rilievo: Israele ha diversi giacimenti di gas. Il principale -denominato Leviathan- avrebbe una consistenza di "almeno" 25 "trillion cubic feet" (Tcf, da ora in poi), cioè 8000 miliardi di miliardi di metri cubi. Secondo la Noble Energy in tutto il bacino del Levante ci sarebbero almeno 227 Tcf di gas. Per avere un termine di paragone, le riserve egiziane sono di 77 Tcf, mentre la parte iraniana di South Pars, il più grande bacino al mondo, ha una stima dichiarata di 436 Tcf. L'area compresa tra Cipro e Gaza conterrebbe uno dei primi cinque bacini di gas al mondo. Il fatto che una parte consistente di questa ricchezza in idrocarburi sia in mani israeliane sconvolge gli equilibri geopolitici del mondo, la qual cosa riguarda da vicino ognuno di noi -più delle liti tra i partiti o del caso Wikileaks- perché si tratta: a) dei nostri portafogli e del riscaldamento delle case; b) dell'energia per le nostre industrie, che formano il secondo sistema industriale europeo; c) dell'inclusione o esclusione di Eni e altre società nazionali dal futuro business.
Il Grande Gioco del Mediterraneo legato agli idrocarburi può innescare guerre e disastri, ma può anche offrire un rilancio al sud Europa e all'Italia, finora tagliati fuori dal rilancio dell'economia tedesca e dalla crescita delle economie del Sudest asiatico. La nazione più presente, più allarmata e più diplomaticamente dinamica nell'area è la Russia, forte della vecchia presenza sovietica. Sarebbe un bene che la diplomazia e il sistema industriale italiani non trascurino queste acque a noi così vicine e quindi interessanti. In effetti le relazioni economico-politiche tra Russia e Israele e quelle tra Russia e Libano sono cresciute di livello e qualità nella distrazione degli occidentali, anche se l'Europa, la Francia e l'Italia svolgono un importante ruolo pacificatore tra Palestina e Israele, senza trascurare la missione in Libano. Recentemente Putin ha "donato" al Libano elicotteri e munizioni, e si è impegnato a costruire centrali elettriche nel Paese dei Cedri. La Russia ha due obiettivi: quello di garantirsi un appoggio navale nel Mediterraneo, e quello di non farsi sfuggire di mano la gestione del business internazionale del gas. A sua volta il Libano cerca nella Russia un partner (finanziario e militare) capace di contenere le pesanti ingerenze interne di Siria e Iran, compiute attraverso la milizia di Hezbollah. Evidentemente l'Europa da sola non basta più a offrire sicurezza a Beirut.
Sono in crescita anche le relazioni tra Mosca e Gerusalemme, e all'inizio di questo mese una delegazione russa si è recata a Tel Aviv per discutere del coinvolgimento russo nella futura pipeline tra Israele e la Grecia. Si tratta di un gasdotto alternativo alla Arab gas pipeline, che attualmente distribuisce il gas egiziano alla Giordania e alla Siria. La arab pipeline ha una diramazione verso Israele e si prevede un collegamento verso il porto di Tripoli in Libano e poi verso la Turchia, dove si interconnetterebbe con il gasdotto Nabucco che arriva in Europa. A questo punto il gas israeliano-libanese apre uno scenario nuovo anche per il consorzio americano Nabucco e quello italo-franco-russo di South Stream. Come si vede, i russi si sono buttati a pesce anche sul gas di Beirut e Gerusalemme. Cosa farà l'Europa, la vacca che tutti cercano di mungere?
Friday, 31 December 2010
Maxi-giacimento di gas nella acque di Israele
Scoperto "Leviatano-1", con risorse da 450 miliardi di metri cubi. Lo Stato ebraico potrebbe diventare paese esportatore, e destabilizzare il Medio Oriente.
di Emiliano Biaggio
Scoperta al largo delle coste di Israele, un giacimento sottomarino di gas naturale che potrebbe cambiare il futuro dello Stato ebraico: stando a quanto riferisce Al-Jazeera, la Noble Energy, compagnia statunitense operante nel settore del petrolio e del gas e in Israele operante in partnernership con l'israeliana Delek Energy, ha individuato a 130 chilometri dalla costa di Haifa un giacimento (chiamato Leviatano-1) che «potrebbe fare di Israele un paese esportatore di gas», dato che dalle prime stime Leviatano-1 si configura come «il più grande giacimento sottomarino di gas naturale scoperto al mondo nell'ultimo decennio». Noble energy ha fatto sapere in una nota che il giacimento Leviatano-1 «ha risorse stimate in 450 miliardi di metri cubi di gas naturale, si trova approssimativamente a circa 1.645 metri sotto il livello del mare», e si stima abbia «un'estensione di 325 chilometri quadrati». Il giacimento si trova a 47 chilometri di distanza da Tamar, altro giacimento tra i più grandi al mondo ad essere stato scoperto negli anni recenti sempre al largo delle coste di Haifa (è stato individuato nel 2009 e ha una capacità di 180 miliardi di metri cubi di gas). Ma al momento, sottolinea Al-Jazeera, i valori di Leviatano-1 sono ancora stimati. Infatti l'estensione di Leviatano-1 «richiederà due o più pozzi per definire meglio il totale delle risorse» contenute nel giacimento.
Intanto i media del paese danno eco alla notizia: «Un potere mondiale», ha titolato il quotidiano israeliano Maariv, ma gli analisti invitano alla cautela. «Per Israele non è un buon momento per entrare nel mercato», ha fatto notare Brenda Shaffer, esperta energetica dell'università di Haifa. Al-Jazeera mette in evidenza il fatto che la scoperta del giacimento Leviatano-1 «potrebbe alterare l'equilibrio geopolitico del Medio Oriente», dove «le dispute sulle risorse ancora scuotono le relazioni» tra paesi. Infatti fuori Israele il vicino Libano sta cercando di convincere le compagnie a esplorare i propri fondali marini: una cosa, questa, da non sottovalutare, dato che «i due paesi si sono già minacciati a vicenda proprio per via delle risorse marine». Ma nella disputa si inserisce anche l'Iran: l'ambasciatore iraniano in Libano, Qazanfar Roknabadi, ha già fatto sapere che «tre quarti del giacimento Leviatano-1 appartengono al Libano», sottolinea evidenzia Al-Jazeera. Ma la questione potrebbe non esaurirsi qui, perchè quest'ultima scoperta al largo di Haifa «aumenta» anche le possibilità di altre scoperte nelle acque di Cipro, Egitto e Territori palestinesi.
di Emiliano Biaggio
Scoperta al largo delle coste di Israele, un giacimento sottomarino di gas naturale che potrebbe cambiare il futuro dello Stato ebraico: stando a quanto riferisce Al-Jazeera, la Noble Energy, compagnia statunitense operante nel settore del petrolio e del gas e in Israele operante in partnernership con l'israeliana Delek Energy, ha individuato a 130 chilometri dalla costa di Haifa un giacimento (chiamato Leviatano-1) che «potrebbe fare di Israele un paese esportatore di gas», dato che dalle prime stime Leviatano-1 si configura come «il più grande giacimento sottomarino di gas naturale scoperto al mondo nell'ultimo decennio». Noble energy ha fatto sapere in una nota che il giacimento Leviatano-1 «ha risorse stimate in 450 miliardi di metri cubi di gas naturale, si trova approssimativamente a circa 1.645 metri sotto il livello del mare», e si stima abbia «un'estensione di 325 chilometri quadrati». Il giacimento si trova a 47 chilometri di distanza da Tamar, altro giacimento tra i più grandi al mondo ad essere stato scoperto negli anni recenti sempre al largo delle coste di Haifa (è stato individuato nel 2009 e ha una capacità di 180 miliardi di metri cubi di gas). Ma al momento, sottolinea Al-Jazeera, i valori di Leviatano-1 sono ancora stimati. Infatti l'estensione di Leviatano-1 «richiederà due o più pozzi per definire meglio il totale delle risorse» contenute nel giacimento.
Intanto i media del paese danno eco alla notizia: «Un potere mondiale», ha titolato il quotidiano israeliano Maariv, ma gli analisti invitano alla cautela. «Per Israele non è un buon momento per entrare nel mercato», ha fatto notare Brenda Shaffer, esperta energetica dell'università di Haifa. Al-Jazeera mette in evidenza il fatto che la scoperta del giacimento Leviatano-1 «potrebbe alterare l'equilibrio geopolitico del Medio Oriente», dove «le dispute sulle risorse ancora scuotono le relazioni» tra paesi. Infatti fuori Israele il vicino Libano sta cercando di convincere le compagnie a esplorare i propri fondali marini: una cosa, questa, da non sottovalutare, dato che «i due paesi si sono già minacciati a vicenda proprio per via delle risorse marine». Ma nella disputa si inserisce anche l'Iran: l'ambasciatore iraniano in Libano, Qazanfar Roknabadi, ha già fatto sapere che «tre quarti del giacimento Leviatano-1 appartengono al Libano», sottolinea evidenzia Al-Jazeera. Ma la questione potrebbe non esaurirsi qui, perchè quest'ultima scoperta al largo di Haifa «aumenta» anche le possibilità di altre scoperte nelle acque di Cipro, Egitto e Territori palestinesi.
Thursday, 30 December 2010
Occupazione onorevole, in aula per 716 euro al giorno e per tre ore di lavoro
E' il duro lavoro del deputato, il cui stipendio del deputato ammonta a 15 mila e 37 euro al mese: 32 volte quello di un operaio appena assunto.
Di Antonio Bravetti e Alfonso Raimo (agenzia Dire)
Tre ore al giorno per duecentoquaranta euro l'ora. Non si tratta dello stipendio di un calciatore, nè del cachet di una star del cinema. E' quanto guadagna alla Camera chi fa il deputato. Uno stipendio che e' 32 volte quello di un operaio appena assunto. Ovvio che a Montecitorio non c'è distinzione: prima legislatura o meno, la retribuzione è sempre quella. Il cosiddetto stipendio del deputato ammonta infatti a 15mila e 37 euro al mese, ed è composto da varie voci: un'indennità propriamente detta, alla quale si aggiungono una serie di rimborsi. C'è la diaria, che rifonde il deputato per il soggiorno a Roma. E poi il rimborso spese per il rapporto tra eletto ed elettori, quello per le spese di trasporto e di viaggio, quello per le spese telefoniche.
Sulla base dei dati pubblicati con precisione dal sito della Camera dei deputati, l'indennità per ognuno di loro ammonta a 5.486,58 euro al mese. La diaria a 4.003,11 euro mensili, il rimborso per il rapporto con il collegio a 4.190 euro al mese. Per il trasporto e il viaggio, a parte la tessera che dà diritto alla libera circolazione su autostrade, ferrovie, navi ed aerei per trasferimenti in Italia, viene corrisposto un rimborso spese trimestrale di oltre 3mila euro (si parte da 3.323 euro). Per telefonare, i deputati dispongono di una somma annua di 3.098,74 euro. Il totale è, appunto, di 15mila e 37 euro. Il calcolo è quindi semplice, sempre grazie ai dati forniti dall'ufficio stampa della Camera: 152 sedute dell'Assemblea nel 2010, per un totale di 760 ore passate nell'emiciclo. I giorni dell'anno sono 365: al netto dei sabati e delle domeniche (104 giorni) e delle festività (solo 6 giorni nel 2010), restano 255 giorni, ovvero 21 al mese. Stipendio mensile alla mano, i deputati guadagnano 716 euro al giorno, ovvero 238 euro l'ora. Ovvio che oltre alle ore passate in Aula, il lavoro del deputato è fatto anche dell'attività nelle varie commissioni, che spesso, però, sono convocate in concomitanza con l'Assemblea. D'altro canto, i 15mila euro non tengono conto dei benefit previsti per i presidenti di commissione, i questori, i vicepresidenti, i segretari.
Di Antonio Bravetti e Alfonso Raimo (agenzia Dire)
Tre ore al giorno per duecentoquaranta euro l'ora. Non si tratta dello stipendio di un calciatore, nè del cachet di una star del cinema. E' quanto guadagna alla Camera chi fa il deputato. Uno stipendio che e' 32 volte quello di un operaio appena assunto. Ovvio che a Montecitorio non c'è distinzione: prima legislatura o meno, la retribuzione è sempre quella. Il cosiddetto stipendio del deputato ammonta infatti a 15mila e 37 euro al mese, ed è composto da varie voci: un'indennità propriamente detta, alla quale si aggiungono una serie di rimborsi. C'è la diaria, che rifonde il deputato per il soggiorno a Roma. E poi il rimborso spese per il rapporto tra eletto ed elettori, quello per le spese di trasporto e di viaggio, quello per le spese telefoniche.
Sulla base dei dati pubblicati con precisione dal sito della Camera dei deputati, l'indennità per ognuno di loro ammonta a 5.486,58 euro al mese. La diaria a 4.003,11 euro mensili, il rimborso per il rapporto con il collegio a 4.190 euro al mese. Per il trasporto e il viaggio, a parte la tessera che dà diritto alla libera circolazione su autostrade, ferrovie, navi ed aerei per trasferimenti in Italia, viene corrisposto un rimborso spese trimestrale di oltre 3mila euro (si parte da 3.323 euro). Per telefonare, i deputati dispongono di una somma annua di 3.098,74 euro. Il totale è, appunto, di 15mila e 37 euro. Il calcolo è quindi semplice, sempre grazie ai dati forniti dall'ufficio stampa della Camera: 152 sedute dell'Assemblea nel 2010, per un totale di 760 ore passate nell'emiciclo. I giorni dell'anno sono 365: al netto dei sabati e delle domeniche (104 giorni) e delle festività (solo 6 giorni nel 2010), restano 255 giorni, ovvero 21 al mese. Stipendio mensile alla mano, i deputati guadagnano 716 euro al giorno, ovvero 238 euro l'ora. Ovvio che oltre alle ore passate in Aula, il lavoro del deputato è fatto anche dell'attività nelle varie commissioni, che spesso, però, sono convocate in concomitanza con l'Assemblea. D'altro canto, i 15mila euro non tengono conto dei benefit previsti per i presidenti di commissione, i questori, i vicepresidenti, i segretari.
Wednesday, 29 December 2010
I miei omaggi
Disponibile on-line da gennaio I miei omaggi - scritti e racconti con dedica, ennesima fatica di un 2010 ricco di (auto)produzioni e di (auto) pubblicazioni. La raccolta è infatti il terzo prodotto che ha visto la luce nell'anno che volge al termine, e solo per disguidi tempistico-burocratici non è stato possibile realizzare il "triplete" letterario. Qui a fianco intanto potete, come sempre, vedere la copertina (che come sempre non sarà disponibile a meno di richieste) del primo lavoro dell'anno che verrà. Sperando non sia l'ultimo.
Tuesday, 28 December 2010
Sudan, referendum per il petrolio e per l'acqua
A inizio 2011 si vota per l'indipendenza del sud del paese, tra interessi economici e insofferenze politiche.
di Emiliano Biaggio
Il 9 gennaio il Sudan deciderà il proprio futuro, anche se tutto potrebbe prendere pieghe imprevedibili. Il sud del paese, cristiano, con ogni probabilità dirà sì al referendum di secessione dal nord, musulmano, decratando la nascita di uno stato indipendente. Ma meno scontate sono le reazioni all'esito di un risultato referendario per tutti già scritto. Le grandi potenze occidentali sostengono infatti il sud e la nascita di uno stato indipendente senza più legami con il governo di Khartoum: in questo modo hanno mani più libere sui giacimenti petroliferi sotto le paludi del sud del paese. E il petrolio potrebbe essere motivo di attrito con le autorità del golpista militare Omar al-Bashir, signore indiscusso del Sudan per nulla disposto a fare concessioni ai secessionisti: con loro, nel 2005, al termine di una guerra civile costata la vita a 2 milioni di persone, ha firmato accordi per la designazione di zone estrattive e di gestione petrolifera di competenza. Tradotto, c' è stata una divisioni delle risorse di greggio presenti nel sottosuolo tra autorità del nord e quelle del sud del paese, ma su diversi giacimenti - piuttosto redditizi - le intese non ci sono. E questo fa temere per gli equilibri precari del paese, che guarda con attenzione alle ricchezze del paese, fonte di scontri interni e tensioni esterne. Perchè sulle risorse si gioca parte della stabilità del Corno d'Africa: l'Egitto, paese dialogante con l'occidente, guarda con patema d'animo la formazione di una nuova nazione indipendente che controllorebbe una parte del Nilo, fiume indispensabile per l'agricoltura egiziana. Il presidente egizionano Hosni Mubarak in passato ha minacciato di guerra qualora uno dei paesi che bagna il Nilo (Burundi, Ruanda, Tanzania, Uganda, Sudan ed Egitto, ma il suo bacino idrografico include porzioni della Repubblica Democratica del Congo, Kenia, Etiopia ed Eritrea) decidesse di deviare il corso delle acque o realizzare dighe che possano influire sul flusso del corso d'acqua. A tutto questo si lega il problema della stabilità politica: è praticamente unanime lo scetticismo circa la tenuta del governo dell'eventuale nuovo paese d'africa. Insomma, in Sudan si gioca una partita geo-politica di grande complessità e di enorme delicatezza. E di profonda incertezza.
di Emiliano Biaggio
Il 9 gennaio il Sudan deciderà il proprio futuro, anche se tutto potrebbe prendere pieghe imprevedibili. Il sud del paese, cristiano, con ogni probabilità dirà sì al referendum di secessione dal nord, musulmano, decratando la nascita di uno stato indipendente. Ma meno scontate sono le reazioni all'esito di un risultato referendario per tutti già scritto. Le grandi potenze occidentali sostengono infatti il sud e la nascita di uno stato indipendente senza più legami con il governo di Khartoum: in questo modo hanno mani più libere sui giacimenti petroliferi sotto le paludi del sud del paese. E il petrolio potrebbe essere motivo di attrito con le autorità del golpista militare Omar al-Bashir, signore indiscusso del Sudan per nulla disposto a fare concessioni ai secessionisti: con loro, nel 2005, al termine di una guerra civile costata la vita a 2 milioni di persone, ha firmato accordi per la designazione di zone estrattive e di gestione petrolifera di competenza. Tradotto, c' è stata una divisioni delle risorse di greggio presenti nel sottosuolo tra autorità del nord e quelle del sud del paese, ma su diversi giacimenti - piuttosto redditizi - le intese non ci sono. E questo fa temere per gli equilibri precari del paese, che guarda con attenzione alle ricchezze del paese, fonte di scontri interni e tensioni esterne. Perchè sulle risorse si gioca parte della stabilità del Corno d'Africa: l'Egitto, paese dialogante con l'occidente, guarda con patema d'animo la formazione di una nuova nazione indipendente che controllorebbe una parte del Nilo, fiume indispensabile per l'agricoltura egiziana. Il presidente egizionano Hosni Mubarak in passato ha minacciato di guerra qualora uno dei paesi che bagna il Nilo (Burundi, Ruanda, Tanzania, Uganda, Sudan ed Egitto, ma il suo bacino idrografico include porzioni della Repubblica Democratica del Congo, Kenia, Etiopia ed Eritrea) decidesse di deviare il corso delle acque o realizzare dighe che possano influire sul flusso del corso d'acqua. A tutto questo si lega il problema della stabilità politica: è praticamente unanime lo scetticismo circa la tenuta del governo dell'eventuale nuovo paese d'africa. Insomma, in Sudan si gioca una partita geo-politica di grande complessità e di enorme delicatezza. E di profonda incertezza.
Friday, 24 December 2010
FACT SHEET / Coree, 60 anni di scontri tra Nord e Sud
Scaramucce, attacchi e attentati fra le due Coree non sono mai cessati dall'armistizio del 1953 che ha posto fine alla guerra fra Nord e Sud. Un trattato di pace non è mai stato firmato e i due stati sono formalmente ancora in guerra. (fonte: ilSole24ore)
Anni '50. Il Nord infiltra agenti nel Sud per raccogliere informazioni e creare cellule rivoluzionarie.
Anni '60. Pyongyang comincia a infiltrare commando che compiono raid, mentre gli scontri di confine finiscono spesso con scambi di colpi di artiglieria. Nel 1968 si contano ben 600 infiltrazioni dal nord.
Anni '70. Pyongyang cerca a più riprese di uccidere il presidente sudcoreano e altri alti ufficiali. Nel novembre 1970 un agente del Nord viene ucciso mentre cerca di installare una bomba nel Cimitero nazionale di Seul, destinata a eliminare il presidente Park Chung Hee. Nel '74 un nordcoreano residente in Giappone cerca di nuovo di uccidere Park a Seul: non ci riesce, ma uccide la moglie del capo di stato.
Anni '80. Il Nord rinuncia ai commando e punta sugli agenti segreti. Nell'ottobre dell'83 tre 007 di Pyongyang tentano di uccidere con una bomba il presidente sudcoreano Chun Doo Hwan in visita a Rangoon, in Birmania. Il presidente resta illeso, ma muoiono 18 persone del suo seguito, fra le quali quattro ministri. Nel novembre dell'87 l'incidente più grave: scoppia una bomba su jet di linea della Korean Air proveniente dal Medio Oriente. Muoiono 135 persone.
Giugno 1999. Scontro fra navi del Nord e del Sud nel Mar Giallo sulla Northern Limit Line, il confine marittimo armistiziale, non riconosciuto da Pyongyang. Viene affondata una nave del Nord e muoiono fra i 17 e gli 80 marinai.
Giugno 2002. Nuovo scontro navale sul confine marittimo: muoiono 4 o 6 marinai del Sud, forse 13 del Nord.
Novembre 2009. Due vedette, una del Nord e una del Sud, si sparano sul confine. Muoiono alcuni marinai del Nord e le navi rimangono danneggiate.
Gennaio 2010. Le truppe del Nord sparano colpi di artiglieria sul confine marittimo, in due bracci di mare rivendicati da Pyongyang, ufficialmente per una esercitazione. Il Sud risponde a cannonate, da una base su un'isola. Non ci sono feriti.
Marzo-Maggio 2010. Il 26 marzo, sul confine marittimo la corvetta del Sud 'Cheonan' affonda per una misteriosa esplosione. Muoiono 46 marinai. Dopo due mesi di indagine da parte di una commissione emerge chiara la responsabiltà di Pyongyang. Seul chiede nuove sanzioni dell'Onu contro il regime comunista, mentre il presidente americano Barack Obama tuona contro Pyongyang e ordina alle forze armate Usa di coordinarsi con quelle di Seul per «impedire future aggressioni». Il 25 maggio il leader nordcoreano Kim Jong-il ordina ai suoi militari di mettersi sul piede di guerra e il regime annuncia che romper… tutti i rapporti con la Corea del Sud.
Novembre 2010. L'artiglieria di Pyongyang bombarda con oltre 200 colpi l'isola principale dell'arcipelago di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, a 12 km dalle coste nordcoreane, causando almeno un morto tra i militari di Seul, che risponde al fuoco. La cittadinanza, evacuata nei bunker, fugge dall'isola a bordo delle barche dei pescatori.
Anni '50. Il Nord infiltra agenti nel Sud per raccogliere informazioni e creare cellule rivoluzionarie.
Anni '60. Pyongyang comincia a infiltrare commando che compiono raid, mentre gli scontri di confine finiscono spesso con scambi di colpi di artiglieria. Nel 1968 si contano ben 600 infiltrazioni dal nord.
Anni '70. Pyongyang cerca a più riprese di uccidere il presidente sudcoreano e altri alti ufficiali. Nel novembre 1970 un agente del Nord viene ucciso mentre cerca di installare una bomba nel Cimitero nazionale di Seul, destinata a eliminare il presidente Park Chung Hee. Nel '74 un nordcoreano residente in Giappone cerca di nuovo di uccidere Park a Seul: non ci riesce, ma uccide la moglie del capo di stato.
Anni '80. Il Nord rinuncia ai commando e punta sugli agenti segreti. Nell'ottobre dell'83 tre 007 di Pyongyang tentano di uccidere con una bomba il presidente sudcoreano Chun Doo Hwan in visita a Rangoon, in Birmania. Il presidente resta illeso, ma muoiono 18 persone del suo seguito, fra le quali quattro ministri. Nel novembre dell'87 l'incidente più grave: scoppia una bomba su jet di linea della Korean Air proveniente dal Medio Oriente. Muoiono 135 persone.
Giugno 1999. Scontro fra navi del Nord e del Sud nel Mar Giallo sulla Northern Limit Line, il confine marittimo armistiziale, non riconosciuto da Pyongyang. Viene affondata una nave del Nord e muoiono fra i 17 e gli 80 marinai.
Giugno 2002. Nuovo scontro navale sul confine marittimo: muoiono 4 o 6 marinai del Sud, forse 13 del Nord.
Novembre 2009. Due vedette, una del Nord e una del Sud, si sparano sul confine. Muoiono alcuni marinai del Nord e le navi rimangono danneggiate.
Gennaio 2010. Le truppe del Nord sparano colpi di artiglieria sul confine marittimo, in due bracci di mare rivendicati da Pyongyang, ufficialmente per una esercitazione. Il Sud risponde a cannonate, da una base su un'isola. Non ci sono feriti.
Marzo-Maggio 2010. Il 26 marzo, sul confine marittimo la corvetta del Sud 'Cheonan' affonda per una misteriosa esplosione. Muoiono 46 marinai. Dopo due mesi di indagine da parte di una commissione emerge chiara la responsabiltà di Pyongyang. Seul chiede nuove sanzioni dell'Onu contro il regime comunista, mentre il presidente americano Barack Obama tuona contro Pyongyang e ordina alle forze armate Usa di coordinarsi con quelle di Seul per «impedire future aggressioni». Il 25 maggio il leader nordcoreano Kim Jong-il ordina ai suoi militari di mettersi sul piede di guerra e il regime annuncia che romper… tutti i rapporti con la Corea del Sud.
Novembre 2010. L'artiglieria di Pyongyang bombarda con oltre 200 colpi l'isola principale dell'arcipelago di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, a 12 km dalle coste nordcoreane, causando almeno un morto tra i militari di Seul, che risponde al fuoco. La cittadinanza, evacuata nei bunker, fugge dall'isola a bordo delle barche dei pescatori.
Thursday, 23 December 2010
Pyongyang: «Pronti alla guerra nucleare»
Tensione altissima nella penisola di Corea: un Sud stanco affila le armi e prepara i soldati, il Nord minaccia la «guerra santa».
di Emiliano Biaggio
Il Sud pronto a sferrare uno «spietato contrattacco», il nord disposto alla «guerra santa basata sul deterrente nucleare»: tra le due Coree è ancora una volta alta tensione, con il regime di Pyongyang che minaccia il ricorso al nucleare. Un bluff o minaccia reale? il mondo trattiene il respiro e resta col fiato sospeso a guardare una situazione che rischia di precipitare drammaticamente. Le autorità di Seul ormai hanno deciso: non restaranno a guardare. «Abbiamo creduto che la pazienza potesse assicurare pace a questa terra, ma non era così», ha affermato il presidente della Corea del Sud, Lee Myung-Bak, in un discorso alle truppe di un avamposto dell'esercito vicino al confine con il Nord, là dove si sono tenute le manovre militari con colpi non a salve condotte vicino alla frontiera con il nord a un mese dall'attacco su all'isola sudcoreana di Yeonpyeong, costata la vita a quattro persone. La situazione è ancora tutta da decifrare e da definire: la Corea del Nord, sostenuta dalla Cina e dalla Russia, ha proposto una ripresa dei colloqui di pace interrotti da due anni, gli Stati Usa e il Giappone hanno invece affiancato la Corea del Sud nel chiedere a Pyongyang gesti distensivi «concreti» prima di tornare al tavolo dei negoziati. La risposta non siè fatta attendere, ma va in tutt'altra direzione. «Le forze armate della Repubblica democratica popolare di Corea sono in grado di lanciare una guerra santa di giustizia basata sul deterrente nucleare in qualsiasi momento necessario per far fronte alle azioni dei nemici», ha affermato il ministro delle Forze armate nordcoreano, Kim Young-Chun. Il contesto è di quelli che richiedono fermezza (sono state infatti pronunciate nel corso di un incontro per il XIX anniversario della nomina di Kim Jong-Il a capo supremo dell'esercito), ma il solo pensiero di usare la bomba atomica desta non pochi allarmi.
di Emiliano Biaggio
Il Sud pronto a sferrare uno «spietato contrattacco», il nord disposto alla «guerra santa basata sul deterrente nucleare»: tra le due Coree è ancora una volta alta tensione, con il regime di Pyongyang che minaccia il ricorso al nucleare. Un bluff o minaccia reale? il mondo trattiene il respiro e resta col fiato sospeso a guardare una situazione che rischia di precipitare drammaticamente. Le autorità di Seul ormai hanno deciso: non restaranno a guardare. «Abbiamo creduto che la pazienza potesse assicurare pace a questa terra, ma non era così», ha affermato il presidente della Corea del Sud, Lee Myung-Bak, in un discorso alle truppe di un avamposto dell'esercito vicino al confine con il Nord, là dove si sono tenute le manovre militari con colpi non a salve condotte vicino alla frontiera con il nord a un mese dall'attacco su all'isola sudcoreana di Yeonpyeong, costata la vita a quattro persone. La situazione è ancora tutta da decifrare e da definire: la Corea del Nord, sostenuta dalla Cina e dalla Russia, ha proposto una ripresa dei colloqui di pace interrotti da due anni, gli Stati Usa e il Giappone hanno invece affiancato la Corea del Sud nel chiedere a Pyongyang gesti distensivi «concreti» prima di tornare al tavolo dei negoziati. La risposta non siè fatta attendere, ma va in tutt'altra direzione. «Le forze armate della Repubblica democratica popolare di Corea sono in grado di lanciare una guerra santa di giustizia basata sul deterrente nucleare in qualsiasi momento necessario per far fronte alle azioni dei nemici», ha affermato il ministro delle Forze armate nordcoreano, Kim Young-Chun. Il contesto è di quelli che richiedono fermezza (sono state infatti pronunciate nel corso di un incontro per il XIX anniversario della nomina di Kim Jong-Il a capo supremo dell'esercito), ma il solo pensiero di usare la bomba atomica desta non pochi allarmi.
Argentina, ergastolo per Videla
Il militare ed ex dittatore condannato per crimini contro l'umanità da un tribunale di Cordoba. Venticinque anni di carcere all'ex gerarca Reynaldo Bignone.
di Emiliano Biaggio
Jorge Rafael Videla (85 anni), generale argentino e a capo della dittatura militare che ha guidato il paese sudamericano tra il 1976 e il 1983, è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità. Un tribunale di Cordoba lo ha infatti riconosciuto colpevole di aver fatto uccidere decine di dissidenti nel corso della dittatura. Già condannato nel 1985 a 25 anni di carcere per il suo ruolo durante la repressione della dittatura militare (condanna sospesa dall'ex presidente argentino Carlos Menem, che concesse la grazia), secondo i giudici Videla è “criminalmente responsabile” della morte e delle torture inflitte a 31 prigionieri politici incarcerati a Cordoba, tra aprile e ottobre del 1976. La maggior parte degli attivisti di sinistra furono prelevati dalle loro celle della Unitad Penal 1 (UP1) subito dopo il golpe militare e freddati con un colpo senza alcuna possibilità di salvezza. Secondo la versione dell’esercito, gli uomini furono uccisi perché “tentarono di scappare”. Insieme a lui condannato anche l’ex generale Reynaldo Bignone, l’ultimo dittatore dell’Argentina, condannato da un tribunale di San Martin a 25 anni di carcere per il suo ruolo nel sequestro, nella tortura e nell’uccisione di decine di oppositori durante il regime militare. Si calcola che durante la dittatura militare argentina furono almeno circa vi furono circa 2.300 omicidi politici e circa 30.000 desaparecidos. Le leggi di amnistia degli anni '80 per i responsabili della dittatura sono state dichiarate nulle nel 2003 e la grazia di Menem fu giudicata anticostituzionale nel 2007. Tutto questo ha permesso di riaprire i processi nei confronti dell'ex giunta militare al potere durante il regime.
di Emiliano Biaggio
Jorge Rafael Videla (85 anni), generale argentino e a capo della dittatura militare che ha guidato il paese sudamericano tra il 1976 e il 1983, è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità. Un tribunale di Cordoba lo ha infatti riconosciuto colpevole di aver fatto uccidere decine di dissidenti nel corso della dittatura. Già condannato nel 1985 a 25 anni di carcere per il suo ruolo durante la repressione della dittatura militare (condanna sospesa dall'ex presidente argentino Carlos Menem, che concesse la grazia), secondo i giudici Videla è “criminalmente responsabile” della morte e delle torture inflitte a 31 prigionieri politici incarcerati a Cordoba, tra aprile e ottobre del 1976. La maggior parte degli attivisti di sinistra furono prelevati dalle loro celle della Unitad Penal 1 (UP1) subito dopo il golpe militare e freddati con un colpo senza alcuna possibilità di salvezza. Secondo la versione dell’esercito, gli uomini furono uccisi perché “tentarono di scappare”. Insieme a lui condannato anche l’ex generale Reynaldo Bignone, l’ultimo dittatore dell’Argentina, condannato da un tribunale di San Martin a 25 anni di carcere per il suo ruolo nel sequestro, nella tortura e nell’uccisione di decine di oppositori durante il regime militare. Si calcola che durante la dittatura militare argentina furono almeno circa vi furono circa 2.300 omicidi politici e circa 30.000 desaparecidos. Le leggi di amnistia degli anni '80 per i responsabili della dittatura sono state dichiarate nulle nel 2003 e la grazia di Menem fu giudicata anticostituzionale nel 2007. Tutto questo ha permesso di riaprire i processi nei confronti dell'ex giunta militare al potere durante il regime.
Wednesday, 22 December 2010
«L'Ungheria mette il bavaglio alla stampa»
Da Reporter senza frontiere e dall'Ocse gli allarmi sulla nuova legge varata dal Parlamento di Budapest e voluta dal governo conservatore.
di Emiliano Biaggio
La creazione di un'Autorità di controllo sui mezzi d'informazione con poteri di sanzione è solo l'ultimo segnale di un trend preoccupante che riguarda l'Unione europea. Lo denuncia Reporter senza frontiere (Rsf), commentando la decisione del governo ungherese di sottoporre a controlli la stampa, restringendone i margini di operatività. «In questo momento c'è un problema crescente in Europa: non c'è alcun stato membro che sta andando nella giusta direzione in termini di libertà di stampa», commenta Olivier Basille, capo rappresentante di Rsf per l'Unione europea. «E' dagli attacchi terroristici dell'11 settembre che stiamo retrocedendo» in termini di diritti civili, aggiunge. Tiene banco la riforma dei media che consente all’esecutivo di Viktor Orban (Fidesz) di avere un ampio controllo su tutti gli organi di informazione: radio, televisione, giornali, e anche internet. In base alla legge, l’Autorità nazionale delle telecomunicazioni, nominata unicamente dal partito di maggioranza del premier, potrà sanzionare con multe salate tutti i media in casi di non meglio precisate "violazioni dell’interesse pubblico". Il provvedimento voluto dalle autorità ungheresi dettano anche la linea in fatto di notiziari e contenuti: se da una parte chi conduce inchieste sarà tenuto a rilevare le loro fonti, dall'altra i telegiornali dovranno rispettare un tetto del 20% per notizie di cronaca nera. Nelle radio, poi, il 40% della musica mandata in onda dovrà essere di provenienza ungherese. Prove tecniche di regime? «Non sappiamo con esattezza come e quanto cambierà la situazione», ammette Basille. Certo la situazione non è delle più incoraggianti. E questo anche perchè l'Ungheria sarà il prossimo presidente di turno dell'Ue. «Che credibilità avrà il governo (dell'Ue) quando si rivolgerà a paesi come Zimbabwe o Bielorussia?», domanda l'esponente di Reporter senza frontiere. L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico mette in guardia: «Temo che il parlamento ungherese abbia approvato una legge sui media che, se usata male, rischia di mettere a tacere il dibattito pubblico», avverte la rappresentante Osce per la Libertà dei media, Dunja Mijatovic, secondo la quale il testo «viola gli standard sulla libertà dei media dell'Osce e mette in pericolo il pluralismo dell'informazione». Non solo in Ungheria. Il caso ungherese rischia diventare un pericoloso modello che potrebbe essere emulato: ed è più che una semplice ipotesi o un vano timore, dal momento che in Italia Berlusconi mira a mettere un bavaglio all'informazione.
di Emiliano Biaggio
La creazione di un'Autorità di controllo sui mezzi d'informazione con poteri di sanzione è solo l'ultimo segnale di un trend preoccupante che riguarda l'Unione europea. Lo denuncia Reporter senza frontiere (Rsf), commentando la decisione del governo ungherese di sottoporre a controlli la stampa, restringendone i margini di operatività. «In questo momento c'è un problema crescente in Europa: non c'è alcun stato membro che sta andando nella giusta direzione in termini di libertà di stampa», commenta Olivier Basille, capo rappresentante di Rsf per l'Unione europea. «E' dagli attacchi terroristici dell'11 settembre che stiamo retrocedendo» in termini di diritti civili, aggiunge. Tiene banco la riforma dei media che consente all’esecutivo di Viktor Orban (Fidesz) di avere un ampio controllo su tutti gli organi di informazione: radio, televisione, giornali, e anche internet. In base alla legge, l’Autorità nazionale delle telecomunicazioni, nominata unicamente dal partito di maggioranza del premier, potrà sanzionare con multe salate tutti i media in casi di non meglio precisate "violazioni dell’interesse pubblico". Il provvedimento voluto dalle autorità ungheresi dettano anche la linea in fatto di notiziari e contenuti: se da una parte chi conduce inchieste sarà tenuto a rilevare le loro fonti, dall'altra i telegiornali dovranno rispettare un tetto del 20% per notizie di cronaca nera. Nelle radio, poi, il 40% della musica mandata in onda dovrà essere di provenienza ungherese. Prove tecniche di regime? «Non sappiamo con esattezza come e quanto cambierà la situazione», ammette Basille. Certo la situazione non è delle più incoraggianti. E questo anche perchè l'Ungheria sarà il prossimo presidente di turno dell'Ue. «Che credibilità avrà il governo (dell'Ue) quando si rivolgerà a paesi come Zimbabwe o Bielorussia?», domanda l'esponente di Reporter senza frontiere. L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico mette in guardia: «Temo che il parlamento ungherese abbia approvato una legge sui media che, se usata male, rischia di mettere a tacere il dibattito pubblico», avverte la rappresentante Osce per la Libertà dei media, Dunja Mijatovic, secondo la quale il testo «viola gli standard sulla libertà dei media dell'Osce e mette in pericolo il pluralismo dell'informazione». Non solo in Ungheria. Il caso ungherese rischia diventare un pericoloso modello che potrebbe essere emulato: ed è più che una semplice ipotesi o un vano timore, dal momento che in Italia Berlusconi mira a mettere un bavaglio all'informazione.
Tuesday, 21 December 2010
Ungheria, libertà di stampa a rischio. I media sotto controllo del governo
Voluta dal premier di destra Orban, prevede multe pesanti nel caso di «violazione dell'interesse pubblico». Si tratta di una legge mai vista in un Paese dell'Unione europea.
dal Corriere.it, 21 dicembre
Una legge simile in un Paese dell'Unione europea non si era mai vista. Con la maggioranza di due terzi il Parlamento dell'Ungheria, controllato dal partito di destra Fidesz del primo ministro Viktor Orban, ha approvato una legge sulla stampa che, tra le altre cose prevede:
- soppressione delle redazioni di news alla tv e alla radio, che confluirebbero in un unico centro di notizie presso l'agenzia di stampa nazionale Mti, finanziata dallo Stato
- multe pesanti agli organi d'informazione nel caso di «violazione dell'interesse pubblico», non meglio specificato, articoli «non equilibrati politicamente» o «lesivi della dignità umana», le multe vanno da 700 mila euro per le tv, a 89 mila per i giornali e siti internet
- i telegiornali dovranno rispettare un tetto del 20% per le notizie di cronaca nera
- il 40% della musica trasmessa dovrà essere di provenienza ungherese
- i giornalisti saranno tenuti a rivelare le loro fonti per questioni legate «alla sicurezza nazionale» e le autorità investigative potranno analizzare tutti i loro strumenti e i documenti anche prima di aver identificato un delitto.
DISEGNO - L'approvazione della «legge bavaglio» è l'ultima mossa di un disegno preciso della maggioranza conservatrice. A luglio, dopo aver ottenuto in aprile una maggioranza di due terzi alle elezioni, senza precedenti dopo la caduta del regime comunista in Ungheria, che consente di modificare la Costituzione e la struttura dello Stato, il primo ministro Orban ha subito istituito un'Autorità nazionale delle telecomunicazioni con a capo la garante Annamaria Szalai, vicina al premier, e composta da cinque membri tutti nominati dal partito di governo, alla quale è stato assegnato un mandato di nove anni con inoltre la facoltà di emanare decreti. Poi è stato istituito un ente unico di cui fanno parte la televisione pubblica (Mtv e Duna), la radio pubblica (Mr) e l'agenzia stampa Mti, con direttori nominati dal garante. Infine lunedì 20 dicembre il varo definitivo di una legge di 175 articoli che regola il comportamento degli organi di stampa.
PROTESTA - Circa 1.500 persone lunedì sera hanno manifestanto davanti il Parlamento a Budapest. Orban si è giustificato con il fatto che la tv pubblica, per esempio, era senza presidente da anni perché l'autorità - nella quale c'erano tutti i partiti - non riusciva ad accordarsi su un nome. «D'ora in poi, giornalisti e direttori dovranno essere molto cauti su cosa pubblicheranno», ha detto il direttore di Nepszabadsag, il maggiore quotidiano indipendente, di stampo liberal, che ha annunciato ricorso alla Corte costituzionale. Con nulle possibilità di successo, dato che l'approvazione con la maggioranza di due terzi ha blindato la legge. Csaba Belenessy, direttore generale dell'agenzia Mti, che dirigerà la nuova centrale di notizie, aveva di recente detto che i giornalisti nel suo servizio dovranno essere leali al governo. Orban ha affermato che la nuova legge èconforme alle norme europee. L'Istituto internazionale della stampa (Ipi), invece si è detto invece preoccupato per la situazione della stampa in Ungheria, e anche l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), ha espresso critiche severe nell'ultimo rapporto del garante per la libertà di stampa in Ungheria.
dal Corriere.it, 21 dicembre
Una legge simile in un Paese dell'Unione europea non si era mai vista. Con la maggioranza di due terzi il Parlamento dell'Ungheria, controllato dal partito di destra Fidesz del primo ministro Viktor Orban, ha approvato una legge sulla stampa che, tra le altre cose prevede:
- soppressione delle redazioni di news alla tv e alla radio, che confluirebbero in un unico centro di notizie presso l'agenzia di stampa nazionale Mti, finanziata dallo Stato
- multe pesanti agli organi d'informazione nel caso di «violazione dell'interesse pubblico», non meglio specificato, articoli «non equilibrati politicamente» o «lesivi della dignità umana», le multe vanno da 700 mila euro per le tv, a 89 mila per i giornali e siti internet
- i telegiornali dovranno rispettare un tetto del 20% per le notizie di cronaca nera
- il 40% della musica trasmessa dovrà essere di provenienza ungherese
- i giornalisti saranno tenuti a rivelare le loro fonti per questioni legate «alla sicurezza nazionale» e le autorità investigative potranno analizzare tutti i loro strumenti e i documenti anche prima di aver identificato un delitto.
DISEGNO - L'approvazione della «legge bavaglio» è l'ultima mossa di un disegno preciso della maggioranza conservatrice. A luglio, dopo aver ottenuto in aprile una maggioranza di due terzi alle elezioni, senza precedenti dopo la caduta del regime comunista in Ungheria, che consente di modificare la Costituzione e la struttura dello Stato, il primo ministro Orban ha subito istituito un'Autorità nazionale delle telecomunicazioni con a capo la garante Annamaria Szalai, vicina al premier, e composta da cinque membri tutti nominati dal partito di governo, alla quale è stato assegnato un mandato di nove anni con inoltre la facoltà di emanare decreti. Poi è stato istituito un ente unico di cui fanno parte la televisione pubblica (Mtv e Duna), la radio pubblica (Mr) e l'agenzia stampa Mti, con direttori nominati dal garante. Infine lunedì 20 dicembre il varo definitivo di una legge di 175 articoli che regola il comportamento degli organi di stampa.
PROTESTA - Circa 1.500 persone lunedì sera hanno manifestanto davanti il Parlamento a Budapest. Orban si è giustificato con il fatto che la tv pubblica, per esempio, era senza presidente da anni perché l'autorità - nella quale c'erano tutti i partiti - non riusciva ad accordarsi su un nome. «D'ora in poi, giornalisti e direttori dovranno essere molto cauti su cosa pubblicheranno», ha detto il direttore di Nepszabadsag, il maggiore quotidiano indipendente, di stampo liberal, che ha annunciato ricorso alla Corte costituzionale. Con nulle possibilità di successo, dato che l'approvazione con la maggioranza di due terzi ha blindato la legge. Csaba Belenessy, direttore generale dell'agenzia Mti, che dirigerà la nuova centrale di notizie, aveva di recente detto che i giornalisti nel suo servizio dovranno essere leali al governo. Orban ha affermato che la nuova legge èconforme alle norme europee. L'Istituto internazionale della stampa (Ipi), invece si è detto invece preoccupato per la situazione della stampa in Ungheria, e anche l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), ha espresso critiche severe nell'ultimo rapporto del garante per la libertà di stampa in Ungheria.
Saturday, 18 December 2010
Berlusconi incassa la fiducia, ma non la vittoria
Per soli tre voti la Camera l'esecutivo resta in piedi, e se il premier assesta un duro colpo a Fini deve però fare i conti con l'assenza di margini di manovra.
l'e-dittoreale
Il Paese ha ancora il suo governo, ma per il presidente del Consiglio e i suoi alleati c'è poco da stare allegri. Certo, Berlusconi ha superato il voto di fiducia vincendo così lo scontro frontale con Gianfranco Fini, ma il premier adesso non è saldo al potere. perchè se da una parte i fatti dicono che la sfiducia non c'è stata, dall'altra i numeri dicono invece che adesso il premier ha margini ristretti - se non risicati - dato che alla Camera 5 commissioni su 14 sono nelle mani delle opposizioni (Pd, Idv, Udc, Api, Fli e Mpa) e in altre 4 il centrodestra può aspirare al massimo alla parità. L'agguato, insomma, è dietro l'angolo e il Cavaliere ne è consapevole. E' per questo che ha sondato il Colle per capire se Napolitano sarebbe disposto a indire nuove elezioni. Del resto la Lega è insofferente, e Bossi avverte: così non si può andare avanti. Anche il Pd denuncia: da adesso in poi, dice Bersani, "c'è da aspettarsi un vivacchia mento senza alcuna decisione utile". Ma il Pd stia calmo, perchè non ha nulla da festeggiare: se il berlusconismo - almeno quello di questo corso - è finito, ciò non è certo merito del Partito democratico, incapace di incidere e convincere. E mentre lo stesso Pd tra lo stupore di un elettorato di sinistra che non capisce e ancora meno accetta tentativi d'intesa con Fini e Casini, proprio Fli e Udc si federano con Api e Mpa dando vita al terzo polo che, con 100 parlamentari, ridisegna assetti ed equilibri politici. Quel che è certo, insomma, è che tra corruzioni presunte, compravendite di parlamentari denunciate e tradimenti palesi, la maggioranza non c'è più e il governo Berlusconi è in bilico. Il Paese ha sì ancora il suo governo, ma bisogna capire per quanto ancora.
(editoriale per la trasmissione del 17 dicembre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti.)
l'e-dittoreale
Il Paese ha ancora il suo governo, ma per il presidente del Consiglio e i suoi alleati c'è poco da stare allegri. Certo, Berlusconi ha superato il voto di fiducia vincendo così lo scontro frontale con Gianfranco Fini, ma il premier adesso non è saldo al potere. perchè se da una parte i fatti dicono che la sfiducia non c'è stata, dall'altra i numeri dicono invece che adesso il premier ha margini ristretti - se non risicati - dato che alla Camera 5 commissioni su 14 sono nelle mani delle opposizioni (Pd, Idv, Udc, Api, Fli e Mpa) e in altre 4 il centrodestra può aspirare al massimo alla parità. L'agguato, insomma, è dietro l'angolo e il Cavaliere ne è consapevole. E' per questo che ha sondato il Colle per capire se Napolitano sarebbe disposto a indire nuove elezioni. Del resto la Lega è insofferente, e Bossi avverte: così non si può andare avanti. Anche il Pd denuncia: da adesso in poi, dice Bersani, "c'è da aspettarsi un vivacchia mento senza alcuna decisione utile". Ma il Pd stia calmo, perchè non ha nulla da festeggiare: se il berlusconismo - almeno quello di questo corso - è finito, ciò non è certo merito del Partito democratico, incapace di incidere e convincere. E mentre lo stesso Pd tra lo stupore di un elettorato di sinistra che non capisce e ancora meno accetta tentativi d'intesa con Fini e Casini, proprio Fli e Udc si federano con Api e Mpa dando vita al terzo polo che, con 100 parlamentari, ridisegna assetti ed equilibri politici. Quel che è certo, insomma, è che tra corruzioni presunte, compravendite di parlamentari denunciate e tradimenti palesi, la maggioranza non c'è più e il governo Berlusconi è in bilico. Il Paese ha sì ancora il suo governo, ma bisogna capire per quanto ancora.
(editoriale per la trasmissione del 17 dicembre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti.)
La bianca presa di Roma della neve
Per ben due volte in un anno, a marzo e dicembre 2010, la capitale si veste di invernale e romantico stile.
Friday, 17 December 2010
Bus per arrivare al treno, ma linea ferroviaria è ferma
Disagi sulla Roma-Velletri: treni non circolanti e bus sostitutivi che portano a Cecchina. Dove non ci sono convogli ma i problemi che bloccano il traffico ferroviario.
di Emiliano Biaggio
Si arriva a Cecchina, per prendere il treno che da Velletri porta a Roma. Sono le 9.33, mancano dieci minuti all'arrivo previsto del convoglio: giusto in tempo per scoprire che il treno non passerà. Un signore all'ingresso della stazione parla ai presenti e blocca quelli che arrivano: a tutti spiega che il servizio funziona solo tra Pavona e Roma e lui, conducente di un autobus non di linea parcheggiato sul piazzale della stazione, porterà tutti proprio a Pavona. Siamo sulla Roma-Velletri (Fr4), linea ferroviaria già passata agli "onori" della cronaca per ripetuti disservizi e malfunzianamenti passati. Oggi sembra di essere tornati ai fasti di quel passato. L'autobus raccoglie i pendolari e si mette in viaggio: in dieci minuti tutti sono a destinazione. Una volta a Pavona si trovano binari sgombri: nessun treno, solo un operaio al lavoro sul secondo scambio. Gli schermi non segnalano ritardi, gli altoparlanti tacciono, tutto sembra essere regolare. Da orario il treno da Pavona per Roma dovrebbe partire alle 9.51, ma alle 10.05 ancora nessun annuncio nè dagli schermi nè dagli altoparlanti, ma soprattutto ancora nessun treno. Un pendolare, infreddolito e spazientito, chiede all'operaio al lavoro dove sia il treno. «Prima c'era», risponde questi. Il pendolare attacca verbalmente l'uomo al lavoro. «Anche i romani c'erano mille anni fa», dice schernendolo. L'operaio chiama la stazione di Ciampino, per chiedere spiegazioni. «Beh, allora almeno una segnalazione datela», dice prima di riattaccare. «Mi dicono che il treno non c'è e non sanno quando passerà», annuncia l'operaio ai presenti. «Ma là c'è la navetta che vi porta a Roma», aggiunge. E' lo stesso autobus che da Cecchina ha condotti i pendolari a Pavona. Molti pendolari chiamano amici e parenti per farsi venire a prendere, altri si avviano verso l'autobus. Una signora chiede spiegazioni: «La mia macchina è a Cecchina, stasera come torno a prenderla?». Un altro pendolare perde la pazienza e inizia a insultare l'operaio: tra la folla infreddolita e contrariata due persone lo fermano. «Lui non c'entra niente», dicono. Ma lo scontento è diffuso. Il conducente dell'autobus torna a riprendere i pendolari appiedati e infreddoliti. «No, grazie. Avete già fatto abbastanza per me oggi», replica stizzito un uomo. «Ma magari lo ingabbiano 'sto pezzo...», dice qualcuno tra la folla che lascia la stazione di Pavona. Il riferimento, per nulla lusinghiero, sembra essere a Mauro Moretti, amministratore delegato di Ferrovie dello Stato indagato insieme ad altre 37 persone per la strage ferroviaria di Viareggio. Alla fine, alle 10.15, gli altoparlanti annunciano che il treno non ci sarà. «Si avvisano i signori passeggeri che a causa di un guasto alla stazione di Pavona il servizio da e per Roma Termini non avrà luogo», risuona tra l'incredulità generale. L'autobus che avrebbe dovuto permettere di prendere il treno in realtà ha portato, a sentire gli altoparlanti, nel cuore del problema. Di solito, in casi del genere, gli altoparlanti dicono che «ci scusiamo per il disagio». A Pavona, oggi, oltre ai treni neanche le scuse.
di Emiliano Biaggio
Si arriva a Cecchina, per prendere il treno che da Velletri porta a Roma. Sono le 9.33, mancano dieci minuti all'arrivo previsto del convoglio: giusto in tempo per scoprire che il treno non passerà. Un signore all'ingresso della stazione parla ai presenti e blocca quelli che arrivano: a tutti spiega che il servizio funziona solo tra Pavona e Roma e lui, conducente di un autobus non di linea parcheggiato sul piazzale della stazione, porterà tutti proprio a Pavona. Siamo sulla Roma-Velletri (Fr4), linea ferroviaria già passata agli "onori" della cronaca per ripetuti disservizi e malfunzianamenti passati. Oggi sembra di essere tornati ai fasti di quel passato. L'autobus raccoglie i pendolari e si mette in viaggio: in dieci minuti tutti sono a destinazione. Una volta a Pavona si trovano binari sgombri: nessun treno, solo un operaio al lavoro sul secondo scambio. Gli schermi non segnalano ritardi, gli altoparlanti tacciono, tutto sembra essere regolare. Da orario il treno da Pavona per Roma dovrebbe partire alle 9.51, ma alle 10.05 ancora nessun annuncio nè dagli schermi nè dagli altoparlanti, ma soprattutto ancora nessun treno. Un pendolare, infreddolito e spazientito, chiede all'operaio al lavoro dove sia il treno. «Prima c'era», risponde questi. Il pendolare attacca verbalmente l'uomo al lavoro. «Anche i romani c'erano mille anni fa», dice schernendolo. L'operaio chiama la stazione di Ciampino, per chiedere spiegazioni. «Beh, allora almeno una segnalazione datela», dice prima di riattaccare. «Mi dicono che il treno non c'è e non sanno quando passerà», annuncia l'operaio ai presenti. «Ma là c'è la navetta che vi porta a Roma», aggiunge. E' lo stesso autobus che da Cecchina ha condotti i pendolari a Pavona. Molti pendolari chiamano amici e parenti per farsi venire a prendere, altri si avviano verso l'autobus. Una signora chiede spiegazioni: «La mia macchina è a Cecchina, stasera come torno a prenderla?». Un altro pendolare perde la pazienza e inizia a insultare l'operaio: tra la folla infreddolita e contrariata due persone lo fermano. «Lui non c'entra niente», dicono. Ma lo scontento è diffuso. Il conducente dell'autobus torna a riprendere i pendolari appiedati e infreddoliti. «No, grazie. Avete già fatto abbastanza per me oggi», replica stizzito un uomo. «Ma magari lo ingabbiano 'sto pezzo...», dice qualcuno tra la folla che lascia la stazione di Pavona. Il riferimento, per nulla lusinghiero, sembra essere a Mauro Moretti, amministratore delegato di Ferrovie dello Stato indagato insieme ad altre 37 persone per la strage ferroviaria di Viareggio. Alla fine, alle 10.15, gli altoparlanti annunciano che il treno non ci sarà. «Si avvisano i signori passeggeri che a causa di un guasto alla stazione di Pavona il servizio da e per Roma Termini non avrà luogo», risuona tra l'incredulità generale. L'autobus che avrebbe dovuto permettere di prendere il treno in realtà ha portato, a sentire gli altoparlanti, nel cuore del problema. Di solito, in casi del genere, gli altoparlanti dicono che «ci scusiamo per il disagio». A Pavona, oggi, oltre ai treni neanche le scuse.
Thursday, 16 December 2010
Wednesday, 15 December 2010
Silvio Berlusconi, una geopolitica molto personale (4)
Tappe, obiettivi ed esiti della strategia territoriale del Cavaliere. Dall’uso delle etichette geopolitiche nelle elezioni del 1994 alla retorica dei fatti e dei luoghi, ormai evaporata. Il proliferare delle Leghe. La personalizzazione come boomerang. di Ilvo Diamanti (editoriale del numero 6/2010 di Limes)
LE FRATTURE INATTESE DELL'UNIFICAZIONE PERSONALE DEL PAESE: Il nesso con il territorio, dunque, è in grado di spiegare molte ragioni del successo di Berlusconi. Ma ne annuncia anche la debolezza. Altrettanti motivi di instabilità. Intuibili fin dall’inizio della sua vicenda politica, che dura ormai da sedici anni, oggi sembrano divenuti palesi e difficilmente sostenibili. Li riassumiamo rapidamente.
A) La prima ragione richiama la difficoltà di ricomporre interessi e identità territoriali tanto contrastanti su basi «personali». Un problema che emerge subito, quando, nel 1994, dopo pochi mesi di governo, la Lega di Bossi rompe con la maggioranza e quindi con Berlusconi. Perché Berlusconi e Forza Italia, più che alleati, sono divenuti concorrenti della Lega. Ne hanno eroso i consensi e la rappresentanza nel Nord. Per cui la Lega se ne va e corre «da sola contro tutti». Ma soprattutto contro di lui: Berlusconi. E alle elezioni del 1996 lo sconfigge. O meglio, vince l’Ulivo guidato da Prodi, ma solo perché nel Nord la Lega batte nettamente il Polo delle Libertà, dove Berlusconi ha riunito accanto a Forza Italia Alleanza nazionale e i neo-dc. Legittimando la propaganda polemica di Bossi contro il Polo di Roma e del Sud. Perché la «rappresentazione» è diversa dalla «rappresentanza». Berlusconi può dare «immagine» al Nord, ma non dispone di radici forti e stabili che gli permettano di formare una base politica ed elettorale solida. Non a caso, nel 2000, Berlusconi ricuce il rapporto con Bossi e la Lega. Fiaccati, a loro volta, da un antagonismo «rivoluzionario» che li fa apparire «poco produttivi» agli elettori del Nord. Ai quali, assai più della secessione, interessa ottenere – da Roma – risorse e potere.
Berlusconi e Bossi, insieme, tornano a vincere. Nord e (Forza) Italia: di nuovo uniti. Lo stesso problema, peraltro, emerge nel rapporto con il Mezzogiorno, dove Forza Italia deve misurarsi con la concorrenza di An, i neo-dc e le altre formazioni regionali e locali (Udeur, Mpa eccetera). Tanto più forte quanto più esplicita diventa l’azione politica della Lega. E quanto più il peso politico della Lega diventa rilevante, nella Casa delle libertà. Cioè nel polo di centro-destra. Allora, la mediazione politica di Berlusconi diventa faticosa. E la sua immagine stenta, a sua volta, a unificare – o almeno a mediare – i diversi paesi del paese. Le diverse Italie che compongono l’Italia.
B) Questa tensione diviene lacerante dopo le elezioni del 2008. Quando il progetto unificante e unitario di Berlusconi sembra raggiungere il livello di suc- cesso più elevato. Non solo perché conduce la coalizione alla conquista di una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato. Ma perché unifica An e Forza Italia. Il partito nazional-meridionale e quello nazional-personale sotto un’unica bandiera. La sua.L’alleanza con la Lega, peraltro, riproduce lo schema originario: l’intesa fra il Nord e l’Italia. Unico garante: lui. Insieme al suo amico e complice: Umberto Bossi. L’Italia fondata sui legami personali. Una cornice che non regge. Non tiene più. Perché l’Italia «mediale» deve fare i conti con quella «reale». E i conti dell’Italia reale sono critici. Fissati dalle regole e dai vincoli internazionali. Fiaccati dalle crisi economiche e finanziarie globali.
Non è facile, anzi: è impossibile soddisfare Nord e Sud. Allo stesso tempo. Tanto più – tanto meno – servendosi, come strumenti privilegiati, dell’immagine. Della narrazione. Della personalizzazione. L’immagine e la narrazione di Berlusconi non bastano più. Soprattutto nel Mezzogiorno. Dove le paure – e le conseguenze – della crisi sono difficili da accettare. E le politiche del Nord – riassunte nel federalismo – fanno paura. Tanto che la maggior parte dei cittadini del Sud le considerano strategie secessioniste. Contro gli interessi del Mezzogiorno. Mentre i cittadini del Nord, in misura crescente, considerano il Sud semplicemente «un peso per lo sviluppo del paese» e un costo senza benefici per il Nord.
C) Ancora: la rappresentanza «personale» della politica e dei territori produce, come conseguenza imprevista e indesiderata, il trasferirsi dei conflitti e delle fratture dal piano personale a quello geopolitico. Così, la frattura tra Berlusconi e Fini non produce solo la scomposizione del Pdl, ma anche la scomposizione tra Nord e Sud. Visto che Bossi, per primo, elegge Fini – insieme a Casini – portabandiera degli interessi del Sud. Il che, peraltro, ottiene, come ulteriore conseguenza, a cascata, la scomposizione interna ai territori. Fa emergere altre tensioni, che promuovono altri partiti, altri leader – locali. Soprattutto nel Mezzogiorno e in Sicilia. Infine, la «localizzazione» della politica, della comunicazione e della comunicazione politica. Trasforma la «retorica del fare» in retorica tout court. Perché se l’immondizia ritorna periodicamente a sommergere Napoli, se le macerie continuano a seppellire il centro dell’Aquila, allora i fatti diventano semplici parole. Contraddette dalle immagini. Mentre i luoghi diventano metafore. Di un’Italia immaginaria e illusoria. Raccontata e inesistente. Una favola, più che una parabola. Il racconto di un paese che non c’è. Neppure come raffigurazione. (4. fine)
LE FRATTURE INATTESE DELL'UNIFICAZIONE PERSONALE DEL PAESE: Il nesso con il territorio, dunque, è in grado di spiegare molte ragioni del successo di Berlusconi. Ma ne annuncia anche la debolezza. Altrettanti motivi di instabilità. Intuibili fin dall’inizio della sua vicenda politica, che dura ormai da sedici anni, oggi sembrano divenuti palesi e difficilmente sostenibili. Li riassumiamo rapidamente.
A) La prima ragione richiama la difficoltà di ricomporre interessi e identità territoriali tanto contrastanti su basi «personali». Un problema che emerge subito, quando, nel 1994, dopo pochi mesi di governo, la Lega di Bossi rompe con la maggioranza e quindi con Berlusconi. Perché Berlusconi e Forza Italia, più che alleati, sono divenuti concorrenti della Lega. Ne hanno eroso i consensi e la rappresentanza nel Nord. Per cui la Lega se ne va e corre «da sola contro tutti». Ma soprattutto contro di lui: Berlusconi. E alle elezioni del 1996 lo sconfigge. O meglio, vince l’Ulivo guidato da Prodi, ma solo perché nel Nord la Lega batte nettamente il Polo delle Libertà, dove Berlusconi ha riunito accanto a Forza Italia Alleanza nazionale e i neo-dc. Legittimando la propaganda polemica di Bossi contro il Polo di Roma e del Sud. Perché la «rappresentazione» è diversa dalla «rappresentanza». Berlusconi può dare «immagine» al Nord, ma non dispone di radici forti e stabili che gli permettano di formare una base politica ed elettorale solida. Non a caso, nel 2000, Berlusconi ricuce il rapporto con Bossi e la Lega. Fiaccati, a loro volta, da un antagonismo «rivoluzionario» che li fa apparire «poco produttivi» agli elettori del Nord. Ai quali, assai più della secessione, interessa ottenere – da Roma – risorse e potere.
Berlusconi e Bossi, insieme, tornano a vincere. Nord e (Forza) Italia: di nuovo uniti. Lo stesso problema, peraltro, emerge nel rapporto con il Mezzogiorno, dove Forza Italia deve misurarsi con la concorrenza di An, i neo-dc e le altre formazioni regionali e locali (Udeur, Mpa eccetera). Tanto più forte quanto più esplicita diventa l’azione politica della Lega. E quanto più il peso politico della Lega diventa rilevante, nella Casa delle libertà. Cioè nel polo di centro-destra. Allora, la mediazione politica di Berlusconi diventa faticosa. E la sua immagine stenta, a sua volta, a unificare – o almeno a mediare – i diversi paesi del paese. Le diverse Italie che compongono l’Italia.
B) Questa tensione diviene lacerante dopo le elezioni del 2008. Quando il progetto unificante e unitario di Berlusconi sembra raggiungere il livello di suc- cesso più elevato. Non solo perché conduce la coalizione alla conquista di una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato. Ma perché unifica An e Forza Italia. Il partito nazional-meridionale e quello nazional-personale sotto un’unica bandiera. La sua.L’alleanza con la Lega, peraltro, riproduce lo schema originario: l’intesa fra il Nord e l’Italia. Unico garante: lui. Insieme al suo amico e complice: Umberto Bossi. L’Italia fondata sui legami personali. Una cornice che non regge. Non tiene più. Perché l’Italia «mediale» deve fare i conti con quella «reale». E i conti dell’Italia reale sono critici. Fissati dalle regole e dai vincoli internazionali. Fiaccati dalle crisi economiche e finanziarie globali.
Non è facile, anzi: è impossibile soddisfare Nord e Sud. Allo stesso tempo. Tanto più – tanto meno – servendosi, come strumenti privilegiati, dell’immagine. Della narrazione. Della personalizzazione. L’immagine e la narrazione di Berlusconi non bastano più. Soprattutto nel Mezzogiorno. Dove le paure – e le conseguenze – della crisi sono difficili da accettare. E le politiche del Nord – riassunte nel federalismo – fanno paura. Tanto che la maggior parte dei cittadini del Sud le considerano strategie secessioniste. Contro gli interessi del Mezzogiorno. Mentre i cittadini del Nord, in misura crescente, considerano il Sud semplicemente «un peso per lo sviluppo del paese» e un costo senza benefici per il Nord.
C) Ancora: la rappresentanza «personale» della politica e dei territori produce, come conseguenza imprevista e indesiderata, il trasferirsi dei conflitti e delle fratture dal piano personale a quello geopolitico. Così, la frattura tra Berlusconi e Fini non produce solo la scomposizione del Pdl, ma anche la scomposizione tra Nord e Sud. Visto che Bossi, per primo, elegge Fini – insieme a Casini – portabandiera degli interessi del Sud. Il che, peraltro, ottiene, come ulteriore conseguenza, a cascata, la scomposizione interna ai territori. Fa emergere altre tensioni, che promuovono altri partiti, altri leader – locali. Soprattutto nel Mezzogiorno e in Sicilia. Infine, la «localizzazione» della politica, della comunicazione e della comunicazione politica. Trasforma la «retorica del fare» in retorica tout court. Perché se l’immondizia ritorna periodicamente a sommergere Napoli, se le macerie continuano a seppellire il centro dell’Aquila, allora i fatti diventano semplici parole. Contraddette dalle immagini. Mentre i luoghi diventano metafore. Di un’Italia immaginaria e illusoria. Raccontata e inesistente. Una favola, più che una parabola. Il racconto di un paese che non c’è. Neppure come raffigurazione. (4. fine)
Tuesday, 14 December 2010
Silvio Berlusconi, una geopolitica molto personale (3)
Tappe, obiettivi ed esiti della strategia territoriale del Cavaliere. Dall’uso delle etichette geopolitiche nelle elezioni del 1994 alla retorica dei fatti e dei luoghi, ormai evaporata. Il proliferare delle Leghe. La personalizzazione come boomerang. di Ilvo Diamanti (editoriale del numero 6/2010 di Limes)
LA RETORICA DEI FATTI E DEI LUOGHI: Un secondo, importante uso che Berlusconi fa del territorio è di tipo narrativo. Se ne serve, cioè, come esempio e raffigurazione del suo stile di azione e di attore. Concreto, operativo, diretto. Poco abituato alle chiacchiere, ai discorsi vuoti e fini a loro stessi dei «politici professionali». Alle parole, Berlusconi oppone i fatti. Alle utopie (per definizione: luoghi ideali) egli oppone i luoghi concreti. Berlusconi: è «l’uomo del fare» che guida il «governo dei fatti». Nel 2001, in campagna elettorale, nel salotto di Bruno Vespa, traccia (letteralmente: con un pennarello su un tabellone) il suo decalogo, dove campeggiano «grandi opere» che segnano (talora devastano) il territorio. Grandi reti autostradali e ferroviarie ad «alta velocità», che segnano la mappa del paese. Ancora: il ponte sullo Stretto di Messina. E nel 2006, alla vigilia del voto dove appariva sconfitto predestinato, riesce quasi a rovesciare il pronostico, promettendo, nel faccia a faccia con Prodi, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Ossia il taglio della tassa che colpisce la quasi totalità degli italiani «a casa loro». Nel luogo in cui abitano e vivono con la loro famiglia. Infine, alle elezioni del 2008, dove esce trionfatore con la sua coalizione, imposta la sua campagna sull’immagine dei rifiuti di Napoli.
Le cataste di immondizie che si ammassano nelle strade di uno dei luoghi-simbolo del governo di centrosinistra. La città e la Regione di Bassolino. Artefice di una stagione di speranze e di rinascita. Berlusconi punta sul «miracolo illusorio» della sinistra. E promette che lì, proprio lì, le cose cambieranno «in modo visibile». Napoli liberata dalle immondizie è «il luogo» che testimonia dell’efficienza dell’Imprenditore dedito alla politica per il bene comune. Così, un anno dopo, L’Aquila devastata dal terremoto gli permette di affermare nuovamente il suo stile e il suo esempio. L’uomo del fare. Che agisce nel paese reale. E libera il territorio coperto di macerie. Da cui risorgerà la città. I «luoghi» permettono a Berlusconi di mettere in scena la sua azione politica. Per ancorare le sue parole a un territorio. A un contesto. Illuminato dai media. E dunque reale. (3 continua)
LA RETORICA DEI FATTI E DEI LUOGHI: Un secondo, importante uso che Berlusconi fa del territorio è di tipo narrativo. Se ne serve, cioè, come esempio e raffigurazione del suo stile di azione e di attore. Concreto, operativo, diretto. Poco abituato alle chiacchiere, ai discorsi vuoti e fini a loro stessi dei «politici professionali». Alle parole, Berlusconi oppone i fatti. Alle utopie (per definizione: luoghi ideali) egli oppone i luoghi concreti. Berlusconi: è «l’uomo del fare» che guida il «governo dei fatti». Nel 2001, in campagna elettorale, nel salotto di Bruno Vespa, traccia (letteralmente: con un pennarello su un tabellone) il suo decalogo, dove campeggiano «grandi opere» che segnano (talora devastano) il territorio. Grandi reti autostradali e ferroviarie ad «alta velocità», che segnano la mappa del paese. Ancora: il ponte sullo Stretto di Messina. E nel 2006, alla vigilia del voto dove appariva sconfitto predestinato, riesce quasi a rovesciare il pronostico, promettendo, nel faccia a faccia con Prodi, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Ossia il taglio della tassa che colpisce la quasi totalità degli italiani «a casa loro». Nel luogo in cui abitano e vivono con la loro famiglia. Infine, alle elezioni del 2008, dove esce trionfatore con la sua coalizione, imposta la sua campagna sull’immagine dei rifiuti di Napoli.
Le cataste di immondizie che si ammassano nelle strade di uno dei luoghi-simbolo del governo di centrosinistra. La città e la Regione di Bassolino. Artefice di una stagione di speranze e di rinascita. Berlusconi punta sul «miracolo illusorio» della sinistra. E promette che lì, proprio lì, le cose cambieranno «in modo visibile». Napoli liberata dalle immondizie è «il luogo» che testimonia dell’efficienza dell’Imprenditore dedito alla politica per il bene comune. Così, un anno dopo, L’Aquila devastata dal terremoto gli permette di affermare nuovamente il suo stile e il suo esempio. L’uomo del fare. Che agisce nel paese reale. E libera il territorio coperto di macerie. Da cui risorgerà la città. I «luoghi» permettono a Berlusconi di mettere in scena la sua azione politica. Per ancorare le sue parole a un territorio. A un contesto. Illuminato dai media. E dunque reale. (3 continua)
Silvio Berlusconi, una geopolitica molto personale (2)
Tappe, obiettivi ed esiti della strategia territoriale del Cavaliere. Dall’uso delle etichette geopolitiche nelle elezioni del 1994 alla retorica dei fatti e dei luoghi, ormai evaporata. Il proliferare delle Leghe. La personalizzazione come boomerang. di Ilvo Diamanti (editoriale del numero 6/2010 di Limes)
IL TERRITORIO COME MARCHIO E COME NETWORK: Silvio Berlusconi ha adottato il territorio come argomento di marketing, ma anche come fattore di aggregazione e di coalizione. Cioè: come network. Fin dall’inizio della sua esperienza politica, in occasione della campagna elettorale del 1994. Le prime elezioni della (cosiddetta) Seconda Repubblica. Una fase di svolta, durante la quale il sistema partitico e istituzionale è in piena crisi, in pieno sfaldamento. Sottoposto a molteplici, laceranti tensioni. Non ultima, anzi tra le più importanti, quella territoriale, interpretata dalla Lega Nord. Soggetto politico che si muove tra rivolta economica e protesta politica. La sua proposta – anzitutto simbolica ed emotiva – si riassume nella lotta «contro Roma e il Sud». Riflette, quindi, una duplice domanda di cambiamento: socio-economico e geopolitico. Roma, infatti, appare e viene polemicamente rappresentata come la capitale del sistema partitocratico e della corruzione politica. Luogo del centralismo statale e dell’intervento pubblico assistenziale. Il Sud costituisce, invece, il principale beneficiario della spesa pubblica, a cui Roma – lo Stato centrale – destina una quota spropositata delle risorse prodotte soprattutto nel Nord. D’altronde, gran parte della base elettorale dei partiti di governo della Prima Repubblica (la Dc, anzitutto, ma anche il Psi), dopo gli anni Settanta si era prevalentemente spostata nel Mezzogiorno. Accompagnata e sostenuta – appunto – dalla spesa pubblica e dalla protezione dello Stato. Anche Silvio Berlusconi, peraltro, è molto caratterizzato dal punto di vista territoriale. È un imprenditore di Milano, capitale del «nuovo» Nord. Epicentro della ribellione contro il sistema partitocratico della Prima Repubblica. È la città di Mani Pulite, l’alternativa a Roma, ma anche a Torino, capitale del «vecchio» Nord, che si regge(va) sulla grande industria protetta dalla politica e dallo Stato. Milano, invece, è il baricentro del capitalismo di produzione dei beni immateriali. Finanza, servizi, comunicazione. Berlusconi ne riflette l’immagine. E a sua volta contribuisce a definirla. In una certa misura, è un altro Nord. Diverso da quello rappresentato da Torino e dalla Fiat. Diverso anche dal Nord della Lega. Che rappresenta il neocapitalismo rampante, espresso dalla piccola e piccolissima impresa, che si sviluppa soprattutto nelle province non metropolitane. Pedemontane, più che padane. E corre dal Nord-Est al Nord della Lombardia, fino a toccare alcune province del Nord-Ovest, periferiche rispetto a Torino (Cuneo, in primo luogo). È l’erede della Dc, dal punto di vista della base elettorale. Ma se ne distacca per molti altri versi. La Lega è, infatti, diversa e opposta alla Dc per stile, linguaggio, proposta.
Berlusconi, dunque, interpreta un altro Nord: non di sinistra, ma neppure leghista. Per tradizione e storia, sicuramente anticomunista. Per biografia e geografia, contiguo e concorrente al Nord leghista. Tuttavia, per interesse politico ed elettorale, oltre che imprenditoriale, non può fare la guerra a Roma e al Sud. Significherebbe, tra le altre cose, rinunciare a vincere. Condannarsi ad essere minoranza. Come il Pci e la sinistra, che non avevano mai governato, in Italia, non solo per il vincolo internazionale, ma anche perché rinchiusi in una larga ma delimitata riserva di caccia elettorale. L’enclave della zona rossa, che circoscrive le – ed è circoscritta dalle – regioni dell’Italia centrale. Per questo Berlusconi, in vista delle elezioni del 1994, allestisce una coalizione che rammenta un catalogo di etichette territoriali. Aggrega, in un unico cartello elettorale, oltre alla Lega Nord, anche Alleanza nazionale. Partito post-fascista, gemmato dal Msi proprio in vista del voto. Per base elettorale, una sorta di Lega Sud. Associa, inoltre, anche i neodemocristiani del Ccd. Complemento della Lega nel Nord e di An nel Sud. In questo modo, peraltro, oppone il Nuovo (le emergenti identità territoriali) al Vecchio (i partiti di ex e di post: comunisti, democristiani eccetera).
Insomma, Berlusconi convoglia in un unico contenitore (il Polo) contesti – sociali, economici e anzitutto simbolici – largamente inconciliabili. Fin dal nome: il Nord e la nazione (ancorata a Roma e nel Sud, patrie di An). Berlusconi li riconcilia e li riassume, fornendo loro una cornice comune, definita dal suo «partito personale». Il quale, non per caso, si chiama Forza Italia. Un nome significativo. Più che evocare la nazione raffigura la Nazionale di calcio. Richiama il paese delle passioni, che si identificano nella maglia dei calciatori. Azzurra, come la bandiera di Forza Italia. Come la casacca dei militanti forzisti. Gli «azzurri». L’Italia di Berlusconi evoca, inoltre, la televisione, di cui egli è il più importante e potente imprenditore privato. Non solo in ambito nazionale. Quella che egli interpreta e raffigura è un’Italia «senza territorio», appunto. Ma è un network capace di connettere e di tenere insieme i diversi territori – altrimenti inconciliabili e contrapposti – rappresentati dalla Lega e da An. La sua immagine personale, la sua costruzione mediale di «italiano medio», in grado di vincere e di raggiungere il successo in ogni campo, gli consentono di offrire una colla ai pezzi di un paese spezzato dalla politica, oltre che dall’economia. Peraltro, la sua capacità di comprendere e maneggiare le logiche della nuova legge elettorale semi-maggioritaria gli permette di costruire un cartello vincente, evitando i contrasti fra attori politici e territoriali tanto lontani. Così costruisce un’alleanza distinta: a Nord con la Lega; al Centro-Sud con An. Lega Nord, Lega Sud. Entrambi uniti da Forza Italia. L’unico e il solo partito in grado di presentare una distribuzione del voto «nazionale»; comunque, non circoscritta e marcata territorialmente. A differenza degli alleati, ma anche dei partiti di centro-sinistra. Così la Seconda Repubblica nasce insieme all’Italia mediatica e personalizzata di Silvio Berlusconi. Capace di sostituire con il marketing la perdita di forza dell’ideologia. E di personalizzare questo «paese di compaesani», come lo definisce Paolo Segatti. Questo paese di paesi. Proponendo se stesso come modello. Il sogno americano all’italiana. Visto che gli italiani (non tutti, ovviamente, ma una parte rilevante di essi) sono dei «Berlusconi più poveri» (per echeggiare una felice formula di Massimo Gramellini).
La «geopolitica nazionale» di Berlusconi, dunque, è una costruzione personale e personalizzata. Opera abile e complessa, mediale e narrativa. Diplomatica e organizzativa. Perché solo lui è in grado di tenere insieme i partiti e i leader che rappresentano le diverse Italie. Bossi, Fini, Casini. E solo lui è in grado di imporre confini territoriali stretti e invalicabili agli avversari, ai «nemici» del centro-sinistra. La parola e lo stigma «comunista», che Berlusconi usa senza sosta e come mai era avvenuto nella Prima Repubblica, quando i comunisti esistevano davvero, costringe il centro-sinistra dentro allo storico recinto delle regioni rosse del Centro Italia. Lo riduce a una sorta di Lega di Centro (come la definisce Marc Lazar). (2 continua)
IL TERRITORIO COME MARCHIO E COME NETWORK: Silvio Berlusconi ha adottato il territorio come argomento di marketing, ma anche come fattore di aggregazione e di coalizione. Cioè: come network. Fin dall’inizio della sua esperienza politica, in occasione della campagna elettorale del 1994. Le prime elezioni della (cosiddetta) Seconda Repubblica. Una fase di svolta, durante la quale il sistema partitico e istituzionale è in piena crisi, in pieno sfaldamento. Sottoposto a molteplici, laceranti tensioni. Non ultima, anzi tra le più importanti, quella territoriale, interpretata dalla Lega Nord. Soggetto politico che si muove tra rivolta economica e protesta politica. La sua proposta – anzitutto simbolica ed emotiva – si riassume nella lotta «contro Roma e il Sud». Riflette, quindi, una duplice domanda di cambiamento: socio-economico e geopolitico. Roma, infatti, appare e viene polemicamente rappresentata come la capitale del sistema partitocratico e della corruzione politica. Luogo del centralismo statale e dell’intervento pubblico assistenziale. Il Sud costituisce, invece, il principale beneficiario della spesa pubblica, a cui Roma – lo Stato centrale – destina una quota spropositata delle risorse prodotte soprattutto nel Nord. D’altronde, gran parte della base elettorale dei partiti di governo della Prima Repubblica (la Dc, anzitutto, ma anche il Psi), dopo gli anni Settanta si era prevalentemente spostata nel Mezzogiorno. Accompagnata e sostenuta – appunto – dalla spesa pubblica e dalla protezione dello Stato. Anche Silvio Berlusconi, peraltro, è molto caratterizzato dal punto di vista territoriale. È un imprenditore di Milano, capitale del «nuovo» Nord. Epicentro della ribellione contro il sistema partitocratico della Prima Repubblica. È la città di Mani Pulite, l’alternativa a Roma, ma anche a Torino, capitale del «vecchio» Nord, che si regge(va) sulla grande industria protetta dalla politica e dallo Stato. Milano, invece, è il baricentro del capitalismo di produzione dei beni immateriali. Finanza, servizi, comunicazione. Berlusconi ne riflette l’immagine. E a sua volta contribuisce a definirla. In una certa misura, è un altro Nord. Diverso da quello rappresentato da Torino e dalla Fiat. Diverso anche dal Nord della Lega. Che rappresenta il neocapitalismo rampante, espresso dalla piccola e piccolissima impresa, che si sviluppa soprattutto nelle province non metropolitane. Pedemontane, più che padane. E corre dal Nord-Est al Nord della Lombardia, fino a toccare alcune province del Nord-Ovest, periferiche rispetto a Torino (Cuneo, in primo luogo). È l’erede della Dc, dal punto di vista della base elettorale. Ma se ne distacca per molti altri versi. La Lega è, infatti, diversa e opposta alla Dc per stile, linguaggio, proposta.
Berlusconi, dunque, interpreta un altro Nord: non di sinistra, ma neppure leghista. Per tradizione e storia, sicuramente anticomunista. Per biografia e geografia, contiguo e concorrente al Nord leghista. Tuttavia, per interesse politico ed elettorale, oltre che imprenditoriale, non può fare la guerra a Roma e al Sud. Significherebbe, tra le altre cose, rinunciare a vincere. Condannarsi ad essere minoranza. Come il Pci e la sinistra, che non avevano mai governato, in Italia, non solo per il vincolo internazionale, ma anche perché rinchiusi in una larga ma delimitata riserva di caccia elettorale. L’enclave della zona rossa, che circoscrive le – ed è circoscritta dalle – regioni dell’Italia centrale. Per questo Berlusconi, in vista delle elezioni del 1994, allestisce una coalizione che rammenta un catalogo di etichette territoriali. Aggrega, in un unico cartello elettorale, oltre alla Lega Nord, anche Alleanza nazionale. Partito post-fascista, gemmato dal Msi proprio in vista del voto. Per base elettorale, una sorta di Lega Sud. Associa, inoltre, anche i neodemocristiani del Ccd. Complemento della Lega nel Nord e di An nel Sud. In questo modo, peraltro, oppone il Nuovo (le emergenti identità territoriali) al Vecchio (i partiti di ex e di post: comunisti, democristiani eccetera).
Insomma, Berlusconi convoglia in un unico contenitore (il Polo) contesti – sociali, economici e anzitutto simbolici – largamente inconciliabili. Fin dal nome: il Nord e la nazione (ancorata a Roma e nel Sud, patrie di An). Berlusconi li riconcilia e li riassume, fornendo loro una cornice comune, definita dal suo «partito personale». Il quale, non per caso, si chiama Forza Italia. Un nome significativo. Più che evocare la nazione raffigura la Nazionale di calcio. Richiama il paese delle passioni, che si identificano nella maglia dei calciatori. Azzurra, come la bandiera di Forza Italia. Come la casacca dei militanti forzisti. Gli «azzurri». L’Italia di Berlusconi evoca, inoltre, la televisione, di cui egli è il più importante e potente imprenditore privato. Non solo in ambito nazionale. Quella che egli interpreta e raffigura è un’Italia «senza territorio», appunto. Ma è un network capace di connettere e di tenere insieme i diversi territori – altrimenti inconciliabili e contrapposti – rappresentati dalla Lega e da An. La sua immagine personale, la sua costruzione mediale di «italiano medio», in grado di vincere e di raggiungere il successo in ogni campo, gli consentono di offrire una colla ai pezzi di un paese spezzato dalla politica, oltre che dall’economia. Peraltro, la sua capacità di comprendere e maneggiare le logiche della nuova legge elettorale semi-maggioritaria gli permette di costruire un cartello vincente, evitando i contrasti fra attori politici e territoriali tanto lontani. Così costruisce un’alleanza distinta: a Nord con la Lega; al Centro-Sud con An. Lega Nord, Lega Sud. Entrambi uniti da Forza Italia. L’unico e il solo partito in grado di presentare una distribuzione del voto «nazionale»; comunque, non circoscritta e marcata territorialmente. A differenza degli alleati, ma anche dei partiti di centro-sinistra. Così la Seconda Repubblica nasce insieme all’Italia mediatica e personalizzata di Silvio Berlusconi. Capace di sostituire con il marketing la perdita di forza dell’ideologia. E di personalizzare questo «paese di compaesani», come lo definisce Paolo Segatti. Questo paese di paesi. Proponendo se stesso come modello. Il sogno americano all’italiana. Visto che gli italiani (non tutti, ovviamente, ma una parte rilevante di essi) sono dei «Berlusconi più poveri» (per echeggiare una felice formula di Massimo Gramellini).
La «geopolitica nazionale» di Berlusconi, dunque, è una costruzione personale e personalizzata. Opera abile e complessa, mediale e narrativa. Diplomatica e organizzativa. Perché solo lui è in grado di tenere insieme i partiti e i leader che rappresentano le diverse Italie. Bossi, Fini, Casini. E solo lui è in grado di imporre confini territoriali stretti e invalicabili agli avversari, ai «nemici» del centro-sinistra. La parola e lo stigma «comunista», che Berlusconi usa senza sosta e come mai era avvenuto nella Prima Repubblica, quando i comunisti esistevano davvero, costringe il centro-sinistra dentro allo storico recinto delle regioni rosse del Centro Italia. Lo riduce a una sorta di Lega di Centro (come la definisce Marc Lazar). (2 continua)
Silvio Berlusconi, una geopolitica molto personale
Tappe, obiettivi ed esiti della strategia territoriale del Cavaliere. Dall’uso delle etichette geopolitiche nelle elezioni del 1994 alla retorica dei fatti e dei luoghi, ormai evaporata. Il proliferare delle Leghe. La personalizzazione come boomerang.
di Ilvo Diamanti (editoriale del numero 6/2010 di Limes) - Può sembrare paradossale riflettere sul legame di Silvio Berlusconi con il territorio. Descriverne l’identità geopolitica «nazionale». Farne oggetto di analisi specifica e approfondita. Silvio Berlusconi, infatti, appare come l’inventore e l’attore protagonista della «politica come marketing», mediatizzata e personalizzata. Dunque: una politica senza territorio. Che ha come spazio la comunicazione e, in particolar modo, la televisione. Eppure, l’identità politica di Berlusconi è stata elaborata, promossa, sviluppata dal suo artefice in modo consapevole e accurato, porgendo grande attenzione al territorio. Sotto il profilo dell’organizzazione, ma anche – e prima ancora – della rappresentazione. Il Cavaliere, infatti, ne ha fatto argomento esplicito – marchio e parola – della comunicazione politica. Il che non deve sorprendere più di tanto. Perché non c’è discontinuità, nella strategia di Berlusconi, fra la politica mediatica e personalizzata, da un lato, e il riferimento al territorio, dall’altro. In particolare se si considera quanta importanza abbia avuto il territorio, negli ultimi trent’anni. E quale valore mantenga ancora oggi, sul mercato elettorale. Dal punto di vista simbolico, ma anche organizzativo: come bandiera e come tema dell’agenda politica. Berlusconi, per questo, ne ha fatto largo uso in campagna elettorale. Cioè: sempre. Visto che si vota praticamente sempre. E comunque viviamo in campagna elettorale permanente. (1 continua)
di Ilvo Diamanti (editoriale del numero 6/2010 di Limes) - Può sembrare paradossale riflettere sul legame di Silvio Berlusconi con il territorio. Descriverne l’identità geopolitica «nazionale». Farne oggetto di analisi specifica e approfondita. Silvio Berlusconi, infatti, appare come l’inventore e l’attore protagonista della «politica come marketing», mediatizzata e personalizzata. Dunque: una politica senza territorio. Che ha come spazio la comunicazione e, in particolar modo, la televisione. Eppure, l’identità politica di Berlusconi è stata elaborata, promossa, sviluppata dal suo artefice in modo consapevole e accurato, porgendo grande attenzione al territorio. Sotto il profilo dell’organizzazione, ma anche – e prima ancora – della rappresentazione. Il Cavaliere, infatti, ne ha fatto argomento esplicito – marchio e parola – della comunicazione politica. Il che non deve sorprendere più di tanto. Perché non c’è discontinuità, nella strategia di Berlusconi, fra la politica mediatica e personalizzata, da un lato, e il riferimento al territorio, dall’altro. In particolare se si considera quanta importanza abbia avuto il territorio, negli ultimi trent’anni. E quale valore mantenga ancora oggi, sul mercato elettorale. Dal punto di vista simbolico, ma anche organizzativo: come bandiera e come tema dell’agenda politica. Berlusconi, per questo, ne ha fatto largo uso in campagna elettorale. Cioè: sempre. Visto che si vota praticamente sempre. E comunque viviamo in campagna elettorale permanente. (1 continua)
Friday, 10 December 2010
Evo Morales: «Chi non rispetta le regole paghi»
A Cancun il presidente della Bolivia chiede legalità ed equità. A partire dall'ambiente, e per andare oltre. Perchè «la crisi ambientale è una delle crisi del capitalismo».
di Emiliano Biaggio
«Vengo qui a proporre la creazione di un Tribunale di giustizia climatica» e ambientale per «valutare lo stato d'applicazione del Protocollo di Kyoto» e poter «giudicare i paesi che vengano meno ai loro impegni» ed eventualmente «sanzionare» gli inadempienti. Evo Morales, presidente della Bolivia, chiede giustizia ed equità, e più in particolare «giustizia climatica». La sede è quella di Cancun, che ospita la XVI Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. L'atto d'accusa formale è quello di una mancanza di unità d'intenti e la presenza di tanti, troppi egoismi, in materia di politiche di sostenibilità e green economy. Ma il richiamo va oltre i temi eco-sensibili. Perchè il principio della legge uguale per tutti vale in tutti i campi. Le parole di Morales non sono casuali: un organismo di giustizia ambientale nasce da «la necessità di preservare e far rispettare il Protocollo di Kyoto». Di fare sì che leggi siano valide per tutti. Da qui la proposta di un Tribunale di giustizia climatica. Per lui, indio, la "Madre terra" è un bene prezioso, e non sorprende il richiamo proprio a partire dalla natura. Perchè «una delle crisi del capitalismo è la crisi climatica, e tutti ne siamo responsabili». Quindi, esorta in un messaggio non solo ecologista, «occorre cambiare politiche». Altrimenti, avverte, «saremo responsabili di eco-cidio e di genocidio», perchè «attenteremo all'umanità nel suo complesso».
di Emiliano Biaggio
«Vengo qui a proporre la creazione di un Tribunale di giustizia climatica» e ambientale per «valutare lo stato d'applicazione del Protocollo di Kyoto» e poter «giudicare i paesi che vengano meno ai loro impegni» ed eventualmente «sanzionare» gli inadempienti. Evo Morales, presidente della Bolivia, chiede giustizia ed equità, e più in particolare «giustizia climatica». La sede è quella di Cancun, che ospita la XVI Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. L'atto d'accusa formale è quello di una mancanza di unità d'intenti e la presenza di tanti, troppi egoismi, in materia di politiche di sostenibilità e green economy. Ma il richiamo va oltre i temi eco-sensibili. Perchè il principio della legge uguale per tutti vale in tutti i campi. Le parole di Morales non sono casuali: un organismo di giustizia ambientale nasce da «la necessità di preservare e far rispettare il Protocollo di Kyoto». Di fare sì che leggi siano valide per tutti. Da qui la proposta di un Tribunale di giustizia climatica. Per lui, indio, la "Madre terra" è un bene prezioso, e non sorprende il richiamo proprio a partire dalla natura. Perchè «una delle crisi del capitalismo è la crisi climatica, e tutti ne siamo responsabili». Quindi, esorta in un messaggio non solo ecologista, «occorre cambiare politiche». Altrimenti, avverte, «saremo responsabili di eco-cidio e di genocidio», perchè «attenteremo all'umanità nel suo complesso».
Thursday, 9 December 2010
«Le colonie israeliane non sono legittime»
Washington attacca Israele e le sue politiche sugli insediamenti nei Territori, e riceve l'Anp. Alla fine si riconoscono i crimini dello Stato ebraico, responsabile dei continui fallimenti dei negoziati di pace.
di Emiliano Biaggio
«Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità delle colonie israeliane e continueranno a sostenere questa posizione». Philip J. Crowley, portavoce del dipartimento di Stato, assesta un duro colpo a Israele, in una dichiarazione che è al tempo stesso un atto d'accusa e una mossa politica. Accusa contro le costruzioni continue di insediamenti nei territori palestinesi, atti fortemente compromissori del processo di pace; mossa politica di bocciatura delle decisioni delle autorità israeliane, scaricate dall'alleato di sempre. Nessuno alla Casa Bianca si azzarda ad imputare a chiare lettere responsabilità ad Israele, ma con la politica degli insediamenti- questo invece lo lasciano intendere chiaramente- lo Stato ebraico concorre a far naufragare la road-map. Per questo «la nostra posizione sugli insediamenti non è cambiata e non cambierà», ribadisce Crowley, nel doppio tentativo di ridare linfa a un impegno obamiano di soluzione della questione su cui tanto lo stesso Obama ha puntato, e fare pressioni sulle autorità israeliane. Se da una parte gli Stati Uniti criticano duramente gli israeliani per le colonie chiudendo - per il momento - le porte del dialogo, dall'altra il segretario di Stato, Hillary Clinton annuncia l'incontro a Washington il capo negoziatore palestinese, Saeb Erakat. L'obiettivo, fa sapere da Ramallah l'Autorità nazionale palestinese, è tentare di trovare una via d'uscita alla nuova fase di stallo nei negoziati di pace con gli israeliani. Ma vera battaglia si gioca proprio con questi ultimi, perchè quanto avverrà vuol dire che allo stato attuale si tratta con chi è disposto non solo ad ascoltare ma anche a offrire punti di negoziato. L'Anp propone uno stato palestinese entro i confini del 1967, con il nodo tutto da sciogliere di Gerusalemme. Ma almeno dà l'impressione di voler chiudere una volte per tutte la questione arabo-israeliana, a differenza dell'altra parte. Perchè Israele, per quanto da Tel Aviv neghino, ha forti responsabilità, dato che continua come se niente fosse a costruire nei territori, colonizzandoli. Non si chiede ad Israele di scomparire, nè si mette in discussione lo Stato ebraico o il suo diritto di esserci, ma sarebbe ora riconoscere che Israele è uno stato fuori legge che opera al di fuori del diritto e all'interno di un unilateralismo e di una repressione che non sono degne di chi tanto, ogni giorno, ricorda la Shoah e invita il mondo tutto a non dimenticarla. Ora il mondo tutto dovrebbe invece ricordare alle autorità israeliane e agli israeliani il valore della legalità e l'importanza del rispetto delle regole. Perchè se gli insediamenti non hanno legittimità, non trovano diritto e infrangono delle norme di legge. E non rispettare la legge, è un reato. E' compiere un crimine. La comunità internazionale dovrebbe anche ricordare a Netanyahu, Lieberman e all'intera classe politica israeliana che l'autoritarismo è alla base delle tante sofferenze passate patite dal popolo d'Israele. Per intenderci: Hitler era autoritario. E imperialista. Israele oggi come si comporta? Col piglio e il temperamento di una potenza autoritaria e imperialista. A Tel Aviv (e non solo) non devono prendersela quindi se qualcuno opera audaci o azzardati paragoni, o formula accuse pesanti o ancora solleva critiche dure, ma le scomode e antipatiche analogie ci sono. Se in Medio Oriente la situazione precipita è colpa dei razzi Qassam o dei tank israliani? E' colpa dei mujaheddin o dello Shin Bet? E' colpa dell'intifada o delle Tzahal? Se si risponde a favore di Israele si chiudono gli occhi di fronte alla realtà e si cancellano diritto e regole. Sacrificando tutto in nome di un più che discutibile credo per cui quello ebraico è il popolo eletto e a questo è tutto dovuto. Se ebrei ed israeliani vogliono crederci, è un loro diritto. Ma sia chiaro: tutti gli altri non hanno alcun dovere di sposare un simile principio.
di Emiliano Biaggio
«Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità delle colonie israeliane e continueranno a sostenere questa posizione». Philip J. Crowley, portavoce del dipartimento di Stato, assesta un duro colpo a Israele, in una dichiarazione che è al tempo stesso un atto d'accusa e una mossa politica. Accusa contro le costruzioni continue di insediamenti nei territori palestinesi, atti fortemente compromissori del processo di pace; mossa politica di bocciatura delle decisioni delle autorità israeliane, scaricate dall'alleato di sempre. Nessuno alla Casa Bianca si azzarda ad imputare a chiare lettere responsabilità ad Israele, ma con la politica degli insediamenti- questo invece lo lasciano intendere chiaramente- lo Stato ebraico concorre a far naufragare la road-map. Per questo «la nostra posizione sugli insediamenti non è cambiata e non cambierà», ribadisce Crowley, nel doppio tentativo di ridare linfa a un impegno obamiano di soluzione della questione su cui tanto lo stesso Obama ha puntato, e fare pressioni sulle autorità israeliane. Se da una parte gli Stati Uniti criticano duramente gli israeliani per le colonie chiudendo - per il momento - le porte del dialogo, dall'altra il segretario di Stato, Hillary Clinton annuncia l'incontro a Washington il capo negoziatore palestinese, Saeb Erakat. L'obiettivo, fa sapere da Ramallah l'Autorità nazionale palestinese, è tentare di trovare una via d'uscita alla nuova fase di stallo nei negoziati di pace con gli israeliani. Ma vera battaglia si gioca proprio con questi ultimi, perchè quanto avverrà vuol dire che allo stato attuale si tratta con chi è disposto non solo ad ascoltare ma anche a offrire punti di negoziato. L'Anp propone uno stato palestinese entro i confini del 1967, con il nodo tutto da sciogliere di Gerusalemme. Ma almeno dà l'impressione di voler chiudere una volte per tutte la questione arabo-israeliana, a differenza dell'altra parte. Perchè Israele, per quanto da Tel Aviv neghino, ha forti responsabilità, dato che continua come se niente fosse a costruire nei territori, colonizzandoli. Non si chiede ad Israele di scomparire, nè si mette in discussione lo Stato ebraico o il suo diritto di esserci, ma sarebbe ora riconoscere che Israele è uno stato fuori legge che opera al di fuori del diritto e all'interno di un unilateralismo e di una repressione che non sono degne di chi tanto, ogni giorno, ricorda la Shoah e invita il mondo tutto a non dimenticarla. Ora il mondo tutto dovrebbe invece ricordare alle autorità israeliane e agli israeliani il valore della legalità e l'importanza del rispetto delle regole. Perchè se gli insediamenti non hanno legittimità, non trovano diritto e infrangono delle norme di legge. E non rispettare la legge, è un reato. E' compiere un crimine. La comunità internazionale dovrebbe anche ricordare a Netanyahu, Lieberman e all'intera classe politica israeliana che l'autoritarismo è alla base delle tante sofferenze passate patite dal popolo d'Israele. Per intenderci: Hitler era autoritario. E imperialista. Israele oggi come si comporta? Col piglio e il temperamento di una potenza autoritaria e imperialista. A Tel Aviv (e non solo) non devono prendersela quindi se qualcuno opera audaci o azzardati paragoni, o formula accuse pesanti o ancora solleva critiche dure, ma le scomode e antipatiche analogie ci sono. Se in Medio Oriente la situazione precipita è colpa dei razzi Qassam o dei tank israliani? E' colpa dei mujaheddin o dello Shin Bet? E' colpa dell'intifada o delle Tzahal? Se si risponde a favore di Israele si chiudono gli occhi di fronte alla realtà e si cancellano diritto e regole. Sacrificando tutto in nome di un più che discutibile credo per cui quello ebraico è il popolo eletto e a questo è tutto dovuto. Se ebrei ed israeliani vogliono crederci, è un loro diritto. Ma sia chiaro: tutti gli altri non hanno alcun dovere di sposare un simile principio.
Tuesday, 7 December 2010
Parchi per voti, la pazza idea di Berlusconi
Lo Stelvio smembrato per il piacere dei cacciatori altoatesini e l'astensione del Svp alla fiducia alla Camera: Pd e Idv denunciano favori e trame politiche che gravano sulla natura italiana.
di Emiliano Biaggio
Silvio Berlusconi alla conta e soprattutto alla ricerca dei voti a favore in vista del voto di fiducia alla Camera. E per garantirsi sostegno parlamentare è pronto a tutto, anche a smembrare un parco nazionale per favorire la lobby dei cacciatori in cambio nemmeno di un'espressione di voto favorevole quanto di una semplice astensione. Che succede in Italia? Sembra delinearsi un accordo tra Berlusconi e Durnwalder in un'asse insolita tra Pdl e Svp. Il caso lo sollevano i senatori del Pd Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, che hanno rivolto un'interrogazione al ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, per fare chiarezza sul Parco nazionale dello Stelvio, al centro di ipotesi di smembramenti sospetti. Il parco nazionale dello Stelvio, nato nel 1935, è la più grande area protetta europea che però adesso «rischia concretamente di essere presto solo un ricordo», denunciano i due esponenti del Pd. La Commissione dei dodici (l'organismo paritetico tra Stato e province autonome di Trento e Bolzano), rivelano, «alcuni giorni fa ha di fatto cancellato l'ente parco e lo Stelvio è stato smembrato in tre parti, diviso tra le due province e la Regione Lombardia». Dietro quella che viene definita una «scelta scellerata» sembrerebbe esserci la regia di Luis Durnwalder, il presidente della Provincia di Bolzano e leader del Svp, che a quanto pare «vorrebbe consentire ai cacciatori sudtirolesi di sparare anche nelle aree protette e abbassare le tutele che finora hanno salvaguardato lo Stelvio dai pericoli per il paesaggio e dal consumo di suolo». E non finisce qui, perchè sullo sfondo di tutto questo, continuano Della Seta e Ferrante, «aleggia la possibilità che la Svp garantisca a Berlusconi una preziosa astensione sul voto di fiducia». Per l'Idv invece è più che una possibilità: Sergio Piffari, capogruppo dell'Italia dei valori in commissione Ambiente della Camera, denuncia a chiare lettere «una chiara manovra politica» che «palazzo Chigi è disposta ad attuare pur di garantirsi il sostegno più esteso possibile alla vigilia del cruciale voto di fiducia di settimana prossima». Perchè di questo si tratta, secondo Piffari. C'è «il tentativo del Governo di accaparrarsi il sostegno dei deputati altoatesini della Svp». La tutela del parco dello Stelvio, critica e attacca l'Idv, «non può diventare merce di scambio», ma a quanto pare sembra che lo sia già diventato.
di Emiliano Biaggio
Silvio Berlusconi alla conta e soprattutto alla ricerca dei voti a favore in vista del voto di fiducia alla Camera. E per garantirsi sostegno parlamentare è pronto a tutto, anche a smembrare un parco nazionale per favorire la lobby dei cacciatori in cambio nemmeno di un'espressione di voto favorevole quanto di una semplice astensione. Che succede in Italia? Sembra delinearsi un accordo tra Berlusconi e Durnwalder in un'asse insolita tra Pdl e Svp. Il caso lo sollevano i senatori del Pd Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, che hanno rivolto un'interrogazione al ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, per fare chiarezza sul Parco nazionale dello Stelvio, al centro di ipotesi di smembramenti sospetti. Il parco nazionale dello Stelvio, nato nel 1935, è la più grande area protetta europea che però adesso «rischia concretamente di essere presto solo un ricordo», denunciano i due esponenti del Pd. La Commissione dei dodici (l'organismo paritetico tra Stato e province autonome di Trento e Bolzano), rivelano, «alcuni giorni fa ha di fatto cancellato l'ente parco e lo Stelvio è stato smembrato in tre parti, diviso tra le due province e la Regione Lombardia». Dietro quella che viene definita una «scelta scellerata» sembrerebbe esserci la regia di Luis Durnwalder, il presidente della Provincia di Bolzano e leader del Svp, che a quanto pare «vorrebbe consentire ai cacciatori sudtirolesi di sparare anche nelle aree protette e abbassare le tutele che finora hanno salvaguardato lo Stelvio dai pericoli per il paesaggio e dal consumo di suolo». E non finisce qui, perchè sullo sfondo di tutto questo, continuano Della Seta e Ferrante, «aleggia la possibilità che la Svp garantisca a Berlusconi una preziosa astensione sul voto di fiducia». Per l'Idv invece è più che una possibilità: Sergio Piffari, capogruppo dell'Italia dei valori in commissione Ambiente della Camera, denuncia a chiare lettere «una chiara manovra politica» che «palazzo Chigi è disposta ad attuare pur di garantirsi il sostegno più esteso possibile alla vigilia del cruciale voto di fiducia di settimana prossima». Perchè di questo si tratta, secondo Piffari. C'è «il tentativo del Governo di accaparrarsi il sostegno dei deputati altoatesini della Svp». La tutela del parco dello Stelvio, critica e attacca l'Idv, «non può diventare merce di scambio», ma a quanto pare sembra che lo sia già diventato.
Thursday, 2 December 2010
E sui rifiuti in Campania è scambio di accuse tra governo e opposizione
Il Pd Mazzarella a Prestigiacomo: «Un mese per risponderci». Il ministro: «Non è colpa mia».
di Emiliano Biaggio
Botta e risposta alla Camera tra il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e il deputato del Pd Eugenio Mazzarella, protagonisti di uno scambio di battute al vetriolo. Terreno di scontro l'Aula di Montecitorio, dove il ministro si è recata per rispondere a un'interpellanza presentata dall'opposizione per avere risposte sulla condotta del Governo sull'emergenza rifiuti in Campania. Il deputato del Pd, nell'illustrare l'interpellanza, bacchetta Prestigiacomo: «Siamo contenti della presenza del ministro, visto che viene a rispondere dopo un mese». Infatti, sottolinea davanti ai deputati, «questa interpellanza l'abbiamo presentata il 2 novembre scorso...».
Immediata e secca la replica di Prestigiacomo: «Lei aveva la possibilità di utilizzare il question time se desiderava avere una risposta urgente al suo quesito», risponde a Mazzarella. Del resto, aggiunge, «come sa non è colpa del Governo se ci sono migliaia di interpellanze».
di Emiliano Biaggio
Botta e risposta alla Camera tra il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e il deputato del Pd Eugenio Mazzarella, protagonisti di uno scambio di battute al vetriolo. Terreno di scontro l'Aula di Montecitorio, dove il ministro si è recata per rispondere a un'interpellanza presentata dall'opposizione per avere risposte sulla condotta del Governo sull'emergenza rifiuti in Campania. Il deputato del Pd, nell'illustrare l'interpellanza, bacchetta Prestigiacomo: «Siamo contenti della presenza del ministro, visto che viene a rispondere dopo un mese». Infatti, sottolinea davanti ai deputati, «questa interpellanza l'abbiamo presentata il 2 novembre scorso...».
Immediata e secca la replica di Prestigiacomo: «Lei aveva la possibilità di utilizzare il question time se desiderava avere una risposta urgente al suo quesito», risponde a Mazzarella. Del resto, aggiunge, «come sa non è colpa del Governo se ci sono migliaia di interpellanze».
Wednesday, 1 December 2010
Atenei in rivolta, università rivolta.
Pompei che crolla e la nuova riforma dell'università: ecco lo stato della cultura made in Italy.
l'e-dittoreale
Sotto i colpi martellanti della pioggia cade e si sgretola Pompei, sotto una pioggia battente l'Aula della Camera approva la riforma dell'università, provvedimento che ridisegna il mondo accademico in chiave aziendal-privatistica ma in versione impresa in crisi, con la sola eccezione della mancanza di aiuti di stato. L'area archeologica campana si sbriciola e si dissolve, l'università pure, almeno come eravamo abituati a conoscerla. Ma nel complesso il panorama italiano è fatto di impoverimento culturale. Perdita di patrimoni e ricchezze passate ma soprattutto future, per un paese in mal distruzione che paga errori passati e pagherà nefandezze più attuali. L'ultima, in ordine cronologico, quella di fare dell'università - pagata dalle famiglie - un'impresa in mano ai privati. Al senato accademico si affianca un Consiglio di amministrazione - organo tipico delle aziende - che avrà - come le aziende - responsabilità di spesa, assunzioni e costi di gestione. In perfetto stile aziendale, ecco inserita nell'università del ministro Gelmini, più flessibilità (o precarietà, a seconda delle collocazioni ideologiche e non). Via libera quindi alla riforma del reclutamento dei ricercatori, con l'introduzione di un sistema di massimo due contratti a tempo determinato di 8 anni (4+4). Dopo otto anni un'esame d'idoneità determinerà se il ricercatore - ormai almeno trentaduenne- è valido e idoneo ad una conferma a tempo indeterminato come associato, in caso contrario terminerà il rapporto con l'università maturando, però dei titoli utili per i concorsi pubblici. Auguri, allora. Da parte di tutti, governo incluso. Scordatevi aiuti, perchè l'azienda-Stato di berlusconiana forma non ne ve ne darà: la nuova università così come voluta da Gelmini intende premiare il merito, e le borse di studio non sono più di chi ha redditi più bassi ma di chi racimola più trenta e lodi. Se siete poveri e bravi, buon per voi, anche se chi è povero la laurea non se la paga nè se la compra. Se non siete bravi e oltretutto poveri, peggio per voi: l'assistenzialismo è cosa di Stato, e la crisi ci dice il welfare non premia. A onor del vero va detta una cosa: laddove si parla di governance universitaria si riprende un'idea di Luigi Berlinguer, ministro di un governo di diverso colore che mise mano agli atenei di casa nostra con una riforma, allora proprio come oggi, discutibile. E sempre a onor del vero va aggiunta una seconda annotazione: se l'esecutivo, con questa sua riforma, opera tagli all'università pubblica a quella privata lo stesso Governo, questo, li cancella. E riguardaono gli ultimi tre anni. Nell'ultima versione del maxiemendamento alla legge di Stabilità approvato dalla commissione Bilancio della Camera c'è infatti un finanziamento di 25 milioni per «le università non statali legalmente riconosciute». Nel nostro paese, è bene ricordarlo, università non statali legalmente riconosciute vuol dire istituti cattolici. Un regalo alla Chiesa chissà, forse dettato dalla necessità di un premier sempre più in difficoltà da tempo scaricato dalla Santa sede e dai vescovi. In sintesi l'Italia lascia la cultura in balia dei tempi e degli eventi: e i tempi ci dicono che l'ateneo è ormai a conduzione d'impresa, e gli eventi travolgono il nostro patrimonio artistico-archeologico. Sotto i colpi di una piogga a questo punto acida la cultura va in pezzi: nella "mignottocrazia" di oggi trionfa dunque l'arretratezza al servizio dell'ignoranza. Ma cio non sorprende se un ministro dell'Economia dichiara: «Di cultura non si vive, vado a farmi un panino alla cultura». Parole simili non aiutano, al massimo alimentano il qualunquismo e quanti dicono e continueranno a dire "vi siete mangiati tutto adesso mangiatevi pure questo". Il guaio è che lo stanno facendo davvero.
(poi editoriale per la puntata del 3 dicembre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)
l'e-dittoreale
Sotto i colpi martellanti della pioggia cade e si sgretola Pompei, sotto una pioggia battente l'Aula della Camera approva la riforma dell'università, provvedimento che ridisegna il mondo accademico in chiave aziendal-privatistica ma in versione impresa in crisi, con la sola eccezione della mancanza di aiuti di stato. L'area archeologica campana si sbriciola e si dissolve, l'università pure, almeno come eravamo abituati a conoscerla. Ma nel complesso il panorama italiano è fatto di impoverimento culturale. Perdita di patrimoni e ricchezze passate ma soprattutto future, per un paese in mal distruzione che paga errori passati e pagherà nefandezze più attuali. L'ultima, in ordine cronologico, quella di fare dell'università - pagata dalle famiglie - un'impresa in mano ai privati. Al senato accademico si affianca un Consiglio di amministrazione - organo tipico delle aziende - che avrà - come le aziende - responsabilità di spesa, assunzioni e costi di gestione. In perfetto stile aziendale, ecco inserita nell'università del ministro Gelmini, più flessibilità (o precarietà, a seconda delle collocazioni ideologiche e non). Via libera quindi alla riforma del reclutamento dei ricercatori, con l'introduzione di un sistema di massimo due contratti a tempo determinato di 8 anni (4+4). Dopo otto anni un'esame d'idoneità determinerà se il ricercatore - ormai almeno trentaduenne- è valido e idoneo ad una conferma a tempo indeterminato come associato, in caso contrario terminerà il rapporto con l'università maturando, però dei titoli utili per i concorsi pubblici. Auguri, allora. Da parte di tutti, governo incluso. Scordatevi aiuti, perchè l'azienda-Stato di berlusconiana forma non ne ve ne darà: la nuova università così come voluta da Gelmini intende premiare il merito, e le borse di studio non sono più di chi ha redditi più bassi ma di chi racimola più trenta e lodi. Se siete poveri e bravi, buon per voi, anche se chi è povero la laurea non se la paga nè se la compra. Se non siete bravi e oltretutto poveri, peggio per voi: l'assistenzialismo è cosa di Stato, e la crisi ci dice il welfare non premia. A onor del vero va detta una cosa: laddove si parla di governance universitaria si riprende un'idea di Luigi Berlinguer, ministro di un governo di diverso colore che mise mano agli atenei di casa nostra con una riforma, allora proprio come oggi, discutibile. E sempre a onor del vero va aggiunta una seconda annotazione: se l'esecutivo, con questa sua riforma, opera tagli all'università pubblica a quella privata lo stesso Governo, questo, li cancella. E riguardaono gli ultimi tre anni. Nell'ultima versione del maxiemendamento alla legge di Stabilità approvato dalla commissione Bilancio della Camera c'è infatti un finanziamento di 25 milioni per «le università non statali legalmente riconosciute». Nel nostro paese, è bene ricordarlo, università non statali legalmente riconosciute vuol dire istituti cattolici. Un regalo alla Chiesa chissà, forse dettato dalla necessità di un premier sempre più in difficoltà da tempo scaricato dalla Santa sede e dai vescovi. In sintesi l'Italia lascia la cultura in balia dei tempi e degli eventi: e i tempi ci dicono che l'ateneo è ormai a conduzione d'impresa, e gli eventi travolgono il nostro patrimonio artistico-archeologico. Sotto i colpi di una piogga a questo punto acida la cultura va in pezzi: nella "mignottocrazia" di oggi trionfa dunque l'arretratezza al servizio dell'ignoranza. Ma cio non sorprende se un ministro dell'Economia dichiara: «Di cultura non si vive, vado a farmi un panino alla cultura». Parole simili non aiutano, al massimo alimentano il qualunquismo e quanti dicono e continueranno a dire "vi siete mangiati tutto adesso mangiatevi pure questo". Il guaio è che lo stanno facendo davvero.
(poi editoriale per la puntata del 3 dicembre 2010 di E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)
Saturday, 27 November 2010
Le due Coree e la "guerra dimenticata"
Divise da sessant'anni, da quando nel 1950 prese avvio la guerra di Corea, Corea del Nord e Corea del Sud non hanno mai raggiunto una pace definitiva dato che nel 1953 i due paesi hanno siglato un armistizio, un accordo sul cessate il fuoco. Adesso questo armistizio viene infranto riproponendo scene e scenari di guerra, di quella "guerra dimenticata" che è quella mai finita e tutt'oggi in corso sulla penisola coreana.
Bombe sulla Corea del Sud, rotto l'armistizio
Accusato il Nord, Pyongyang denuncia provocazioni e attacchi del Sud cui avrebbe risposto per leggittima difesa. Sale la tensione sul 38° parallelo, e riprende la guerra di Corea.
di Emiliano Biaggio
La tregua si è rotta: per la prima volta da quando è stato firmato l’ armistizio, nel lontano 1953, lo scontro bellico tra le due Coree è ripreso. Ufficialmente per colpa del Nord, che ha bombardato l’isola sudcoreana di Yeonpyeong (cui ha fatto immediatamente seguito la risposta dell’artiglieria del Sud), ma da Pyongyang accusano i vicini del sud di «aver sparato per primi» e questo «nonostante ripetuti avvertimenti». L’azione della Corea del Nord è dunque un atto dovuto a sentire lo stato maggiore dell’esercito di Kim Jong-Il. «Non abbiamo potuto fare altro che assumere un’azione militare immediata» agli attacchi del sud, fanno sapere i nordcoreani. Dall’altra parte del 38esimo parallelo, invece, sostengono che tutto sia frutto dei rivali di sempre. Il presidente della Corea del Sud, Lee Myung-Bak denuncia un «attacco intenzionato e pianificato» da parte del paese confinante, e minaccia una «pesante reazione». Intanto caccia F15 ed F16 si alzano in volo mentre gli Stati Uniti, che in Corea del Sud mantengono basi militari, muovono le portaerei: operazioni e manovre di guerra nei cieli e nelle acque della penisola coreana come non si vedeva da più di cinquant’anni ripropongono la mai conclusa guerra di Corea, per uno scenario ad alta tensione dalle mille incognite: a Seul – ma non solo – si teme infatti che la situazione «degeneri», e la Russia – per bocca del ministro degli esteri Sergei Lavrov – ricorda il «pericolo colossale» di un eventuale conflitto aperto, dato che lì c’è l’atomica. Ecco perché in Cina per un altrettanto preoccupato e non per nulla contento Hu Jintao «è imperativo rilanciare i colloqui di pace», mentre da Washington il dipartimento di Stato americano richiama ad «un atteggiamento misurato». Se le Coree sono in fermento la comunità internazionale è dunque in fibrillazione, con il mondo tutto con il fiato sospeso a guardare e cercare di capire cosa succederà: del resto la posta in gioco è troppo alta, i rischi sono elevatissimi, le conseguenze di eventuali ricorsi a testate nucleari – che hanno i nordcoreani e gli alleati dei sudcoreani – drammatiche. Al Pentagono, al di là della delicatezza della situazione, non hanno dubbi: «La risposta sarà unitaria, perché è stato violato l’armistizio del 1953». E 57 anni dopo, dunque, le ostilità riprendono su un terreno insidioso tanto per gli eserciti quanto per la diplomazia, in una questione coreana sempre più rompicapo e lontana da una soluzione definitiva. Come dimostrato dagli ultimi eventi.
(editoriale della puntata del 26 novembre 2010 della trasmissione E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)
di Emiliano Biaggio
La tregua si è rotta: per la prima volta da quando è stato firmato l’ armistizio, nel lontano 1953, lo scontro bellico tra le due Coree è ripreso. Ufficialmente per colpa del Nord, che ha bombardato l’isola sudcoreana di Yeonpyeong (cui ha fatto immediatamente seguito la risposta dell’artiglieria del Sud), ma da Pyongyang accusano i vicini del sud di «aver sparato per primi» e questo «nonostante ripetuti avvertimenti». L’azione della Corea del Nord è dunque un atto dovuto a sentire lo stato maggiore dell’esercito di Kim Jong-Il. «Non abbiamo potuto fare altro che assumere un’azione militare immediata» agli attacchi del sud, fanno sapere i nordcoreani. Dall’altra parte del 38esimo parallelo, invece, sostengono che tutto sia frutto dei rivali di sempre. Il presidente della Corea del Sud, Lee Myung-Bak denuncia un «attacco intenzionato e pianificato» da parte del paese confinante, e minaccia una «pesante reazione». Intanto caccia F15 ed F16 si alzano in volo mentre gli Stati Uniti, che in Corea del Sud mantengono basi militari, muovono le portaerei: operazioni e manovre di guerra nei cieli e nelle acque della penisola coreana come non si vedeva da più di cinquant’anni ripropongono la mai conclusa guerra di Corea, per uno scenario ad alta tensione dalle mille incognite: a Seul – ma non solo – si teme infatti che la situazione «degeneri», e la Russia – per bocca del ministro degli esteri Sergei Lavrov – ricorda il «pericolo colossale» di un eventuale conflitto aperto, dato che lì c’è l’atomica. Ecco perché in Cina per un altrettanto preoccupato e non per nulla contento Hu Jintao «è imperativo rilanciare i colloqui di pace», mentre da Washington il dipartimento di Stato americano richiama ad «un atteggiamento misurato». Se le Coree sono in fermento la comunità internazionale è dunque in fibrillazione, con il mondo tutto con il fiato sospeso a guardare e cercare di capire cosa succederà: del resto la posta in gioco è troppo alta, i rischi sono elevatissimi, le conseguenze di eventuali ricorsi a testate nucleari – che hanno i nordcoreani e gli alleati dei sudcoreani – drammatiche. Al Pentagono, al di là della delicatezza della situazione, non hanno dubbi: «La risposta sarà unitaria, perché è stato violato l’armistizio del 1953». E 57 anni dopo, dunque, le ostilità riprendono su un terreno insidioso tanto per gli eserciti quanto per la diplomazia, in una questione coreana sempre più rompicapo e lontana da una soluzione definitiva. Come dimostrato dagli ultimi eventi.
(editoriale della puntata del 26 novembre 2010 della trasmissione E' la stampa bellezza, su RadioLiberaTutti)
Friday, 26 November 2010
L'Iraq ha un nuovo premier: è Nuri al-Maliki
Il presidente della Repubblica l'ha incaricato di formare un nuovo governo, dopo che a-Sadr e i curdi hanno garantito l'appoggio al primo ministro uscente
di Emiliano Biaggio
Otto mesi dopo le elezioni democratiche l'Iraq si avvia ad avere un nuovo governo. A seguito del riconteggio delle schede elettorali il presidente della Repubblica, il curdo Jalal Talabani, ha dato mandato a Nuri al-Maliki, premier uscente, di costituire un nuovo esecutivo. La situazione, quindi, sembra conoscere l'uscita dalla stallo in cui la vita politica irachena si trovava da troppo tempo per un paese che deve rinascere ed essere ricostruito. Il 7 marzo scorso dalla urne era uscito un paese diviso in due, con il partito di Iyad Allawi (Iraqiya) che aveva 91 seggi, e quello di Nuri Al-Maliki (Stato di diritto) che ne aveva racimolati 89. Numeri che di fatto avevano consegnato il paese all'ingovernabilità per l'impossibilità di formare esecutivi autonomi e creare maggioranze parlamentari compatte. Adesso però al-Maliki ottiene l'appoggio del Movimento sadrista di Muqtada al-Sadr, Fadhila, che gli garantisce 40 seggi in Parlamento. Ma al-Maliki ha ottenuto il sostegno anche dei partiti curdi (il Pdk di Barzani e l'Upk di Talabani), dimostrando di avere l'appoggio di tutti i principali attori politici - e confessionali - del paese e quindi una maggioranza ampia che dia all'Iraq quella stabilità che tutti chiedevano. Questo il motivo che ha indotto Talabani a dare ad al-Maliki via libera alla formazione di un nuovo esecutivo. Adesso il nuovo premier designato ha trenta giorni di tempo per scegliere i ministri e dare corpo alla squadra di governo. Sconfitto, dunque, Iyad Allawi, che andrà all'opposizione ma che alla luce degli ultimi eventi ha fatto sapere che voterà la fiducia ai ministri. Da sottolineare il sostegno dei curdi: questo sventa il pericolo - paventato in questi mesi - della formazione di un unico grande blocco sciita, che avrebbe potuto generare una situazione delicata per i rapporti di forza con le altre componenti irachene (sunniti e curdi) considerato anche che il 97% degli iracheni sono musulmani e di questo tra il 60% e il 65% sposta la dottrina sciita. Insomma, la composizione attuale dovrebbe garantire equilibrio politico e sociale, ma il condizionale è d'obbligo in quanto quello iracheno resta comunque un paese ricco di incognite.
di Emiliano Biaggio
Otto mesi dopo le elezioni democratiche l'Iraq si avvia ad avere un nuovo governo. A seguito del riconteggio delle schede elettorali il presidente della Repubblica, il curdo Jalal Talabani, ha dato mandato a Nuri al-Maliki, premier uscente, di costituire un nuovo esecutivo. La situazione, quindi, sembra conoscere l'uscita dalla stallo in cui la vita politica irachena si trovava da troppo tempo per un paese che deve rinascere ed essere ricostruito. Il 7 marzo scorso dalla urne era uscito un paese diviso in due, con il partito di Iyad Allawi (Iraqiya) che aveva 91 seggi, e quello di Nuri Al-Maliki (Stato di diritto) che ne aveva racimolati 89. Numeri che di fatto avevano consegnato il paese all'ingovernabilità per l'impossibilità di formare esecutivi autonomi e creare maggioranze parlamentari compatte. Adesso però al-Maliki ottiene l'appoggio del Movimento sadrista di Muqtada al-Sadr, Fadhila, che gli garantisce 40 seggi in Parlamento. Ma al-Maliki ha ottenuto il sostegno anche dei partiti curdi (il Pdk di Barzani e l'Upk di Talabani), dimostrando di avere l'appoggio di tutti i principali attori politici - e confessionali - del paese e quindi una maggioranza ampia che dia all'Iraq quella stabilità che tutti chiedevano. Questo il motivo che ha indotto Talabani a dare ad al-Maliki via libera alla formazione di un nuovo esecutivo. Adesso il nuovo premier designato ha trenta giorni di tempo per scegliere i ministri e dare corpo alla squadra di governo. Sconfitto, dunque, Iyad Allawi, che andrà all'opposizione ma che alla luce degli ultimi eventi ha fatto sapere che voterà la fiducia ai ministri. Da sottolineare il sostegno dei curdi: questo sventa il pericolo - paventato in questi mesi - della formazione di un unico grande blocco sciita, che avrebbe potuto generare una situazione delicata per i rapporti di forza con le altre componenti irachene (sunniti e curdi) considerato anche che il 97% degli iracheni sono musulmani e di questo tra il 60% e il 65% sposta la dottrina sciita. Insomma, la composizione attuale dovrebbe garantire equilibrio politico e sociale, ma il condizionale è d'obbligo in quanto quello iracheno resta comunque un paese ricco di incognite.
FACT SHEET / Gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi
Un piano per congelare temporaneamente gli insediamenti israeliani in cambio di forniture militari. Questa l'idea del governo di Tel Aviv - e che piace agli Stati Uniti - per cercare di riavvire le trattative per trovare una soluzione alla questione arabo-israeliana. L'idea non piace all'Anp, che chiede il congelamento totale degli insediamenti, a oggi molti nei territorio palestinesi. CLICCARE SULLA FOTO PER VEDERE GLI INSEDIAMENTI
Thursday, 25 November 2010
FACT SHEET / La questione palestinese, Israele e i territori
Un piano per congelare temporaneamente gli insediamenti israeliani in cambio di forniture militari. Questa l'idea del governo di Tel Aviv - e che piace agli Stati Uniti - per cercare di riavvire le trattative per trovare una soluzione alla questione arabo-israeliana. L'idea non piace all'Anp, che chiede il congelamento totale degli insediamenti, a oggi molti nei territorio palestinesi
Wednesday, 24 November 2010
Israele, aiuti militari Usa in cambio di un blocco parziale degli insediamenti
Il piano di Netanyahu trova il beneplacito di Obama e fa infuriare l'Anp, riproponendo la storia infinita delle colonie.
di Emiliano Biaggio
Stati Uniti e Israele fanno affari, a danno della Palestina e del processo di pace. C'è infatti un piano che prevede lo stop per 90 giorni alla costruzione di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania - con nessun accenno a Gerusalemme Est - in cambio di un pacchetto pacchetto di incentivi politici e militari degli Stati Uniti. Insomma, misure provvisorie e impegni a tempo per lo Stato ebraico, per contropartite durevoli. Al proprio esecutivo il premier israeliano Benjamin Netanyahu. In cambio di un nuovo totale arresto di tutte le costruzioni negli insediamenti ebraici cisgiordani, incluse quelle iniziate dopo lo scadere della precedente moratoria, gli Stati Uniti si impegnano a non chiedere altre moratorie a Israele e assicureranno allo Stato ebraico il proprio appoggio all'Onu e in altri fori internazionali contro risoluzioni ostili o dirette a negarne la legittimità. Assicureranno poi sostegno alla politica di Israele di voluta ambiguità circa il suo presunto arsenale nucleare, e opereranno per un inasprimento delle sanzioni internazionali all'Iran a causa del suo programma nucleare. Un pacchetto extra ancor più sostanzioso è previsto poi in caso di un raggiungimento di un accordo di pace (Israele avrebbe armi più avanzate, accesso in tempo reale alle informazioni su eventuali preparativi di attacchi missilistici provenienti dai satelliti spia americani, e si parla anche del fornimento di 20 ultramoderni aerei da combattimento F35). Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è soddisfatto: «Elogio il premier Netanyahu, perchè- afferma- sta facendo, io credo, un passo molto costruttivo». L'Anp invece non gradisce: il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen, Nabil Abuc Rudeia, ribadisce che il congelamento degli insediamenti deve essere «totale» e includere anche Gerusalemme Est, da sempre al centro delle rivendicazioni di entrambe le parti. Ma sembra che ancora una volta le ragioni palestinesi siano state sacrificate ai danni degli interessi del vicino.
di Emiliano Biaggio
Stati Uniti e Israele fanno affari, a danno della Palestina e del processo di pace. C'è infatti un piano che prevede lo stop per 90 giorni alla costruzione di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania - con nessun accenno a Gerusalemme Est - in cambio di un pacchetto pacchetto di incentivi politici e militari degli Stati Uniti. Insomma, misure provvisorie e impegni a tempo per lo Stato ebraico, per contropartite durevoli. Al proprio esecutivo il premier israeliano Benjamin Netanyahu. In cambio di un nuovo totale arresto di tutte le costruzioni negli insediamenti ebraici cisgiordani, incluse quelle iniziate dopo lo scadere della precedente moratoria, gli Stati Uniti si impegnano a non chiedere altre moratorie a Israele e assicureranno allo Stato ebraico il proprio appoggio all'Onu e in altri fori internazionali contro risoluzioni ostili o dirette a negarne la legittimità. Assicureranno poi sostegno alla politica di Israele di voluta ambiguità circa il suo presunto arsenale nucleare, e opereranno per un inasprimento delle sanzioni internazionali all'Iran a causa del suo programma nucleare. Un pacchetto extra ancor più sostanzioso è previsto poi in caso di un raggiungimento di un accordo di pace (Israele avrebbe armi più avanzate, accesso in tempo reale alle informazioni su eventuali preparativi di attacchi missilistici provenienti dai satelliti spia americani, e si parla anche del fornimento di 20 ultramoderni aerei da combattimento F35). Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è soddisfatto: «Elogio il premier Netanyahu, perchè- afferma- sta facendo, io credo, un passo molto costruttivo». L'Anp invece non gradisce: il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen, Nabil Abuc Rudeia, ribadisce che il congelamento degli insediamenti deve essere «totale» e includere anche Gerusalemme Est, da sempre al centro delle rivendicazioni di entrambe le parti. Ma sembra che ancora una volta le ragioni palestinesi siano state sacrificate ai danni degli interessi del vicino.
Tuesday, 23 November 2010
L'Ue compra l'Irlanda, Dublino svende il welfare
Chiesti e ottenuti aiuti per circa 90 miliardi, il governo Cowen annuncia tagli allo stato sociale.
di Emiliano Biaggio
L'Irlanda chiede e ottiene i prestiti internazionale per far fronte alla crisi del sistema bancario: Unione europea a fondo monetario si dicono pronti a mettere a disposizione delle autorità irlandesi 90 miliardi, e come per Atene adesso per Dublino si ripropone la "formula salva Grecia": soldi alla banche, stretta sulle famiglie. Il governo di Brian Cowen ha già annunciato tagli per 15 miliardi, quasi tutti al Welfare. Si smantella insomma lo stato sociale per garantire assistenza al mondo bancario e finanziario, e negarla di colpo al cittadino. Nello specifico la maximanovra per il quadrienno 2011-2014 prevede di aumentare l'Iva al 22% nel 2013 e al 23% nel 2014, e contemporaneamente. I tagli ammonteranno a 2,8 miliardi di euro, mentre le entrate fiscali previste aumenteranno di 1,9 miliardi di euro. Dove la scure dei tagli si abbatterà saranno i salari minimi e i sussudi alla disoccupazione, che verranno ridotti. Intanto i verdi annunciano l'uscita dall'esecutivo e chiedono le dimissioni dell'attuale primo ministro, per la crisi e le misure "lacrime e sangue". Le borse chiudono in negativo per le incertezze politiche dell'Irlanda e l'entità della crisi economica. Su cui il cancelliere tedesco, Angela Merkel, nutre «grande preoccupazione». La crisi potrebbe essere anche peggiore di quella greca, ma soprattutto crea una situazione «eccezionalmente grave» per l'Euro.
di Emiliano Biaggio
L'Irlanda chiede e ottiene i prestiti internazionale per far fronte alla crisi del sistema bancario: Unione europea a fondo monetario si dicono pronti a mettere a disposizione delle autorità irlandesi 90 miliardi, e come per Atene adesso per Dublino si ripropone la "formula salva Grecia": soldi alla banche, stretta sulle famiglie. Il governo di Brian Cowen ha già annunciato tagli per 15 miliardi, quasi tutti al Welfare. Si smantella insomma lo stato sociale per garantire assistenza al mondo bancario e finanziario, e negarla di colpo al cittadino. Nello specifico la maximanovra per il quadrienno 2011-2014 prevede di aumentare l'Iva al 22% nel 2013 e al 23% nel 2014, e contemporaneamente. I tagli ammonteranno a 2,8 miliardi di euro, mentre le entrate fiscali previste aumenteranno di 1,9 miliardi di euro. Dove la scure dei tagli si abbatterà saranno i salari minimi e i sussudi alla disoccupazione, che verranno ridotti. Intanto i verdi annunciano l'uscita dall'esecutivo e chiedono le dimissioni dell'attuale primo ministro, per la crisi e le misure "lacrime e sangue". Le borse chiudono in negativo per le incertezze politiche dell'Irlanda e l'entità della crisi economica. Su cui il cancelliere tedesco, Angela Merkel, nutre «grande preoccupazione». La crisi potrebbe essere anche peggiore di quella greca, ma soprattutto crea una situazione «eccezionalmente grave» per l'Euro.
Monday, 22 November 2010
Benedetto XVI: «ci sono casi giustificati dell'uso del preservativo»
Il papa apre - parzialmente - all'uso del condom. E invita i fedeli a «una sessualità più umana». Padre Lombardi: «non è svolta rivoluzionaria».
di Emiliano Biaggio
«In alcuni casi l'uso del preservativo può essere giustificato», come ad esempio «quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole». Tuttavia, «questo non è il modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'Hiv». In tal senso «è veramente necessaria una umanizzazione della sessualità». parole di benedetto XVI, che nel libro “Luce del mondo: il Papa, la Chiesa e i segni del tempo” apre, seppur parzialmente, all'utilizzo del "condom", a detta del pontefice giustificato in alcune circostanze particolari, come ad esempio nel caso della prostituzione al fine di prevenire la diffusione del virus dell‘Hiv. Per Benedetto XVI «concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l'espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé». Un appello al sesso responsabilie, quello che sembra arrivare da papa Ratzinger, che usa parole ben diverse da quelle che - sugli stessi temi - usò lo scorso 16 marzo 2009, alla vigilia di un viaggio in Africa. L’Aids «non si può superare con la distribuzione dei preservativi che, anzi aumentano i problemi», disse in quell'occasione. Oggi, invece, il cambio di rotta: «vi possono essere singoli casi giustificati» in nome di «un primo atto di responsabilità» e di «un primo passo sulla strada verso una sessualità più umana». Parole sicuramente insolite e inusuali per un Pontefice, ma «il ragionamento del Papa- si appresta a precisare Padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede- non può essere certo definito una svolta rivoluzionaria». Benedetto XVI, spiega Lombardi, semplicemente «non giustifica moralmente l'esercizio disordinato della sessualità». Intanto, però, qualcosa sembra essere cambiato oltre Tevere.
di Emiliano Biaggio
«In alcuni casi l'uso del preservativo può essere giustificato», come ad esempio «quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole». Tuttavia, «questo non è il modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'Hiv». In tal senso «è veramente necessaria una umanizzazione della sessualità». parole di benedetto XVI, che nel libro “Luce del mondo: il Papa, la Chiesa e i segni del tempo” apre, seppur parzialmente, all'utilizzo del "condom", a detta del pontefice giustificato in alcune circostanze particolari, come ad esempio nel caso della prostituzione al fine di prevenire la diffusione del virus dell‘Hiv. Per Benedetto XVI «concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l'espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé». Un appello al sesso responsabilie, quello che sembra arrivare da papa Ratzinger, che usa parole ben diverse da quelle che - sugli stessi temi - usò lo scorso 16 marzo 2009, alla vigilia di un viaggio in Africa. L’Aids «non si può superare con la distribuzione dei preservativi che, anzi aumentano i problemi», disse in quell'occasione. Oggi, invece, il cambio di rotta: «vi possono essere singoli casi giustificati» in nome di «un primo atto di responsabilità» e di «un primo passo sulla strada verso una sessualità più umana». Parole sicuramente insolite e inusuali per un Pontefice, ma «il ragionamento del Papa- si appresta a precisare Padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede- non può essere certo definito una svolta rivoluzionaria». Benedetto XVI, spiega Lombardi, semplicemente «non giustifica moralmente l'esercizio disordinato della sessualità». Intanto, però, qualcosa sembra essere cambiato oltre Tevere.
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